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La battaglia per l’open (di M. Weller)

Authors Martin Weller Simone Aliprandi

License CC-BY-4.0

Plaintext
Martin Weller

LA BATTAGLIA
PER L’OPEN
COME L’OPEN HA VINTO,
MA NON SEMBRA UNA VITTORIA
TRADUZIONE DI SIMONE ALIPRANDI
POSTFAZIONE DI ELENA GIGLIA
            Martin Weller




La battaglia per l’open
    Come l’open ha vinto,
  ma non sembra una vittoria

   Traduzione italiana e prefazione
        di Simone Aliprandi

     Postfazione di Elena Giglia




             Ledizioni
Come la versione originale dell’opera, anche la presente tra-
duzione italiana con le note, la prefazione e la postfazione
sono rilasciate nei termini della licenza Creative Commons
Attribution 4.0 il cui testo integrale è disponibile all’URL
http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/.




Credits della versione originale:
Weller, M. (2014) The Battle for Open: How openness won and
why it doesn’t feel like victory.
London: Ubiquity Press.
DOI: https://doi.org/10.5334/bam



Si ringrazia Luna Guaschino per la preziosa consulenza tec-
nica sulla traduzione.


Martin Weller, La battaglia per l’open. Come l’open ha vinto,
ma non sembra una vittoria.
ISBN cartaceo: 978-88-5526-343-6
ISBN eBook: 978-88-5526-344-3


Il volume è disponibile in Open Access e acquistabile nelle
versioni ePub e cartacee a cura di Ledizioni sul sito internet
www.ledizioni.it, nelle librerie online o tradizionali.
Sito ufficiale del progetto: http://aliprandi.org/battaglia-open.
Indice


Ringraziamenti dell’autore                    11

Prefazione all’edizione italiana              13
 La traduzione                                15

La vittoria dell’open             17
  Introduzione17
  Istruzione superiore e openness 21
   Insegnamento                              22
   Ricerca                                   24
   Open Policy                               25
 Perché l’openness è importante 26
 È davvero una battaglia?        33
 Lezioni da altri settori       36
 Conclusioni42
 Il libro                       44

Che tipo di openness?                         47
 Introduzione47
 Evitare di dare definizioni                  48
 L’istruzione open – Un breve accenno storico 56
   Università open                           56
   Open Source e free software               58
   Web 2.0                                   63
 Principi che si fondono 65
 Conclusioni66
La pubblicazione in Open Access  69
  Introduzione69
  Il successo dell’Open Access    71
  Il report Finch                80
  La Gold road                    83
  Il rapporto con gli editori    86
  Nuovi modelli di pubblicazione 89
  Conclusioni93

Le Open Educational Resources   95
  Introduzione95
  Learning objects             96
  Le OER                       101
  Libri di testo open         106
  I problemi delle OER        109
  Una storia di successo?       111
  La battaglia per le OER       113
  Conclusioni117

I MOOC                         123
  Introduzione123
  Il contesto dei MOOC         126
  I MOOC e la qualità          130
  I MOOC e i costi              133
  I MOOC e il design dei corsi 136
  Design per il mantenimento                  137
  Design per la selezione                     138
 MOOC come complemento all’istruzione formale 141
 La commercializzazione dei MOOC              143
 Conclusioni148
L’istruzione malata e la narrazione della Silicon Valley 155
  Introduzione155
  L’istruzione è malata                                  157
  La narrazione della Silicon Valley                     163
  Ritorno al futuro, di nuovo                           169
  Conclusioni171

La Open Scholarship               177
  Introduzione177
  La pratica in rete              179
  Lo studente open e l’identità   183
  L’arte della Guerrilla Research 188
  Conclusioni193

L’openness messa a nudo        197
  Introduzione197
  La politica dell’openness    198
  Problemi legati all’openness 204
  Conclusioni214

Open education e resilienza  217
 Introduzione217
 Resilienza218
 La Open University e i MOOC 221
 Libertà d’azione            223
 Resistenza225
 Precarietà                  227
 Panarchia228
 Cicli di adattamento        230
 Livelli di coinvolgimento delle OER 233
 Conclusioni236

Il futuro dell’Open                           239
   Introduzione239
   Open Policy                                241
   La lezione del Learning Management System  243
   Le sfide dell’istruzione                   247
   Il prezzo dell’openness                    251
   Il virus open                              252
   Conclusioni254


Bibliografia257

Accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato
dal 2013.Una postfazione ragionata, di Elena Giglia285
 Le politiche in favore della scienza aperta        287
 I dati FAIR e la European Open Science Cloud       291
 I testi, e la lenta transizione all’accesso aperto 293
Ai tre pionieri della moderna open education:
Stephen Downes, George Siemens e David Wiley
Ringraziamenti dell’autore

   La discussione sulla filosofia open e sulle sue va-
rie forme ha luogo in diversi contesti e con persone
che hanno interessi diversi. Qui di seguito quelli che
sono stati particolarmente influenti nel formare il
mio pensiero sull’argomento, nel mandare feedback
sui blog e nel discuterne sia online che di persona.
Alla Open University, l’OER Research Hub team ha
fornito gran parte della base di questo lavoro, quin-
di un grazie va a Patrick McAndrew, Rob Farrow,
Leigh-Anne Perryman, Bea de os Arcos, Beck Pitt,
Claire Walker, Simone Arthur, Natalie Eggleston,
Gary Elliott-Cirigottis e Martin Hawksey. Tra quelli
nel Regno Unito che esercitano una certa influenza
sulla maggior parte degli argomenti di questo libro ci
sono David Kernohan, Sheila MacNeill, Richard Hall,
Josie Fraser, Joss Winn, Doug Clow, Katy Jordan and
Cristina Costa. Posso vantare un network di amici e
colleghi che regolarmente mi fanno sentire inade-
guato con i loro commenti su molti dei temi tratta-
ti; questi includono Audrey Watters, Brian Lamb,
Jim Groom, Bonnie Stewart, Dave Cormier, Laura
Pasquini, George Veletsianos, Michael Feldstein,
Phil Hill, Valerie Irvine, Mike Caulfield, Cable Green,
Alan Levine, Catherine Cronin, Alec Couros and
Wayne Mackintosh.
   Questo libro si basa in gran parte sul lavoro dell’O-
ER Research Hub, che è stato finanziato dal gene-
roso contributo della William and Flora Hewlett
Foundation, e per questo li voglio ringraziare, in par-
ticolare Kathy Nicholson, TJ Bliss e Barbara Chow.
                la battaglia per l’open

Le opinioni qui espresse sono comunque personali e
pertanto non devono essere interpretate come il pun-
to di vista di nessuna organizzazione in particolare.




                          12
Prefazione all’edizione italiana


Simone Aliprandi



  Era l’inizio del 2018 quando Andrea Mangiatordi,
ex collega di dottorato e “compagno di avventure” in
vari progetti accademici e divulgativi, mi ha segnalato
questo libro. Da un po’ di tempo riflettevo sull’ipotesi
di curare la traduzione di un libro che si occupasse
dei miei temi e che fosse liberamente ripubblicabile
per effetto di una licenza open. All’inizio rimasi un
po’ freddo, perché il libro si occupava di open edu-
cation e aveva quindi una vocazione un po’ diversa
rispetto alla mia, più orientata agli aspetti giuridici
dell’openness. Poi però iniziai a sfogliare l’opera di
Weller apprezzandone la completezza e l’approccio;
e presto mi trovai a pensare che tradurre quel libro
sarebbe stato per me un buon modo per imparare
qualcosa di nuovo e per ampliare il pubblico.
  Ne parlai a Nicola Cavalli di Ledizioni e anche lui
si mostrò favorevole al progetto. Quindi iniziai a la-
vorarci coinvolgendo anche Luna Guaschino per un
supporto tecnico-linguistico sulla traduzione.
  L’idea, ammetto molto ingenua, era di concludere il
lavoro nel giro di pochi mesi e di mandare presto in
stampa l’opera. D’altronde l’edizione in lingua ingle-
se risaliva già a quattro anni prima; e sappiamo tutti
quanto le opere letterarie su questi argomenti sono
soggette a una veloce obsolescenza.
                la battaglia per l’open

   Purtroppo, come spesso accade, le cose non vanno
sempre lisce e i tempi si dilatano, ancora più quan-
do si tratta di progetti avviati senza finanziamenti e
portati avanti nei ritagli di tempo a margine di un’at-
tività lavorativa di per sé sufficientemente complessa
e densa. A ciò si aggiunga la proposta sopraggiunta
nell’autunno del 2019 da parte dell’editore Apogeo
di scrivere un nuovo libro (poi diventato “Software
licensing & data governance” di recente pubblicazio-
ne), nonché l’irruzione devastante e imprevedibile
della pandemia COVID-19, definitivo colpo di grazia
per gli equilibri delicati della pianificazione dei miei
progetti.
   Quando finalmente ho trovato la serenità e il tempo
per finire e revisionare la traduzione, mi sono pur-
troppo reso conto di quanto alcuni passaggi del libro
risultassero ormai obsoleti. Non tanto nella parte
teorica e “filosofica”, che a mio avviso è pienamente
valida e probabilmente rimane ancora oggi una del-
le meglio riuscite; mi riferisco piuttosto alle parti in
cui si riportano dati quantitativi e in cui si parla di
fenomeni che all’epoca della stesura di Weller (2014)
erano ancora in via di stabilizzazione e che oggi sono
invece realtà consolidate se non addirittura superate.
   In effetti è una criticità prevedibile quando si met-
tono le mani su libri così infarciti di concetti prove-
nienti e strettamente connessi con l’ambito tecnolo-
gico, per di più in un’epoca come questa in cui quasi
ogni anno nasce una nuova tecnologia rivoluzionaria.
   E poi la pandemia… che dire?! Nessuno avrebbe
mai potuto prevedere uno sconvolgimento simile per
il mondo occidentale; nessuno avrebbe mai pensato
che centinaia di milioni di persone sarebbero state
forzate a stare chiuse in casa per interi mesi e a tra-

                          14
            prefazione all’edizione italiana

sferire buona parte delle loro attività dal mondo reale
a quello virtuale della rete, comprese le attività di ap-
prendimento, di studio, di insegnamento e di divul-
gazione scientifica di cui tratta proprio questo libro.
Indubbiamente Weller si troverebbe a rivedere molti
passaggi dell’opera ora che, nel momento in cui sto
scrivendo questa prefazione, la didattica a distanza
o, come più propriamente viene chiamata, la didatti-
ca digitale integrata non è più un’opzione, non è più
un’alternativa, bensì è diventata la regola per molti
moltissimi studenti e docenti.
  Dunque ho forse peccato di ingenuità quando mi
sono messo a lavorare a questa traduzione, oppure
semplicemente la fortuna non mi ha assistito molto a
questo giro. Ad ogni modo, è così che a fine 2020 mi
sono trovato nel dilemma di aver lavorato per mesi su
una traduzione che da un lato era pronta per essere
pubblicata dall’altro lato era una lettura che ad alcuni
sarebbe parsa fuori dal tempo.
  Ecco che qui è diventato provvidenziale il supporto
di Elena Giglia, con la quale ho già avuto modo di
collaborare sia in alcune iniziative di formazione sia
nella realizzazione del libro a più mani “Fare Open
Access” del 2017. L’appendice di Elena permette di
riallineare con le evoluzioni degli ultimi anni le ri-
flessioni di Weller e gli studi da lui citati nel corso
dell’opera.


La traduzione
  La traduzione è stata mantenuta il più letterale
possibile. In quei passaggi in cui la costruzione o la
terminologia sono fortemente inglesi, dove quindi si


                           15
                 la battaglia per l’open

è reso necessario qualche intervento o qualche preci-
sazione, ho aggiunto una “nota del traduttore” a pie’
di pagina per maggior chiarezza. Lo stile di Weller è
lineare e chiaro dunque in fase di versione all’italiano
non sono stati necessari particolari “aggiustamenti”
sulla struttura sintattica dei periodi e sulla costruzio-
ne delle frasi.
  In generale ho comunque preferito mantenere mol-
te espressioni in dizione inglese, ritenendo che siano
ormai divenute di uso comune tra gli addetti ai lavori
di questo settore e che risultino di maggior efficacia
semantica proprio se non tradotte: si pensi ad esem-
pio ad espressioni come “open education” a mio av-
viso più efficace di “istruzione aperta” e come “open
access” a mio avviso più noto e utilizzato dell’italiano
“accesso aperto”. Trattandosi di un libro molto set-
toriale, sono certo che nessuno dei lettori di questa
versione italiana avrà problemi a comprendere questi
termini.
  La bibliografia, che a mio avviso rappresenta una
delle componenti più utili del libro anche in ottica
storica e in prospettiva futura, è stata riprodotta pe-
dissequamente. Essa va a completarsi e ad aggiornar-
si con i riferimenti bibliografici riportati in nota da
Elena Giglia nella sua postfazione.


                                     Simone Aliprandi
                                      (dicembre 2020)




                           16
 CAPITOLO 1

La vittoria dell’open

                      Mi ha fatto pensare che tutto stava per
                      succedere – quel momento in cui capi-
                      sci e in cui tutto è deciso per sempre.
                                                Jack Kerouac


Introduzione
  L’openness in questo momento è ovunque nel set-
tore dell’istruzione: alla fine del 2011 un corso gratu-
ito in intelligenza artificiale contava più di 160.000
iscritti (Leckart 2012); nel 2012 il governo del Regno
Unito seguì quanto già fatto da altri enti nazionali
negli USA e in Canada e annunciò la regola per cui
tutti gli articoli finanziati da fondi pubblici per la ri-
cerca dovevano essere messi a disposizione in Open
Access (Finch Group 2012); i download dal sito Apple
iTunes U, che fornisce gratuitamente contenuti per
la formazione, hanno superato il miliardo nel 2013
(Robertson 2013); la British Columbia annunciò nel
2012 una politica per la quale i testi dei 40 corsi più
popolari sarebbero stati messi a disposizione in mo-
dalità open e gratuitamente (Gilmore 2012); i leader
del G8 hanno firmato un trattato sugli open data nel
giugno 2013 stabilendo che tutti i dati governativi sa-
rebbero stati rilasciati open automaticamente (Ufficio
del Governo britannico 2013). A parte questi dati più
evidenti ci sono poi cambiamenti fondamentali nella
                 la battaglia per l’open

pratica: gli accademici stanno già creando e rilascian-
do i loro contenuti con strumenti come Slideshare o
Youtube; i ricercatori condividono risultati in tempi
ridotti usando approcci open e crowdsourcing; ogni
giorno milioni di persone usano strumenti e risor-
se gratuiti e disponibili online per imparare e per
condividere.
   In effetti l’openness è oggi una parte così impor-
tante della nostra quotidianità che sembra superfluo
qualsiasi commento. Ma non è stato sempre così, o
almeno non sembrava essere qualcosa di inevitabile
o prevedibile. Alla fine degli anni ‘90, quando l’esplo-
sione del dotcom prese piede, c’era molto scetticismo
riguardo a quei modelli di business (per gran parte
giustificato dopo il collasso) e lo stesso per la bolla
del web 2.0 dieci anni dopo. Ma nonostante molti dei
modelli di business non fossero sostenibili, i modelli
tradizionali che prevedevano di pagare per i contenu-
ti hanno mostrato di non interferire con l’espansione
del nuovo dominio digitale. “Diffondere i contenuti”
non è più un approccio da sottovalutare.
   In nessun altro contesto l’openness ha giocato un
ruolo così rilevante come nel caso dell’istruzione.
Molti dei pionieri dei movimenti open vengono dalle
università. I ruoli chiave degli accademici sono tutti
soggetti ad un radicale cambiamento sotto il modello
open: dai Massive Open Online Courses (MOOCs)
che sfidano i metodi di insegnamento ai repository di
articoli in versione “pre-print” che minano il tradizio-
nale sistema di divulgazione e rivisitano il modello di
ricerca, la filosofia open tocca tutti gli aspetti dell’i-
struzione superiore.
   L’openness ha una lunga storia in questo settore:
si fonda sull’idea di altruismo e sulla convinzione

                           18
                  la vittoria dell’open

che la formazione sia un bene pubblico, idea che nel
tempo ha subìto molte interpretazioni e adattamen-
ti, partendo da un modello che aveva come obiettivo
principale il libero accesso allo studio e arrivando ad
un modello che enfatizza invece contenuti e risorse
disponibili in modalità open. Il cambiamento è stato
in gran parte una conseguenza della rivoluzione digi-
tale: i progressi in altri settori, come la produzione di
software open source e l’introduzione di valori asso-
ciati al libero accesso ad internet, insieme ad approc-
ci open, hanno influenzato (e sono stati a loro volta
influenzati da) professionisti nel campo dell’istruzio-
ne superiore. Il decennio passato ha visto la crescita
di un movimento globale che ha ottenuto fondi im-
portanti da enti come la William and Flora Hewlett
Foundation e da vari comitati di ricerca. Attivisti
nell’ambito universitario hanno cercato di creare pro-
grammi che consentano di rilasciare contenuti – dati,
risorse didattiche e pubblicazioni – in modalità open;
altri hanno invece adottato pratiche open che sfrutta-
no social media e blog. Ciò è avvenuto sia in contem-
poranea ad un lavoro sulle licenze open, soprattutto
le Creative Commons che consentono un facile riuti-
lizzo e adattamento dei contenuti, sia a livello politico
con gruppi di pressione che chiedevano l’adozione a
livello nazionale e locale di contenuti open e risorse
condivise, sia con il miglioramento di tecnologie e
infrastrutture che consentono all’open di essere allo
stesso tempo facile e poco costoso.
   Ci si potrebbe allora aspettare che sia il momen-
to buono per i sostenitori dell’openness per cantare
vittoria. Dopo aver lottato così a lungo perché il loro
messaggio fosse ascoltato, sono ora corteggiati da di-
rigenti e manager per la loro esperienza e per il loro

                           19
                 la battaglia per l’open

punto di vista sulle varie strategie open. Si parla di
approcci open nei maggiori mass-media, milioni di
persone stanno ampliando le loro conoscenze con
risorse e corsi aperti. In poche parole sembra che
l’openness abbia vinto. Eppure si trova a fatica qual-
che traccia di celebrazione da parte di questi stessi
primi sostenitori, che sono piuttosto sconfortati dalla
reinterpretazione del concetto di open come “free” o
“online”, che non fa cenno alle libertà di riutilizzo che
avevano inizialmente immaginato. Sono preoccupati
dalla crescita di interessi commerciali che usano l’o-
penness come uno strumento di marketing e sono
in dubbio sui vantaggi di alcuni modelli per i paesi
in via di sviluppo o per studenti che hanno bisogno
di supporto. In questo momento vittorioso sembra
dunque che la narrazione sull’open sia stata usurpa-
ta da altri, e che le conseguenze non possano essere
molto open. Nel 2012 Gardner Campbell ha tenuto
una presentazione alla Open Education Conference
(Campbell 2012) in cui ha espresso preoccupazio-
ni e frustrazioni: «Ciò a cui stiamo assistendo – ha
dichiarato – sono sviluppi nell’istruzione superiore
che sembrano soddisfare tutti i criteri che abbiamo
stabilito per il settore: maggiore accessibilità, dimi-
nuzione dei costi, tutti elementi che permetteranno
l’accesso a più persone su scala planetaria, a un mi-
liardo di studenti alla volta... Non è questo ciò a cui
stavamo pensando?». Ma man mano che presentava
i successi il suo ritornello era sempre quello di T.S.
Eliot: non era per niente ciò che avevo immaginato.
Perché dunque questa ambivalenza? Possiamo dire
che sono solo mele marce? I sostenitori dell’open
stanno recriminando il fatto che altri ora rivendichi-
no l’openness? È solo un esercizio sull’interpreta-

                           20
                 la vittoria dell’open

zione semantica che interessa una manciata di acca-
demici o piuttosto è qualcosa di fondamentale, che
riguarda la strada dell’openness e il modo in cui si
sviluppa? È proprio questa ambivalenza tra la vittoria
e allo stesso tempo l’ansia legata all’open che il libro
intende esplorare.


Istruzione superiore e openness
   Il focus di questo libro è principalmente sull’istru-
zione superiore e il motivo principale è che questa
è l’area in cui la battaglia per l’openness è più du-
ramente combattuta. L’istruzione aperta e gratuita
può essere intesa come una componente di un mo-
vimento più ampio: c’è infatti una comunità molto
attiva che si occupa di open data, che cerca di fare in
modo che i dati – come quelli della pubblica ammi-
nistrazione e quelli delle aziende – siano accessibi-
li a tutti. Organizzazioni come la Open Knowledge
Foundation (OKFN) considerano l’accesso ai dati
come un elemento fondamentale per l’assunzione
di responsabilità e impegno in una serie di funzioni
pubbliche tra cui la politica, il commercio, l’energia,
la sanità, e questo posiziona l’openness all’interno di
forme di attivismo di cui l’istruzione è solo un aspet-
to. Del resto la stessa Open Knowledge Foundation
dichiara: «Vogliamo che il sapere aperto diventi un
concetto mainstream, così naturale e importante nel-
le nostre vite come lo è l’ecologia».
   Il focus sull’istruzione permette di analizzare nel
dettaglio la battaglia per l’open attraverso quattro
esempi, anche se molti di questi trovano poi punti in
comune con un più ampio movimento che si batte


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                 la battaglia per l’open

per il libero accesso agli articoli pubblicati o per il
rilascio dei dati della ricerca. A differenza di setto-
ri che hanno subìto l’imposizione dell’open come il
risultato della rivoluzione digitale però, – ad esem-
pio l’industria musicale con l’arrivo di programmi di
condivisione come Napster – l’istruzione superiore
ha cercato di sviluppare pratiche aperte in una va-
sta gamma di aree. Ed è proprio questo che la rende
un’interessante materia di studio che include edi-
toria, didattica, tecnologia, pratiche individuali, co-
municazione ed engagement. C’è molto di rilevante
anche per altri settori qui, dove saranno applicabili
uno o più di questi argomenti, ma raramente l’intera
gamma. Si è spesso detto che l’istruzione superiore
può prendere lezioni da settori che sono stati toccati
dalla rivoluzione digitale, come i giornali, ma potreb-
be anche essere vero il contrario: sono gli altri settori
a poter imparare molto da quanto accade nel dibattito
sull’open nell’istruzione superiore. Quali sono dun-
que le principali aree di interesse in questo ambito?
Ciascuna di esse verrà esplorata in un capitolo de-
dicato, ma i principali sviluppi sono riassunti qui di
seguito.

   Insegnamento
  L’avvento dei MOOC sta raccogliendo un grande
interesse. Sviluppati inizialmente come metodo spe-
rimentale per esplorare le potenzialità di un insegna-
mento basato sul networking, i MOOC sono diven-
tati oggetto di attenzione da parte dei media e del
mondo business a seguito dei grandi numeri fatti dal
corso di Sebastian Thrun sull’Intelligenza Artificiale.
Da allora la maggiore azienda che si occupa di tec-


                           22
                  la vittoria dell’open

nologie didattiche è Coursera, con due turnazioni di
fondi di venture capital e oltre 4 milioni di iscritti ai
sui 400 corsi (Coursera 2013a).
  L’idea alla base dei MOOC è semplice: rendere i
corsi online accessibili a tutti e tagliare sui costi del
personale. Se questo modello sia economicamente
sostenibile è ancora da discutere, dato che si trova
nella sua fase iniziale, ma i media non si sono rispar-
miati e alcuni osservatori sono arrivati a ipotizzare
che i MOOC siano la naturale conseguenza dell’effet-
to di internet sull’istruzione superiore.
  I MOOC sono solo un aspetto di come l’openness
sta influenzando il settore. Prima dei MOOC infatti
c’è stato (e c’è ancora) il movimento Open Educational
Resources (OER), che è iniziato nel 2001 quando la
fondazione Hewlett ha finanziato il MIT per dare
vita al sito OpenCourseWare, che doveva rilasciare
gratuitamente materiale didattico. Da allora il movi-
mento OER si è diffuso a livello globale e ad oggi vi
sono grandi iniziative in tutti i continenti in cui le
OER sono parte integrante della strategia centrale di
progetti formativi, tra cui UNESCO, la Shuttleworth
Foundation, la William and Flora Hewlett Foundation
e l’Higer Education Funding Council for England
(HEFCE). La distinzione tra MOOC e OER può a
volte essere sottile: per esempio se si raccolgono e
mettono a disposizione insieme di risorse OER all’in-
terno della struttura di un corso, questo le fa diven-
tare un MOOC? E viceversa se un MOOC è condi-
viso anche dopo la fine del corso diventa un OER?
Uno degli obiettivi dell’OER è di creare libri di testo
open, visto il loro costo sempre più proibitivo special-
mente negli USA, che va ad influire negativamente
sulla partecipazione all’istruzione superiore. Questi

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                 la battaglia per l’open

testi open vogliono rimpiazzare le versioni standard
di testi introduttivi, che sono spesso proprietà delle
case editrici, con versioni gratuite e online create da
gruppi o da singoli autori. Il processo sta avendo un
impatto significativo, tanto che ad esempio OpenStax
mira alla fornitura di libri di testo online o stampati
a basso costo a 10 milioni di studenti, e al momento
conta più di 200 college nella sua rete con un rispar-
mio previsto per gli studenti di 90 milioni di dollari
nei prossimi cinque anni (OpenStax 2013).

   Ricerca
  La pubblicazione in Open Access sta crescendo in
modo costante, non solo come un modello valido per
diffondere pubblicazioni di ricerca, ma come il mi-
gliore in assoluto. Invece di pubblicazioni accademi-
che su riviste private, il cui accesso è acquistato dalle
biblioteche o dagli utenti per singoli articoli, l’Open
Access mette infatti le pubblicazioni a disposizione
di tutti. Ci sono molti modi per farlo: la cosiddetta
Green Road (“via verde”), in cui l’autore mette l’arti-
colo sul proprio sito o sul repository delle istituzioni;
la Golden Road (“via d’oro”) nella quale l’editore chie-
de una quota per mettere l’articolo a disposizione in
modalità open; ed infine la via Platinum quando la
rivista opera gratuitamente.
  La pubblicazione in Open Access è forse l’aspetto
più riconoscibile di come l’attività accademica si stia
adattando alle opportunità offerte dalla tecnologia di-
gitale e dalla rete. Altre pratiche formano quella che
è definita la open scholarship (ricerca aperta) e inclu-
dono la condivisione di risorse individuali come pre-
sentazioni, podcast e bibliografie, social media enga-


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                 la vittoria dell’open

gement attraverso blog, twitter etc e pratiche gene-
ralmente più aperte come la pubblicazione di bozze
di capitoli di libri, ma anche revisioni e metodi di ri-
cerca open. Gli ultimi possono anche includere l’uso
di approcci come il crowdsourcing o la social media
analysis, che basano il loro successo sull’openness.
La open scholarship sta offrendo anche nuove strade
per il public engagement; ora si vedono infatti acca-
demici avere profili pubblici per comunicare online
mentre questa attività prima avrebbe richiesto un in-
termediario. Un aspetto della open scholarship sono
poi gli open data, che permettono ai dati di progetti
di ricerca di essere pubblicamente disponibili (quan-
do non si tratti di dati personali o sensibili). Come
accennato all’inizio del capitolo, durante il G8 è sta-
to firmato un accordo secondo cui questa dovrebbe
essere la modalità di default per i dati governativi, e
molti finanziatori della ricerca impongono già simili
vincoli. Per molti temi, come il cambiamento climati-
co, questo permette la creazione di un più ampio ba-
cino di dati e di meta-studi che vanno a migliorare la
qualità complessiva dell’analisi; in altri campi invece
permette occasioni di confronto, analisi e interpreta-
zioni che sono imprevedibili e che possono andare al
di là del dominio originario.

   Open Policy
  Molto del lavoro fatto sull’open licensing, in parti-
colare quello di Creative Commons, è stato avviato o
influenzato dall’istruzione superiore. Le licenze, agli
occhi di molti, sono uno dei veri test per l’openness,
dal momento che la possibilità di prendere e riutiliz-
zare un prodotto è ciò che differenzia l’ “open” dal


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                 la battaglia per l’open

semplice “gratis”. Le licenze sono la strada principa-
le attraverso la quale si possono realizzare iniziative
basate su politiche più ampie: con l’adozione di una
posizione precisa sulle licenze infatti governi, orga-
nizzazioni no profit, finanziatori della ricerca, editori
e società che si occupano di tecnologia creano un ter-
reno sul quale l’openness si può sviluppare. Quindi
la promozione dell’openness come approccio, sia pra-
tico che etico, è stata una componente crescente del
movimento open basato sull’istruzione superiore.
  Questa breve panoramica dovrebbe dimostrare
come l’openness costituisca l’essenza di gran parte
del cambiamento nell’istruzione superiore e come
esista un’intensa attività di ricerca nell’area. Uno de-
gli obiettivi di questo libro è proprio quello di mettere
in evidenza e celebrare questa attività. È un bel pe-
riodo per essere coinvolti nell’istruzione superiore: ci
sono opportunità di cambiare la pratica in quasi tutti
gli aspetti, e l’openness è un elemento chiave. Il suc-
cesso dipende però in primo luogo dall’impegno nel
cambiamento e in secondo luogo dal prendersi la re-
sponsabilità sul cambiamento, senza permettere che
entrambe le cose siano determinate da forze esterne,
per titubanza o per il desiderio di semplificare gli ar-
gomenti di discussione. Di seguito analizzeremo l’a-
nalogia con il movimento green, per dimostrare che il
valore dell’openness sarà compreso da tutti.


Perché l’openness è importante
  Nei paragrafi precedenti spero di aver iniziato a con-
vincervi che l’openness è stata un approccio per lo più
vincente. E con vincente non voglio necessariamente


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                  la vittoria dell’open

dire che sia il primo pensiero di accademici o studen-
ti, ma che un aspetto o un altro dell’open education
va a toccare nella pratica sia chi vuole imparare sia
chi insegna, che siano studenti ad usare risorse open
a supporto dei loro corsi oppure accademici che pub-
blicano articoli o monografie in Open Access. Senza
dubbio c’è ancora molto che la open education può
fare prima di influire su tutti gli aspetti della pratica,
ma questo periodo segna il momento in cui l’istru-
zione aperta ha smesso di essere di interesse perife-
rico e specialistico e ha preso ad occupare un posto
nella pratica accademica mainstream. Se ancora non
sono riuscito a convincervi ne parlerò meglio nei ca-
pitoli dal 3 al 7. Ora voglio discutere della sua impor-
tanza e del perché dobbiate interessarvi ad argomenti
legati all’openness. Ci sono due ragioni principali per
le quali l’openness conta nel settore dell’istruzione: le
opportunità e la sua funzione.
   Sotto “opportunità” ci sarebbero molte sottocatego-
rie da elencare, ma mi concentrerò solo su un esem-
pio per poi sviluppare l’argomento più avanti nel li-
bro. Un’occasione significativa che l’openness offre
è nell’ambito della didattica. In The Digital Scholar
(Weller 2011) ho mostrato come le risorse digitali e
internet stanno portando ad uno spostamento da una
“didattica di scarsità” ad una di “abbondanza”. Molti
dei modelli di insegnamento esistenti (le lezioni ad
esempio) sono basati sul presupposto che ci debba es-
sere un accesso limitato al sapere e alle risorse (moti-
vo per il quale molti vanno in una stanza ad ascoltare
un esperto parlare). La possibilità di trovare molti più
contenuti online modifica questo presupposto. Una
didattica dell’abbondanza si concentra infatti sul con-
tenuto, che è un elemento importante ma non l’unico

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                  la battaglia per l’open

di un approccio. Forse sarebbe più opportuno parlare
di didattica dell’openness: una didattica open fa uso
di contenuti aperti come le open educational resour-
ces, video, podcast, etc; ma dà anche importanza al
network e a come l’allievo si relaziona all’interno di
esso. Nell’analizzare la didattica alla base dei MOOC
(anche se la didattica open non è solo quello), Paul
Stacey (2013) fa le seguenti raccomandazioni:

• Siate il più open possibile. Andate oltre le iscrizioni
  aperte e usate metodi didattici open che sfruttino
  tutto il web, non solo la specifica parte contenuta
  nella piattaforma MOOC. Usate le OER come stra-
  tegia e mettete una licenza open alle vostre risorse
  usando Creative Commons, in modo che sia pos-
  sibile il riutilizzo, la revisione, il remix e la ridistri-
  buzione. Progettate le vostre piattaforme MOOC
  con un software open source. Pubblicate i learning
  analytics data che avete raccolto come open data
  usando una licenza CC0.
• Usate metodi didattici online moderni e testati,
  non metodi didattici da aula che sappiamo non es-
  sere adatti all’apprendimento online.
• Usate metodi didattici peer-to-peer per l’autoap-
  prendimento. Sappiamo che questo migliora i ri-
  sultati e che il costo di attivazione di un network di
  peers è lo stesso di quello di un network di conte-
  nuti, essenzialmente zero.
• Usate il social learning, che include blog, chat, fo-
  rum di discussione, wiki e lavori di gruppo.
• Sfruttate la partecipazione di massa, con tutti gli
  studenti che contribuiscono con qualcosa che ag-
  giunge o migliora il corso nel suo insieme.



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                  la vittoria dell’open

  Esempi di metodo didattico open includono il DS106
di Jim Groom, un corso open che stimola gli allievi a
creare prodotti ogni giorno, suggerire compiti, inven-
tare il proprio spazio online e diventare parte di una
comunità che va oltre il corso, sia da un punto di vista
geografico che temporale. Dave Cormier ogni anno
inizia il suo corso in tecnologie per l’apprendimento
invitando gli studenti a firmare un contratto che sta-
bilisca quanto lavoro vuole fare ognuno e per quale
votazione. Lavori individuali sono valutati come “sod-
disfacente” o “insoddisfacente” una volta completati
(Cormier 2013). In corsi come Octel (http://octel.alt.
ac.uk) gli allievi creano il proprio blog, che diventa il
luogo dove lavorano, con vari contributi poi aggregati
in un unico blog centrale. Tutto in modalità open.
Ciò non vuol dire che questi esempi debbano essere
la norma e debbano essere adottati da tutti gli altri.
Sono esempi fatti su misura per particolari contesti e
argomenti. Il punto chiave qui è che l’openness è la
pietra miliare e la filosofia che sta alla base di questi
corsi: è presente nella tecnologia adottata, nelle risor-
se citate, nelle attività che gli studenti intraprendono
e negli approcci di insegnamento. Il tutto è reso poi
possibile dal fatto che il concetto di apertura va a toc-
care aree diverse: le risorse devono essere disponibili,
la tecnologia deve essere free, gli studenti hanno bi-
sogno di essere preparati a lavorare in questo ambito
e le università devono accettare i nuovi modi di ope-
rare. Vorrei suggerire che siamo solo all’inizio dell’e-
splorazione di modelli di insegnamento e apprendi-
mento che hanno come base la mentalità open. È in-
teressante notare che molti di questi sperimentatori
in didattica aperta sono persone che fanno già parte
del movimento. Si potrebbe pensare che siano stati

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                la battaglia per l’open

“intaccati” dalla mentalità aperta e che vogliano ap-
plicarla ovunque possibile.
   È questa opportunità di esplorare che è importan-
te nell’istruzione superiore, se si vuole innovare e se
si vogliono sfruttare al meglio le possibilità che l’o-
penness offre. Un pre-requisito è l’engagement con
la open education, sia che si parli di tecnologia, che
di risorse, che di didattica. Uno dei pericoli dell’o-
penness in outsourcing infatti è che appoggiandosi
a venditori terzi per le piattaforme MOOC, oppure
affidandosi ad editori per la creazione del contenuto,
si restringa il raggio di sperimentazione. La soluzio-
ne preconfezionata in questo modo diventa non solo
il metodo accettato ma l’unico riconosciuto. Ci sono
già esempi: Georgia Tech ha annunciato una colla-
borazione con la società MOOC Udacity per offrire
un master online. Come nota Christopher Newfield
(2013) facendo un’analisi del contratto, Udacity ha
una relazione esclusiva per la quale la Georgia Tech
non può offrire il suo contenuto da altre parti. Udacity
può invece offrire lo stesso contenuto ad altri studen-
ti al di fuori del programma. Newfield sostiene che
mentre cercano di recuperare i costi, «i grandi rispar-
mi ironicamente vengono dal comprimere l’innova-
zione – i compensi ai creatori dei corsi si abbassano
– e dallo sfruttare l’overhead».
   Anche se accettiamo di guardare meno cinicamen-
te questo accordo, il modello di compagnie come
Udacity, Coursera e Pearson è quello di creare un
brand globale diventando uno dei pochi fornitori.
A loro non interessa la diversificazione del mercato
e quindi il modello su come creare dei MOOC o su
come rilasciare delle risorse online diventa limitato,
sia per accordi contrattuali o semplicemente per la

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                  la vittoria dell’open

presenza di soluzioni preconfezionate che impedi-
scono un’ulteriore esplorazione.
  Questo stesso messaggio sulla possibilità di spe-
rimentazione si può applicare a tutte le funzioni in
università: la ricerca, il public engagement, la crea-
zione di risorse. In ciascuna di queste aree la possi-
bilità di combinare elementi open e fare uso di un
ambiente digitale in rete permettono la creazione di
nuove opportunità, che però per trovare la loro piena
realizzazione richiedono un impegno attivo sull’in-
novazione portato avanti dalle enti di istruzione e da-
gli accademici più che da fornitori esterni.
  E ora passiamo al secondo motivo per cui l’openness
è importante, e cioè la “funzione”, o il ruolo dell’uni-
versità. Le università si possono considerare come un
raggruppamento di diverse funzioni: ricerca, inse-
gnamento, public engagement, orientamenti politici
e incubatori di idee e business. In tempi di ristrettez-
ze economiche ogni aspetto della società è esaminato
in base a quanto contribuisce in relazione a quan-
to costa, e l’istruzione superiore non fa eccezione.
Sempre più la narrazione è quella di un’operazione
di investimento diretta – gli studenti pagano una tas-
sa e in cambio ricevono un’istruzione che permetterà
loro di guadagnare di più nella vita (Buchanan 2013).
Anche se questa è certamente una prospettiva difen-
dibile e logica, ignora o ridimensiona l’importanza di
altri contributi: gli approcci open alla diffusione della
ricerca, alla condivisione di materiale didattico, all’ac-
cesso online a conferenze e seminari aiutano infatti
a rafforzare un concetto più ampio di cosa servano le
università. Non c’è niente di nuovo: la mia università,
la Open University (OU) è tenuta in grande conside-
razione nel Regno Unito anche da quelli che non ci

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                 la battaglia per l’open

hanno mai studiato forse per la sua collaborazione
con la BBC nel creare programmi didattici, che sono
di fatto primi tentativi di risorse per la open education.
Forse la collaborazione dell’OU con la famosa emit-
tente televisiva la mette in una posizione privilegiata.
Gli approcci open consentono a tutte le istituzioni
di adottare parti del metodo a costo relativamente
basso. Ad esempio la università di Glamorgan (ora
University of South Wales) ha creato il proprio sito
iTunesU ad un costo basso e ha generato più di 1 mi-
lione di download nei primi 18 mesi (Richards 2010).
Sempre più quindi assistiamo ad una openness che
contribuisce a formare l’identità non solo di una uni-
versità in particolare, ma dell’istruzione superiore nel
suo complesso e del suo relazionarsi con la società.
  Concludo con un breve esempio che mette insieme
molte delle componenti dell’openness. Katy Jordan è
un PhD alla OU e si occupa di network accademici su
siti come Academia.edu. Su iniziativa personale ha
studiato una serie di MOOC che integrano la ricerca
offerta in università e uno di questi era un MOOC in-
fografico fornito dall’università del Texas. Per il pro-
getto di visualizzazione finale ha deciso di tracciare
i dati di completamento su un grafico interattivo e
ha bloggato i risultati (Jordan 2013). Questi dati sono
stati ripresi da un famoso blogger che l’ha definito il
primo tentativo di raccogliere e compilare dati riguar-
do ai MOOC, e a sua volta lo ha twittato. I dati relativi
al completamento dei MOOC sono in generale ogget-
to di grande interesse e il post di Katy è diventato vi-
rale, diventando di fatto il pezzo a cui linkare sull’ar-
gomento e a cui quasi ogni MOOC fa riferimento.
Questo come conseguenza ha portato a maggiori
fondi da parte della MOOC Research Initiative e a

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                  la vittoria dell’open

varie pubblicazioni. E tutto dopo un post in un blog.
Un piccolo esempio che prova come la diffusione
dell’openness prende varie forme e ha impatti ina-
spettati. Il corso aveva bisogno di essere open per-
ché Katy potesse accedervi; le è stato possibile con-
dividere i risultati come parte della sua pratica open.
L’infografica e il blog si basano su un open software e
sfruttano dati sul tasso di completamento dei MOOC
che qualcuno ha messo a disposizione e il format
stesso del lavoro di Katy permette ad altri di valuta-
re i dati e di suggerire nuovi elementi. Infine l’open
network diffonde il messaggio perché è ad accesso
aperto e può essere linkato e letto da tutti. È difficile
prevedere o innescare questi meccanismi, ma un ap-
proccio chiuso in qualche punto della catena li avreb-
be bloccati. È proprio nel replicare esempi come que-
sto nell’istruzione superiore che si trova il vero valore
dell’openness.


È davvero una battaglia?
  Dopo aver cercato in qualche modo di convincer-
vi della vittoria dell’openness e del motivo per cui le
future direzioni che prenderà sono importanti, vo-
glio ora chiarire perché ho usato il termine “batta-
glia” e perché lo vedo come un momento di conflitto.
Immagino che alcuni lettori saranno a disagio con
un termine militaristico, ma l’ho usato intenzional-
mente per mettere in evidenza fattori significativi
dell’openness.
  In primo luogo c’è davvero un dibattito molto acceso
sulla direzione che l’openness prende. Lo esaminere-
mo meglio nel corso del libro ma per molti dei suoi


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                 la battaglia per l’open

sostenitori l’attributo fondamentale riguarda la liber-
tà – degli individui ad avere accesso al contenuto, di
riutilizzarlo come meglio credono, di sviluppare nuo-
vi metodi di lavoro e di sfruttare le opportunità offerte
dal mondo digitale e in rete. Un’interpretazione più
commerciale vede invece l’openness come una tatti-
ca iniziale per guadagnare utenti su una piattaforma
privata o per avere accesso a fondi governativi. Alcuni
dunque vedono i nuovi provider come usurpatori dei
provider esistenti nell’istruzione superiore, come
quando Sebastian Thrun predice che in futuro ci sa-
ranno solo dieci provider globali nel campo dell’istru-
zione (e spera che la sua compagnia, Udacity, sia uno
di questi) (The Economist 2012).
  Non è dunque un cortese dibattito sulle definizio-
ni: ci saranno reali conseguenze per l’istruzione e
per la società in generale a seconda di chi vincerà la
battaglia per l’openness. E questo ci porta al secondo
fattore per la scelta del termine: come nelle vere bat-
taglie ciò che ha valore viene più duramente conteso.
La spesa media cumulativa per studente nei paesi
OECD (Organisation for Economic Cooperation and
Development) per gli studi terziari è di 57.774 dollari
statunitensi (OECD 213) e l’intero mercato dell’istru-
zione è stato stimato sui 5-6 miliardi di dollari statu-
nitensi (Shapiro 2013).
  Nelle pubblicazioni accademiche Reed Elsevier ha
registrato ricavi per più di 6 milioni di sterline nel
2012, di cui più di 2 milioni per pubblicazioni di
scienza tecnologia e medicina (Reed Elsevier 2012),
mentre Springer ha registrato vendite di 875 milio-
ni di sterline nel 2011 (Springer 2011). Sono grandi
mercati e la domanda sull’istruzione non sta per spa-



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                 la vittoria dell’open

rire, quindi rappresenta aree di business allettanti in
tempi di recessione globale.
  La mia terza ed ultima giustificazione per aver usa-
to il termine “battaglia” è che come il grande bottino
spetta al vincitore, allo stesso modo anche la frase sui
vincitori che scrivono la storia è pertinente. È in cor-
so un contenzioso sulla narrazione riguardo all’open-
ness. Un esempio si può trovare nel capitolo 6, dove
andremo ad analizzare il meme ricorrente “l’istruzio-
ne è malata” e dove esploreremo il discorso che fa la
Silicon Valley a riguardo. Entrambe queste posizioni
cercano di intendere l’istruzione superiore come un
semplice settore di contenuti, come il business della
musica, e quindi propongono una soluzione semplice
e tecnologica a quello che viene visto come un sistema
apparentemente compromesso. Questa narrazione è
spesso accettata come indiscussa e ignora deliberata-
mente il ruolo che l’istruzione superiore ha avuto in
molti dei cambiamenti che ci sono stati (giustifican-
doli come forze esterne che sono intervenute) o sem-
plificando le funzioni stesse dell’istruzione superiore.
Il termine “battaglia” sembra quindi appropriato a
definire questi tre temi: conflitto, valore e narrazio-
ne. Dopo un’iniziale vittoria dell’openness affron-
tiamo ora il passaggio chiave nella battaglia a lungo
termine. Non si tratta semplicemente di utilizzare
un pezzo di tecnologia o un altro: l’openness sta al
centro dell’istruzione superiore del XXI secolo. Nella
sua migliore interpretazione è il mezzo attraverso il
quale l’istruzione superiore diventa importante per
una società nel momento stesso in cui apre il suo
sapere e permette l’accesso ai suoi servizi, fornisce
gli strumenti con cui l’istruzione superiore si adatta
al nuovo contesto del mondo digitale. Nella sua peg-

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                 la battaglia per l’open

giore definizione invece, l’openness è la strada con
la quale il commercio fondamentalmente danneggia
il sistema fino al punto in cui esso viene indebolito
senza possibilità di recupero. Spero in questo libro
di sostenere la causa che vede la battaglia per l’open
come quella per il futuro dell’istruzione.


Lezioni da altri settori
  Possiamo cominciare a fare capire perché la cele-
brazione della vittoria dell’openness è stata ammu-
tolita con due brevi analogie. La prima è quella con
quasi tutte le rivoluzioni e con le loro immediate con-
seguenze. La rivoluzione francese del 1789 ha visto il
sollevarsi di un innegabile movimento forte, mirato
a rovesciare le ingiustizie imposte dalla monarchia,
ma nel decennio successivo ci sono state numerose
tensioni tra fazioni opposte, una dittatura e il Regno
del Terrore che è culminato con la salita al potere di
Napoleone. Quindi anche se i risultati a lungo ter-
mine della rivoluzione sono stati positivi, nel corso
del decennio successivo e più ancora dopo l’inizio del
1789, i cittadini francesi la dovevano pensare molto
diversamente. Durante il governo di Robespierre e
dei Giacobini non è chiaro infatti se si stesse meglio
rispetto al vecchio regime. E si sentono simili os-
servazioni anche dopo rivoluzioni più recenti – per
esempio i russi che dicono che si stava meglio sotto
Stalin o gli abitanti della Germania dell’Est che ricor-
dano con nostalgia il regime comunista (Bonstein
2009). Un esempio più recente è quello delle pri-
mavere arabe, che dopo due anni hanno lasciato pro-
fonde divisioni in molti paesi, con il peggioramento


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                  la vittoria dell’open

delle condizioni economiche e con continui e violenti
scontri. Molti di quelli che vivono uno stato post-ri-
voluzionario sarebbero d’accordo nel dire che questa
non è una vittoria. Molti gruppi poi hanno tutto l’in-
teresse a sfruttare l’incertezza che la rivoluzione crea,
le vecchie strutture di potere non spariscono senza
fare rumore, le pressioni di quotidiane preoccupazio-
ni portano a lotte intestine tra chi in precedenza era
alleato e così via. È complicato, confuso e decisamen-
te umano.
   Un modo di vedere queste rivoluzioni nazionali è
considerare che le lotte post-rivoluzionarie sono l’i-
nevitabile sacrificio che porta una democrazia in cre-
scita, ma che la direzione generale è comunque verso
la libertà. Viste infatti in una prospettiva storica sono
completamente prevedibili per la natura stessa del
cambiamento. Ciò rimanda ad una seconda più ge-
nerale lezione e cioè che è in questi periodi di trasfor-
mazione, dopo un’iniziale vittoria, che si determina
il successo a lungo termine.
   Una seconda analogia è con il movimento green,
che una volta era periferico e oggetto di attenzioni
solo da parte degli hippies, ma che ora è centrale
nel dibattito all’interno della società. I prodotti gre-
en sono pubblicizzati, il riciclo è diventato pratica
comune, le fonti alternative di energia sono venute
ad essere parte di un piano energetico nazionale e
ciascun partito politico deve tenere conto di attività
ecosostenibili. L’impatto sull’ambiente di ogni gran-
de decisione è ora in agenda, anche se non sempre
la priorità. Visto da una prospettiva anni ‘50 è un
progresso radicale, la vittoria del messaggio eco, ep-
pure per molti nel movimento non sembra affatto
una conquista. Lo sforzo globale per mettere in atto
accordi significativi sulle emissioni di carbone e le
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                la battaglia per l’open

complesse politiche per trasformare questi accordi
in interessi davvero mondiali e a lungo termine – da
locali e a breve termine – ha reso infatti il messaggio
“green” vittima del suo stesso successo. È penetrato
così bene nella narrazione mainstream che ora è un
valore commerciabile. Il fatto che lo sia è certamen-
te necessario per avere un impatto concreto a livello
individuale, per esempio sull’acquisto di macchine,
lampadine, cibo, vestiti, viaggi. Ma ovviamente è sta-
to anche sfruttato da aziende che lo usano come un
mezzo per commercializzare i loro prodotti. Molti at-
tivisti negli anni 70 non avrebbero mai previsto che
il nucleare avrebbe trovato un rinnovato interesse
nella promozione delle sue qualità verdi (ad esem-
pio contro la diossina del carbone) e a prescindere
da cosa si pensi sul nucleare, possiamo probabil-
mente assumere che migliorare la sua reputazione
non era certo una delle cose più auspicabili per loro.
Nel 2010 negli Stati Uniti gli assets dove le perfor-
mance ambientali erano una componente principa-
le sono stati valutati a 30,7 mila miliardi di dollari
statunitensi, rispetto ai 639 miliardi di dollari sta-
tunitensi del 1995 (Delmas&Burbano 2011). Being
green fa decisamente parte del grande business. La
conseguenza sono aziende che chiamano i loro pro-
dotti verdi su basi piuttosto pretestuose; il “fat-free”
o “dietetico” nei prodotti alimentari, “eco-friendly”
o “naturale” o “verde” in altri prodotti significa che
spesso nascondono altri peccati o sono di dubbia
promozione. È un processo chiamato greenwashing:
per esempio l’airbus A380 a quanto si dice produce
il 17% in meno di emissioni rispetto ad un Boeing
747, che va benissimo, ma promuoverlo come
eco-friendly mi sembra un po’ forzata come defini-

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                 la vittoria dell’open

zione. Allo stesso modo la serie di annunci green
di BP per promuovere il suo messaggio “oltre il pe-
trolio” fornisce un buon esempio di come il mes-
saggio eco possa essere adottato da compagnie che
per la loro stessa natura sono in contrasto con esso.

  L’agenzia di marketing ambientale Terra Choice, ha
individuato i “sette peccati del greenwashing” (Terra
Choice 2010), con analogie che possiamo vedere nel-
la vita di tutti i giorni:
1. Peccato del trade-off nascosto – quando un nume-
    ro estremamente limitato di attributi è usato per
    rivendicare l’ecosostenibilità, senza attenzione ad
    altri importanti problemi ambientali.
2. Peccato dell’assenza di prove – quando la pretesa
    di ecosostenibilità non è supportata da informa-
    zioni facilmente accessibili.
3. Peccato di genericità – definizione vaghe e generi-
    che che portano il consumatore a confonderne il
    significato.
4. Peccato di irrilevanza – una definizione che è vera
    ma non importante o di poco aiuto.
5. Peccato del diavolo minore – definizioni che pos-
    sono essere vere all’interno della categoria di pro-
    dotto ma che rischiano di distrarre il consumatore
    dall’impatto ambientale della categoria nel suo
    complesso.
6. Peccato del raccontare frottole – dare definizioni
    completamente false.
7. Peccato dell’adorazione di false etichette – quando
    un prodotto, con parole o immagini, dà l’impres-
    sione di un’approvazione da parte di terzi che in
    realtà non esiste.



                          39
                 la battaglia per l’open

   Nel mondo IT la somiglianza tra il greenwashing
e le rivendicazioni di openness ha portato a coniare
il termine openwashing. Klint Finley (2011) lo spiega
così:

 Il vecchio dibattito “open vs proprietario” è finito e l’o-
 pen ha vinto. Poiché l’infrastruttura IT si sposta verso
 il cloud, l’openness non è solo una priorità per il codice
 sorgente ma per gli standard e per l’API. Quasi tutti i
 commercianti nel mercato IT vogliono piazzare i loro
 prodotti come open. Quelli che non hanno un prodot-
 to open source invece dicono di avere un prodotto che
 usa “standard open” o “open API”.

  Se da un lato le aziende cercano di accreditarsi
come open, vediamo applicazioni del termine anche
nel settore dell’istruzione, con un simile cinismo
(Wiley 2011a). Come per “green” anche per “open” ci
sono una serie di connotazioni positive – e dopotutto
chi si metterebbe a discutere sul fatto che è impor-
tante essere invece “chiusi”? La cooptazione commer-
ciale del termine green ci porta poi alla terza lezione
da applicare al movimento open: la definizione del
termine sarà in qualche modo piegata a un vantag-
gio commerciale. Vedremo questo openwashing più
avanti nel libro, in particolare riguardo ai MOOC.
Queste due analogie ci forniscono tre lezioni che in-
contreremo spesso man mano che esploreremo di-
verse aree dell’open education. La mia interpretazio-
ne di ciò che queste analogie offrono è la seguente:
1) la vittoria è più complessa del previsto;
2) la direzione futura è modellata dalle lotte più pro-
   saiche che vengono dopo la vittoria iniziale;
3) non appena un termine viene accettato come main-
   stream allora se ne fa un uso commerciale.

                             40
                 la vittoria dell’open

  Se si osservano queste affermazioni da un punto di
vista della open education, non è difficile concludere
che l’openness ha avuto la meglio. La vittoria potreb-
be non essere assoluta, ma il trend va in quella dire-
zione – sembra impossibile che torniamo a sistemi
chiusi in accademia così come lo sarebbe ritornare
ai venditori porta a porta dell’enciclopedia britannica.
Che si tratti di pubblicazioni Open Access, di open
data, di MOOC, di OER, di software open source o di
open scholarship, il messaggio dell’openness è stato
unanimamente accettato come un messaggio valido
(che non vuol dire comunque che deve essere l’unico
approccio). Tempo di gioire, si potrebbe pensare, ma
ovviamente come la prima lezione ci dimostra, non è
mai così semplice. Quando infatti si trattava di “aper-
to vs chiuso” c’era una distinzione chiara: la apertura
andava bene, la chiusura no. Non appena però si è
cantata vittoria non ci è voluto molto a capire che la
faccenda era diventata più complessa. È nella natura
della vittoria in fondo, e così è per l’openness – non
dovremmo vederla come un’opportunità mancata o
romanticizzare un breve periodo in cui c’è stata una
Camelot ora depredata. La direzione generale è posi-
tiva, ma questo si porta dietro maggiore complessità.
La seconda lezione mette in luce invece che rimpiaz-
ziamo la dicotomia open vs closed con una serie di
dibattiti più variegati e con sfumature che possono
sembrare meno specialistiche. Ad esempio:
1) i differenti approcci alla didattica MOOC, chiamati
   xMOOC o cMOOC (ne parleremo nel capitolo 5);
2) la varietà di licenze come la più aperta Creative
   Commons CC-BY versus la CC-NC che restringe
   gli usi commerciali;



                          41
                 la battaglia per l’open

3) le diverse strade per l’Open Access, dalla Gold alla
   Green;
4) le diverse opzioni tecnologiche, ad esempio le piat-
   taforme MOOC vs un mix di servizi forniti da terzi.

  Ma è proprio attraverso questi dibattiti minori che
si viene a formare il quadro generale, ed è la costru-
zione di questo quadro generale che il resto del libro
cercherà di riportare.


Conclusioni
  La natura della vittoria dell’openness e le lotte suc-
cessive possono essere spiegate con un esempio che
riguarda il settore in cui la battaglia è forse più aspra,
e cioè la pubblicazione Open Access. La esplorere-
mo in dettaglio nel capitolo 3, ma un’anticipazione
qui può essere utile per introdurre il tema di questo
capitolo.
  Il modello convenzionale di pubblicazione uni-
versitaria di norma vede gli accademici presentare,
rivedere ed editare i loro scritti in modo gratuito,
per poi darli ad editori privati che li vendono alle
biblioteche in formato di raccolte. La maggior par-
te dei fondi per la ricerca che sta alla base di que-
sti articoli e del tempo speso per produrli sono soldi
pubblici, da qui la richiesta nell’ultimo decennio di
renderli pubblicamente accessibili. Questa è diven-
tata ormai la prassi per molti dei finanziatori della
ricerca, e anche molti governi hanno adottato politi-
che Open Access a livello nazionale che stabiliscono
che i risultati di studi finanziati con fondi pubblici
siano messi a disposizione di tutti. Poi la pratica si è

                           42
                 la vittoria dell’open

estesa a dati utili per la ricerca e alle pubblicazioni.
La pubblicazione in Open Access è ad oggi la nor-
ma per molti professori universitari e non solo per
coloro che potrebbero essere considerati come i pri-
mi sostenitori: un’indagine portata avanti da Wiley
sui suoi autori ha scoperto che il 59% di loro ave-
va pubblicato su riviste Open Access (Warne, 2013).
In Gran Bretagna il report Finch del 2012 (Finch
Group 2012) ha raccomandato che «ci sia una chia-
ra politica a supporto delle pubblicazioni in Open
Access o su riviste ibride, finanziata da APC, come
metodo privilegiato di divulgazione della ricerca spe-
cialmente quando si tratta di fondi pubblici». APC sta
per Article Process Charges: così è spesso chiamata
la Gold road per l’Open Access, in cui gli autori (o
più spesso i finanziatori della ricerca) pagano gli edi-
tori per mettere in Open Access un loro articolo. Ed
è opposta alla Green road, in cui ci si autopubblica, o
a alla Platinum road, cioè riviste dove non c’è l’APC.
  Quello che possiamo vedere qui è un iniziale trion-
fo dell’openness: l’Open Access si è mosso dalla pe-
riferia al mainstream ed è diventato il metodo consi-
gliato per pubblicare articoli di ricerca, ma allo stes-
so tempo il conflitto sulla realizzazione è evidente,
così come lo sono le deviazioni dalle ambizioni open
originarie.
  Il report Finch è stato criticato per aver cerca-
to di proteggere gli interessi commerciali degli
editori, e per non aver promosso l’uso di metodi
come il Green o il Platinum Open Access (Harnad
2012). Inoltre il modello pay-to-publish ha visto la
crescita di un numero di giornali di dubbia natura
Open Access, che usano l’openwashing come mez-
zo per fare profitti ignorando la qualità degli arti-

                          43
                 la battaglia per l’open

coli. Bohannon (2013) riferisce di un falso artico-
lo che è stato accettato da 157 riviste Open Access,
e ciò dimostra come il modello pay-to-publish crei
uno stress differente sui filtri per la pubblicazione.
Le tensioni nel mondo delle pubblicazioni Open
Access sono rappresentative di quelle presenti in tut-
ti gli aspetti dell’openness nell’istruzione: i detentori
hanno il legittimo diritto a mantenere lo status quo;
girano somme di denaro importanti; l’approccio open
permette l’ingresso di nuovi operatori nel mercato;
l’etichetta open diventa uno strumento di marketing;
ci sono tensioni per mantenere le parti migliori della
pratica attuale non appena ci si sposta verso nuove
pratiche. A guidare il tutto è la convinzione che il
modello open sia l’approccio migliore, sia in termi-
ni di accesso che di innovazione. La Public Library
of Science (PloS) per esempio ha interpretato l’Open
Access come un mezzo per accedere gratuitamente
al contenuto, ma ha anche usato l’approccio open per
ripensare il processo di peer review e il tipo di articoli
che si pubblicano, come il PloS Currents, che forni-
sce una rapida peer review su temi specifici (http://
currents.plos.org/).


Il libro
  Questo libro è prima di tutto indirizzato a coloro
che lavorano nell’ambito dell’istruzione superiore e
che hanno un interesse per la open education. Non
richiede che si abbia una conoscenza specialistica
della open education o delle tecnologie educational.
L’obiettivo è piuttosto quello di stabilire il modo in
cui l’openness è diventata un approccio di successo,


                           44
                  la vittoria dell’open

ma soprattutto di rivelare le tensioni all’interno di
ciascuna area. Alla fine del libro spero vi avrò convin-
ti che la direzione futura dell’openness è importante
per tutti coloro che si muovono nell’ambito dell’istru-
zione superiore.
   Il capitolo 2 indaga nel dettaglio la natura dell’open-
ness nell’ambito formativo e in particolare le influen-
ze significative che l’hanno formata. I successivi cin-
que capitoli esaminano la risposta dell’istruzione su-
periore all’openness in quattro aree chiave, che sono
la pubblicazione Open Access, le open educational
resources, i MOOC e la open scholarship. Dato che
la battaglia sulla narrazione è rappresentata al meglio
dai MOOC, il capitolo 6 fa una breve digressione per
parlare di questo. In ognuno dei capitoli sarà ulte-
riormente esaminato lo scopo del libro. Innanzitutto
parlando della storia del successo dell’openness in
quell’area, e il libro è tanto una celebrazione del mo-
vimento open education quanto una critica sulle at-
tuali tensioni. Poi si parlerà delle aree chiave in cui c’è
tensione, i campi di battaglia. Infine si proporranno
future direzioni. In questo modo spero di ribadire i
temi della vittoria dell’openness, del suo significato e
delle tensioni che sono stati messi in luce in questo
capitolo. Il capitolo 8 prende una posizione più critica
sui problemi legati all’openness e il capitolo 9 propo-
ne la resilienza come una narrazione alternativa per
considerare il cambiamento nell’istruzione superio-
re. Infine nel capitolo 10 si proporranno alcuni mezzi
per inquadrare la direzione future dell’openness.




                            45
 CAPITOLO 2

Che tipo di openness?

                    Cosa succederebbe se di fatto ci fossero
                    sempre solo due individui distinti che
                    passeggiano nella bruma della storia?
                    Ogni differenza deriverebbe da quella
                    dualità?
                                 David Foster Wallace


Introduzione
  Avendo parlato dell’argomento generale del libro
nel precedente capitolo, in questo si entrerà più in
dettaglio nel concetto di open in relazione all’istru-
zione, stabilendo delle motivazioni per l’approccio
open, e accennando a qualche dato storico rilevante
nello sviluppo della open education. Ciò aiuterà a
comprendere i successivi cinque capitoli, ciascuno
dei quali coglierà un particolare esempio della open
education.
  Nel capitolo precedente si è messo in evidenza il
consenso sull’approccio open nell’ambito dell’istru-
zione. Si potrebbe anche solo considerare la varietà
con cui il termine è stato usato per dimostrarlo: cor-
si open, didattica open, open educational resources,
Open Access, open data, open scholarship – sem-
bra che ogni aspetto della pratica dell’istruzione sia
oggi soggetto all’essere open. Lavoro per la Open
University nel Regno Unito e spesso commento che,
                   la battaglia per l’open

se si dovesse fondare oggi un’università, questo sa-
rebbe il nome ideale; certamente una definizione in-
vecchiata meglio rispetto ad alternative suggerite al
suo inizio, che includono “the University of the Air”
(letteralmente, l’Università dell’Aria).
  Gli esempi di openness presentati possono essere
visti come le più recenti interpretazioni dell’approc-
cio applicato all’istruzione, forme che non sono sorte
dal nulla, ma che fondano le loro radici in più di un
interesse storico per il dibattito. In questo capitolo
esplorerò la storia dell’openness nell’istruzione con
lo scopo di gettare le basi per i successivi capitoli,
che ne esamineranno poi particolari aspetti più in
dettaglio.


Evitare di dare definizioni
  Prima di prendere una prospettiva storica, comun-
que, è bene capire cosa si intende per openness. È un
termine che nasconde una serie di interpretazioni e
motivazioni che sono la sua benedizione e allo stesso
tempo la sua maledizione. È un termine abbastan-
za generico da poter essere usato in più contesti, ma
anche sufficientemente vago perché ognuno possa
farne riferimento, rendendolo così inutile. Una so-
luzione potrebbe essere adottarne una definizione
specifica. Per esempio possiamo dire che qualcosa è
open solo se conforme alle quattro R di David Wiley
(2007a)1:
1. Reuse – il diritto di riutilizzare il contenuto nella
   sua versione inalterata/letterale (es. fare un backup
   del contenuto)

1   Si veda https://opencontent.org/blog/archives/355.

                               48
                  che tipo di openness

2. Revise – il diritto di adattare, modificare, aggiu-
   stare o alterare il contenuto stesso (es. tradurre il
   contenuto in un’altra lingua)
3. Remix – il diritto di combinare il contenuto ori-
   ginale o rivisto con un altro contenuto per crear-
   ne qualcosa di nuovo (es. incorporare il contenuto
   dentro un altro)
4. Redistribute – il diritto di condividere copie dell’o-
   riginale, le proprie revisioni/remix con altri (es.
   dare una copia del contenuto ad un amico)

  Widley nel 2014 aveva aggiunto la quinta R di Retain
(cioè il diritto di produrre, possedere e controllare
copie del contenuto) (Widley, 2014). Questa prospet-
tiva propone il riutilizzo e quindi il licencing come
attributo chiave dell’openness. La Open Knowledge
Foundation propone una definizione molto precisa
di openness proprio perché preoccupati di un suo
uso sbagliato. La loro definizione è: “Un pezzo di dati
o di contenuto è open nel momento in cui si può li-
beramente utilizzare, riutilizzare e ridistribuire con
la sola limitazione di attribuzione o di share-alike”.
Ciascuno dei termini chiave è anche descritto in det-
taglio (OKF senza data).
  Nonostante il Reuse sia certamente importante,
esso potrebbe ignorare alcune interpretazioni più
ampie del termine, per esempio se è un aspetto im-
portante della didattica open, è vero anche che fa rife-
rimento ad una certa openness nell’approccio, ad un
ethos. Un focus principalmente sul riutilizzo porta ad
una visione contenuto-centrica e l’openness riguarda
anche la pratica. Lo stesso vale per ogni definizione
circoscritta di “openness” che possiamo adottare. In
questo libro perciò io accetterò come dato di fatto che

                           49
                la battaglia per l’open

sia un termine generico, con una serie di definizioni
che dipendono dal contesto. Come sostengo nel ca-
pitolo 8, non è mia intenzione creare un’ortodossia
rigorosa dell’essere open, o esporre imbrogli legati
all’open, ma incoraggiare un coinvolgimento sulle
pratiche open da parte di accademici e di istituzioni.
  Quindi se rifiutiamo una qualsiasi definizione di
openness, qual è il modo migliore per affrontare l’ar-
gomento? Probabilmente è un errore il fatto stesso di
parlarne come se fosse un approccio univoco; al con-
trario, è un “termine ombrello”. Ci può essere stato
un tempo in cui il significato era più certo, in parti-
colare agli albori del movimento dell’open education.
Per proseguire con la metafora della battaglia del ca-
pitolo 1, all’inizio si trattava semplicemente di mette-
re l’open contro il closed, ma man mano che le argo-
mentazioni si sono sviluppate allora i termini sono
diventati più sfumati. Non solo ci sono diversi aspetti
dell’openness, ma può anche accadere che alcuni di
questi ne escludano altri, o almeno che dare la prio-
rità ad alcuni significhi toglierla ad altri. Un modo di
approcciarsi è considerare le motivazioni per cui le
persone hanno adottato l’openness. Seguono alcune
possibili motivazioni, ma non vuole essere in alcun
modo una lista esaustiva.
• Incremento dell’audience – Il principale obiettivo
  qui è rimuovere le barriere che separano le persone
  dall’accesso alle risorse, siano esse un articolo, un
  libro, un corso, un servizio, un video o una presen-
  tazione. Questo significa che la risorsa deve essere
  gratuita, facilmente condivisibile online e con i giu-
  sti diritti. Per esempio, Davis (2011) ha scoperto che
  su 36 riviste e che erano pubblicate in Open Access



                          50
                  che tipo di openness

  hanno ricevuto molti più download e raggiunto
  un’audience molto più ampia.
• Incremento del riutilizzo – Questo si relaziona alla
  precedente motivazione, ma si basa più che altro
  sull’intenzione che altri hanno di prendere ciò che
  hai creato e combinarlo con altri elementi, adattarlo
  e ripubblicarlo. Sono necessarie le stesse conside-
  razioni di cui sopra, ma con un’enfasi maggiore sui
  diritti minimi e nel rendere la risorsa frazionabile
  in parti che possano poi essere adattate. Mentre la
  prima motivazione può significare semplicemente
  mettere un articolo online, la seconda potrebbe por-
  tare alla condivisione dei dati che ne sono alla base.
• Incremento dell’accesso – La differenza dalla prima
  motivazione sta nell’intento di raggiungere gruppi
  che possono essere particolarmente svantaggiati.
  Potrebbe significare open access nel senso che non
  è necessaria nessuna qualifica di ingresso per iscri-
  versi al corso di studio. In questo caso open non
  significa gratuito, dato che può essere che gli allievi
  abbiano bisogno di un supporto extra, che viene in
  qualche modo pagato. Aiutare gli allievi che spesso
  falliscono il loro percorso di istruzione pone il focus
  più sul supporto e meno sul semplice fare in modo
  che una risorsa sia gratuita. L’aumento dell’accesso
  non ha necessariamente a che vedere con il prezzo.
• Incremento della sperimentazione – Una delle ra-
  gioni per cui la gente adotta approcci open è che
  questi permettono loro di sperimentare. Ciò può
  significare l’uso di diversi supporti, il creare iden-
  tità differenti o il provare un approccio che non
  rientrerebbe nei vincoli della pratica standard. Per
  esempio molti MOOC hanno usato la piattaforma
  per condurre test A/B in cui modificano una varia-

                           51
                la battaglia per l’open

  bile in due gruppi, come la posizione di un video
  o il tipo di feedback fornito, e analizzano l’impatto
  (Simonite 2013). Il corso open crea entrambe le op-
  portunità con grandi numeri e frequenti presenta-
  zioni, all’interno del quadro etico che lo consente.
  Gli studenti MOOC non pagano, quindi c’è un ac-
  cordo diverso con l’istituzione scolastica.
• Incremento della reputazione – Essere in rete e
  online può aiutare a migliorare il profilo di un in-
  dividuo o di una istituzione. L’openness consente
  a più persone di vedere ciò che gli autori realizza-
  no (la motivazione dell’incremento della audien-
  ce), ma l’obiettivo principale è quello di migliora-
  re la loro reputazione. Come accademico, operare
  nell’ambito open, pubblicare apertamente, creare
  risorse online, essere attivo sui social media e sta-
  bilire identità online possono essere buoni metodi
  per ottenere il riconoscimento da parte dei colleghi,
  che può portare a conseguenze più tangibili come
  inviti a presentazioni in keynote o a collaborazioni
  nella ricerca. I problemi legati alla reputazione in-
  dividuale e all’identità sono trattati nel capitolo 7
  dedicato all’open scholarship.
• Incremento delle entrate – Nel capitolo precedente
  ho sollevato i problemi dell’openwashing e dell’u-
  sare l’openness come strada per un successo com-
  merciale; ma è anche vero che un approccio open o
  parzialmente open può essere un efficace modello
  di business. L’approccio freemium funziona così,
  quando un servizio è per la maggior parte open ma
  alcuni utenti pagano per servizi extra, come Flickr
  ad esempio. Se questo è l’obiettivo allora l’openness
  lavora per creare una significativa domanda del



                          52
                      che tipo di openness

  prodotto. Per le università ciò equivale ad un au-
  mento di studenti nei corsi formali2.
• Incremento della partecipazione – Potrebbe essere
  necessario raccogliere informazioni da un pubblico
  senza pagare per accedervi. Può essere il caso del
  fare crowdsourcing nella ricerca oppure dell’ottene-
  re feedback su un libro o su una proposta di ricerca.
  Essere open permette agli altri di accedere e di for-
  nire gli input richiesti.

  Per dimostrare come queste diverse motivazioni
possano influenzare la natura dell’openness, permet-
tetemi di porre uno scenario ipotetico: un’università
vuole creare un MOOC e chiede al proprio esperto di
tecnologie per la formazione di formulare una pro-
posta. I dirigenti dell’università hanno sentito parlare
dei MOOC e pensano che si dovrebbe essere attivi
in quel settore. Contattano il nostro esperto di tec-
nologie per la formazione, che a sua volta si consulta
con un numero di stakeholder diversi e chiede loro:
“Qual è l’obiettivo del MOOC? Che cosa vi aspetta-
te?”. Chi si occupa del marketing risponde che vuole
aumentare il profilo e la reputazione online dell’uni-

2    [Nota del traduttore] Più volte nel testo si incontra l’espressione
    “formal course” per indicare i corsi universitari “regolari”, cioè
    quelli che prevedono una formale immatricolazione; in con-
    trapposizione con “informal course” che invece vuole indicare
    quei corsi di formazione (anche di livello universitario) fruibili
    online da chiunque senza che l’utente sia effettivamente imma-
    tricolato. Come vedremo più avanti questa distinzione si trova
    anche in “formal student” vs “informal student”. Nella traduzio-
    ne ho scelto di rimanere il più possibile letterale e aderente alla
    scelta lessicale di Weller, pur sapendo che in italiano gli aggetti-
    vi “formale” e “informale” possono avere un’accezione diversa.
    Questa nota serve appunto per sgombrare il campo da equivoci
    semantici su questi aggettivi.

                                  53
                la battaglia per l’open

versità. Secondo questa prospettiva il MOOC propo-
sto si concentrerà su un tema conosciuto, mettendo-
ci un noto professore. Il tema si intitolerà “Vita su
Marte”, sarà una produzione costosa e di alta qualità
che funzionerà come vetrina dell’università e attirerà
l’attenzione della stampa.
   Quando poi si consulta il decano della Facoltà di
Scienze, lui invece risponderà che sono preoccupati
per il reclutamento di studenti nei corsi post laurea:
vorrebbero quindi un MOOC che porti studenti da
fuori che paghino tasse elevate. Il modello che po-
trebbe funzionare qui è quello che prevede le prime
sei settimane del corso in modalità open targettizzato
su una specifica audience, che si possa poi iscrivere
dopo le prime sei settimane.
   L’esperto di tecnologie per la formazione parla poi
con un docente che vorrebbe provare l’approccio ge-
stito dagli studenti. Gli insegnanti si sentono frustra-
ti dall’approccio client-oriented dell’insegnamento
convenzionale e vedono nei MOOC un’opportunità
di provare un metodo didattico più radicale, che fino
ad ora è stato loro impedito. Non lo considerano par-
ticolarmente impattante in termini di pubblico, ma
piuttosto un’esperienza di apprendimento ricca per
chi la prova, dato che gli studenti stessi si creeranno
il loro curriculum. La sua proposta è un MOOC ba-
sato su Wordpress che mostri una serie di tecnologie
che permettano agli studenti di collaborare alla crea-
zione del contenuto.
   Successivamente l’esperto di tecnologie per la for-
mazione ha una conversazione con il comitato finan-
ziatore, che vuole portare gruppi poco rappresenta-
ti nelle discipline scientifiche. Avranno bisogno di
molto supporto, ma sono d’accordo nel finanziare

                          54
                  che tipo di openness

la fornitura di mentori e di gruppi di sostegno nel-
la comunità. Quello che suggeriscono è quindi un
MOOC basato sull’adattare materiali esistenti, con
target molto mirato e minime barriere tecniche.
Per ciascuna di questa prospettive il MOOC sarebbe
diverso: sempre open, ma con un’enfasi differente
sulla forma che l’openness dovrebbe prendere. Allo
stesso modo Haklev (2010) propone quattro obiettivi
per lo sviluppo di OER che possono essere applicati
all’approccio open in generale:
• Produzione trasformativa – Qui il processo di pro-
  duzione modifica coloro che ne sono coinvolti. Può
  avvenire attraverso una riflessione sul processo di
  insegnamento o sull’esposizione a modelli di pra-
  tica open, con l’obiettivo principale di cambiare
  un individuo o, più frequentemente, la prassi di
  un’istituzione.
• Uso diretto – L’obiettivo per un allievo è quello di
  essere in grado di usare le risorse in modo indipen-
  dente, per cui deve essere completo.
• Riutilizzo – A differenza del precedente obiettivo,
  qui l’accesso dell’allievo è mediato dal riutilizzo di
  un terzo, ad esempio un insegnante. Creare mate-
  riali che gli insegnanti possano usare implica un’at-
  tenzione diversa alle caratteristiche richieste rispet-
  to ad un focus direttamente sul fruitore finale.
• Trasparenza/consultazione – L’obiettivo qui è infor-
  mare gli utenti su come il tema è insegnato.

  Gli obiettivi possono poi mescolarsi ed essere com-
plementari gli uni con gli altri. Per esempio, il mo-
vimento open textbook è ampiamente giustificato in
termini di costi, in quanto con la creazione di libri di
testo gratuiti c’è un considerevole risparmio per gli

                           55
                la battaglia per l’open

studenti, ma c’è anche una motivazione di riutilizzo,
dato che i docenti possono adattare liberamente il li-
bro alle loro specifiche necessità.


L’istruzione open – Un breve accenno storico
  Quando è iniziato l’attuale movimento della open
education? È una domanda di difficile risposta, dato
che è inevitabile replicare “dipende da cosa intendi
per l’attuale movimento di open education”. Ed è an-
che una risposta rivelatrice, in quanto dimostra che il
movimento non è facilmente definibile. Come la de-
finizione di openness, infatti, bisognerebbe conside-
rarla non come un’entità singola ma piuttosto come
una raccolta di principi ed idee che si intersecano.
Questo paragrafo parlerà proprio di questo, cercando
di focalizzarsi sulle radici della open education.

  Suggerisco tre filoni chiave che portano all’attuale
insieme di concetti centrali nella open education: l’i-
struzione Open Access, il software open source e la
cultura del web 2.0.

   Università open
  L’accesso aperto all’istruzione risale a ben prima
della Open University (OU), con la pratica delle le-
zioni pubbliche. Prendiamo però la fondazione della
OU come il punto di partenza della storia dell’istru-
zione Open Access, così come viene comunemente
interpretata. Proposta nel 1926 come una “università
wireless”, l’idea prende piede nei primi anni ‘60 e di-
venta un impegno concreto del manifesto del Partito


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                   che tipo di openness

Laburista nel 19663. Fondata nel 1969 con la mis-
sione di voler essere un’università “aperta a persone,
luoghi, metodi e idee”, la OU puntava a facilitare l’ac-
cesso all’istruzione superiore a persone che altrimen-
ti ne sarebbero state escluse, sia per mancanza delle
qualifiche necessarie, sia perché il loro stile di vita
o i loro impegni impedivano loro di dedicarsi full-ti-
me allo studio. L’approccio dell’università era dunque
mirato alla rimozione di queste barriere. Cormier
(2013) suggerisce che erano importanti le seguenti
accezioni di open:
• Open = accessibile, “supporto all’apprendimento
   open”, interattivo, dialogico. L’accessibilità era la
   chiave.
• Open = pari opportunità, senza restrizioni porta-
   te da barriere o ostacoli all’istruzione e alle risorse
   didattiche.
• Open = trasparenza, condivisione di obiettivi didat-
   tici con gli studenti, divulgazione degli schemi di
   votazione e offerta di tutoraggio per esami.
• Open = ingresso aperto, nessuna richiesta di quali-
   fiche per l’accesso. Tutto ciò che si richiedeva erano
   ambizione e motivazione/desiderio di imparare.
• In questa interpretazione la open education pro-
   muoveva un’istruzione part-time, a distanza, sup-
   portata e in Open Access. Il modello della OU ri-
   scontrò grande successo e furono fondate altre uni-
   versità open in diversi paesi che seguivano questa
   strada. Il bisogno di estendere l’accesso all’istru-
   zione superiore anche a coloro che non potevano
   sfruttare il modello convenzionale divenne ad un
   certo punto qualcosa che anche i governi dovette-

3   Si veda http://www.open.ac.uk/about/main/the-ou-explained/
    history-the-ou.

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                la battaglia per l’open

 ro riconoscere, e la reputazione della OU, sia per
 i suoi materiali di insegnamento di alta qualità sia
 per la buona esperienza di apprendimento, resero
 questo approccio un metodo esemplare.

  La maggior parte degli obiettivi delle università
open, ad esempio il rendere democratico l’appren-
dimento e il raggiungere gruppi di persone esclu-
se, sono riemersi poi con l’arrivo dei MOOC (Koller
2012). Da notare che non c’è nessuna enfasi parti-
colare sull’accesso gratuito in questa interpretazio-
ne. L’istruzione doveva essere pagata dai governi, e
le università open erano alleate di qualsiasi forma
di più ampia partecipazione essi volessero adottare.
L’accento era posto spesso su un’istruzione econo-
micamente accessibile, ma prima di internet le altre
forme di openness erano viste come più rilevanti. È
stato infatti con il concetto di open source che “open”
e “gratuito” hanno iniziato ad essere usati insieme.

   Open Source e free software
  Nel 1970 Richard Stallman, uno scienziato infor-
matico al MIT, si rese conto di quanto poteva esse-
re limitante il controllo che la sua istituzione aveva
sui sistemi informatici e fece di questa sua frustra-
zione una campagna per i diritti associati al softwa-
re che durò tutta la vita. Nel 1983 iniziò il progetto
GNU, nato con l’obiettivo di sviluppare un siste-
ma di software operativo rivale a Unix che avrebbe
permesso agli utenti di adattarlo come meglio cre-
devano. Il codice sorgente di GNU fu rilasciato in
modalità open, in contrasto con la pratica standard
per la quale si rilasciava solo un codice compilato


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                    che tipo di openness

a cui gli utenti non avevano accesso e che non po-
teva essere modificato. Stallman intuì con anticipo
che le licenze erano la chiave per il successo di un
progetto e promosse l’approccio copyleft (in oppo-
sizione al copyright) per apportare modifiche dopo
aver riconosciuto il lavoro originale (Williams 2002).
Come vedremo, questo approccio e la licenza GNU
hanno avuto una connessione diretta con il movi-
mento della open education. Stallman sosteneva
che il software doveva essere libero così da poter es-
sere usato per altri scopi, e fondò la Free Software
Foundation nel 1985, prendendo una chiara posizio-
ne ideologica sulla libertà. Come dichiara l’organiz-
zazione GNU: “gli utenti (sia individui che gruppi)
controllano il programma e cosa può fare per loro.
Quando gli utenti non possono controllare un pro-
gramma, allora il programma controlla loro”4. Ci
sono quattro libertà di base promosse dal movimento
free software, che riecheggiano le 4R di Reuse e più
tardi le licenze nell’istruzione.
  Un programma per elaboratore è free softwa-
re se gli utenti hanno le seguenti quattro libertà
fondamentali:
• Libertà di eseguire il programma come si desidera,
  per qualsiasi scopo (libertà 0).
• Libertà di studiare come funziona il programma e
  di modificarlo in modo da adattarlo alle proprie ne-
  cessità (libertà 1). L’accesso al codice sorgente ne è
  un prerequisito.
• Libertà di ridistribuire copie in modo da aiutare gli
  altri (libertà 2).
• Libertà di migliorare il programma e distribuirne
  pubblicamente i miglioramenti da voi apportati (e le
4   Cfr. http://www.gnu.org/philosophy/free-sw.html.

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                     la battaglia per l’open

    vostre versioni modificate in genere), in modo tale
    che tutta la comunità ne tragga beneficio (libertà 3).
    L’accesso al codice sorgente ne è un prerequisito.5

  Da notare che queste libertà riguardano il control-
lo, non i costi. Certo Stallman è abbastanza chiaro
sul fatto che ciò non preclude utilizzi commerciali e
che sia legittimo comprare software “free”. La frase
citata spesso è “libertà nel senso di libertà di parola
non di birra gratis” (“freedom as in speech not as in
beer”), ma questa confusione tra i due tipi di libertà
viene sollevata spesso per quanto riguarda l’istruzio-
ne open.
  Legato al movimento free software c’era il mo-
vimento open source software, spesso uniti sot-
to l’unica definizione di FLOSS (Free/Libre Open
Source Software). Il movimento open source fa co-
munemente capo a Eric Raymond, il cui saggio The
Cathedral and the Bazaar (2001) ne ha gettato le basi.
Il movimento open source, seppure con principi te-
orici forti, può essere considerato un approccio più
pragmatico. Raymond amava il fatto che lo sviluppo
del software non fosse competitivo (per cui si pote-
va condividere tenendone una copia) e che il codice
poteva essere sviluppato da una comunità di svilup-
patori che spesso lavoravano per piacere e non per
denaro. Il principio cardine dietro l’open source è che
produrre software open è più efficiente. Il mantra co-
niato da Raymond è “con un numero sufficiente di
occhi tutti i bug vengono a galla” (“given enough eye-
balls, all bugs are shallow”), quindi facendo in modo
che il codice fosse aperto, il software era migliore. La

5    La traduzione delle quattro libertà è tratta da https://www.gnu.
     org/philosophy/free-sw.it.html.

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                  che tipo di openness

Free Software Foundation ha distinto chiaramente il
free software dall’open source in questo modo:

 I due termini descrivono quasi la stessa categoria di
 software ma rappresentano valori fondamentalmente
 diversi. L’open source è una metodologia di sviluppo
 mentre il free software è un movimento sociale. Per il
 movimento free software avere il software aperto è un
 imperativo etico, nel rispetto della libertà degli utenti.
 Al contrario la filosofia dell’open source considera il
 problema dal punto di vista del miglioramento tecnico
 del software (Stallman 2012).

  Lo stesso Raymond evidenzia la particolare natura
dell’open source dichiarando che “per me non è una
faccenda morale o legale, è un problema ingegneri-
stico. Io sto per l’open source perché, molto concreta-
mente, ritengo che porti a migliori risultati dal punto
di vista tecnico ed economico” (Raymond 2002). Per
chi non è sviluppatore questa distinzione può sem-
brare pedante o ottusa, dato che spesso i due termini
sono uniti e ovviamente chi sostiene l’open source
è anche un sostenitore della libertà. Tuttavia vale la
pena di notare la differenza in quanto ha risonanza
nelle motivazioni della open education. L’openness
nell’istruzione può essere vista come un approccio
pratico: per esempio, il movimento learning object dei
primi anni 2000 ha spesso usato l’argomentazione
dell’efficienza, come vedremo nel prossimo capitolo.
Ma anche il tema “sociale” è centrale nella open edu-
cation, cioè il mettere a disposizione di tutti i risultati
di una ricerca finanziata con fondi pubblici, piuttosto
che in database privati.



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                 la battaglia per l’open

   I movimenti free software e open source possono
essere visti come gli elementi che creano un contesto
nel quale la open education può fiorire, in parte per
analogia, in parte stabilendo un precedente. Ma c’è
anche un collegamento molto diretto. David Wiley
(2008) ricorda che nel 1998 si interessò allo sviluppo
di una open licence per contenuto didattico e contat-
tò sia Stallman che Raymond direttamente. Ne risul-
tò la licenza open content che lui stesso sviluppò con
gli editori per arrivare alla Open Publication Licence
(OPL). Questa licenza aveva due varianti: il tipo A che
proibiva la distribuzione di versioni modificate sen-
za il permesso dell’autore; e il tipo B che proibiva la
distribuzione del libro stampato per fini commercia-
li. Come lo stesso Wiley commenta, la convenzione
terminologica non era stata di aiuto, in quanto non
indicava a cosa si riferiva la licenza e le etichette non
dicevano quale delle due era stata selezionata. Ma fu
adottata dalla compagnia operante nel settore dei me-
dia O’Reilly e divenne precursore di una licenza più
ampiamente adottata.
   La OPL è risultata essere una delle componenti
chiave, assieme alla licenza GNU della Free Software
Foundation, per lo sviluppo delle licenze Creative
Commons di Larry Lessig e altri nel 2002 (Geere
2011). Queste hanno affrontato alcune problematiche
relative alle licenze open content e sono diventate es-
senziali per la open education. Le semplici licenze
di Creative Commons (CC) permettono agli utenti di
condividere facilmente risorse e non sono limitate al
codice software. Il licenziante può decidere le condi-
zioni sotto le quali possono essere usate le sue ope-
re – quella di default è che si riconosca sempre l’au-
tore (CC-BY), ma ci sono anche ulteriori restrizioni

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                      che tipo di openness

come il divieto di uso commerciale senza il permesso
dell’autore (CC-NC). Le licenze Creative Commons
sono più permissive che restrittive, consentono cioè
all’utente di fare quello che la licenza permette senza
dover chiedere i vari permessi. Non vietano altri usi,
come l’uso commerciale per una licenza CC-NC; di-
cono solo di contattare prima l’autore. Queste licenze
sono state un requisito molto pratico per il movimen-
to OER al fine di convincere le istituzioni e i singoli a
rilasciare contenuti in modo aperto, consapevoli del
fatto che la loro proprietà intellettuale sarebbe stata
protetta.6 La connessione diretta a Tim O’Reilly por-
ta dunque al prossimo sviluppo influente, dato che è
stato O’Reilly a coniare il termine “web 2.0”.

    Web 2.0
  Pur essendo una frase che è passata da un picco di
popolarità e ormai entrata a far parte della storia, il
fenomeno del web 2.0 di metà anni 2000 ha avuto

6   [Nota del traduttore] La traduzione di questo paragrafo sulle
    Creative Commons e sulla loro applicazione al mondo delle ri-
    sorse didattiche è stata mantenuta il più letterale possibile; tutta-
    via devo constatare che alcuni concetti potevano essere espressi
    meglio dall’autore. Ad esempio, il passaggio “non sono limita-
    te al codice software” è a mio avviso fuorviante poiché in real-
    tà Creative Commons ha sempre detto chiaramente che le sue
    licenze non dovrebbero essere utilizzate per il software poiché
    mancano di specifiche clausole che riguardano la disponibilità
    del codice sorgente. Le licenze CC nascono proprio per coprire
    tutte quelle forme di creatività che non erano già state coperte
    dalle licenza open source. Invece il passaggio “la licenza permette
    senza dover chiedere i vari permessi” sembra abbastanza tauto-
    logico; “licenza” deriva dal latino “licére” e indica sempre un atto
    autorizzativo; in altre parole, dove c’è una licenza c’è sempre un
    licenziante (titolare del copyright) che autorizza un licenziatario
    (utilizzatore dell’opera) a fare determinate attività.

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                 la battaglia per l’open

un impatto significativo sulla natura dell’openness
nel campo dell’istruzione. Il termine è stato usato
per identificare un crescente sviluppo nel modo in
cui le persone usavano il web. Non era proprio un
movimento ma piuttosto un modo per contraddistin-
guere la natura più interattiva e user-generated di un
numero di strumenti ed approcci.
  Nel 2005 Tim O’Reilly evidenziò otto principi del
web 2.0 che caratterizzavano il modo in cui gli stru-
menti si stavano evolvendo ed erano usati, compresi
siti come Wikipedia, Flickr e YouTube. Alcuni prin-
cipi risultarono essere più significativi di altri, e al-
cuni legati più agli sviluppatori che agli utenti, ma
riassumevano un modo di usare internet che si era
spostato da un modello broadcast ad un modello più
colloquiale. Questo insieme di sviluppi si combinerà
più tardi con social media come Twitter e Facebook.
  Dal punto di vista della open education, il movi-
mento del web 2.0 è stato significativo per due ragio-
ni. Prima di tutto ha decentralizzato molto dell’enga-
gement con il web. Gli insegnanti non avevano più
bisogno di un’autorizzazione per creare siti web; po-
tevano creare un blog, aprire un account Twitter, ca-
ricare video su YouTube e condividere le loro presen-
tazioni su SlideShare in modo indipendente. Questo
ha contribuito a creare una cultura dell’openness tra
quegli insegnanti che adottavano questi approcci,
cosa che spesso portava a un coinvolgimento con la
open education in qualche forma. Lo vedremo più in
dettaglio nel capitolo 7 quando parleremo di identità
online. In secondo luogo, ha creato un contesto nel
quale open e free erano visti come caratteristiche di
default del materiale online. Gli utenti che siano stati
insegnanti, studenti, potenziali studenti o pubblico

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                  che tipo di openness

generico si aspettavano che il contenuto che trovava-
no online fosse liberamente accessibile.


Principi che si fondono
   Da questi tre principali filoni – università open,
open source e web 2.0 – derivano un certo numero di
principi che si fondono nell’attuale movimento open
education. Dalle università open abbiamo ereditato
i principi dell’Open Access e la rimozione di barrie-
re sull’istruzione, ristretti comunque alla particolare
interpretazione di open education e strettamente le-
gati a particolari politiche nazionali. Il software open
source ci ha portato i principi della libertà di utilizzo,
del reciproco beneficio che viene dal condividere le
risorse e ha gettato le basi per le licenze. Non si è an-
dati però molto al di là delle ristrette e specializzate
comunità di sviluppatori software. Infine, il web 2.0
ha creato il contesto culturale all’interno del quale
l’openness viene ampiamente riconosciuta e attesa.
Una lista di principi generali ereditati da questi tre
filoni potrebbe essere:
• libertà di riutilizzo
• Open Access
• gratuità
• facilità di utilizzo
• contenuto digitale in rete
• approcci social e community based
• argomenti etici a supporto dell’openness
• openness come modello efficiente

  Queste sono trasformazioni digitali, di rete; la na-
tura non competitiva del contenuto digitale e la facile

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                la battaglia per l’open

distribuzione del contenuto delle conversazioni onli-
ne, le mette tutte in evidenza. E mentre è possibile
immaginarle come un cluster di principi intercon-
nessi, si dovrebbero anche immaginare campi o clu-
ster di minore dimensione all’interno. Per esempio,
l’idea che il contenuto dovrebbe essere gratuito non
era inizialmente una preoccupazione dell’università
open o del movimento per l’open source software,
anche se il software open source è spesso gratuito. È
stato con lo sviluppo del web 2.0 che “free” è diventa-
to una prospettiva. Si potrebbero osservare poi che i
vari aspetti dell’openness nell’istruzione si allineano
con alcuni di questi principi, ma non con tutti. Per
esempio, i MOOC commerciali stanno adottando un
approccio di gratuità e di accesso aperto ma non ne-
cessariamente la libertà di riutilizzo.
   È proprio per questo miscuglio di principi che ho
preferito non dare una definizione univoca di open-
ness nell’ambito dell’istruzione superiore e che pro-
porrei invece che fosse vista come un mix di principi
che si sovrappongono.


Conclusioni
  L’openness nel settore dell’istruzione raccoglie
molti filoni e, a seconda della particolare accezione
di open education che si considera, alcuni di essi
prevalgono su altri. Questo rende problematico il
parlare della open education come di un movimento
o di un’entità chiaramente definiti, e l’adottare una
singola definizione è controproducente. Così come la
open education ha molti aspetti tra loro legati, come
l’Open Access, le OER, i MOOC e l’open scholarship,


                          66
                 che tipo di openness

allo stesso modo essa si definisce sovrapponendo di-
stinte influenze. In questo capitolo si sono proposte
tre di queste influenze – e cioè l’università open, l’o-
pen source e il web 2.0 – ma ce ne potrebbero essere
altre, ad esempio prendendo una prospettiva socio-e-
conomica: alcuni hanno trovato elementi di neo-li-
berismo nella popolarità dei MOOC (Hall 2013). Ma
non è nelle intenzioni di questo libro esplorare questi
aspetti, anche se un’analisi di questo genere riguardo
alla open education sarebbe molto interessante.
   Dopo aver osservato le possibili motivazioni per
l’approccio open, e i fattori di influenza che hanno
portato alla sua forma attuale, i differenti aspetti
dell’openness nell’istruzione possono ora essere ora
presi in considerazione. Il primo di questi è forse il
più venerando, cioè la pubblicazione in Open Access,
ed è il tema del prossimo capitolo.




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 CAPITOLO 3

La pubblicazione in Open Access

                    Bisogna essere preparati a combattere
                    per i propri semplici piaceri e pronti a
                    difenderli contro l’eleganza, la saccente-
                    ria e tutte le tendenze glamour.
                                               Amor Towles


Introduzione
  Nel capitolo 1 si diceva che abbiamo assistito alla
transizione dell’openness da un interesse periferico
ad un approccio mainstream nel campo dell’istruzio-
ne superiore. Questa transizione ha portato con sé
un certo numero di tensioni e problemi, come si è vi-
sto dall’analogia con le rivoluzioni e con il movimen-
to green. Dopo aver analizzato il concetto di open-
ness più in dettaglio nel precedente capitolo, i pros-
simi cinque vanno dunque al centro dell’argomento.
Ciascun capitolo prenderà in esame un aspetto della
open education ed entrerà nel dettaglio di come ha
avuto successo e di quali siano le sue maggiori sfi-
de. E comincia in questo capitolo con un elemento di
grande successo nell’ambito della open education, e
cioè la pubblicazione in Open Access.
  Nella battaglia per l’open la pubblicazione in Open
Access (OA) è probabilmente quella con la storia
più lunga. Vale la pena di dare un’occhiata ai pro-
blemi che stanno nascendo in questo campo prima
                 la battaglia per l’open

di considerare altri aspetti, dal momento che mo-
strano al meglio le caratteristiche della battaglia ac-
cennate nel capitolo 1. Ad esempio c’è un considere-
vole giro di denaro in questo settore. Reed Elsevier
ha parlato di guadagni che hanno superato i sei mi-
liardi di sterline nel 2012, dei quali più di due mi-
liardi sono stati usati per pubblicazioni scientifiche,
tecniche o mediche. È un’area in cui l’openness ha
“vinto”, e di gran lunga, con richieste vincolanti da
parte di finanziatori della ricerca, di governi e di
istituzioni che rendono l’Open Access obbligato-
rio. Eppure nel momento della vittoria i sostenitori
dell’Open Access sono contestati e messi in dubbio.
La Gold road mette le riviste accademiche in Open
Access in modo che qualsiasi lettore possa avere ac-
cesso al contenuto gratuitamente. Il focus di questa
scelta è usare le riviste come mezzo per condividere
contenuti. Ci sono molti modi in cui queste possono
essere finanziate, per esempio da università o società
professionali, se invece si tratta di una rivista pubbli-
cata da una casa editrice, allora il percorso general-
mente scelto è l’Article Process Charges (APC) in cui
l’autore (o il finanziatore della ricerca) paga una quo-
ta per rendere l’articolo open. La Gold road è l’indi-
cazione favorita in molti casi, ma con APC potrebbe
finire per costare di più sia in termini economici che
di opportunità, come vedremo in seguito. La trappola
Open Access pubblicata su Science (Bohannon 2013)
dove articoli evidentemente deboli e falsi furono ac-
cettati da 157 riviste OA, dimostrò che questo modello
“pay-to-publish” poteva creare tensione nei rapporti
con l’editore. Fu però illuminante nell’ambito della
battaglia per l’open per due motivi: in primo luogo di-
mostrò di nuovo come il termine “openness” avesse

                           70
            la pubblicazione in open access

un mercato e come riviste di dubbia provenienza si
fossero messe in gioco offrendo pubblicazioni Open
Access; in secondo luogo i decisori (molti dei quali
pubblicarono l’articolo) potrebbero non essere inte-
ressati al successo dell’OA. Se l’Open Access è perce-
pito infatti come di bassa qualità, ciò va a rinforzare
il loro mercato e l’esistente sistema di abbonamenti
ai loro archivi. Questo dimostra il pericolo di lasciare
che interessi commerciali influiscano sulla direzione
dell’openness. Ma prima diamo un’occhiata a come
la pubblicazione in Open Access ha avuto così tanto
successo.


Il successo dell’Open Access
  La pubblicazione in Open Access come abbiamo
visto iniziò nel 1990 prendendo ispirazione dalle co-
munità open source e osservando che il contenuto
digitale e in rete aveva cambiato la natura della divul-
gazione. Open Access è generalmente interpretato
con il significato di “accesso online e gratuito a la-
vori accademici”, anche se la Budapest Open Access
Initiative (2002) ne dà una definizione più precisa,
che comprende il significato di free access non solo
in termini di costo, ma anche di accesso libero dai
limiti di copyright:

 Per “accesso aperto” a tale letteratura intendiamo la
 sua disponibilità pubblica e gratuita in Internet, e la
 possibilità per ogni utente di leggere, scaricare, co-
 piare, diffondere, stampare, cercare, o linkare al testo
 completo degli articoli, di analizzarli e indicizzarli, di
 trasferirne i dati in un software, o usarli per ogni al-
 tro utilizzo legale, senza ulteriori barriere (legali, tec-

                             71
                     la battaglia per l’open

    niche o finanziarie) se non quelle relative all’accesso
    a Internet. L’unico vincolo riguardo la riproduzione
    e la distribuzione, e l’unica funzione del copyright in
    questo ambito, dovrebbe essere la tutela dell’integrità
    del lavoro degli autori e il diritto di essere debitamente
    riconosciuti e citati.1

  Questo ricorda la distinzione tra free cost e free reuse
(gratuito e riutilizzabile liberamente) che fa Stallman
riguardo al software. Anche se la definizione di Open
Access non è controversa come altri termini che
incontreremo, il percorso lo è. Ci sono due metodi
principali che consentono l’Open Access:
• La Gold road, secondo cui sono gli editori a mettere
  la rivista (o l’articolo) in Open Access. Per le case
  editrici i guadagni che di norma venivano presi dal
  modello privato di iscrizione all’archivio devono
  essere recuperati, e questo può avvenire con l’ap-
  plicazione dell’APC. Uno studio su 1.370 periodici
  pubblicati nel 2010 ha parlato di un range tra gli 8
  e 3.900 dollari con un APC medio di 906 dollari
  (Solomon&Bjork 2012). La Gold road comunque
  non richiede un APC, è solo un modello per ren-
  derla fattibile.
• La green road, in cui l’autore archivia lui stesso una
  copia dell’articolo sia sul proprio sito sia su un ar-
  chivio istituzionale.

  Con la scelta della Green road l’enfasi è posta sulla
rivista, mentre con la scelta Green sugli archivi onli-
ne. A queste si aggiunge poi una terza opzione, chia-
1     Nota del traduttore] Per questo paragrafo è stata ripresa la
      versione italiana della Budapest Open Access Initiative che si
      trova al sito https://www.budapestopenaccessinitiative.org/
      translations/italian-translation.

                                 72
            la pubblicazione in open access

mata Platinum, in cui il giornale non applica nessun
APC e pubblica in Open Access, ma questa può es-
sere vista come una variante della Gold road. Riviste
di questo tipo sono di solito gestite da società o uni-
versità per le quali la rendita finanziaria è di minore
importanza rispetto alla diffusione.
   In realtà le cose stanno in modo un po’ più comples-
so. Per quanto riguarda la Green road, ciò che è “gre-
en” può variare. Molti editori metteranno un embargo
per un determinato periodo, decidendo che un articolo
non può essere archiviato autonomamente prima di un
certo lasso di tempo, che può variare dai 6 ai 18 mesi.
Nelle sue policy Open Access l’Office of Science and
Technology Policy americano (OSTP) ha un embargo di
12 mesi (Holdren 2013), mentre Science Europe (2013)
chiede solo 6 mesi. La Gold road può essere usata in
modo ibrido, per cui in una rivista alcuni articoli sono
Open Access ma non tutti. In questo caso gli editori
ancora applicano una tariffa per l’abbonamento alla ri-
vista, anche se può essere ridotta, e ricevono un APC
per i singoli articoli. Può essere visto come un model-
lo di transizione all’Open Access, ma alcuni ritengono
che sia solo un modo per guadagnare due volte dalla
stessa rivista (Harnard 2012). Science Europe prende
una posizione molto chiara contro il modello ibrido,
dichiarando che “come è attualmente strutturato e im-
plementato dagli editori non è un percorso fattibile e
che può funzionare per l’Open Access. Tutti i modelli
di transizione all’Open Access sostenuti dalla Science
Europe Member Organisation infatti devono essere
contrari al ‘doppio gioco’ e aumentare la trasparenza sui
costi”. Per quanto riguarda i diritti, è ancora possibile
fare in modo che un articolo sia disponibile in moda-
lità open, ma le definizioni di Open Access sottoline-

                           73
                     la battaglia per l’open

ano il fatto che il riutilizzo è fondamentale, quindi l’u-
so delle licenze Creative Commons2 diventa la norma.
La diffusione dell’Open Access ha avuto grande succes-
so. Laakso e altri (2011) hanno tracciato la crescita delle
riviste OA e degli articoli dal 1990 come mostrato nella
Figura 1.
   Allo stesso modo il progetto ROARMAP (Registry
of Open Access Repositories Mandatory Archiving
Policies) della University of Southampton mostra i nu-
meri delle politiche Open Access a livello istituzionale,
a livello di finanziatori e a livello teorico. Il modello
qui è un po’ in ritardo rispetto a quanto visto con le
riviste OA, dato che le politiche sono entrate in vigore
solo quando l’OA è diventato una pratica consolidata,
ma mostrano lo stesso un trend di sostanziale crescita
dal 2003 al 2013 (Figura 2). Entrambi i trend sembra-
no andare in una direzione precisa, e non c’è nessuna
ragione per supporre che rimarranno stabili o scen-
deranno. Un recente studio di Wiley ha scoperto che
il 59% degli autori ha pubblicato su riviste OA, la pri-
ma volta cioè che la proporzione ha superato la metà
(Warne 2013). Le pubblicazioni in Open Access non
sono più una questione di nicchia, riservata a coloro
che ne hanno una particolare attrazione. È diventata
2   [Nota del traduttore] A ben vedere non tutte le sei licenze
    Creative Commons sono conformi alla più accreditata defini-
    zione di Open Access, cioè quella fornita nella Dichiarazione di
    Berlino del 2003. Rimangono infatti escluse le licenze vietano
    gli utilizzi commerciali (clausola Non Commercial) e quelle che
    vietano le attività di modifica e di realizzazione di opere derivate
    (No Derivatives). Per approfondimenti si legga il testo integrale
    del documento: https://it.wikisource.org/wiki/Dichiarazione_
    di_Berlino; per un commentro al testo rimando a quanto da
    me scritto nel libro “Fare Open Access. La libera diffusione del
    sapere scientifico nell’era digitale” (Ledizioni, 2017) disponibile
    qui https://aliprandi.org/books/fare-openaccess/.

                                  74
           la pubblicazione in open access

una pratica mainstream. E questo è in linea con quan-
to discusso nel capitolo 1.




                         75
la battaglia per l’open




                                                                            76
                          Figura 2. Adozione di politiche open access
                          Fonte: ROARMAP. Pubblicata sotto licenza CC-BY.
            la pubblicazione in open access

   Prima di esaminare i problemi che in questo mo-
mento affliggono l’OA, vale la pena di considerare le
ragioni di una così ampia diffusione. Gli argomen-
ti a favore dell’Open Access rientrano in generale in
due campi, che riflettono quelli dei movimenti free e
open source – e cioè che l’Open Access è un efficiente
modo di operare ed ha una forte base etica.
   Può essere considerato efficace dalla prospettiva di
un autore che vuole che il suo lavoro sia letto e citato
da più persone possibili. Potrebbe sembrare logico in-
fatti che articoli pubblicati senza nessuna restrizione
di accesso ricevano più attenzione di quelli in databa-
se privati, ai quali si deve accedere attraverso biblio-
teche (o acquistati con una logica di singolo articolo).
Dall’influenza del web 2.0 sulla open education sap-
piamo che ci si aspetta un contenuto gratuito, e quindi
i lettori che trovano un articolo che richiede un paga-
mento semplicemente vanno a cercare altro. Anche i
social media possono essere visti come modi per met-
tere pressione Open Access sugli articoli. Per condivi-
dere le risorse in modo efficace su Twitter o con altri
mezzi infatti, l’articolo deve essere già disponibile in
modalità open. Serve a poco condividere un link ad un
articolo interessante se questo richiede un pagamento
di 50 dollari per leggerlo. Anche se la maggior parte
dei lettori sono accademici, le istituzioni che li ospi-
tano potrebbero non avere sempre l’accesso a quella
particolare rivista. Dal 2001 (Lawrence 2001) ci sono
state crescenti prove del fatto che articoli disponibili
in modalità open hanno più download e citazioni di
quelli in database privati, come Gargouri e altri (2010)
riassumono: “Questo ‘vantaggio dell’impatto OA’ si
ritrova in tutti i campi analizzati fino ad ora – fisico,
tecnologico, biologico, di scienze sociali e umanistico”.

                           77
                     la battaglia per l’open

L’Open Citation Project (2013) ha un’ampia bibliogra-
fia di studi che dimostrano questo effetto. Alcuni studi
riportano che le citazioni non sono aumentate3 ma il
numero di download sì, a volte di percentuali sostan-
ziali, per esempio Davis e altri (2008) parlano di un
aumento dell’89% di download di testi completi per
articoli in Open Access.
   Nell’esaminare le motivazioni per cui gli accademi-
ci pubblicano su giornali peer reviewed, Hemming
e altri (2006) suggeriscono tre categorie di fattori:
incentivo, pressione e supporto. L’incentivo è il più
saliente e può prendere forme intrinseche come la
condivisione di risultati, e forme estrinseche come
l’aumento di possibilità di promozione. Dato che gli
universitari sono di rado pagati per i loro contributi,
il vantaggio dell’impatto Open Access sta nella mo-
tivazione a cercare stimoli – anche se il principale
obiettivo è quello di aumentare l’interesse nell’area
o di migliorare un profilo individuale, quindi incre-
mentare il numero di download e citazioni di un arti-
colo facilmente andrà a beneficio di tutto ciò. Questa
tendenza è solo contrastata dal prestigio che viene dal
pubblicare su certe riviste, che siano esse open o no.


3    [Nota del traduttore] La situazione potrebbe già essere cambia-
    ta e secondo studi più recenti anche il numero delle citazioni
    pare essere aumentato. A tal proposito rimando all’apposita
    pagina dell’Open Citation Project: http://opcit.eprints.org/oa-
    citation-biblio.html. Inoltre, dal momento che il focus è stato
    spostato dalla pubblicazioni scientifiche ai dataset con i dati del-
    le ricerche, vari studi hanno mostrato come la disponibilità dei
    relativi dati incrementa le citazioni di un articolo o di un report
    (a tal proposito si veda “The effect of open access and downlo-
    ads (‘hits’) on citation impact: a bibliography of studies” dispo-
    nibile qui https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/
    journal.pone.0230416).

                                  78
            la pubblicazione in open access

  La pubblicazione in Open Access opera come mo-
dello efficiente e pragmatico per divulgare i risultati
della ricerca, che è uno degli scopi principali delle
pubblicazioni universitarie, e ha anche una forte ar-
gomentazione etica, o ideologica, a suo supporto, dato
che molti fondi per gli studi che vengono pubblicati
sulle riviste provengono da risorse pubbliche. Questo
va a formare il principio cardine della maggior parte
delle policy Open Access: per esempio la Wellcome
Trust (senza data), un’organizzazione benefica che
finanzia la ricerca medica, dichiara: “crediamo che
massimizzare la diffusione di queste ricerche – ga-
rantendone l’accesso gratuito, libero e online – sia il
modo migliore per assicurarsi che l’analisi che noi
finanziamo sia accessibile, letta e sviluppata”.
  La policy dell’americana OSTP (Holdren 2013) dice
che “i risultati diretti della ricerca scientifica suppor-
tata da fondi federali sono messi a disposizione di
pubblico, aziende e comunità scientifica”. Qui c’è un
dibattito molto acceso e cioè che se il pubblico paga
per la ricerca allora deve averne accesso. C’è anche un
ulteriore argomentazione che sostiene che la ricerca
progredisce solo con la condivisione tra il maggior
numero di persone possibili, e che l’accesso ad essa
(non importa chi sia il finanziatore) dovrebbe essere
praticabile. Mike Taylor (2013a) lo dice senza mezzi
termini: “Pubblicare la scienza dietro compenso è
immorale”. La combinazione di questi dibattiti prati-
ci ed etici ha reso difficile giustificare o mantenere le
pratiche esistenti che traggono profitti dalle pubbli-
cazioni accademiche. Come vedremo con altri aspetti
dell’openness, il dibattito diventa affascinante. È dove
la battaglia per l’openness ha inizio, come vedremo.



                           79
                  la battaglia per l’open

Il report Finch
  Il report Finch è il risultato di un gruppo di lavo-
ro guidato da Dame Janet Finch che il governo bri-
tannico ha messo insieme con il compito di stilare
una lista di raccomandazioni sull’uso dell’open pu-
blishing. Il gruppo pubblicò la relazione nel luglio
2012, consigliando una transizione ad un ambiente
Open Access e scegliendo la Gold road per la pub-
blicazione (Finch Group 2012). Le raccomandazio-
ni del report vennero accettate dal governo britan-
nico, anche se in un secondo momento fu avviata
una breve inchiesta per esaminarne alcuni dettagli
attuativi. Fu messo a disposizione un finanziamen-
to di 10 milioni di sterline per aiutare le universi-
tà nella transizione alla Gold road in Open Access.
Anche se è focalizzato sul Regno Unito, il report
Finch rappresenta un microcosmo che compren-
de alcune delle questioni in materia di open educa-
tion, perciò vale la pena di analizzarlo nel dettaglio,
in quanto è uno schema che ritorna. Ad una prima
occhiata sembra un successo straordinario per i so-
stenitori dell’Open Access: non solamente le racco-
mandazioni sono a favore dell’accesso aperto, ma il
Governo lo ha accettato e ha fatto in modo che ci fos-
sero fondi per sostenerlo. Un’analisi più approfondi-
ta della relazione e della sua attuazione però solleva
una serie di preoccupazioni.
  Il primo problema riguarda la cautela insita nel
progetto. Il report riconosce che alcuni archivi come
arXiv (l’archivio di bozze definitive dei fisici) hanno
avuto successo ma conclude che non sono di per sé
un modello fattibile, dichiarando:



                            80
            la pubblicazione in open access

 c’è una diffusa presa di coscienza che gli archivi di per
 sè non costituiscano una valida base per un sistema
 di comunicazione della ricerca che voglia dare accesso
 ad un contenuto di qualità garantita, poiché non for-
 niscono nessuno strumento per una peer review delle
 bozze. Anzi si rifanno ad un’offerta di materiale pub-
 blicato che è stato oggetto di una peer review da parte
 di altri; o in alcuni casi forniscono strumenti che per-
 mettono commenti o giudizi da parte dei lettori che
 diventano un sistema più informale di peer review una
 volta che il materiale è stato depositato e disseminato
 attraverso l’archivio stesso.

   Comunque, questa è una dichiarazione della posi-
zione corrente. Se si sta proponendo un’iniziativa a
livello nazionale, allora un archivio (o una collezio-
ne di archivi) può davvero essere un approccio fat-
tibile. La raccomandazione di passare ad un Open
Access con la Gold road significa che il contribuente
finanzierà efficacemente gli editori, dato che il dena-
ro arriverà dagli enti di ricerca. Considerando questi
soldi come un possibile esborso da mettere sull’O-
pen Access, allora potrebbero essere allocati in modo
utile su un arXiv interdisciplinare e nazionale. Il di-
fensore del Green OA Harnad (2012) sostiene invece
che il Green OA è gratuito e che il Gold OA proposto
nel report Finch costerebbe 50-60 milioni di sterline
all’anno per la sua implementazione, e critica Finch
per non sostenere il modello alternativo.
   Il secondo problema è la mancanza di obblighi che
il report impone agli editori. Il report suggerisce che
sarebbe bene che gli editori linkassero ai dati delle
pubblicazioni, ma non lo esige:




                            81
                  la battaglia per l’open

 In un mondo ideale ci dovrebbe essere una maggiore
 integrazione tra il testo e i dati presentati negli articoli
 di giornale, con link diretti ai dataset; una conseguente
 diminuzione del materiale di supporto; e collegamenti
 bidirezionali, con interactive viewers, tra pubblicazio-
 ni e dati rilevanti contenuti negli archivi. La disponi-
 bilità e l’accesso a pubblicazioni e ai relativi dati allora
 diventa davvero integrata, in un sistema che si arric-
 chisce reciprocamente.

   Il report potrebbe consigliare di finanziare le uni-
versità per pubblicare direttamente riviste in OA
(come diremo in seguito), nei quali l’autore avrebbe
il pacchetto “base” al quale gli editori potrebbero ag-
giungere valore. Senza imporre quanto richiesto dal-
la Gold road o un contributo ragionevole da versare,
si crea una situazione finanziaria che potrebbe risul-
tare peggio del modello corrente per le università e
per i finanziatori.
   Il report Finch ha poi un ulteriore problema, cioè
la troppa influenza degli editori nel decidere le linee
guida da seguire. Mantenere la sopravvivenza econo-
mica dell’industria delle pubblicazioni accademiche
così com’è nella sua forma attuale sembra essere fon-
damentale. Per esempio, nel report si dice:

 si deve fare in modo che gli editori (sia che operino nel
 settore commerciale che nel no-profit) possano soste-
 nere i costi della peer review, della produzione e del
 marketing, così come alti standard di presentazione,
 ricerca e navigazione, così come collegamenti e arric-
 chimento dei testi (“semantic publishing”) che i ricer-
 catori e gli altri lettori si aspettano sempre di più. Gli
 editori hanno anche bisogno di generare un surplus
 da poter reinvestire nell’innovazione e in nuovi servizi,
 per distribuire gli utili agli azionisti etc...

                             82
            la pubblicazione in open access

  Generare un profitto per editori e azionisti dovreb-
be essere un effetto secondario rispetto a quello di
offrire un servizio utile, non l’obiettivo principale.
L’obiettivo è quello di una divulgazione efficace della
ricerca.
  Il pericolo di questa tendenza è che crea un modello
che è economicamente impraticabile, in cui la mag-
gior parte del denaro va agli azionisti o è usato per cre-
are sistemi che mirano ad ottenere un vantaggio nella
concorrenza. E nessuno di questi ha a che vedere con
la divulgazione della ricerca. Un report di Deutsche
Bank (citato in McGuidan e Russel 2008) dice:

 Crediamo che l’editore aggiunga ben poco valore al
 processo di pubblicazione. E non stiamo cercando di
 sminuire ciò che 7000 persone fanno ogni giorno
 nelle case editrici per vivere. Stiamo semplicemente
 osservando che se il processo fosse davvero così com-
 plesso e caro e se aggiungesse il valore che dicono gli
 editori, probabilmente un 40% di margine non sareb-
 be possibile.

  La conclusione del report Finch (e il suo successivo
aggiornamento che sostanzialmente non la cambia)
non fa riferimento a questo problema e certo può
peggiorare le cose. Perde anche un’opportunità di
pensare a metodi più radicali attraverso i quali otte-
nere una buona divulgazione della ricerca, perché si
assume la stabilità dell’attuale approccio.


La Gold road
  Una delle critiche fatte a Finch è il suo appoggio
alla Gold road per quanto riguarda l’open publishing.

                           83
                 la battaglia per l’open

Come accennato in precedenza, i sostenitori della
Green road pensano che sia più sicura e meno cara.
Tuttavia, la Gold road non è sbagliata di per sé; è più
una questione di quale modello economico si adotti e
quale costi e libertà esso offra. Così com’è il dibattito
sulla Gold road fornisce un esempio dei dettagli più
sottili che riguardano l’openness, che si intravedono
solo nel momento in cui l’iniziale approccio open è
stato accettato. Una ragione di questa agitazione sul
Gold OA è che si tratta di un metodo messo a pun-
to dagli editori invece che dagli universitari, cosa che
può avere numerose conseguenze involontarie.
  Ironicamente l’openness può portare all’elitarismo:
se un autore infatti ha bisogno di pagare per pubbli-
care, specialmente in tempi di ristrettezze, questo
diventa inevitabilmente un lusso. I giovani ricerca-
tori o le università di minori dimensioni potrebbe-
ro poi non avere questi fondi a disposizione. Molte
case editrici hanno inserito esenzioni per i giovani
ricercatori: PLoS per esempio ha una liberatoria “no
question asked” e non fa pagare i paesi in via di svi-
luppo. Tuttavia non c’è nessuna garanzia a riguardo
e se il Gold OA finanziato da APC diventa la norma,
allora ci potrebbe essere un conflitto con gli editori
che puntano a massimizzare i profitti. Se ci sono suf-
ficienti clienti che pagano, allora non è nel loro inte-
resse accordare troppe esenzioni. Significa anche che
università più ricche possono inondare i giornali di
articoli e significa anche che quelle che hanno borse
di studio per la ricerca possono pubblicare, dato che è
da lì che arrivano i fondi, e chi invece non ne ha può
vedersi escluso. Questo incrementa la competizione
in un regime di finanziamenti alla ricerca già alta-
mente competitivo. L’Open Access può incrementare

                           84
             la pubblicazione in open access

l’”Effetto Matthew”, per cui lo stesso autore pubblica
più articoli (Anderson 2012). Sarebbe certo una stra-
na ironia se l’Open Access finisse per creare una elite
che si autoalimenta.
   Un altro possibile problema con il Gold OA finan-
ziato da APC è che può portare costi aggiuntivi. Una
volta che il costo di pubblicazione è caricato sui fi-
nanziamenti alla ricerca, allora l’autore non ha un in-
teresse legittimo a controllare il prezzo. Non c’è per-
ciò un forte interesse a tenere i costi bassi o a trovare
meccanismi alternativi; il costo della pubblicazione è
sulle spalle dei contribuenti (che sono quelli che alla
fine finanziano la ricerca) o degli studenti (se vengo-
no dalle finanze delle università). I profitti e i benefici
restano agli editori che vanno avanti come prima, for-
se anche con meno moderazione.
   La riserva finale che ho riguardo al Gold OA è che
come è comunemente interpretato non promuove il
cambiamento. In The Digital Scholar (2011) ho par-
lato di come un approccio digitale interconnesso e
aperto possa modificare la nostra interpretazione di
cosa costituisca ricerca e di come gran parte della no-
stra attuale percezione è stata dettata da forme di pro-
duzione già esistenti. Quindi per esempio possiamo
considerare una granularità di output minori rispetto
ai tradizionali articoli di 5000 battute; un maggiore
uso di revisioni a posteriori invece che ex-ante; e l’a-
dozione di diversi format mediatici che cominciano a
cambiare la nostra idea di cosa sia ricerca. Ma un mo-
dello Gold OA che rafforza il potere degli editori com-
merciali semplicemente mantiene uno status quo e
conserva l’articolo peer reviewed come il principale
obiettivo che la ricerca debba raggiungere.



                            85
                    la battaglia per l’open

  È ancora troppo presto per scoprire se qualcuno di
questi scenari avrà luogo, ma sono del tutto fattibili
e se si presentassero allora sarebbe difficile raffigu-
rare l’Open Access come qualsivoglia forma di vitto-
ria. Questo non significa necessariamente che biso-
gna seguire il punto di vista di Harnad per il quale il
Green OA è l’unico percorso corretto, anzi bisogne-
rebbe considerare il dibattito corrente sul Gold OA
come sintomatico di un rapporto con gli editori che
sta semplicemente cambiando.


Il rapporto con gli editori
  Nel 2008 la Cambridge University Press, la Oxford
University Press e Sage hanno intentato un’azione le-
gale contro la Georgia State University per aver usato
contenuti di loro proprietà non autorizzati su delle
“e-reserves” per gli studenti, sostenendo che questo
andava al di là del cosiddetto “fair use”4. Nel 2012
più di 14.000 studenti universitari si unirono nel
boicottaggio della casa editrice Elsevier per protestare
contro i suoi costi e pratiche “esorbitanti”, che vedeva-
no come limitativi di uno scambio libero del sapere
(Cost of Knowledge 2012). Nel 2013 Elsevier ha invia-
to a sua volta degli “avvisi di ritiro” nel social media
universitario Academica.edu chiedendo che le copie

4   [Nota del traduttore] L’espressione fair use solitamente non
    viene tradotta e viene mantenuta in lingua inglese poiché in-
    dividua un istituto giuridico tipico del diritto angloamericano.
    Letteralmente significa “uso corretto” o “uso leale” e indica quei
    casi in cui l’utilizzo di un’opera ancora tutelata da copyright
    viene ritenuto appunto corretto, non dannoso, e dunque libero
    anche senza l’obbligo di chiedere preventiva autorizzazione al
    titolare dei diritti.

                                 86
            la pubblicazione in open access

di articoli condivisi su profili accademici del sito ve-
nissero rimosse (Taylor 2013b).
  Comunque la si veda, questi eventi sono sintomati-
ci di un rapporto sempre più anomalo tra accademici
ed editori. Ma non è sempre andata così; quella che
era stata una relazione reciprocamente vantaggiosa
ha iniziato ad essere percepita come forma di sfrut-
tamento. Come ricordano Edwards e Shulenberger
(2002): «Dalla fine degli anni 60/inizio anni 70, que-
sto sistema di scambio di regali ha iniziato a creparsi.
Alcuni editori capirono che la ricerca prodotta a spe-
se pubbliche e concessa dagli autori stessi gratuita-
mente per la pubblicazione rappresentava una merce
commercializzabile».
  Perché successe? In parte la ragione fu il passaggio
al digitale. Nell’ultimo capitolo ho insistito sul fatto
che la natura digitale e di rete della open education
fosse fondamentale e il settore della pubblicazione
in Open Access dimostra perché è così importante.
In teoria le stesse restrizioni esistevano anche prima
per il modello stampato, ma quando gli accademici
non avevano nessun vero controllo sul canale di di-
stribuzione ciò non aveva nessuna conseguenza pra-
tica. Firmare dei moduli di copyright con gli editori
significava sacrificare i diritti o il merchandising di
un film, ma Hollywood di raro veniva a cercare gli
autori universitari, quindi non aveva nessun impatto
pratico. Gli autori erano liberi di distribuire fotocopie
su richiesta o di utilizzarle durante le loro ore di in-
segnamento. Date le barriere “naturali” alla distribu-
zione delle copie, ciò non aveva nessun impatto sugli
editori, così che autori ed editori potevano coesistere
in una relazione di reciproco beneficio. Ma appena il
contenuto è diventato digitale e si è potuto distribui-

                           87
                 la battaglia per l’open

re gratuitamente, allora la natura di questa relazione
cambiò e gli interessi di ciascuna delle due parti di-
vennero antagonistici. Ora l’autore vuole il diritto di
distribuire i suoi testi liberamente come prima, ma le
barriere per farlo sono state rimosse e il danno per gli
editori è più sostanziale.
   In ciascuno degli esempi di conflitto che ho fatto
all’inizio di questo paragrafo, è la natura digitale e di
rete dell’approccio alla pubblicazione la base della di-
sputa. Gli “avvisi di ritiro” inviati al sito di Academia.
eu da Elsevier offrono un esempio rivelatore di come
questo rapporto sia cambiato. Creare un profilo su
Academia.eu può essere visto da un accademico
come un modo per crearsi un’identità online (lo ve-
dremo più in dettaglio in seguito). Le pubblicazioni
accademiche costituiscono una parte fondamentale
di quella identità professionale e quindi in un conte-
sto digitale e in rete ha senso per un accademico usa-
re questo sito per costruire un hub centrale che inclu-
da l’accesso a tutte le sue pubblicazioni. Dal punto di
vista di Elsevier questo significa che Academia.edu si
comporta come un distributore non autorizzato dei
loro contenuti, che potenzialmente danneggia il loro
guadagno. Se consideriamo l’istituzione di una iden-
tità online come un elemento essenziale dell’essere
accademico (come spiego nel capitolo 7), allora que-
ste due istanze sono ora in conflitto in un modo in
cui non lo sono state in precedenza.
   Oltre ai conflitti con gli editori esistenti, l’Open
Access ha portato anche nuove figure chiamate “pre-
datori”. Queste riviste cercano spesso nuovi contribu-
ti, chiedono un alto APC e hanno standard accademi-
ci piuttosto bassi. Beall (2010) li descrive come segue:
“Lavorano mandando spamming alle mailing list di

                           88
            la pubblicazione in open access

studenti, con inviti a presentare ricerche e a partecipa-
re a falsi comitati di redazione… Inoltre di solito non
fanno peer review. Infatti, nella maggior parte dei casi
il loro processo di peer review è di facciata”. Sul suo
sito Scholarly Open Access (http://scholarlyoa.com)
Beall fornisce una lista di giornali predatori con an-
che i criteri per individuarli. Un’altra pratica che si è
fatta strada è quella del “journal hijacking”, in cui un
giornale vecchio ed esistente è usato per crearne una
falsa versione online per attirare finanziatori, usando
di nuovo il metodo Gold OA per ricavarne denaro.
In pratica con gli editori esistenti da una parte che
chiedono alte commissioni per concedere l’Open
Access, pur continuando con i modelli di abbona-
mento, e le riviste predatorie dall’altra che cercano
di sottrarre denaro agli autori, la sensazione per mol-
ti degli autori stessi è che l’Open Access non abbia
migliorato di molto la pratica della pubblicazione. Ci
ricorda la lezione che abbiamo imparato da altre vit-
torie, come abbiamo visto nel capitolo 1 – la vittoria
che non sa di vittoria. Non va sempre così comunque
e ci sono esempi anche di buone pratiche, come di
molte opportunità, che esploreremo in seguito.


Nuovi modelli di pubblicazione
  Un certo numero di editori ha cercato di ride-
finire (o ripristinare) la relazione con gli autori ac-
cademici su una base più collaborativa. Il model-
lo tradizionale di stampa prevedeva che parte del
contratto fosse sulla creazione di un prodotto. Nel
mondo digitale in cui i templates possono essere
facilmente usati per creare riviste online, il focus


                           89
                 la battaglia per l’open

si sposta dal prodotto ai servizi che l’editore offre.
Editori come PloS e Ubiquity offrono un Gold OA
ma a costo relativamente basso e con esenzioni per
coloro che non possono pagare. Questi editori usano
spesso software open source (rafforzando l’influenza
di questo dominio nella open education) come l’O-
pen Journal System (OJS) o Ambra. L’uso di questi
software su sistemi personalizzati sviluppati da edi-
tori commerciali offre considerevoli benefici finan-
ziari (Clarke 2007) e permettono anche l’accesso ad
una comunità di sviluppatori. Il contributo pagato a
questi editori va essenzialmente a coprire una serie di
servizi che includono il copyediting, l’amministrazio-
ne e la disseminazione (per esempio la registrazione
di riviste in un database). Questo permette alla uni-
versità di decidere in modo chiaro se il costo di questi
servizi sia ragionevole paragonato al pubblicarlo loro
stessi. Questo ci porta ad un secondo modello: quello
dell’editoria universitaria (university press).
  La university press fu istituita per distribuire libri e
riviste laddove l’interesse commerciale non era rite-
nuto abbastanza forte. La Oxford University per pri-
ma pubblicò nel 1478, poi la US Cambridge Press nel
1640. Givler (2002) dice che la motivazione per fonda-
re moderne university press è stata quella di “lasciare
la pubblicazione di ricerche accademiche altamente
specializzate alle dinamiche di un mercato commer-
ciale sarebbe stato in effetti una condanna a farle lan-
guire inosservate”. Ci fu dunque una crescita regolare
nelle stampe, con aperture annuali dal 1920 al 1970
(Givler, 2002). L’editoria universitaria superò bene l’i-
nizio del XXI secolo, quando l’aumentata concorrenza
da parte di editori commerciali mise a dura prova le
sue possibilità di sopravvivenza. Questa concorrenza

                           90
            la pubblicazione in open access

fu determinata in parte da significativi investimenti di
fondi speculativi che le resero difficile, con fondi limi-
tati, restare sul mercato. Fu presa infatti in una mano-
vra a tenaglia tra una diminuzione di supporto econo-
mico che doveva fare i conti con la crisi finanziaria e
un’aumentata concorrenza da parte degli editori com-
merciali con le loro attività (Greco e Wharton 2010).
  Una delle difficoltà economiche era che stampare e
distribuire riviste cartacee era un business estraneo
alle università. Erano necessari strumenti e coordina-
mento logistico che risultavano costosi da mantenere
e sempre più lontani dalle problematiche giornaliere
dell’università. Ma il passaggio quasi universale alle
riviste online e ai libri su richiesta (POD – print on
demand) ha visto un riallineamento con funzioni e
competenze universitarie. Le università gestiscono
siti web, che sono luoghi dove le persone cercano in-
formazioni. L’esperienza che il settore dell’istruzio-
ne superiore ha guadagnato attraverso le OER (tema
del prossimo capitolo), lo sviluppo del software e la
maintenance dei siti web ora si allineano con le com-
petenze che le università hanno sempre avuto nella
revisione, modifica, scrittura e gestione delle riviste.
Quindi ora può essere il momento giusto per la rina-
scita della university press come luogo che gestisce
una serie di riviste online in Open Access.
  Gestire riviste ad hoc all’interno delle università è
un processo inefficiente. Centralizzando invece le ri-
sorse per la maintenance e l’amministrazione di siti
web, un’università può supportare diversi giornali.
Gli altri ruoli principali sono quelli che gli accade-
mici avrebbero ricoperto in ogni caso gratuitamente
– rivedere, gestire ed editare la rivista, organizzarne
edizioni speciali etc...

                           91
                     la battaglia per l’open

   Le stesse università stanno pagando cifre considere-
voli agli editori attraverso le loro biblioteche; prenden-
do parte di questa spesa e riassegnandola a pubblica-
zioni interne, l’università potrebbe coprire questi co-
sti. Oltretutto l’università guadagna prestigio e ricono-
scimento per le sue riviste e l’esperienza e il controllo
sono mantenuti all’interno dell’ateneo. Se abbastanza
università lo fanno, cioè se pubblicano quattro o più
riviste, allora l’editoria universitaria può iniziare a co-
prire la gamma di competenze necessarie.
   È un processo che sta avvenendo in molte univer-
sità ma resta un approccio frammentario, spesso fat-
to nei ritagli di tempo tra un lavoro e l’altro. Basta
guardare le liste di riviste che utilizzano OJS per
constatare che l’approccio sta crescendo. Le univer-
sità possono esternalizzare le funzioni di back offi-
ce ad un editore come Ubiquity5 pur mantenendo
il controllo della funzione editoriale della rivista.
Frances Pinter di Knowledge Unlatched sta cercando
di creare un consorzio di biblioteche per finanziare la
creazione di pubblicazioni in Open Access6. Questo
modello adotta una visione globale e riflette sul fatto
che le biblioteche stanno acquistando da editori terzi
il materiale prodotto dagli accademici, quindi una ri-
definizione di questo approccio dovrebbe permettere
alle biblioteche stesse di riversare fondi direttamente
nella pubblicazione di contenuto sotto licenza Open
Access (che quindi nè loro nè altri hanno bisogno di
acquistare).

5    [Nota del traduttore] In Italia proprio la casa editrice che pubbli-
    ca la collana “I libri di Copyleft-Italia.it” (in cui è inserito questo
    libro), cioè Ledizioni di Milano, è specializzata in questo tipo di
    supporto.
6   Si veda http://www.knowledgeunlatched.org/about/how-it-works/.

                                   92
              la pubblicazione in open access

   Negli Stati Uniti in particolare c’è stato anche un mo-
vimento per creare Open Textbooks attraverso iniziati-
ve come OpenStax, il cui obiettivo è quello di fare libri
di testo in Open Access per temi chiave come la sta-
tistica, tagliando il costo considerevole per l’acquisto
che era a carico degli studenti universitari. I libri di te-
sto open si sovrappongono alla pratica OER, pertanto
li esamineremo più in dettaglio nel prossimo capitolo.
   Tutto questo non è per suggerire che uno di questi
approcci è quello “corretto” da seguire, ma piuttosto
per illustrare possibili modelli di pubblicazione in
Open Access. Ciò che tutti questi approcci hanno in co-
mune è che l’openness è un elemento chiave, non un
tentativo (spesso riluttante) di inserire l’Open Access
in pratiche esistenti turbandole il meno possibile.


Conclusioni
   L’intenzione di questo capitolo non era quella di
fornire un resoconto completo dei modelli di pubbli-
cazione, licenze ed economie Open Access, ma piut-
tosto di illustrare come l’Open Access mostri molte
delle caratteristiche chiave della battaglia per l’open.
La prima di queste caratteristiche è la considerevole
vittoria dell’approccio Open Access con la sua adozio-
ne obbligatoria in molti paesi, e con la sua popolarità
crescente tra gli accademici. La seconda è che que-
sti cambiamenti sono guidati dai principi generali di
openness che abbiamo visto nel precedente capito-
lo, come la libertà di riutilizzo di contenuti digitali
e in rete, le argomentazioni etiche per l’openness e
l’openness come modello efficiente.



                            93
                  la battaglia per l’open

   La terza caratteristica è il lato negativo di questa vit-
toria, con nuove aree di tensione e di conflitto, come
si è visto nei dibattiti sulla Gold OA road, negli em-
barghi per l’auto-archiviazione e con i predatori che
entrano nel mercato. Infine l’importanza del fatto
che gli accademici stessi siano coinvolti e gestiscano
in autonomia il processo è messa in evidenza dal mo-
dello possibile che le pratiche open offrono.
   Nel suo libro “What money can’t buy”, Sandel (2012)
esplora il crescente approccio consumistico della so-
cietà. Tra i suoi esempi quello di pagare mendicanti
per fare la coda al proprio posto, e un asilo che quan-
do ha iniziato a fare pagare una tariffa per i gruppi di
bambini che venivano ritirati in ritardo, ha scoperto
che i gruppi erano aumentati. I comportamenti che
erano un tempo governati da convenzioni sociali sono
diventati monetizzabili e possono essere acquistati.
Sandel avrebbe potuto aggiungere alla lista la natura
mutevole del rapporto con gli editori accademici. A
suo parere una volta che gli autori iniziano a pagare
direttamente gli editori per pubblicare, come è il caso
della Gold road, questo cambia radicalmente la natu-
ra del rapporto. La pubblicazione accademica è una
pratica che sta al centro dell’identità universitaria e
come tale questo fondamentale cambiamento nella
sua natura dimostra l’impatto dell’openness, e l’im-
portanza di impegnarsi nella sua direzione futura.
Se la pubblicazione Open Access è l’area più conso-
lidata della open education, allora le risorse didatti-
che open (OER) arrivano subito dopo e offrono uno
studio comparativo di un movimento che è in larga
misura appartiene alle università stesse. Questo sarà
il focus del prossimo capitolo.



                            94
 CAPITOLO 4

Le Open Educational Resources

                     Per comprendere il mondo a volte ci
                     si potrebbe concentrare su una piccola
                     parte di esso.
                                             Donna Tartt


Introduzione
  Dopo aver parlato della pubblicazione in Open
Access nel precedente capitolo, un’area in cui le ten-
sioni sulla direzione che l’openness deve prendere
sono evidenti, questo capitolo continua ad approfon-
dire l’idea che l’openness sia un successo, ma che
stia affrontando ora un conflitto sulla sua direzio-
ne futura. In questo capitolo esamineremo un’area
che fornisce un utile contrasto con l’Open Access e
cioè quella delle Open Educational Resources (OER).
Mentre l’Open Access vede gli insegnanti lottare per
recuperare dagli editori il controllo sulle pubblica-
zioni, e spesso mette gli uni contro gli altri, il movi-
mento OER si è sviluppato in gran parte dall’interno
del settore dell’istruzione superiore. Ci sono offerte
commerciali anche in quel settore, molti alleati degli
editori che abbiamo incontrato nel precedente capito-
lo, ma l’appartenenza del movimento resta ancora al
settore dell’istruzione. Un’area in cui si può trovare
un tipo di tensione simile a quella di cui abbiamo
parlato nel precedente capitolo è quella dei libri di
                 la battaglia per l’open

testo in Open Access, ai quali dedicherò una sezione
più avanti. In questo caso infatti le OER si sovrappon-
gono alla pubblicazione in Open Access. Dall’altro
capo del filo c’è la sequenza di OER per creare un cor-
so, dove invece si sovrappongono con l’altro tema del
prossimo capitolo, e cioè i MOOC. Questo solleva un
problema di definizione – cosa intendiamo per OER
– e per rispondere a questo per prima cosa vedremo
un po’ di storia del movimento.


Learning objects
  Il movimento OER nasce da precedenti attività
sui cosiddetti learning objects [nota del traduttore:
espressione poco traducibile che indica generica-
mente singoli materiali o strumenti per l’apprendi-
mento] e molti dei suoi benefici si sono avuti nella
formazione, perciò vale la pena di partire da lì. Da
quando l’elearning è diventato mainstream (intorno
all’anno 2000), insegnanti e istituzioni scoprirono
che stavano creando dal nulla risorse didattiche spes-
so costose. Nel capitolo 2 sono state esaminate alcu-
ne influenze da altri campi e una di queste lezioni
provenienti dal movimento open source era l’efficien-
za nel riutilizzare parti del codice software. Se si vuo-
le una mappa, un correttore ortografico o un foglio
di stile, allora è logico prenderne uno già esistente e
semplicemente ricopiarlo nel tuo programma piutto-
sto che svilupparlo da zero. Questa stessa logica ha
suggerito che con la digitalizzazione del contenuto
risorse preziose potevano essere condivise tra istitu-
zioni. Ciò ha portato ad un interesse per quello che
è stato chiamato “learning objects” (o per enfatizza-


                           96
             le open educational resources

re la loro possibilità di riutilizzo “reusable learning
objects”).
  Stephen Downes (2001) ha presentato una convin-
cente motivazione economica a riguardo:

 Ci sono migliaia di scuole superiori e università dove
 ci sono ad esempio corsi introduttivi di trigonometria.
 In ciascuno di questi corsi, e in ciascuna di queste
 istituzioni, si descrive ad esempio la funzione d’onda
 sinusoidale. Dunque, dato che le proprietà della fun-
 zione d’onda sinusoidale rimangono costanti da istitu-
 zione a istituzione possiamo dedurre che la descrizio-
 ne sia più o meno la stessa ovunque. Ciò che abbiamo
 dunque sono migliaia di descrizioni simili di funzione
 d’onda sinusoidale...
 Ora come premessa: il mondo non ha bisogno di mi-
 gliaia di descrizioni simili di funzione d’onda sinusoi-
 dale online. Piuttosto ciò di cui ha bisogno è una, o
 forse al massimo una dozzina, di descrizioni della fun-
 zione d’onda sinusoidale disponibili online.
 Immaginiamo che sia prodotta solo una descrizione
 della funzione d’onda sinusoidale. Una parte di mate-
 riale didattico di alta qualità e completamente interatti-
 vo potrebbe essere prodotto per diciamo 1000 dollari.
 Se 1000 istituzioni lo condividono il costo allora diven-
 ta di 1 dollaro per istituzione. Ma se ciascuna di que-
 ste migliaia di istituzioni produce un simile elemento,
 allora il costo per ciascuna istituzione diventa di 1000
 dollari, con una spesa totale di 1 milione di dollari. Per
 una lezione. In un solo corso.

  Suona irresistible, no? E invece, nonostante inve-
stimenti e ricerca, l’idea di una grande quantità di
risorse didattiche condivisibili non si è mai materia-
lizzata. Vale la pena di considerare il motivo, poiché
le ragioni saranno importanti per le successive mani-
festazioni dell’open education.

                            97
                 la battaglia per l’open

   La prima ragione per cui i materiali didattici non
hanno ottenuto la sperata massa critica era quella che
Wiley (2004) ha chiamato il “paradosso del riutiliz-
zo”. Wiley sostiene che il contesto è quello che deter-
mina l’importanza dell’apprendimento per le perso-
ne, quindi più contesto ha un learning object e più
utile è per uno studente. Se prendiamo come esem-
pio la funzione d’onda sinusoidale di Downes, non è
solo questa ad essere utile ma il collocarla all’interno
di un contesto di riferimento, per esempio fare dei
collegamenti con contenuti precedenti. È probabile
che contenuti con confini chiari, come le funzioni
d’onda sinusoidale, possano essere facilmente stacca-
bili e collocabili in altri corsi in cui vengono effettua-
te queste connessioni, ma si rivela più difficile con
temi con limiti meno definiti. Ad esempio prendere
un argomento didattico sul tema della schiavitù da
un contesto ed inserirlo da un’altra parte può perde-
re molte delle condizioni necessarie a completare il
suo significato. Mentre dunque gli allievi vogliono il
contesto per renderli riutilizzabili, i learning object
dovrebbero avere meno contesto possibile dato che
ne riduce la possibilità di riutilizzo. Questo porta
al paradosso di Wiley, che lui stesso riassume così:
«Succede che la riutilizzabilità e l’efficacia didattica
siano completamente ortogonali l’una rispetto all’al-
tra. Perciò, l’efficacia didattica e il potenziale di riu-
tilizzo sono in contrasto l’uno con l’altro». Questo è
dimostrato nella Figura 3.




                           98
             le open educational resources




        Figura 3. Il paradosso della riutilizzabilità.
   Figura di Wiley 2004. Pubblicata con licenza CC-BY.

  Un secondo problema con i materiali didattici ri-
guarda la iper-specializzazione. Al momento del loro
sviluppo l’interoperabilità era la maggiore preoccupa-
zione, quindi l’obiettivo era prendere un materiale svi-
luppato da un’università e poterlo usare nel learning
management system (LMS) di un’altra. C’erano anche
questioni riguardanti la reperibilità, molte di esse pre-
cedenti all’avvento del dominio di Google. Ciò ha por-
tato allo sviluppo di una serie di standard, tutti con il
lodevole obiettivo di fare in modo che le risorse fossero
sia più facili da trovare che riutilizzabili. Il problema
di questo approccio è che gli standard sono diventati
troppo complessi fino a trasformarsi in un limite all’a-
dozione del materiale da parte degli accademici.
  Una terza questione significativa è stata la sosteni-
bilità dell’approccio. Anche se aveva senso sia da un
punto di vista economico che pedagogico sviluppare
materiali didattici di alta qualità, essi richiedevano
una massa critica per essere utili agli insegnanti. E
ottenerla pareva essere problematico. Le barriere cre-

                           99
                 la battaglia per l’open

ate dagli standard erano scoraggianti per molti degli
insegnanti. Più significativamente, condividere le ri-
sorse didattiche contribuendo ad archivi di materiale
non faceva parte della comune pratica di insegna-
mento, almeno nel modo in cui lo era condividere
i risultati della ricerca attraverso articoli scientifici.
Quindi acquisire una quantità ampia di risorse che
potessero incontrare il bisogno degli insegnanti di-
ventava difficilmente praticabile.
   Questi tre fattori – riutilizzabilità, standardizzazioni
e cultura – sarebbero stati poi parzialmente risolti da
sviluppi esogeni ed endogeni nel settore dell’istruzio-
ne. Alcuni di essi però furono in larga parte dimentica-
ti e si stanno ora rispolverando, in particolare i MOOC
come vedremo nel prossimo capitolo. Quindi se i ma-
teriali didattici procedevano a fatica per alcuni aspetti
essi possono essere considerati come il primo passo
necessario nel processo di apertura dei materiali di-
dattici. Era semplicemente troppo presto. Il problema
degli standard troppo complicati ad esempio sarebbe
stato in larga misura superato con gli sviluppi del web
2.0 e delle più semplice pratiche di “embedding” e
“tagging”. Contribuire con un gruppo di materiali ad
un archivio didattico e fare in modo che aderissero
a standard come SCORM (Sharable Content Object
Reference Model), e aggiungere una collezione di me-
tadati li può rendere decisamente riutilizzabili; ma la
complessità può superare i benefici. Paragonate que-
sto a salvare un PowerPoint su SlideShare e taggarlo
con qualche parola chiave, che è un’attività che ora gli
insegnanti normalmente fanno.




                           100
             le open educational resources

Le OER
   Nel 2001 il movimento OER comincia seria-
mente quando il MIT annuncia la sua iniziativa
OpenCourseWare. L’obiettivo del MIT era quello di
rendere tutti i materiali didattici usati nei suoi 1800
corsi disponibili online, dove le risorse potevano es-
sere usate e riadattate a piacimento a costo zero. La
William and Flora Hewlett Foundation, che finanziò
il progetto del MIT, definì le OER come:

 Risorse di insegnamento, apprendimento e ricerca
 che sono di dominio pubblico o che sono state rila-
 sciate sotto una licenza di proprietà intellettuale che
 permette il loro utilizzo gratuito e il loro riadattamento
 da parte di altri. Le open educational resources inclu-
 dono interi corsi, materiali di corsi, moduli, libri di te-
 sto, video in streaming, testi, software e qualsiasi altro
 strumento, materiale o tecnica usata a supporto di un
 accesso al sapere (Hewlett Foundation).

  È una definizione ampia che comprende un insie-
me che va dagli interi corsi (MOOC) alle risorse indi-
viduali, dai libri di testo ai software. L’elemento chiave
è il sottolineare l’esigenza di una licenza che permetta
l’utilizzo libero e il riadattamento, cosa che di nuovo
attinge alla distinzione tipica del mondo open source
tra “free as in free beer” e “free as in free speach”. Per
soddisfare la definizione di Hewlett non è sufficien-
te infatti semplicemente essere gratuito (come molti
MOOC sono), ma deve essere riutilizzabile. Ci sono
altri definizioni di OER disponibili (vedi Creative
Commons 2013a per un paragone) ma anche se non
chiedono esplicitamente una licenza open, tutte enfa-
tizzano il diritto a riutilizzare il contenuto.

                            101
                 la battaglia per l’open

  L’iniziativa OpenCourseWare ha anche cercato di
rispondere ad alcuni dei problemi che abbiamo vi-
sto con i learning objects, in particolare quello della
sostenibilità, dato che ha preso i contenuti didatti-
ci esistenti e li ha rilasciati. Agli insegnanti non si
chiedeva di produrre contenuti specialistici, anche
se il metterli a disposizione non era un processo
senza frizioni vista la necessità di riadattarli, di ge-
stirne i diritti e in parte di modificarli. Il MIT sti-
ma che annualmente ampliare e gestire il loro sito
OpenCourseWare costi 3.5 milioni di dollari. E nono-
stante questo l’iniziativa non contava su insegnanti
individuali che dovevano avere a che fare con com-
plicati standard e con l’adozione di nuove pratiche,
al contrario OpenCourseWare partiva da una pratica
standard che prevedeva di prendere materiali esisten-
ti dai corsi e rilasciare quelli, invece che sviluppare
materiali didattici ad hoc.
  Riallacciandosi all’annuncio del MIT iniziò così un
movimento OER, con molte altre università che ne
seguirono l’esempio. Iniziative di questo tipo erano
spesso finanziate da fondazioni come la William and
Flora Hewlett o da iniziative nazionali come la Joint
Information System Committee (JISC) nel Regno
Unito. Una buona domanda a questo punto è perché
tante università hanno cercato di rendere disponibili
materiali gratuitamente? Una ricerca di JISC sui vari
programmi OER nel Regno Unito ha individuato cin-
que ragioni (McGill e al. 2013):
• costruire una reputazione per individui, istituzioni
  o comunità;
• migliorare l’efficienza, i costi e la qualità della pro-
  duzione;
• promuovere un accesso aperto al sapere;

                           102
            le open educational resources

• migliorare la didattica e l’“esperienza di apprendi-
  mento” degli studenti;
• dare un nuovo slancio tecnologico.

  Come gli autori sottolineano, queste motivazio-
ni non si escludono l’una con l’altra e spesso si so-
vrappongono. Analogamente, la Hewlett Foundation
(2013) ha condiviso cinque motivazioni per cui loro
finanziano il campo delle OER:
• riducono radicalmente i costi;
• forniscono una maggiore efficienza di apprendi-
  mento;
• promuovono un continuo miglioramento dell’i-
  struzione e dell’apprendimento personalizzato;
• incoraggiano la traduzione e la localizzazione dei
  contenuti;
• offrono a tutti un uguale accesso al sapere.

  Questa moltitudine di motivazioni è un punto si-
gnificativo nella battaglia per l’openness. Le universi-
tà sono esse stesse istituzioni complesse che rispon-
dono ad una varietà di ruoli che includono la forma-
zione, la ricerca, i centri di innovazione (Etzkowitz et
al. 2000), il public engagement, gli attori del cambia-
mento sociale (Brennan, King and Lebeau 2004), la
cura e conservazione del sapere, e la presenza di una
voce indipendente e affidabile, quindi non dovrebbe
stupire che la open education abbia una miriade di
ruoli e funzioni. Questa complessità funzionale sarà
analizzata nuovamente nel prossimo capitolo sui
MOOC, dato che crea non poca tensione con entità
commerciali che spesso chiedono un obiettivo più
coinvolgente.


                          103
                    la battaglia per l’open

   Le OER sono spesso raccolte in archivi, e la loro
vastità è impressionante. È quasi impossibile quanti-
ficare le OER in base alla data o ai progetti, dato che
varia molto a seconda della definizione. Per esempio,
si devono includere le collezioni dei musei? I video di
Youtube? I download di iTunes U? Anche se il focus
è unicamente su progetti OER di matrice universita-
ria, il Consorzio OpenCourseWare conta più di 260
membri, ciascuno dei quali si impegna nella open
education e nel rilasciare OER. Il MIT ha creato più
di 2000 corsi gratuiti e accessibili e il sito OpenLearn
della Open University ha rilasciato più di diecimila
ore di risorse didattiche. In termini di utilizzo il 71%
degli studenti universitari negli USA ha usato OER,
anche se solo uno su dieci le ha usate in modo conti-
nuativo (Dahlstrom, Walker and Dziuban 2013), circa
il 50% degli insegnanti negli USA è al corrente delle
OER e il 40% le usa a sostegno del proprio materiale
didattico (BCG 2012).
   L’impatto delle OER sull’apprendimento non è fa-
cile da quantificare, dato che esiste un aspetto di uso
supplementare da parte degli studenti formali7. C’è

7    [Nota del traduttore] Come già precisato in una precedente nota
    a proposito delle espressioni “formal course” e “informal cour-
    se”, più volte nel testo si incontra l’espressione “formal student”
    (o anche “formal learner”) per indicare gli studenti regolarmen-
    te immatricolati a corsi universitari “regolari”; in contrapposi-
    zione con “informal student” (o anche “informal learner”) che
    invece vuole indicare studenti (o più genericamente discenti,
    corsisti) che seguono un corso di formazione o un corso uni-
    versitario senza essere immatricolati presso un’università o una
    scuola. Anche qui, nella traduzione ho scelto di rimanere il più
    possibile letterale e aderente alla scelta lessicale di Weller, pur
    sapendo che in italiano gli aggettivi “formale” e “informale” pos-
    sono avere un’accezione diversa. Questa nota serve appunto per
    sgombrare il campo da equivoci semantici su questi aggettivi.

                                104
             le open educational resources

ampia evidenza della convinzione che le OER miglio-
rino l’apprendimento, ma non è la stessa cosa che
avere una prova di un effettivo miglioramento. Se
cerchiamo un’evoluzione nella soddisfazione o nelle
performance degli studenti, c’è infatti a volte un diva-
rio tra quello che pensano loro e quello che pensano
gli insegnanti. Per esempio, il 63% degli insegnanti
è d’accordo che usare le risorse OpenLearn della OU
migliori la soddisfazione degli studenti, un’opinione
condivisa dall’85% degli insegnanti K-12 coinvolti nel
“flipped learning” (cioè un approccio di insegnamen-
to in cui gli studenti usano risorse online a casa e
sfruttano il tempo in classe per interagire con gli altri
– De Los Arcos 2014). Però solo il 47% di studenti
ha dichiarato che usare OpenLearn ha migliorato la
sua soddisfazione riguardo all’esperienza formativa
(Perryman, Law and Law 2013).
   Per quanto riguarda le prestazioni, il 44% degli in-
segnanti ha convenuto che usare OpenLearn ha por-
tato a miglioramenti scolastici e il 63% di insegnanti
K-12 era d’accordo che usare risorse online nelle “flip-
ped classroom” ha contribuito a migliorare i risultati
dei test.
   Si ha una migliore dimostrazione quando ci sono
elementi di confronto, in particolare in relazione all’a-
dozione di risorse open senza testo: il dipartimento
di Matematica della Byron High School ha parlato di
un salto da 29,9% nel 2006 a 73,8% nel 2011 nel-
la padronanza della matematica, e da un punteggio
medio di 21,2 (su una scala di 36) nel 2006 al 24,5
nel 2011 nell’ACT – American College Test (Fulton,
2012). Wiley e altri (2012) invece hanno rilevato che
l’adozione di libri di testo open in sostituzione ai li-
bri tradizionali da parte di venti insegnanti di scienze

                          105
                 la battaglia per l’open

della scuola media e superiore (e 3.900 studenti) in
due anni non è correlabile ad un cambio nei voti de-
gli studenti (inteso come sia aumento sia calo).
  Questa panoramica sulle OER ha dimostrato che
fin da suoi esordi con i materiali didattici, l’approccio
della open education sta iniziando a stabilizzarsi. La
disponibilità e diffusione delle OER sta ora entran-
do nell’istruzione mainstream, anche se l’evidenza
dell’impatto ancora è mista. Un format in cui le OER
stanno guadagnando strada però è quello dei libri di
testo Open Access, di cui parleremo nella prossima
sezione.


Libri di testo open
  Come stabilisce la definizione di OER della Hewlett,
esse possono includere anche libri di testo. Il campo
dei libri di testo ha dimostrato di essere uno dei più
propensi all’approccio open, e fornisce delle prove
concrete di risparmio in termini di costi e di bene-
fici didattici. Quello che è certo è che in gran parte
del Nord America i libri di testo open sono diventati
quasi sinonimo di OER. Il presupposto degli open
textbook è relativamente semplice – creare versioni
elettroniche di libri di testo standard che siano dispo-
nibili gratuitamente e che possano essere modifica-
ti dagli utenti. La versione stampata di questi libri
è messa a disposizione a basso costo per coprire le
spese di stampa, per un minimo di 5 dollari (Wiley
2011b). Le motivazioni per farlo sono particolarmen-
te evidenti negli Stati Uniti, dove il costo dei libri in-
fluisce del 26% su un programma di laurea di quat-



                           106
             le open educational resources

tro anni (GAO 2005). È sicuramente un argomento
forte per la loro adozione.
  Ci sono una serie di progetti che sviluppano libri
di testo open usando vari modelli di produzione: un
buon esempio è OpenStax, che riceve fondi da diver-
si enti. Loro trattano aree tematiche che coinvolgono
una grande parte della popolazione di studenti na-
zionale, per esempio “Introduzione alla statistica” o
“Concetti di Biologia”, “Introduzione alla sociologia”
etc. Questi libri sono co-prodotti da autori che ven-
gono pagati per lavorarci, e sono peer reviewed. Le
versioni elettroniche degli stessi sono gratuite e sono
disponibili anche versioni stampate a pagamento. I
libri sono rilasciati sotto la licenza CC-BY e gli inse-
gnanti sono incoraggiati a modificarli in base alle loro
esigenze. In termini di adozione, i testi di OpenStax
sono stati scaricati più di 120.000 volte e 200 istitu-
zioni hanno deciso formalmente di adottare materiali
OpenStax, portando ad un risparmio per gli studenti
che è stato stimato a 3 milioni di dollari (Green 2013).
Allo stesso modo una relazione della Open Course
Library (Allen 2013) ha stimato che OCL ha permesso
agli studenti di risparmiare 5,5 milioni di dollari dal
suo inizio, con un risparmio medio di 96 dollari per
corso rispetto all’utilizzo di libri di testo tradizionali
– qualcosa come il 90% di riduzione rispetto ai costi
precedenti, che equivarrebbe a 41,6 milioni di dollari
di adozione in tutto lo stato di Washington. Il College
of the Canyons ha calcolato risparmi provenienti dai
libri di testo open per 400.000 dollari nella regione
(Daly e altri 2013) usando una formula che si basava
su modelli di acquisto precedente. Va osservato che
questi risparmi sono spesso calcolati sulla base della
spesa prevista dagli studenti; quindi la loro esistenza

                           107
                 la battaglia per l’open

potrebbe essere controversa, dato che implica che gli
studenti avrebbero acquistato i libri.
  Insieme all’impatto economico ci dovrebbe essere
poi anche quello didattico, dato che semplicemente
gli studenti non acquistano i libri di testo se sono
cari. Feldstein e altri (2013) hanno riportato che,
mentre solo il 47% degli studenti acquistava i libri
di testo, soprattutto per il fatto che il costo non era
abbordabile, quando si passò ai libri di testo open,
allora emerse che il 93% degli studenti leggeva la ver-
sione gratis online.
  Forse una delle ragioni per cui i libri di testo open
si stanno dimostrando un’area feconda per lo svilup-
po delle OER è che facilmente mappano pratiche già
esistenti. Uno dei problemi che i materiali didattici
hanno incontrato infatti era che per avere successo
dovevano adottare troppe pratiche aliene o nuove –
condividere materiali di insegnamento, caricarli in
archivi, taggarli con metadati, usare i materiali di
altri nei corsi in elearning etc. I libri di testo open
hanno solo bisogno di un docente (o istituzione, sta-
to o paese) che consigli un testo alternativo. Fintanto
che la qualità di questo libro è ritenuta buona, se non
migliore rispetto al testo standard, il solo risparmio
diventa un irresistibile motore di adozione. Nello
scegliere tra due alternative di uguale valore didatti-
co infatti il prezzo diventa un fattore di scelta impor-
tante e la gratuità è difficile da battere. Altri fattori
come le licenze open e la possibilità di modificare il
libro di testo diventano interessanti successivamen-
te. Per esempio OpenStax riporta che di 1.245 risor-
se, solo 419 sono state modificate e questo suggeri-
sce che intervenire in un libro di testo è ancora per
molti insegnanti una pratica aliena ma in crescita.

                          108
            le open educational resources

Probabilmente un simile cambiamento richiederà
molto tempo, ma l’esempio dei libri di testo dimostra
come iniziare da una pratica compresa e acquisita
possa portare ad un’adozione di successo delle OER,
e da questa iniziale esposizione all’openness segui-
ranno altre pratiche.


I problemi delle OER
  Uno dei problemi che viene spesso sollevato per i
progetti OER è quello della sostenibilità. Molti pro-
getti OER hanno ricevuto fondi da enti come la fon-
dazione William and Flora Hewlett. Produrre OER e
mantenere grandi progetti e nel mentre gestire uno
staff non è un’attività a costo zero, quindi sorge il
problema di come portarli avanti quando finiscono i
fondi di partenza.
  In un rapporto per l’OCSE nel 2007, David Wiley
ha definito la sostenibilità come «la continua capacità
di un progetto sulle risorse didattiche aperte di rag-
giungere i suoi obiettivi» (Wiley 2007b p.5). Wiley ha
proposto tre modelli di sostenibilità che ha etichetta-
to in base alle università che li hanno sviluppati:
1. Il modello MIT: le OER sono create e rilasciate da
   un team di progetto dedicato, centralizzato e retri-
   buito.
2. Il modello USU (Utah State University): le OER
   sono create da un ibrido tra un team centralizzato
   e uno staff decentralizzato.
3. Il modello Rice: modello decentralizzato basato su
   una comunità di contributori.




                         109
                 la battaglia per l’open

   La sostenibilità economica delle OER è importan-
te, perché le stesse domande ora si pongono per i
MOOC e per altri approcci open. Molte università ri-
chiedono fondi di avviamento per fare partire le OER,
di norma a fondazioni come la Hewlett oppure a enti
nazionali come lo JISC; ma i finanziamenti esterni a
supporto di progetti non sono una soluzione a lungo
termine. Alla Open University il progetto OpenLearn
opera come un modello USU e fa del rilascio di OER
una pratica standard. Ciascun nuovo corso deve con-
dividere un certo numero di materiali, che vengono
poi “ripuliti”, formattati e resi indipendenti dal conte-
sto da un team centrale, che poi li rilascia attraverso
l’archivio OpenLearn. Il costo aggiuntivo di questo
lavoro è coperto dal “recruitment value” del materia-
le open, che copre le spese in termini di registrazio-
ni di studenti, cioè quelli studenti che vengono su
OpenLearn e poi si iscrivono ad un corso formale
(Perryman, Law&Law, 2013).
   Le OER dunque sono sostenibili ma bisogna preve-
dere i costi per farle partire. Un modello alternativo
è quello che viene dal campo dei libri di testo open,
che propone che i fondi che vengono ora usati per
acquistare libri di testo per il college siano impiegati
per creare libri di testo open e gratuiti.
   Come per la sostenibilità ci sono anche altri pro-
blemi che affliggono il materiale didattico, che non
sono stati interamente superati delle OER. La rilut-
tanza degli insegnanti ad adottare OER ad esempio è
un problema che nasce dalla difficoltà a trovarle e dal
tempo speso per adattarne contenuti e contesto (Il
paradosso del riutilizzo di Wiley) (McGill 2012).
   C’è anche un problema di reperimento di materia-
le, che nasce da una difficoltà culturale che hanno gli

                          110
             le open educational resources

insegnanti a condividerlo facilmente, nonostante la
crescente visibilità delle OER. Ad esempio, un’inda-
gine condotta tra insegnanti che aderiscono al nuovo
sistema di insegnamento ha scoperto che, mentre il
70% degli intervistati dichiara che le licenze open
sono importanti quando si usano risorse online gra-
tuite per i corsi, solo il 43% di loro pubblica online ciò
che ha creato e solo il 5% sotto una licenza CC (De
Los Arcos 2014). C’è comunque una maggiore con-
sapevolezza sulla condivisione, e attraverso siti come
iTunes U, Flickr e YouTube le barriere sia tecniche
che culturali si sono molto abbassate. Ritorneremo
su questo punto quando tratteremo la open scholar-
ship nel capitolo 7.


Una storia di successo?
  La tesi di questo libro è che l’openness sia stata un
approccio riuscito, e mentre è relativamente facile
dimostrarlo per la pubblicazione in Open Access,
risulta meno chiaro per le OER. Dal punto di vista
della creazione di un movimento che ha continuato
a crescere per più di un decennio, le OER sono una
storia di relativo successo, soprattutto se paragona-
ta ai “learning objects” per esempio, o a molti altri
movimenti nel campo delle tecnologie per l’appren-
dimento. Ma non hanno completamente trasforma-
to l’istruzione o cambiato le sue regole come mol-
ti pensavano avrebbero fatto (Kortemeyer 2013). Ci
sono voluti oltre dieci anni e investimenti notevoli
per arrivare a questo punto, ma stanno entrando ora
nella pratica globale mainstream dell’istruzione, e il
prossimo decennio deciderà con tutta probabilità se


                           111
                  la battaglia per l’open

il loro utilizzo passerà dall’essere complementare al
diventare invece primario. Queste tempistiche e que-
sta quantità di investimenti sono significative perché
danno l’idea dello sforzo necessario per avere un
impatto nel settore dell’insegnamento. L’efficienza e
i benefici didattici delle OER sono stati evidenti fin
dai tempi dei “learning objects”, ma ci sono notevo-
li barriere da superare nel realizzarle, incluse quelle
culturali come la riluttanza degli insegnanti nel riuti-
lizzare i contenuti di altri.
   Questo dimostra che lo sforzo richiesto per avere
un impatto anche modesto nel settore dell’istruzione
non dovrebbe essere sottostimato. Le storie a lungo
termine con risultati altalenanti sono difficili da rac-
contare alla gente comune, e i media preferiscono
un tipo particolare di narrazione che esploriamo nel
capitolo 6. Mentre le OER sono state largamente tra-
scurate dai mass media, la rivoluzione da un giorno
all’altro dei MOOC ha offerto una storia più digeribi-
le. Dato l’investimento richiesto per trasformare l’i-
struzione, non si sa se tante aziende con un sostegno
di venture capital saranno disposte ad aspettare dieci
anni per vederne l’impatto. Nella sua analisi critica di
Tim O’Reilly, Morozov (2013) fa il punto sulle diverse
scale temporali dei movimenti free e open source che
abbiamo visto nel capitolo 2, e a cui qui si può fare
riferimento:

 Stallman il riformatore sociale potrebbe aspettare de-
 cenni per vedere prevalere la sua argomentazione etica
 sul free software nel dibattito pubblico. O’Reilly, l’im-
 prenditore esperto, ha avuto tempi molto più brevi:
 una rapida acquisizione del software open source da
 parte della comunità imprenditoriale ha garantito una
 richiesta stabile dei libri e delle attività di O’Reilly, spe-

                              112
            le open educational resources

 cialmente nel momento in cui alcuni analisti stavano
 iniziando a preoccuparsi.

  Se si sostituisse “free software” con OER e “open-
source software” con MOOC nell’analisi di Morozov
allora lo schema sarebbe simile. Le OER, per la mag-
gior parte concepite come un bene sociale alleato ai
ruoli dell’università, possono permettersi di realizza-
re il loro obiettivo e capire che questi cambiamenti
richiedono effettivamente tempo. I MOOC, in parti-
colare quelli finanziati da fondi venture capital, su-
biscono invece pressioni per realizzare un impatto il
più rapido e plateale possibile. Nel capitolo 1 una del-
le ragioni per porre la questione della open education
come battaglia era quella della narrazione. Questo
bisogno di rapidi risultati per realizzare target com-
merciali crea un contesto nel quale le narrazioni del-
la rivoluzione e del cambiamento radicale non sono
desiderabili, ma essenziali. È un tema che esplorere-
mo più in dettaglio nel capitolo 6, ma per ora vale la
pena di notare il lasso di tempo, gli investimenti e il
duro lavoro richiesti dalla comunità OER per realiz-
zare i loro obiettivi a lungo termine.


La battaglia per le OER
  Se ritorniamo al tema del libro, e cioè che l’open-
ness sta ora affrontando un conflitto circa la sua di-
rezione futura, allora quale dovrebbe essere il fulcro
di quel conflitto per le OER? Uno potrebbe essere la
competizione per gli interessi commerciali all’inter-
no dell’ambito OER. Il movimento OER è stato in
larga parte trainato dall’istruzione, ma ci sono anche
aspetti commerciali. La motivazione di molte univer-

                          113
                 la battaglia per l’open

sità non è puramente altruistica: la visibilità del mar-
chio, il puro marketing e il reclutamento degli stu-
denti sono tra le motivazioni per una politica OER.
Oltre a quelle generate da enti di istruzione, un nu-
mero di aziende le usa sia come materiale a supporto
dei loro prodotti di punta sia come offerta primaria, e
in altri casi c’è un confine labile tra interessi commer-
ciali e open. Ad esempio la Virtual School crea OER
per insegnanti (in collaborazione con loro) e li rilascia
sotto licenza CC. È creata e finanziata dalla società di
corporate elearning Fusion Universal e si presenta
come impresa sociale. La Khan Academy è un’orga-
nizzazione no profit che crea e condivide in modalità
open risorse didattiche in forma di video-tutorial. Il
fondatore, Salman Khan, è ritenuto essere “il perso-
naggio più influente nelle educational technologies”
da Forbes (High 2012). La Khan Academy registra 6
milioni di visitatori al mese (Khan Academy 2013) e
il loro approccio ha influito su molti dei pionieri dei
MOOC, come Sabastian Thrun (High 2013), quindi
forse questa affermazione non è così esagerata, alme-
no in termini di copertura mediatica.

  Un diverso impiego delle OER è quello di OpenEd,
che è un catalogo di risorse che include giochi e va-
lutazioni per K-12, molte allineate allo standard USA
Common Core. Queste provengono da altri creatori,
come la Khan Academy, ma il servizio raccoglie risor-
se conformi agli standard e offre anche un Learning
management System e un API per integrarsi alle ri-
sorse di altri sistemi. L’editore di materiale didatti-
co Pearson ha lanciato OpenClass, una piattaforma
di apprendimento online gratuita che permette agli
insegnanti di creare i loro corsi usando le OER (sia

                           114
             le open educational resources

proprie sia provenienti da altri). In questo model-
lo la fornitura di OER è un modo attraverso il qua-
le una piattaforma di apprendimento può essere
commercializzata.
   L’iniziativa OpenClass è interessante perché il suo
lancio è stato accompagnato da una buona dose di
scetticismo. Pearson non è nota per dar via contenu-
ti o per fare parte di movimenti open, quindi alcuni
commentatori si sono chiesti quale interesse avesse
nell’offrire un LMS gratuito. Kim (2011) ha suggeri-
to che dovrebbero essere «brutalmente onesti circa i
rischi per un editore che provengono dal passaggio
da libri di testo stampati a contenuti digitali e circa la
loro necessità di non perdere il controllo sul canale
di vendita». Allo stesso tempo Watters (2011) avver-
te che «si deve mettere in discussione il loro uso di
aggettivi come free e open». Queste risposte indica-
no la cautela nei confronti di fornitori commerciali
che adottano approcci open, dato che il sospetto è
che questa forma open sia stata usata per attirare gli
utenti su servizi a pagamento o per provare a stabili-
re un monopolio (anche se Pearson ha sottolineato il
fatto che non intende vendere ulteriori prodotti agli
utenti OpenClass).
   Comunque fornitori commerciali che offrono OER
non vanno necessariamente a scapito del movimento
stesso: da molti punti di vista è un’aggiunta neces-
saria e benvenuta a contribuire ad un più largo ba-
cino di risorse. Diventa un problema solo se, come
nel caso del movimento green, va ad intaccare i valori
chiave dell’openness.
   I problemi legati al rilascio di OER sono forse rias-
sunti al meglio da un rapporto rilasciato nel 2014. La
National Association of College Stores ha esaminato

                           115
                 la battaglia per l’open

l’uso di libri di testo open creati dal progetto della
Open Course Library (OCL) nello stato di Washington
(Biemiller 2014). I risultati sono sconfortanti per
i promotori delle OER, e riportano che «di 98.130
studenti iscritti in questi 42 corsi di 25 campus, solo
2.386 erano in sezioni che usavano i materiali con-
sigliati da OCL». Il rapporto però risulta in qualche
modo strano, per una serie di ragioni. Prima di tutto
la ricerca è stata fatta da negozi di libri universitari, e
molti utenti di testi online e open non passano certo
da lì per procurarseli. Ci si potrebbe anche chiedere
se i negozi universitari siano interamente a favore
di risorse gratuite e online, ma anche se ignoriamo
i dubbi metodologici e accettiamo che ci siano nu-
meri bassi, questo rivela molto del contesto in cui
le OER operano. Si potrebbe supporre che di fronte
alla scelta tra un testo che costa diciamo 100 dollari e
uno che è gratuito (o la cui copia fisica è disponibile
per 25 dollari), il secondo sia il preferito. Le ragioni
per cui l’adozione può essere inferiore di quanto ci
si aspetti indicano le aree per la fase successiva del
movimento OER. Prima tra tutte c’è semplicemente
la conoscenza delle risorse. Gli editori commerciali
usano mezzi di marketing sofisticati e costosi, con i
quali competere per informare allievi e studenti sul-
le alternative open sarebbe problematico, soprattutto
per le organizzazioni no-profit. Il secondo problema
è meno economico e più commerciale: i libri sono
consigliati da docenti universitari che hanno usato lo
stesso libro per molti anni e hanno costruito il loro
curriculum su di esso. Per scegliere un’alternativa,
non importa quanto valida, serve uno sforzo in più.
Anche se gli insegnanti possono preoccuparsi delle
spese a carico degli studenti, i costi dei libri di testo

                           116
              le open educational resources

non sono a carico loro, quindi non c’è un incentivo
reale a passare ad alternative gratuite. Questo non
vuol dire che non se ne curano, ma piuttosto che per
facoltà spesso sovraccariche di lavoro non è sempre
una priorità. In più molte università ricevono percen-
tuali dai negozi di libri del campus, quindi di nuovo
non c’è nessun incentivo a ridurre i costi. Quello che
OCL riporta quindi rivela che semplicemente creare
OER che siano di buona qualità e disponibili gratui-
tamente non è una ragione sufficiente per assicurar-
ne l’adozione. C’è un ecosistema culturale di lunga
data che circonda l’uso corrente dei libri di testo, e le
nuove versioni open devono affrontarne tutti i diversi
elementi per avere successo.


Conclusioni
  Tra le diverse categorie di open education si può
pensare che le OER stiano nel mezzo, intersecando
da un lato l’Open Access, attraverso i libri di testo
aperti, e dall’altro i MOOC, che possono essere con-
siderati come un sottoinsieme delle OER. Il campo
OER è occupato da un mix di università, agenzie
nazionali, organizzazioni no profit ed interessi com-
merciali. Mentre ci sono alcune riserve sulle inten-
zioni dei player commerciali, la combinazione di di-
versi fornitori di OER rappresenta un sano miscuglio
di differenti interessi. I principi chiave delle OER
sono ben consolidati e beneficiano di una definizio-
ne abbastanza chiara che prefigura l’importanza del
riutilizzo e delle licenze open, quindi tutti nuovi par-
tecipanti in questo settore sono obbligati a compor-
tarsi in larga misura in modalità open. Si può inten-


                           117
                 la battaglia per l’open

dere questo come il risultato delle radici altruistiche
del movimento e del tempo che gli è stato necessario
per affermarsi, guidato principalmente da fornitori
di servizi formativi e da attività no profit, che ha fatto
anche in modo che le istituzioni scolastiche siano ri-
maste in larga parte prominenti nel settore.
  Come impatto le OER hanno avuto successo in ter-
mini di numero di risorse e di persone che ne han-
no avuto accesso, anche se sono state criticate per
non avere avuto una grande influenza nella pratica
quotidiana: per esempio, Kortemeyer (2013) lamenta
che «le OER non hanno intaccato in modo rilevante
il tradizionale modello commerciale dell’istruzione
superiore né hanno cambiato gli approcci di inse-
gnamento quotidiano della maggior parte degli isti-
tuti». Tuttavia l’impatto può essere visto da una serie
di ottiche differenti. L’OER Research Hub (2013) ha
elencato undici ipotetiche convinzioni principali sul-
le OER:
1. L’uso delle OER porta ad un miglioramento delle
   performance e della gratificazione degli studenti.
2. L’aspetto open delle OER permette diversi modelli
   di utilizzo e di adozione rispetto ad altre risorse
   online.
3. I modelli di open education portano ad un acces-
   so più egualitario all’istruzione, aiutando un più
   grande bacino di studenti rispetto all’istruzione
   tradizionale.
4. L’uso delle OER è un metodo efficace per migliora-
   re la ritenzione degli studenti a rischio.
5. L’uso delle OER porta ad una riflessione critica da
   parte degli insegnanti, con un evidente migliora-
   mento nella loro pratica.



                           118
            le open educational resources

6. L’adozione di OER a livello istituzionale porta be-
   nefici economici sia a studenti che a istituzioni.
7. Gli studenti informali usano una varietà di indica-
   tori quando selezionano le OER.
8. Gli studenti informali adottano una varietà di tec-
   niche per compensare la mancanza di supporto,
   che possono essere supportate dai corsi open.
9. La open education funziona da ponte con l’istru-
   zione formale, e ne è complementare non in com-
   petizione.
10. La partecipazione a progetti pilota nel settore
   OER porta a cambiamenti normativi a livello isti-
   tuzionale.
11. Mezzi di valutazione informale incentivano l’ap-
   prendimento con le OER

  Queste convinzioni potrebbero spesso risultare ov-
vie, innegabilmente vere o basate su aneddoti, ma
sono raramente sostenute da prove. Il movimento
OER ha guadagnato ora abbastanza slancio per stu-
diarle meglio e l’evidenza del loro impatto si può tro-
vare nella Impact Map (OER Research Hub 2014). In
generale si sono trovate prove a sostegno delle ipo-
tesi, anche se per alcune di esse erano ancora equi-
voche o sfumate. Questo metodo di iniziale promo-
zione sulla base delle convinzioni che vengono poi
soggette ad una valutazione oggettiva è necessario
per proseguire in nuovi campi. Come abbiamo visto
nel capitolo 2, la combinazione tra risorse digitali e
internet ha creato possibilità nuove che non hanno
nessun precedente su cui basarsi. Pertanto, per nuo-
vi campi come le OER, per raggiungere uno stato di
maturazione dove sia possibile farne una valutazione
critica, è fondamentale passare da una fase iniziale

                          119
                la battaglia per l’open

caratterizzata dalla sperimentazione e da una sorta di
“evangelizzazione”.
  Le OER possono essere presentate dunque come
una storia di successo per la open education – hanno
un impatto positivo sugli studenti, hanno sviluppato
modelli sostenibili di operatività, possono contare su
una fiorente comunità globale, l’aspetto open è stato
mantenuto e c’è una risonanza con la funzione socia-
le dell’istruzione, il tutto racchiuso in un approccio
moderno e digitale proprio del XXI secolo. Se andia-
mo a rivedere i principi dell’openness elencati nel ca-
pitolo 2, allora possiamo vedere come le OER siano
in linea con essi:
• libertà di riutilizzo – le licenze open fanno anche
  parte della definizione di OER;
• Open Access – una caratteristica distintiva;
• gratuità – di norma, anche se alcuni providers com-
  merciali operano con il modello “freemium”, in cui
  parte del contenuto è gratuito e parte non lo è;
• facile utilizzo – di solito sono semplici, anche se
  modificarne il contenuto può richiedere alcune
  competenze specifiche;
• contenuto digitale e in rete – si, anche se da tene-
  re presente il punto precedente sulla visibilità delle
  OER;
• approccio sociale, comunitario – esiste una buona
  comunità OER e per molti progetti specifici l’ap-
  proccio open è stato fondamentale per mettere in-
  sieme gruppi;
• argomentazioni etiche a favore dell’openness – han-
  no costituito la base anche di molti progetti OER;
• openness come modello efficiente – in crescita, so-
  prattutto con l’approccio dei libri di testo open.



                          120
            le open educational resources

  Dimostrato ciò, ha senso chiedersi come mai que-
sta storia di successo non ha avuto la stessa copertu-
ra mediatica nella stampa che hanno avuto i MOOC.
Perché un blogger che si occupa di tecnologie didat-
tiche dovrebbe dichiarare che i MOOC hanno porta-
to «più fermento in un anno che negli ultimi 1000
anni» (Clark 2013)? La fondazione Hewlett (2013 pag
16) si è sentita in dovere di specificare che «stiamo
assistendo a un sacco di confusione nel mercato
sui termini ‘Open’ e ‘OER’. Un esempio è la gran-
de crescita di corsi open online (MOOC) che hanno
suscitato molta attenzione per il movimento». Che
cos’è dunque che ha attirato così tanta attenzione sui
MOOC da parte dei media rispetto alle OER che sono
state in larga misura ignorate? Rispondere a questa
domanda ci dirà molto sulla open education e sul-
le tensioni al suo interno, e sarà il tema trattato nel
prossimo capitolo.




                          121
 CAPITOLO 5

I MOOC

                    Attento all’uomo che lavora duro per
                    imparare qualcosa, lo impara e non
                    si ritrova più saggio di prima. Egli è
                    pieno di risentimento omicida verso le
                    persone che sono ignoranti senza es-
                    serlo diventate nel modo più faticoso.
                                         Kurt Vonnegut


Introduzione
   Dopo aver esaminato la pratica consolidata delle
pubblicazioni in Open Access nel capitolo 3 e l’ap-
proccio relativamente stabile delle OER nel capitolo
4, questo capitolo tratterà il mondo veloce e un po’
volatile dei MOOC. Nessun argomento nell’ambi-
to della educational technology in tempi recenti ha
suscitato tanto entusiasmo tra gli imprenditori del
settore istruzione e tanta angoscia tra gli accademici
di ruolo come i MOOC. Se l’Open Access rappresen-
ta il caso più lampante del successo dell’openness, i
MOOC sono probabilmente il migliore esempio della
seconda componente, e cioè della battaglia che si sta
combattendo per sua la futura direzione.
   Dopotutto sono stati i MOOC, e non le OER, l’O-
pen Access o la open scholarship che hanno portato
l’esperto veterano di elearning Tony Bates (2014) a
disperare: «Non so come esprimere adeguatamente
                la battaglia per l’open

quanto sono incazzato con i MOOC – non per il con-
cetto in sé, ma per tutta l’arroganza e il nonsense con
cui si è parlato e scritto di loro. A livello personale
è come mandare in fumo 45 anni di lavoro». Come
mai? Che cos’è dei MOOC a provocare disperazione
ed eccitazione in egual misura? Questo sarà il tema
dei prossimi due capitoli, che si concentreranno pri-
ma di tutto sui MOOC e poi sull’interesse che susci-
tano nei media nel capitolo 6. I MOOC si presentano
come un microcosmo dei problemi della open educa-
tion, perché è con i corsi open che sono stati portati
più nitidamente in evidenza.
   La rapida crescita dei MOOC può essere dimostrata
paragonando l’interesse di internet nei loro confronti
con quello delle OER. Un semplice strumento come
Google Trends mostra infatti come l’interesse per
i MOOC sia cresciuto rispetto a quello per le OER
(Figura 4).
   Mentre le OER hanno avuto una crescita stabile dal
2009, che indica un aumento di visibilità, i MOOC
sembrano arrivare dal nulla nel tardo 2012 e rapida-
mente superare le OER. Questo schema rappresenta
il concetto espresso alla fine del capitolo precedente
riguardo all’interesse improvviso dei media nei con-
fronti dei MOOC. Tuttavia, guardando in prospet-
tiva, possiamo anche misurare i MOOC rispetto ad
un tema che ha una più ampia visibilità pubblica.
Zuckerman (2012) per scherzare suggerisce di usare
la celebrità americana Kim Kardashian come misura
dell’attenzione di internet. La Figura 5 mostra que-
sto paragone, e dato che Google Trends normalizza
la scala Y così che possa mostrare l’interesse relativo
invece che il numero assoluto di ricerche, il risultato



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                         i mooc

è che in questo schema i MOOC non sono nemmeno
considerati.
  Ci sono due aspetti interessanti dei MOOC dal pun-
to di vista della battaglia per l’open. Il primo è ciò che
sono, le opportunità e le minacce che pongono e il tipo
di openness che permettono. Il secondo è l’interesse
mediatico nei loro confronti e come mai trovano ri-
sonanza in un certo tipo di narrazione. Questo capi-
tolo tratterà il primo di questi aspetti, analizzando la
storia, i benefici, la commercializzazione e la didattica
dei MOOC. Il prossimo capitolo esaminerà il secondo
problema, quello della narrazione, nel dettaglio.




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                la battaglia per l’open




Il contesto dei MOOC
  I MOOC sono un argomento del quale un certo
numero di persone può affermare di essere l’artefi-
ce iniziale. Cosa viene considerato MOOC è aperto
ad interpretazione. Diverse persone avevano già ri-
lasciato contenuti in precedenza, sia come parte del
movimento OER sia in modo indipendente, e poteva
essere anche nella forma di un intero corso. C’è stato
tuttavia un crescente interesse sui corsi open da parte
di persone associabili al movimento della open edu-

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                        i mooc

cation. David Wiley ad esempio ha gestito un corso in
campus nel 2007 e lo ha messo online permettendo
a tutti di parteciparvi, e la stessa cosa ha fatto Alec
Couros facendo un corso “a confini aperti”. Il titolo di
fondatore è tuttavia attribuito alla Connectivism and
Connective Knowledge (CCK08), gestita da George
Siemens e Stephen Downes, nel 2008: è stato pro-
prio un commento su questo corso che ha dato origi-
ne al termine MOOC, attribuito sia a Dave Cormier
che a Bryan Alexander.
  Ci sono nomi familiari in questa lista di primi
MOOC provider, che possono essere visti come una
logica estensione del movimento della open educa-
tion. Ciò che ha caratterizzato i primi MOOC è sta-
to un interesse per le possibilità che offriva l’essere
open e in rete. La materia dei primi corsi era legata
alle modalità di presentazione, quindi intorno a temi
come la open education, l’identità digitale o la didat-
tica in rete. Come per i primi corsi di elearning, che
spesso trattavano semplicemente il tema dell’elear-
ning, queste prime sperimentazioni si concentrava-
no su argomenti in cui il mezzo era il messaggio, ma
proprio come per l’elearning poi la cosa si è estesa a
comprendere tutti gli argomenti.
  Un’altra caratteristica di questi primi MOOC è che
erano associati ad individui più che a istituzioni.
Erano visti come i corsi di George e Stephen invece
che corsi di Standford o del MIT, e questo significa-
va che rimanevano piuttosto sperimentali in termini
di tecnologia, sia per necessità sia per progettazione.
Usavano una combinazione di tecnologie open come
WordPress e Twitter, alcuni hosting istituzionali
come Moodle e anche alcuni strumenti autoideati
come il gRSShopper di Stephen Downes. Imparare

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                 la battaglia per l’open

a usare questi strumenti e a fare connessioni attra-
verso il mondo di internet era visto come l’obiettivo
principale.
   Poi nel 2011 i MOOC hanno preso una strada mol-
to diversa con Sebastian Thrun, che lanciò il corso
Artificial Intelligence di Stanford, con più di 120.000
iscritti. Il corso attirò molta attenzione da parte dei
media e degli investitori: con il costo crescente dell’i-
struzione formale l’idea di poter seguire corsi delle
migliori università gratuitamente pareva irresistibi-
le. Harvard e il MIT crearono edX, Coursera venne
lanciata da Daphne Koller e Andrew Ng con venture
capital e Thrun fondò Udacity.
   L’anno 2012 è stato chiamato dal New York Times
(Pappano 2012) “l’anno dei MOOC” dato che la mag-
gior parte delle più grandi università americane si
sono iscritte a uno o all’altro dei maggiori fornito-
ri, o hanno lanciato corsi propri. La MOOC-mania
non rimase confinata solo al Nord America: nel
Regno Unito la OU lanciò FutureLearn nel 2013; in
Germania ci fu iVersity; e in Australia Open2Study.
Coursera è il più noto provider di MOOC, con più
di 500 corsi provenienti da 107 università, e più di 5
milioni di studenti iscritti (Protalinski 2013). Il ritmo
di diffusione, promozione e sviluppo sembrava moz-
zafiato se paragonato alla maggior parte dei progetti
formativi.
   Questi nuovi MOOC erano molti diversi dai primi
esplorati dal movimento open education, dato che
tendevano ad essere istituzionali, basati su piatta-
forme private e guidati da una forte didattica istrut-
tivista. Mentre i MOOC iniziali avevano sottolineato
l’importanza del networking, molti dei nuovi MOOC
si concentravano su video tutorial e valutazioni auto-

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matiche. La distinzione fatta fu allora tra cMOOC per
i primi, di tipo connettivista, e xMOOC per i modelli
didattici successivi (Siemens 2012).
  Prima di esaminare l’impatto di questo aspetto
commerciale sulla natura dell’openness nei MOOC,
vale la pena di considerare alcuni aspetti positivi del-
la rapida crescita di visibilità della open education e
dell’elearning in generale. Per molti tecnici esperti
dell’istruzione che si erano adoperati per anni nel
coinvolgere membri dell’università o senior manager
in aspetti diversi della open education, i MOOC fu-
rono un modo per avere attenzione e finanziamenti.
Come afferma Siemens (2014) «se l’istruzione era il
grunge, i MOOC erano i suoi Nirvana», l’atto di svolta
che ha attirato l’attenzione. Potrebbe essere sbagliato
far passare un movimento di istruzione globale come
un movimento radicale, quale fu il grunge rock, ma è
certo che i MOOC abbiano accelerato l’interesse nei
confronti della open education.
  Questo incremento di visibilità può essere allo stes-
so tempo una benedizione e una maledizione, in par-
ticolare quando segue un ritorno dell’attenzione nei
confronti della rivoluzione nell’istruzione superiore.
Ma anche mettendo da parte i possibili dubbi benefi-
ci dell’essere diventato all’improvviso il bambino più
famoso della classe, i MOOC sono importanti perché
sollevano una serie di problemi per gli docenti, e –
fattore cruciale per il tema di questo libro – questi
problemi nascono come risultato diretto della natura
open dei MOOC. Nel prossimo paragrafo tratteremo
tre di questi problemi. Non sono i soli sollevati dai
MOOC, nè si tratta di un elenco esaustivo – la proget-
tazione dei corsi e la pedagogia potrebbero costituire
un libro a parte. L’intenzione qui è piuttosto quella di

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                 la battaglia per l’open

mostrare come la natura open dei MOOC porti a do-
mande fondamentali sulla comune pratica formativa.


I MOOC e la qualità
   Il primo problema è quello della qualità e del modo
in cui viene misurata. L’istruzione superiore formale
ha sviluppato una serie di parametri di qualità basati
su una relazione specifica tra chi fornisce l’istruzione
e il discente. Questa relazione è fondamentalmente
alterata in un MOOC, quindi questi parametri non
sono applicabili.
   Consideriamo perché si misura la qualità: soprat-
tutto è per verificare che obiettivi e intenzioni siano
stati raggiunti. L’obiettivo dell’istituzione potrebbe
essere l’avere un numero sufficiente di studenti, che
questi studenti rimangano e che passino il corso, e
che la reputazione dell’istituzione sia confermata. Il
docente che gestisce il corso può avere obiettivi simi-
li, insieme a quelli legati ad un interesse professiona-
le nell’esplorare le possibilità offerte dai MOOC. Lo
studente invece ha come obiettivo quello di imparare
ciò che si è prefissato, passare il corso, godere dell’e-
sperienza e ottenere competenze utili. Per questo
motivo sviluppiamo parametri di qualità e procedu-
re che monitorino queste intenzioni. Possono esse-
re la percentuale degli studenti che hanno comple-
tato il percorso, i punteggi di gradimento attribuiti
dagli studenti, le valutazioni esterne sui contenuti
del corso, il confronto con benchmark esterni, etc.
In un MOOC molte di queste intenzioni sono alte-
rate, radicalmente o solo in parte. Al momento non
sono chiare le intenzioni delle istituzioni in relazio-


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ne ai MOOC – attrarre più studenti formali, fornire
un bene pubblico, fare soldi? In questa fase iniziale
potrebbe essere una miscela confusa di tutti questi,
combinata con la necessità di apparire come impe-
gnati a fare qualcosa. Per i docenti la motivazione
potrebbe essere quella di fare qualche esperimento
con il curriculum o con l’istruzione, il miglioramen-
to della propria reputazione o una crescita personale.
   Una differenza più interessante emerge se si con-
siderano le intenzioni dello studente. Mentre alcuni
degli obiettivi possono rimanere uguali, per esempio
il fatto che possa essere d’aiuto nell’avanzamento di
carriera, altri sono esagerati o assenti. Il bisogno di
passare il corso, ad esempio, è drasticamente ridotto
perché il passaggio ai corsi successivi non è dipenden-
te da esso; e, cosa più importante, non c’è un impegno
finanziario e l’interesse personale ad apprendere è in
primo in piano. Nei corsi convenzionali ci sono diversi
tipi di studenti, ma nei MOOC la presenza di quelli
che vengono definiti “studenti per piacere” è più alta
del normale. Sono quasi tutti studenti per piacere – do-
potutto non lo devono fare, è qualcosa che sta nell’am-
bito delle attività di svago. Nei MOOC esiste una
classe nuova, completamente differente, di studenti
che raramente si trovano nell’istruzione formale, che
possiamo chiamare “drive-by learners”, letteralmente
“studenti di passaggio” (dopo la definizione di Groom
del 2011 “drive-by assignments”). Questi sono studen-
ti che si iscrivono perché possono. Non costa nulla
iscriversi, possono dare un’occhiata, vedere se sono
interessati a qualcosa e passare oltre. Possono uscire
ed entrare dal corso, prendere i pezzi che trovano in-
teressanti, o possono anche non entrarci per niente.
Nell’istruzione formale l’impegno emotivo ed econo-

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mico è molto maggiore e gli “studenti di passaggio”
sono molto rari. Kizilcec, Piech and Schneider (2013)
hanno usato la web analysis per distinguere quattro
tipi di studenti MOOC: quelli che li completano, gli
uditori, quelli che li abbandonano e quelli che li prova-
no. Anche se un paragone tra queste quattro tipologie
e gli studenti formali non è stato messo a punto, si
potrebbe supporre che l’impegno necessario per con-
tinuare nell’istruzione formale riduca la possibilità di
trovare studenti che provano o uditori, ma che ci sia
maggiore enfasi su quelli che completano.
  Se prendiamo in considerazione questi nuovi tipi di
studenti e le loro intenzioni, allora i parametri di quali-
tà esistenti non li tracciano in modo soddisfacente. Per
esempio solo una minima percentuale di loro vede il
completamento del corso come obiettivo principale. E
la progressione ad altri corsi non è ancora una metrica
in un mondo pick-and-choose, anche se vedremo sicu-
ramente pressioni crescenti per fare in modo che an-
che gli studenti dei MOOC rimangano fidelizzati a un
particolare marchio di MOOC provider, come si fa per
i fornitori di computer o di cellulari. Con un bacino
così ampio di studenti, i MOOC si trovano così in un
confronto difficile con l’istruzione formale. Per usare
la frase di Weinberger (2007), l’istruzione formale “fil-
tra in corso d’opera”, mentre i MOOC “filtrano in usci-
ta”. I parametri di qualità sono dunque molto diversi. I
tassi di gradimento degli studenti per un sistema che è
completamente aperto e filtra in uscita sono difficili da
paragonare in modo favorevole con un sistema molto
diverso in cui c’è già stato un filtraggio. Filtrare in usci-
ta e operare in metodologia open comunque permet-
te di applicare nuovi tipi di parametri di qualità, che
possono essere misurazioni di tipo “altmetrics” (quale

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                          i mooc

tipo di “buzz” crea, qual è la reazione pubblica dei par-
tecipanti) o di tipo analitico (quante persone ci ritorna-
no, qual è il tempo di permanenza, la bounce rate etc).
Ma il paragone deve essere fatto con altri MOOC non
con l’istruzione formale. La qualità, e cosa misura, è
quindi solo un esempio di pratiche consolidate che
l’attenzione per i MOOC dovrebbe farci riconsiderare.


I MOOC e i costi
  Un secondo problema che i MOOC sollevano nel
paragone con l’istruzione formale è che portano ad
una necessaria valutazione dei costi associati all’inse-
gnamento. Le stime di quanto ci voglia per produrre
un MOOC variano, con Udacity che stanzia budget di
200.000$, EdX di 250.000$ (DeJong 2013) e l’Univer-
sità del North Carolina che stima 150.000$ per il loro
MOOC Coursera (Goldstein 2013). L’idea è che una
volta creati possano essere lanciati a costo zero, anche
se questo dipenderà da quanto strettamente coinvolta
sarà la leadership accademica in ogni presentazione.
Ovviamente se non fai pagare le persone per seguire un
corso, allora i costi di presentazione devono essere bassi
per farne un modello sostenibile. Come abbiamo visto
per le OER ci sono diversi modelli di sostenibilità, e fon-
di di partenza sono spesso richiesti, ma alla fine questi
approcci hanno bisogno di reggersi in piedi da soli.
  Il costo dell’elearning in generale (non i MOOC) è
stato analizzato da un certo numero di ricercatori (ad
esempio Bates 1995 e Weller 2004). I costi possono
dividersi in produzione, cioè quelli associati alla cre-
azione di materiale del corso o al reperimento delle
risorse, all’acquisizione dei diritti etc.; e costi di pre-


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                     la battaglia per l’open

sentazione, cioè quelli associati al diffusione del corso.
Generalmente i costi di produzione sono fissi, special-
mente nell’elearning, perciò non variano con il nume-
ro di studenti; mentre quelli di presentazione sono
variabili, dunque crescono con il numero di studenti.
La differenza chiave per i MOOC è che, per raggiunge-
re la scala che desiderano rimanendo gratuiti, questo
modello non è sostenibile. I costi di presentazione per
i MOOC devono essere vicini allo zero.
  Il modello base di MOOC è quello dell’apprendi-
mento non supportato: nei cMOOC questo supporto è
sostituito da un network di peer, e negli xMOOC da un
feedback automatico. Alla Open University il rappor-
to tra produzione di corsi e costi di presentazione per
cinque presentazioni, che riguardano in media tutte le
discipline, sono stimati a circa 1:3; il che significa che
i costi di presentazione sono l’elemento più caro, una
volta che i costi di produzione iniziale sono stati stan-
ziati. Questo è in gran parte costituito da retribuzioni
versate a tutor part-time per supportare gli studenti,
ma anche da altri servizi generici e specifici di sup-
porto agli studenti, ad esempio il sostegno ad allievi
disabili, il pastoral support8, i costi di help desk, i co-
sti legati all’amministrazione di centri regionali... Ciò
dimostra che il costo di gran lunga maggiore è quello
del tutoraggio: pagare persone per aiutare gli studenti
è la vera spesa dell’istruzione. Per fare in modo che
i MOOC siano sostenibili quindi bisogna rimuovere
la maggior parte di questi costi di presentazione. La
domanda che i MOOC portano l’istruzione superiore
a farsi è: quale valore ha questo insieme di costi per gli
studenti? Molti dei servizi che rappresentano sono la

8    [Nota del traduttore] Si riferisce a servizi di assistenza allo stu-
    dente come orientamento e counselling.

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chiave di un successo a lungo termine per gli studen-
ti, tuttavia la loro necessità può non essere uniforme-
mente distribuita. Alcuni studenti di rado usufruisco-
no di questi servizi, non hanno bisogno di tutoraggio e
se la cavano molto bene a studiare da soli. Altri invece
hanno bisogno di molto supporto per varie ragioni e
probabilmente ottengono di più da quanto si avrebbe
da un’equa condivisione di questi servizi (cioè di più
di quanto hanno pagato). E la maggior parte sta nel
mezzo: alcune volte usufruiscono dei servizi altre no,
a seconda delle circostanze.
   Per l’istruzione da remoto in particolare, il primo
gruppo, cioè gli studenti sicuri di sé e indipenden-
ti probabilmente si troveranno bene con i MOOC.
Rappresentano quel 10% circa che completa i MOOC.
Poi ci sono alcuni per cui la quantità di supporto che
li potrebbe aiutare non è mai abbastanza, o perché
non sono fatti per lo studio o perché è il momento
sbagliato. Ma seduto nel mezzo c’è un cospicuo grup-
po che ha bisogno di vari livelli di supporto per “so-
pravvivere” ad un lungo corso di studi.
   Ciò non significa necessariamente che le università
non dovrebbero pensare a modi per ridurre il costo di
presentazione. È il dilemma delle università – molti
studenti potrebbero pensare che non hanno bisogno
di servizi, ma questi sono in realtà essenziali per un
successo a lungo termine. È come lo universal credit,
come la pensione statale. Alcuni ne hanno più biso-
gno di altri, ma se si rimuove il principio che tutti
li devono pagare allora diventano un costo proibitivo
per quelli che ne hanno bisogno. Quindi la domanda
che i MOOC portano università e studenti a farsi è:
quale valore diamo al supporto? È un’importante do-
manda per la direzione futura dell’istruzione.

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                 la battaglia per l’open

I MOOC e il design dei corsi
   Il terzo ed ultimo problema che tratteremo riguar-
da il course design, la progettazione del corso. Come
già detto nel capitolo 1, l’open crea una serie di oppor-
tunità diverse per l’istruzione. Ci sono molte possibi-
lità e ragioni differenti per voler essere open, e come
citato prima l’open education potrebbe costituire un
libro a sé. Questo paragrafo si concentrerà su un solo
aspetto, per dimostrare di nuovo come la natura open
dei MOOC sollevi problematiche differenti che han-
no poi un impatto sulla prassi didattica standard.
   Uno dei problemi più volte citati riguardo ai MOOC
è il loro basso tasso di completamento. Alcuni però
sostengono che parlare di tasso di completamen-
to dei MOOC significa non capirne l’uso. Downes
ha commentato: «Nessuno si è mai lamentato che i
giornali avessero un basso tasso di completamento»;
gli studenti prendono dai MOOC quello che a loro
interessa, come i lettori dei giornali fanno con i quo-
tidiani. Altri affermano che i MOOC non possono
realmente rispondere alla loro vocazione rivoluzio-
naria quando solo il 10% li completa (Lewin 2013).
Jordan e Weller (2013a) hanno tracciato i tassi di com-
pletamento prendendo varie fonti di dati disponibili
pubblicamente. La media di tasso di completamento
(e ci sono vari modi di definire completamento) era il
12,6%. Uno studio della University of Pennsylvania ha
trovato che i tassi di completamento fossero più bassi,
intorno al 4% (Perna e altri 2013). La Figura 6 traccia
i tassi di abbandono degli studenti attivi, cioè quelli
che sono entrati nel corso e hanno fatto qualcosa come
guardare un video, a seconda delle diverse discipline.
Lo schema nella figura 6 è molto coerente per tutte le

                          136
                       i mooc

discipline. Dato questo comportamento piuttosto soli-
do, ci sono due risposte per il design dei corsi.




  Design per il mantenimento
  La prima risposta è dire che il completamento è un
metodo di misura opportuno. Ci possono essere corsi
in cui è auspicabile che il maggior numero di perso-
ne possibile li porti a termine, per esempio un corso
di recupero in matematica richiederà agli studenti di
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                 la battaglia per l’open

completare la maggior parte degli argomenti. Il pro-
getto Bridge2Success ha usato un approccio simile a
quello dei MOOC per aiutare gli studenti con la ma-
tematica in modo che potessero ottenere un posto in
un programma per il collocamento. In questo caso il
completamento era fondamentale (Pit e altri 2013).
  Il course design deve risolvere il problema del tasso
di abbandono e ci potrebbero essere molti modi per
farlo: aggiungere più feedback, usare premi per mo-
tivare le persone, creare strutture di supporto, aiuta-
re con gruppi di studio face-to-face, suddividere corsi
lunghi in tranches più brevi, etc.

   Design per la selezione
   Il secondo approccio di course design è decidere che
il completamento non è un metodo di misura impor-
tante. Colui che progetta il corso allora accetta i tassi
di abbandono come mostrati nella figura 7 e progetta
l’esperienza con questo in mente. In questo approc-
cio il progettista si può allontanare dal modello lineare
di corso per permettere alle persone di essere coin-
volte nella selezione tipo “quotidiano” di cui parlava
Downes. Un corso potrebbe essere strutturato intorno
a macro tematiche ad esempio, e ognuno intorno ad at-
tività per lo più indipendenti, in questo caso il tasso di
completamento non è molto importante, dal momen-
to che gli studenti prendono ciò che a loro interessa.
   Per inciso, è probabile che i tassi di completamento
di un MOOC siano fatti in modo che mostrino un
risultato basso se paragonati all’istruzione formale
per lo più perché il modo in cui si ci si può iscrivere
è vario. Nell’istruzione formale ci sono molti modi di
definire chi si è iscritto ad un corso, ma solitamen-


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te si considera un periodo di riflessione: gli studenti
non si reputano iscritti se abbandonano nelle prime
due settimane o non si presentano. Prendendo come
dati di iscrizione ai MOOC il numero di quelli che si
sono iscritti anche se non li hanno mai seguiti darà
sempre cifre negative. Un risultato migliore potrebbe
essere considerare il numero di studenti attivi dopo
una settimana, che è una cifra di base che mostra gli
studenti che hanno di fatto iniziato il corso.




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                 la battaglia per l’open

  Un altro grafico elaborato da Jordan e Weller (2013b)
ha mostrato il numero medio di studenti attivi per
settimana (Figura 7), partendo dai dati delle iscrizio-
ni iniziali. Alla fine della prima settimana c’erano cir-
ca 55% di studenti che mostravano di essere ancora
attivi dal punto di iscrizione iniziale. Molti di quelli
che si sono iscritti non entreranno nel corso nem-
meno una volta, quindi è fuorviante dire che hanno
abbandonato. Se questo 55% è preso come statistica
reale di iscrizione così come cifra iniziale, allora il
tasso medio di completamento sale a circa il 23%.
Con studenti “open entry” in un corso non suppor-
tato, questa cifra potrebbe non essere così catastro-
fica come i numeri spesso riportano. C’è un rovescio
della medaglia in questo modo di ridefinire i tassi di
completamento, cioè che riduce drasticamente gli
impressionanti valori di iscrizione usati per giustifi-
care gli investimenti nei MOOC.
  Ciò che questo esempio e i due precedenti dimo-
strano è che ci sono questioni benefiche, o almeno
significative, sollevate dai MOOC riguardo all’istru-
zione formale. È uno dei valori aggiunti dell’open-
ness – ci porta a riflettere sui presupposti della prassi
standard che possono essere migliorati o cambiati.
Il modo in cui gli insegnanti progettano, calcolano i
costi e valutano la qualità di tutti i corsi, non solo di
quelli open, viene alterato dalle applicazioni digitali
e in rete, ma è l’aggiunta del catalizzatore dell’open-
ness che potenzia veramente i cambiamenti e le pos-
sibilità. Ed è su questo impatto positivo dei MOOC
che voglio concentrarmi prima di esaminarne gli
svantaggi. Il prossimo paragrafo analizzerà come i
MOOC si possono relazionare all’istruzione superio-
re e giocare un ruolo complementare.

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                          i mooc

MOOC come complemento all’istruzione formale
  Tutto il clamore sui MOOC li ha messi in compe-
tizione con l’istruzione formale e se questo schema
antitetico può avere senso in termini di narrazione
mediatica, come vedremo nel prossimo capitolo, esso
minimizza sia l’effettivo impatto dei MOOC sia l’a-
dattabilità del settore istruzione. Una prospettiva al-
ternativa è considerare i MOOC come simili alle OER
e complementari all’istruzione formale. Di seguito
cinque delle possibili funzioni dei MOOC:
• Rendere open una parte dei corsi – Un corso online
  (o misto) potrebbe essere strutturato così da fare in
  modo che una parte di esso funzioni da MOOC auto-
  nomo. Questo permetterebbe agli studenti di vedere
  se è il tipo di corso che vogliono seguire, di fare col-
  legamenti ed esperienze studiando. Si è trovato che
  questo tipo di prova è molto importante nel caso delle
  OER (es. Perryman, Law and Law 2013), che ha di-
  versi benefici sia per l’istituzione sia per lo studente.
  In primo luogo funziona come finestra promozionale
  che incrementa il reclutamento di studenti, in secon-
  do luogo può far aumentare il tasso di mantenimento
  degli studenti, dato che quelli che fanno fatica lo pos-
  sono capire gratuitamente e decidere o di prendere
  una strada differente o di studiare ad un altro livello
  o di procurarsi materiale propedeutico. In terzo luogo
  può ampliare il bacino di partecipazione, raggiungen-
  do un pubblico che l’istituzione faceva fatica a rag-
  giungere prima. Comunque, deve anche essere detto
  che senza supporto l’esperienza può risultare negativa
  per alcuni studenti e tenerli lontani dallo studio.
• Corsi dai confini aperti – Come abbiamo già visto
  in precedenza, alcuni corsi che hanno un’utenza
  di base in un campus universitario possono essere
                           141
                 la battaglia per l’open

  messi open per tutti. Il corso di storytelling digitale
  DS106 e il corso di fotografia Phonar rappresen-
  tano dei buoni esempi. Oltre ai vantaggi di cui si
  è parlato sopra, ci sono particolari benefici in aree
  tematiche specifiche. La fotografia ad esempio è
  un’area in cui l’esposizione ad un pubblico vasto,
  che includa professionisti e amatori con esperien-
  za, porta vantaggi. Ma per tutti gli studenti c’è un
  beneficio nello sviluppare un network di colleghi al
  di là del loro ristretto gruppo di studio.
• La collaborazione in ambito MOOC – Le istituzioni
  potrebbero collaborare sui MOOC che sono utili per
  una buona parte dei loro studenti. Qui entra in gioco la
  stessa logica che ha supportato i learning object: per-
  ché insegnare lo stesso argomento in posti diversi se
  si può creare un MOOC di buona qualità per tutti gli
  studenti, riconosciuto da tutte le istituzioni coinvolte?
• Il riconoscimento dei MOOC – Attraverso un rico-
  noscimento ufficiale di certi tipi di MOOC, è possi-
  bile che alcune istituzioni riducano alcuni dei corsi
  che offrono. Per esempio un allievo potrebbe dimo-
  strare che ha completato con successo un certo nu-
  mero di MOOC per cui può accedere ad un corso di
  laurea al secondo anno e completarlo in due anni.
  Per gli studenti questo significa una riduzione di
  costi di circa un terzo, cosa che potrebbe rendere
  gli studi superiori più attraenti. In realtà i campus
  universitari vendono quella che viene definita la
  “campus experience” senza che essa sia proibitiva
  in termini di costi. Per questo motivo ci potrebbero
  essere riserve sullo sviluppare capacità di più alto
  livello, universitarie, con questo approccio; ma è
  possibile che alcune istituzioni scelgano di farlo co-
  munque per differenziarsi da altre.

                           142
                         i mooc

• Sperimentazione e sviluppo del percorso di studi – I
  corsi formali online sono un investimento crescente,
  il che significa che l’approvazione del corso stesso di-
  venta più rigorosa. Le aspettative poste su un corso
  formale sono invece ridotte per un MOOC (anche se
  non scompaiono), cosa che permette la sperimenta-
  zione. E dato che i MOOC si rifanno ad un pubblico
  globale, non compatibile con il campus, potrebbe ve-
  nire a crearsi un gruppo pagante per una comunità
  globale di studenti non formali. Il risultato è che la
  sperimentazione nei percorsi di studi diventa meno
  rischiosa. Significa anche che le istituzioni possono
  offrire un percorso di studi più ampio, unendo la
  propria offerta con un riconoscimento dei MOOC di
  altri. Per esempio “idro-ingegneristica e russo” posso-
  no essere offerti da un’università che si occupa di ele-
  menti di ingegneria, mentre il russo è rilasciato da un
  MOOC accreditato e supportato dall’università ospite.

  Questi possibili scenari mostrano come i MOOC
possono beneficiare dell’istruzione formale e opera-
re in parallelo in un modello sostenibile. Purtroppo
molta della recente offerta di MOOC non è concen-
trata su queste possibilità, e invece sfrutta al massi-
mo l’idea dei MOOC come sostituto delle università.
Questo in parte è una funzione della natura commer-
ciale di molti dei nuovi MOOC, ed è l’argomento di
cui parleremo nel prossimo paragrafo.


La commercializzazione dei MOOC
   Non appena il MOOC di Sabastian Thrun ottenne
l’attenzione dei media, furono istituiti un numero di
provider commerciali con fondi venture capital. Il più
                           143
                la battaglia per l’open

importante di questi era Udacity, dello stesso Thrun,
insieme ad un’altra startup con sede a Stanford,
Coursera, guidata da Daphne Koller e Andrew Ng.
Dopo un investimento iniziale di 22 milioni di dolla-
ri, Coursera guadagnò ulteriori 43 milioni di dollari
nel 2013 (Kolowich 2013a). Il modello di business dei
providers di MOOC non è sempre chiaro. Coursera
ha dichiarato di aver guadagnato 1 milione di dollari
di introiti vendendo certificati attestanti il completa-
mento, che costano dai 30$ ai 100$ (Heussner 2013).
Hanno anche annunciato di avere un servizio per la
ricerca di lavoro, Careers Service, in cui i datori di
lavoro pagano una quota per essere messi in contat-
to con i migliori studenti dei MOOC (Young 2012).
Questi elementi di headhunting e certificazione
sono stati combinati creando un modello “paid for
Signature Track”, in cui gli studenti pagano una quo-
ta per avere un’identità verificabile, documentazione
e certificazione (Coursera 2013a).
   Nel maggio 2013 Coursera ha anche annunciato
che avrebbe collaborato con dieci campus universita-
ri per offrire alcuni MOOC campus based (Coursera
2013b) in cui gli studenti del campus potevano segui-
re un MOOC con supporto locale. Ciò li posizionava
come un provider di corsi in elearning, cosa che se-
condo quanto suggerito da Mike Caulfield (2013) era
l’intenzione chiave fin dall’inizio.
   Nel frattempo Sebastian Thrun annunciò che
Udacity era vicino a trovare la “formula magica” per
il settore istruzione (Carr 2013). Poi, in un’intervista
nel novembre 2013, sulla base dei risultati dei tassi di
completamento descritti prima, annunciò invece che
Udacity aveva un “pessimo prodotto” e che si stavano
riposizionando per fornire una formazione aziendale

                          144
                          i mooc

(Chafkin 2013). Questo improvviso cambio di rotta
provocò un considerevole numero di commenti di
scherno, vista l’enfasi delle dichiarazioni precedenti,
con Siemens (2013) che forse li riassume nel modo
più sintetico: «Non cadete in errore – questo è un fal-
limento di Udacity e di Sebastian Thrun, non è un
fallimento della open education, dell’apprendimento
a scala, dell’online learning o dei MOOC. Thrun ha
legato il suo destino troppo presto ai fondi venture
capital. Come risultato, Udacity è ora guidata dalla
ricerca di entrate, non da innovazione».
  Ed è proprio l’ultimo punto di Siemens che vale la
pena di seguire nel contesto dei MOOC – l’influenza
dei fondi venture capital. Non dovremmo stupirci del
fatto che Coursera ha provato una serie di modelli di
business, dato che ciò costituisce un approccio comu-
ne per le startup di internet. Suggerisce però che loro
non sono completamente certi di quale sia il ruolo dei
MOOC. Koller (2012) ha promosso la democratizzazio-
ne dell’apprendimento che i MOOC e Coursera offrono
come un bene sociale, e i dati sono impressionanti, con
oltre 17 milioni di iscrizioni a settembre 2013 (Coursera
2013c) – anche se questo numero dovrebbe essere preso
con cautela relativamente a che cosa costituisca un’iscri-
zione, come citato prima. Per fare un paragone, ci sono
solo 2.3 milioni di studenti iscritti all’istruzione superio-
re nell’intero Regno Unito (HESA 2013). Può sembra-
re fuori luogo quindi criticare Coursera e altri provider
di MOOC per aver garantito l’accesso ad un’istruzione
gratuita. Questo paragrafo non tratterà di temi come la
metodologia didattica, che alcuni hanno messo in evi-
denza come critica nei confronti dei MOOC. Anche se
alcune di queste accuse possono essere valide, infatti,
tradiscono spesso o uno snobismo sull’online learning

                            145
                 la battaglia per l’open

o una sovrastima della varietà e del contatto face-to-face
nell’esperienza degli studenti.
   Il focus qui è sull’aspetto open dei MOOC. Anche
se primi risultati (Kolowich 2013b) suggeriscono che
gli allievi di successo sono tendenzialmente studen-
ti esperti già laureati, potrebbe anche essere che con
il tempo e acquisita una familiarità crescente con i
MOOC, Koller possa avere ragione nella sua visione
circa la democratizzazione dell’apprendimento. È co-
munque poco probabile che un obiettivo così altruisti-
co sia la motivazione dei venture capitalist che hanno
investito 85 milioni di dollari in Coursera. Per prova-
re a recuperare questi costi le aziende che producono
MOOC hanno infatti modificato i loro modelli, e si
sono allontanate da un modello puramente open: i loro
contenuti non sono coperti da licenze open, quindi
non posso essere riutilizzati; le iscrizioni sono spesso
limitate a determinati periodi, quindi non si può avere
accesso al contenuto senza iscriversi; oltretutto molti
provider MOOC limitano la cerchia delle università
partner a una elite di istituzioni. Il modello Signature
Track di Coursera può essere conveniente se para-
gonato all’istruzione formale, ma non è un modello
open come non lo sono il modello blended learning
(misto) e il modello campus based. La trasformazione
di Udacity in una realtà corporate del settore elearning
dimostra quanto velocemente si possa verificare que-
sto spostamento da un provider globale di open educa-
tion se non è fondato sui principi dell’openness.
   C’è stato un precedente per il cambiamento di Udacity
nel FlatWorldKnowledge. FlatWorld fu fondato come
un editore di libri di testo Open Access che permetteva
ai docenti di modificare la versione gratuita online e
vendere la copia fisica per un prezzo fissato. Nel 2012

                           146
                          i mooc

annunciarono che rilasciavano libri di testo ad acces-
so gratuito (Howard 2012), anche se rimanevano una
soluzione conveniente. La ragione che stava dietro era
che il loro modello di business semplicemente non
generava un introito sufficiente. I libri di testo a buon
mercato sono i benvenuti, ma è molto diverso dall’a-
vere libri di testo open. Come suggerisce Siemens, la
stretta connessione con le fonti di guadagno dominerà
le preoccupazioni delle startup, e l’openness è di solito
la prima vittima quando questo accade.
   Dati i costi necessari a creare un MOOC, e il ritor-
no che le università cominceranno a chiedere per
l’investimento nel loro staff, è in dubbio se i MOOC
possano rappresentare davvero un modello di busi-
ness sostenibile, che funziona in modo autonomo.
Come per le OER, essi potrebbero essere sostenibili
forse come aggiunta alla pratica universitaria esisten-
te o per agenzie nazionali, enti no profit ed organi-
smi professionali che hanno interesse a coinvolge-
re studenti. A meno che siano basati sull’openness,
comunque, è poco probabile che questo rimanga un
principio centrale della loro identità.
   Potrebbe certo accadere che i provider MOOC si tra-
sformino in alternative di istruzione a basso costo, of-
frendo una combinazione di corsi non supportati ab-
bastanza sofisticati e con valutazione automatica. Ciò
potrebbe avere un profondo impatto sull’accesso all’i-
struzione e alla stessa istruzione superiore, ma potreb-
be costituire una proposta differente rispetto al modello
originale “open as in free”, e avrebbe più tratti in comu-
ne con il modello open entry dell’istruzione da remoto
rappresentato dalle università open. È in forse quindi se
le università “elitarie” continueranno a sovvenzionare
un provider a basso costo attraverso la fornitura di corsi,
una volta che l’aspetto open venisse rimosso.
                           147
               la battaglia per l’open

Conclusioni
  I MOOC non sono spuntati fuori in una notte dal
nulla, anche se si potrebbe perdonare chi la pensa
così basandosi sulla promozione che ne hanno fat-
to. La Figura 8 di Yuan e Powell (2013) fornisce una
chiara indicazione delle influenze che hanno contri-
buito ai MOOC. Mentre alcuni provider di MOOC,
come EdX finanziato da Harvard e dal MIT, si posso-
no considerare una prosecuzione delle OER, altri si
sono sviluppati su linee commerciali.




                        148
                        i mooc

  Per gli studenti dei MOOC queste distinzioni ide-
ologiche non hanno granchè di impatto – un MOOC
Coursera non sembra differire radicalmente da uno
EdX. Come abbiamo visto però possono avere conse-
guenze a lungo termine sulle direzioni che i MOOC
prendono.
  I primi MOOC erano per lo più sperimentali, chia-
ramente disegnati per sfruttare le possibilità che of-
friva l’essere open e in rete. L’openness era quindi
una componente chiave nel loro design. Non appena
i MOOC furono associati di più alle istituzioni, ac-
quisirono quello che possiamo definire un “limite di
brand”. Se i MOOC vengono visti come una grande
vetrina globale, allora la loro identità si avvicina più
a quella della diffusione che a quella di un fare rete,
con una qualità di produzione di alto livello.
  Ogni fallimento dei MOOC porta una pubblicità
molto negativa per l’istituzione, come l’esempio di-
mostrato dalla Georgia Tech Coursera, quando offrì
Fundamentals of Online Education (Kolowich 2013c).
Questo corso mostrò di avere problemi con studen-
ti che usavano Google Docs per registrarsi e dovette
essere sospeso, soprattutto per la portata degli utenti
che si iscrivevano. Questo passaggio da sperimenta-
zione accettabile a parte integrante della politica di
comunicazione dell’istituzione può avere vantaggi in
termini di sostenibilità, in quanto il costo dei MOOC
può essere valutato in relazione ai benefici di mercato
che ottengono, che è un modello comprensibile per le
università. Ma può avere anche alcuni aspetti negativi:
• I MOOC diventano proibitivi in termini di costi
  – Un buon MOOC richiede una produzione così
  esclusiva che non è economicamente fattibile visto
  il basso ritorno.

                          149
                la battaglia per l’open

• Solo istituzioni elitarie possono offrire MOOC –
  Data la spesa, solo quelle istituzioni che hanno i
  soldi o le capacità di produrre contenuti con ottima
  qualità di trasmissione potranno farli.
• I MOOC tendono a diventare didatticamente con-
  servatori – parte del problema con la Georgia Tech
  è che stava sperimentando un nuovo approccio, e
  se il costo del fallimento è così elevato è meglio non
  tentare nulla di rischioso o innovativo.
• La paura del fallimento dei MOOC diventa un osta-
  colo all’adozione – Un fallimento pubblico può
  danneggiare la reputazione sia di un individuo sia
  di una istituzione, perciò molti considereranno
  troppo grande il rischio.

   In relativamente poco tempo i MOOC sarebbero
passati dall’essere un mezzo per permettere agli in-
segnanti di sperimentare con la tecnologia e la didat-
tica ad una forma diversa di diffusione controllata da
pochi.
   Questa perdita di spirito sperimentale può anche
sorgere a causa di alcuni MOOC provider dominanti.
Invece che scoprire nuovi modelli di open education,
lanciare un corso su piattaforme di Coursera (o EdX
o FutureLearn) viene visto come l’unico modo per
gestire un MOOC. I provider commerciali non ama-
no la differenziazione del mercato: vogliono essere la
Microsoft o la Google dei MOOC, e dato che questo
porta al massimo del guadagno di sicuro diventare il
fornitore principale può essere l’unico modo per au-
mentare i ricavi. All’inizio del capitolo 1 ho discusso
il fatto che le tensioni nella open education si posso-
no considerare una guerra, dato il valore reale asso-
ciato alla vittoria: una perdita nella sperimentazione

                          150
                         i mooc

e nel dominio del mercato per i corsi open potrebbe
essere un esempio di queste conseguenze.
   La perdita di controllo percepita sulla piattafor-
ma dei corsi open ha portato all’iniziativa “Reclaim
Open” fatta dal MIT insieme a UC Irvine. La piatta-
forma Reclaim Open (2013) lamenta il fatto che «re-
centi iniziative di alto profilo nell’online learning per
l’istruzione superiore sembrano replicare un model-
lo tradizionale lecture-based o campus based, inve-
ce che accogliere la natura connessa peer-to-peer del
web». Il sito promette che «Reclaim Open Learning
invece interviene in questo dibattito supportando e
mostrando un’innovazione che mette insieme il me-
glio dell’apprendimento open, online e in rete nelle
lande desolate di internet». Può essere visto come un
contro-movimento rispetto al dominio crescente di
certi modelli di MOOC, che le loro piattaforme tec-
nologiche vengono ad incarnare. L’iniziativa Reclaim
Open vede la partecipazione a diverse forme di tec-
nologia come una strada attraverso la quale gli inse-
gnanti possano appropriarsi del significato di essere
open. Che si sostenga l’approccio di Reclaim Open
o no, la loro esistenza è indicativa dello stadio in cui
siamo nella battaglia per l’open e suggerisce come la
proprietà del termine sia volatile, o sia sfuggita via.
Non si vedono movimenti di “reclaim exams” (rela-
tivi cioè agli esami) o di “reclaim libraries” (relativi
cioè alle biblioteche).
   Se l’analisi fatta alla fine dell’ultimo capitolo sulle
OER rispetto ai principi open dal capitolo 2 si ripete
anche per i MOOC, rivela alcune delle ragioni di que-
sto disagio di fondo:
• Libertà di riutilizzo – I contenuti dei MOOC non
   sono di solito coperti da licenze open, quindi non

                           151
                   la battaglia per l’open

    possono essere riutilizzati in contesti differenti (al-
    cuni provider hanno iniziato ad usare le licenze CC
    ora).
•   Open Access – I MOOC sono aperti alle iscrizioni
    per tutti.
•   Gratuità – questo è stato il focus principale dei
    MOOC.
•   Facilità di utilizzo – le piattaforme MOOC hanno
    sviluppato interfacce facili da usare, anche se come
    sopra indicato i tassi di completamento per questo
    tipo di apprendimento sono bassi.
•   Contenuto digitale, in rete – anche se i MOOC sono
    ovviamente online e digitali, non sono spesso com-
    pletamente in rete, in quanto possono esistere an-
    che su una piattaforma chiusa.
•   Approcci sociali, community based – alcuni MOOC
    si basano su un approccio molto comunitario,
    mentre altri sono più “istruttivisti” e focalizzati
    sull’individuo.
•   Argomentazioni etiche per l’openness – la demo-
    cratizzazione dell’apprendimento è stata portata
    come argomento etico per i MOOC, ma non molto
    l’openness in sé.
•   L’openness come modello efficiente – a parte per
    alcuni cMOOC, i MOOC non sono sviluppati di
    solito con approccio open; tendono invece ad esse-
    re sviluppati come prodotti privati all’interno delle
    università.

  Questo non è per ridurre l’impatto che aziende
come Udacity e Coursera hanno avuto: esse hanno
alzato considerevolmente il profilo dell’elearning e
della open education e sono state innovative sul fron-
te tecnologico ad un ritmo molto maggiore di quanto

                             152
                        i mooc

le università potessero fare. La presenza di interessi
commerciali nel campo può creare una competizione
sana, innovazione e una diversità di prospettive. Per
gli studenti che stanno seguendo corsi gratuiti le ri-
serve che università e accademici hanno riguardo ai
MOOC possono apparire inevitabili come il fatto che
ai tacchini non piace il Natale. Comunque, andrebbe
a discapito degli studenti nel lungo periodo se una
piattaforma MOOC diventasse dominante o se, dopo
aver sconvolto molte delle basi dell’istruzione supe-
riore i MOOC iniziassero a fare pagare per i corsi.
   Parte della riluttanza (o anche del risentimento) ri-
guardo ai MOOC si è concentrata meno sul concetto
reale o sui fornitori, e piuttosto è stata una reazione
all’iperbole e al turbinio mediatico che li ha accom-
pagnati. È importante dunque separare questi due
aspetti nel momento in cui si verifica l’inevitabile
contraccolpo. Questo avviene in risposta alla promes-
sa esagerata fatta per i MOOC piuttosto che alla realtà
più sfumata che possono offrire. Analizzare la natura
di questa narrazione rivelerà molto sulla battaglia per
l’open, e questo è il tema del prossimo capitolo.




                          153
 CAPITOLO 6

L’istruzione malata e la narrazione
della Silicon Valley

                     Le rivoluzioni sono stroncate sul nasce-
                     re, o trionfano troppo rapidamente.
                     La passione si esaurisce troppo in fretta.
                                             Henry Miller


Introduzione
   Nel precedente capitolo viene tracciata l’ascesa dei
MOOC e sono esplorate le possibili opportunità e
dubbi su di essi. A differenza di quasi tutti gli altri
sviluppi nel settore dell’istruzione, i MOOC hanno
catalizzato un considerevole interesse mediatico e in
questo capitolo ne esamineremo le ragioni di fondo.
Nel capitolo 1 ho discusso di come la battaglia per
l’open fosse in parte una battaglia per la narrazione,
un tema che verrà esplorato nel prossimo capitolo.
Sebbene gran parte di questo capitolo si concentrerà
sui MOOC, dato che forniscono l’esempio più im-
mediato della combinazione tra istruzione, media
e tecnologia, può in realtà valere per ogni sviluppo
dell’istruzione ed è particolarmente rilevante per la
open education.
                la battaglia per l’open

  Giusto per avere un’idea dell’interesse mediatico e
della presa di posizione riguardo ai MOOC, qui di
seguito un esempio di titoli apparsi dal 2012 al 2013:
1. La rivoluzione dei MOOC: come fare un MBA gra-
   tis (Schmitt 2013)
2. Una rivoluzione investe le università (Friedman
   2013)
3. I MOOC cambieranno radicalmente l’istruzione
   superiore? (Booker 2013)
4. Come Coursera, un servizio di formazione online
   gratuita, ci istruirà tutti (Kamenetz 2012)
5. Quello che i MOOC uccideranno davvero è la ricer-
   ca universitaria (Worstall 2013)
6. Accettate i MOOC o il declino, avverte v-c (Parr
   2013)
7. I MOOC: un fine più alto di quanto sembri?
   (Blackenhorn 2012)
8. Corsi di istruzione superiore con iscrizioni di mas-
   sa: inizia una rivoluzione (Idea 2012)

   Mentre scrivo, nei primi mesi del 2014, questi tito-
li sembrano già datati. Provate a sostituire OER con
MOOC in ciascuno di essi e anche se si possono fare
dichiarazioni simili, è ovvio che pezzi così iperbolici
non sarebbero stati scritti per le OER. Spesso gli arti-
coli erano poco più che pubblicità per le compagnie
di MOOC coinvolte, con nessuna valutazione critica
delle affermazioni. Dalla prospettiva della open edu-
cation, la domanda è perché una branca della open
education dovrebbe portare così tanta eccitazione e
un’altra no?




                          156
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

L’istruzione è malata
   Sono tentato di affermare che la ragione per cui i
MOOC hanno attirato così tanta attenzione – e così
poca valutazione critica – è che si sono inseriti con
cura in un’ampia gamma di narrazioni in modo di-
verso da ogni altra forma di open education. E ci
sono due aspetti che riguardano questa narrazione:
il primo è la definizione del problema “l’istruzione è
malata”, e il secondo è la narrazione dominante della
Silicon valley per dare soluzioni.
   “L’istruzione è malata” è diventato un punto di
partenza così unanimemente accettato che spesso è
dato come inconfutabile. Andrew D’Souza, il diret-
tore operativo di una società di startup di tecnologie
didattiche dichiara con disperazione: «Lo spazio di-
dattico è enorme, e decisamente malato» (Tauber
2013); Sebastian Thrun come prevedibile dichiarò
«L’istruzione è malata. Affrontatelo. È così mala-
ta, da così tanti punti di vista, che richiederebbe un
po’ della magia della Silicon Valley» (Wolfson 2013).
Un’influente relazione dell’Institute for Public Policy
Research intitolata “Sta arrivando una valanga” di-
chiarava: «I modelli di istruzione superiore che han-
no marciato trionfalmente attraverso il globo nella
seconda metà del XX secolo sono corrotti» (Barber,
Donnelly & Rizv 2013); anche analisti accorti come
Clay Shirky sono propensi a dirlo con un pezzo intito-
lato “Your Massively Open Offline College Is Broken”
(Shirky 2013).
   Prima di prendere in considerazione una risposta
al problema dell’istruzione malata, ci sono due do-
mande da farsi. La prima è cosa si intende per siste-
ma malato? Le seconda è perché lo si dice con così

                          157
                 la battaglia per l’open

tanta convinzione e così spesso? Per rispondere alla
prima domanda vediamo che cosa o come l’istruzio-
ne sia compromessa, cosa che è di rado approfondita.
Si tratta semplicemente di dichiarare una posizione
di partenza dalla quale segue tutto il resto, un “sine
qua non” della rivoluzione educational. Proviamo
ad assumere che ci sia una convinzione genuina da
parte di chi lo propone: è ragionevole chiedersi allora
in quali modi l’istruzione potrebbe essere malata. In
tempi diversi potrebbe essere collegato alla mancanza
di creatività, nell’istruzione K-12 ad esempio, o ai tas-
si di assenze ingiustificate o più spesso al modello di
finanziamento dell’istruzione superiore, di solito tut-
to visto da una prospettiva USA. Può essere certo che
ci sia una creatività insufficiente nell’istruzione K-12,
ma una parte di ciò è un risultato di scala. Qualsiasi
alternativa avrebbe bisogno di operare su un sistema
a scala nazionale e includere così tutte le tipologie di
studenti. Spesso si sentono proteste sul fatto che la
scuola sia rimasta invariata per centinaia di anni o
che sia un sistema disegnato per l’età industriale; Sal
Khan ad esempio in un’intervista con Forbes sostie-
ne che l’istruzione è diventata statica negli ultimi 120
anni (Khan e Noer 2011). Queste affermazioni spes-
so sottostimano però ampiamente il cambiamento
nella didattica scolastica verso un modo di lavorare
più a progetto o di gruppo. Come dichiara Watters
(2012), «Passare con un balzo dal 1892 al 2000 – dal
“Comitato dei Dieci” alla Khan Academy – significa
ignorare il lavoro fatto da molti docenti e tecnologi
per pensare a come computer e reti modificheranno
il modo di insegnare e di apprendere.» Ci sono sicu-
ramente grandi opportunità per cambiare il modo di
fare lezione, per coinvolgere i bambini e in particola-

                           158
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

re per sfruttare al meglio le nuove tecnologie, e non
si dovrebbero sottostimare gli ostacoli nell’ottenere
ciascuno di questi risultati; ma difficilmente tutto ciò
giustificherebbe l’etichetta di malato.
   Una prova che viene alcune volte portata a suppor-
to dell’argomentazione sull’istruzione malata è che le
assenze ingiustificate sono sempre alte (Paula 2013);
perciò la scuola non funziona; perciò si richiede una
soluzione radicale. Il modo in cui il tasso di assenza
ingiustificata viene calcolato però varia considerevol-
mente e ciascuna assenza non autorizzata, come quel-
la di un bambino che va in vacanza con i suoi genitori,
viene considerato un marinare la scuola. Quindi pri-
ma di usare l’assenteismo come giustificazione del fat-
to che l’istruzione è essenzialmente malata, è necessa-
rio farsi domande come: ogni cambiamento è ora un
dato statistico statistico o sta nell’ambito delle normali
variazioni? I confronti storici sono validi (ad esempio
a parità di provvedimenti)? Può un aumento di tassi di
assenteismo essere spiegato con un aumento della po-
polazione o della partecipazione scolastica (ad esem-
pio se si lavora sodo per fare in modo che alcuni grup-
pi siano regolarmente iscritti a scuola in primo luogo,
si avrà un maggiore assenteismo?) È un aumento di
studenti che marinano la scuola o piuttosto lo stesso
numero di allievi che marinano la scuola lo fanno per
più tempo? (ad esempio uno studio ha dimostrato che
il 7% degli studenti rappresentava un terzo di tutti i
numeri relativi all’assenteismo [Metro 2008]).
   Questo non vuole dire che l’assenteismo non sia un
problema serio certo, ma è un esempio di come fare
dichiarazioni radicali su un intero sistema scolastico
possa portare a non focalizzarsi sulle vere problema-
tiche, cosa che sarebbe più efficace. È anche impor-

                           159
                 la battaglia per l’open

tante notare come l’assenteismo o i problemi a scuola
siano spesso il risultato di più ampi problemi della
società come droga, crimine, povertà, rottura dei le-
gami familiari... Vedere la scuola come un elemento
isolato in questo sistema non centra il punto.
   Questo ci porta al tema dei finanziamenti, che sono
il candidato più comune per dire che l’istruzione è ma-
lata – e cioè che non è economicamente sostenibile. La
spesa per l’istruzione è cresciuta, mentre il ritorno che
i laureati hanno in termini di aumento salariale è di-
minuito, questo è certo. In breve, l’istruzione superio-
re non ha più una buona redditività di investimento da
un punto di vista puramente monetario. Ovviamente
questo vale per i paesi in cui gli studenti devono paga-
re per la loro istruzione (come negli USA o nel Regno
Unito); altri paesi come la Germania offrono un acces-
so gratuito all’istruzione superiore. La colpa di questi
costi crescenti viene spesso attribuita alle università,
ma esse stanno semplicemente rispondendo alla do-
manda di mercato. Se gli studenti (o i loro genitori)
vogliono avere accesso a strutture migliori, con più
servizi come la palestra, i caffè e le residenze univer-
sitarie, allora le università per competere devono met-
terli. Nel proporre i MOOC come soluzione a questi
problemi finanziari, la maggior parte di chi commen-
ta si dimentica di valutare le richieste che dovrebbero
essere poste sui MOOC se passasse da una posizio-
ne secondaria e supplementare nell’istruzione ad una
primaria e centrale.
   Per esempio quando Shirky (2012) promuove i
MOOC come l’equivalente dell’MP3 o di YouTube
sottostima l’aspettativa che verrebbe posta su di essi
e insolitamente si sbaglia sull’analogia. Gli MP3 pos-
sono rimpiazzare il vinile o i CD completamente. I

                          160
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

MOOC gratuiti non possono sostituirsi al sistema
dell’istruzione superiore proprio perché una gran
parte dei costi ha poco a che fare con l’elemento di-
dattico in sé. Seguire un MOOC per interesse è una
cosa, ma quando le carriere professionali dipendono
da esso allora ci sono aspettative differenti, che al mo-
mento non sono disponibili. Se i MOOC dovessero
rimpiazzare l’intera istruzione superiore, dovrebbero
infatti trovare un modo per realizzare quanto segue:
• Gestire gli appelli degli studenti
• Avere a che fare con una vasta gamma di studenti
  con abilità diverse
• Assicurare un controllo di qualità sul contenuto
• Sviluppare metodi di valutazione e procedure che
  possano essere giustificati
• Assicurare la solidità del servizio
• Assicurare       l’affidabilità   e      l’attendibilità
  dell’accreditamento
• Conformarsi a numerose regolamentazioni su pro-
  blemi come quello dell’accessibilità
• Garantire una fornitura di produzione di corsi di
  alta qualità
• Provvedere alla pastoral care1

  Tutti questi requisiti hanno implicazioni economi-
che che vanno oltre l’attuale focus sul contenuto (che è
sostenuto dalle molte università che i MOOC dovreb-
bero rimpiazzare). Inevitabilmente, i MOOC come
forma di istruzione universitaria generale inizierebbe-
ro a costare sempre di più. Potrebbero essere meno
cari del modello esistente, che sarebbe cosa notevole,
ma presto cesserebbero di essere gratuiti o aperti.

1   [Nota del traduttore] Si riferisce a servizi di assistenza allo stu-
    dente come orientamento e counselling.

                                 161
                 la battaglia per l’open

  Non è comunque l’obiettivo di questo libro esplora-
re i vari modelli di finanziamento per l’istruzione su-
periore, ma l’argomento “l’istruzione è malata” rara-
mente è posto come “i finanziamenti per l’istruzione
sono malati”, e se il dibattito che la società ha bisogno
di portare avanti è su come finanziare l’istruzione su-
periore, allora dovremmo concentrarci su quello in-
vece che indugiare su argomentazioni surrogate cir-
ca il cattivo stato dell’istruzione e modelli alternativi.
  L’argomentazione è troppo semplicistica e forse
solo pigra: come nel caso dell’assenteismo, ci sono
una serie di fattori che sarebbe opportuno valutare
per trovare un’effettiva soluzione. Ma c’è anche un’in-
tenzione più manipolativa che riguarda il linguaggio
del cambiamento e come questo dia forma alle nostre
risposte. Se qualcosa è stato dichiarato rotto o malato,
allora la risposta giusta è aggiustarlo. La ricerca di-
venta quindi quella di una soluzione, e molto spesso
quelle stesse persone che stanno appurando che l’i-
struzione è malata sono anche quelli che beneficiano
nel procurare una soluzione alternativa. Per esempio
gli autori del report della “Valanga” nel Regno Unito
lavorano tutti per Pearson, editore di libri di pedago-
gia e fornitore di software scolastici. Sia D’Souza che
Thrun, che ho citato prima, sono stati amministratori
delegati di compagnie che cercano di offrire una so-
luzione al problema dell’istruzione malata. C’è anche
una startup educational (degreed.com) che ha porta-
to avanti una campagna con lo slogan “L’istruzione è
malata. Qualcuno deve fare qualcosa”. Questo qual-
cosa lo facevano loro, naturalmente.
  Caulifield (2012) evidenzia la differenza tra una
retorica dell’opportunità e una della crisi. Questa
differenza di linguaggio è molto significativa per in-

                           162
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

quadrare la nostra risposta. Thibodeau e Boroditsky
scoprirono che le metafore usate per definire un
problema influenzavano la soluzione che i soggetti
proponevano, quindi se il crimine è formulato in ter-
mini di metafora come un virus o come una bestia,
questo determina come le persone pensano debba
essere affrontato. Una retorica dell’opportunità po-
trebbe suggerire di incoraggiare quelli che già lavo-
rano nel settore ad approfittare delle opportunità e a
lavorare con altri. Una retorica della crisi suggerisce
che non ci si debba fidare di quelli che sono in carica
e che si richieda ad agenti esterni di mettere in moto
cambiamenti radicali.
  L’istruzione è malata, dunque è necessaria una
cura, e i MOOC forniscono la radicale soluzione ri-
chiesta, questa era la logica sottostante di molti degli
articoli riguardanti i primi MOOC. È facile intuire
perché i MOOC siano proposti come la soluzione al
nebuloso problema dell’istruzione corrotta – sono
gratuiti, online e infinitamente scalabili. Ma lo stesso
si può dire anche delle OER, quindi perché i MOOC
fanno appello a questa retorica di crisi in un modo
in cui nessun altro movimento di open education fa?
Le ragioni sono legate alla seconda narrazione do-
minante con la quale simpatizzano, cioè quella della
Silicon Valley.


La narrazione della Silicon Valley
   Il modello della Silicon Valley fornisce una narra-
zione così potente che è venuta presto a dominare
il modo di pensare più del computing. Per esempio
Staton (2014) dichiara che la laurea è destinata a mo-


                          163
                la battaglia per l’open

rire perché la Silicon Valley non assume persone che
siano laureate in computer science e preferisce quelli
che hanno una buona presenza a livello di communi-
ty su siti di sviluppo di software. Da questo ne dedu-
ce che questo modello è applicabile a tutti gli ambiti
e a tutte le vocazioni. Non è necessario aggiungere
che Staton è amministratore delegato di una azienda
educational.
  Ci sono svariati elementi utili alla narrazione del-
la Silicon Valley: in primo luogo, che una soluzione
tecnologica è possibile ed esistente; in secondo luogo
che forze esterne cambieranno e sconvolgeranno un
settore esistente; in terzo luogo, che è necessaria una
rivoluzione massiccia; e infine che la soluzione è for-
nita dal commercio.
  Abbiamo visto come il meme “l’istruzione è ma-
lata” soddisfi la terza condizione della narrazione
della Silicon Valley. Se la si accetta come malata,
allora solo una rivoluzione è sufficiente a curarla. I
MOOC si appellano alla prima e seconda di queste
condizioni. Essi rappresentano una soluzione deci-
samente tecnologica, in particolare nell’istantanea
degli xMOOC. È risaputo che Thrun abbia lavorato
a Google dove sviluppò la macchina senza pilota. La
promessa dell’intelligenza artificiale su sistemi di ap-
prendimento adattabili e una sofisticata valutazione
automatica è attraente in quanto sembra futuristica,
e si allinea con la soluzione di approccio tecnologico
della Silicon Valley.
  Anche se Thrun, Koller e Ng lavoravano tutti a
Stanford, e potevano quindi essere considerati par-
te dell’establishment, a Thrun in particolare è stato
assegnato il ruolo di outsider dell’istruzione. Per sod-
disfare questo bisogno di una terza parte che venga

                          164
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

in aiuto al settore, il fondatore della Khan Academy,
Sal Khan è spesso stato proposto come il padrino dei
MOOC (High 2013).
   Un altro importante aspetto che attira la Silicon
Valley, gli imprenditori e i giornalisti allo stesso
modo è quello della disruption. Il concetto proviene
dall’influente lavoro di Clayton Christensen del 1997,
The Innovator’s Dilemma, che analizzava come la
tecnologia digitale in particolare potesse creare nuovi
mercati che andavano a destabilizzare quelli esisten-
ti. Christensen fece una distinzione tra tecnologie
che sostengono e aiutano a migliorare un mercato
esistente, e tecnologie dirompenti che creano nuovi
mercati. La macchine fotografiche digitali possono
essere viste come un elemento di rottura con il tra-
dizionale mercato, mentre la memoria migliorata o
alcuni elementi del digitale sono di sostegno.
   È un termine che è stato utilizzato molto più am-
piamente del suo concetto originario, al punto che è
diventato quasi privo di significato e di rado valutato
criticamente. Dvorak (2004) lamenta la sua mancan-
za di significato, dichiarando che «Non c’è una tecno-
logia che sia dirompente, ci sono invenzioni e nuove
idee, molte delle quali falliscono mentre alcune di
esse hanno successo. E questo è quanto.» Rimane
comunque un’ossessione insita nella narrazione del-
la Silicon Valley. Come argomenta Watters (2013), la
disruption è diventata qualcosa di simile ad un mito
culturale nella Silicon Valley:

 Quando dico dunque che “innovazione dirompente” è
 uno dei grandi miti del mondo commerciale contem-
 poraneo, in particolare dell’industria tecnologica, non
 intendo dire che la spiegazione di Clayton Christensen
 sui cambiamenti di mercato e di modelli di business

                          165
                la battaglia per l’open

 e tecnologia sia una bugia... il mio legare il termine
 “mito” con quello di “innovazione dirompente” vuole
 sottolineare il modo in cui questa narrazione è stata
 ampiamente accettata come incontestabilmente vera.

  Nessuno vuole solo creare uno strumento uti-
le, questo strumento deve essere dirompente, deve
sconvolgere un settore. L’istruzione, percepita come
lenta, resistente al cambiamento e antiquata, è consi-
derata sull’orlo di uno sconvolgimento. Christensen,
Horn e Johnson (2008) la pensavano così quando
hanno detto «uno sconvolgimento è necessario e at-
teso da tempo nella nostra scuola pubblica». Perciò
il report della Valanga si giustifica affermando che
«tutti gli elementi chiave dell’università tradizionale
sono minacciati da una valanga in arrivo. Per dirla
come Christensen le università sono pronte per un
impatto dirompente». Nella sua critica sull’impat-
to delle OER, Kortemeyer (2013) dichiara: «le OER
non hanno evidentemente sconvolto il tradizionale
modello di business dell’istruzione superiore», per-
ché affinché qualcosa abbia successo, conta solo la
dirompenza.
  Possiamo ritrovare molti di questi elementi nei
trattati sui MOOC. Prendiamo ad esempio il trattato
di Clay Shirky “Your Massively Open Offline College
Is Broken” (2013), che produsse molto interesse e
fu considerato un’analisi ponderata. Nell’ambito di
questa narrazione di base, Shirky ha anche il meme
“l’istruzione è malata” nel titolo del suo lavoro, e più
avanti lo dichiara a chiare lettere: «Ho una rispo-
sta differente: la scuola è malata e tutti lo sanno».
Mette poi in piedi un’ipotesi piuttosto convincente
sui problemi economici legati all’istruzione supe-
riore, anche se non mette in dubbio i modelli di fi-

                          166
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

nanziamento. Shirky cita un libro “Don’t go back to
school” (Stark 2013) in cui si intervistano 100 perso-
ne che hanno abbandonato la scuola e hanno avu-
to successo, per la maggior parte persone che ave-
vano imparato da sé ad usare le risorse di internet,
un esempio di applicazione del modello della Silicon
Valley. Nel suo scritto precedente “Napster, Udacity
and the Academy” (Shirky 2013), paragona l’impat-
to dei MOOC sull’istruzione superiore a quello de-
gli MP3 sull’industria musicale. Ciò è conforme alla
narrazione della Silicon Valley, poiché propone una
rivoluzione e una disruption: «L’istruzione superio-
re ora è stata sconvolta, il nostro MP3 adesso sono i
Massive Open Online Courses (MOOC)». Egli sug-
gerisce inoltre che il fornitore commerciale esterno
sarà la stessa forza dell’innovazione, dichiarando che
«Il nostro Napster è Udacity, la startup educational».
   Tutti questi elementi si ritrovano anche nel pezzo
di Clark (2013) dove, riferendosi a Khan, dichiara che
«ci è voluto un gestore di fondi speculativi per dare
uno scossone all’istruzione poiché non aveva nessun
bagaglio di istruzione superiore». Se si riconosce
l’influenza di coloro che si stanno nel settore dell’i-
struzione superiore, come Wiley, Downes, Siemens,
questo toglie fascino alla storia.
   Kenohan (2013) ha fatto un’analisi semantica di
undici famosi articoli MOOC. Prendendo i pezzi di
Kernohan per fare un semplice conteggio di ricorren-
za della parola “sconvolgimento” (o derivati), questa
viene fuori 12 volte, “rivoluzione” 16 volte e “azienda”
17. Ovviamente questa è una scelta selettiva di termi-
ni (“open” ad esempio comprare 48 volte, per fare un
paragone), ma la presenza di questi termini indica
uno schema specifico di approccio ai MOOC che si

                          167
                 la battaglia per l’open

allinea in qualche modo alla narrazione della Silicon
Valley.
   Ora possiamo capire perché i MOOC si sono rivela-
ti così popolari per i giornalisti. In primo luogo sem-
bra che offrano una soluzione al meme “l’istruzione
è malata” che si è diffuso. In secondo luogo soddi-
sfano i criteri della narrazione della Silicon Valley:
hanno proposto una soluzione tecnologica, possono
essere considerati il risultato di forze esterne e han-
no portato un modello rivoluzionario. Quasi tutti i
primi articoli sui MOOC li hanno inquadrati come
dirompenti rispetto al modello standard di istruzione
superiore. E furono fondati come compagnie ester-
ne di istruzione superiore, creando così interesse in-
torno a modelli di business e potenziali profitti che
potevano sconvolgere il settore. Questo mix esaltante
si è dimostrato irresistibile per molti giornalisti che
trattano di tecnologia o di istruzione.
   Questa analisi rivela anche il perché le iniziative di
open education non hanno guadagnato così tanta at-
tenzione. Spesso esse cercano di integrare o comple-
tare l’istruzione, rovinando il concetto di “istruzione
malata”. Inoltre sono spesso portate avanti da perso-
ne che lavorano all’interno dell’istruzione superiore,
cosa che pregiudica la narrazione degli agenti esterni
che promuovono il cambiamento su un settore che è
“out of touch”. E da ultimo, sono supportate da istitu-
zioni no profit, cosa che non va d’accordo con il mo-
dello di nuovi e sconvolgenti mercati. Se si volesse
sollevare un’obiezione riguardo alla disruption, i libri
di testo open potrebbero costituire un caso convin-
cente, dato che minano un business consolidato con
alternative digitali e di basso costo, ma dato che pro-
getti come OpenStax sono nati non per fare profit-

                          168
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

ti, essi non risultano in linea con la narrazione della
Silicon Valley così come i MOOC.
   Un ulteriore aspetto della narrazione della Silicon
Valley e della disruption è che richiede una mentalità
“anno zero”. La storia diventa molto più convincente
se si dice che qualcuno si è inventato un nuovo modo
di lavorare. Dato che un’invenzione di genesi com-
pletamente nuova è rara, la maggior parte dei lavori
si trastulla con vecchie idee che vengono migliorate,
cosa che richiede o una deliberata ignoranza sui la-
vori passati o una immaginifica rielaborazione degli
stessi.


Ritorno al futuro, di nuovo
   Il 2013 ha visto un certo numero di scoperte rela-
tive ai MOOC e di innovazioni che hanno riportato
di sfuggita una somiglianza con la pratica didat-
tica standard. Ad esempio abbiamo visto la BBC
(Coughlan 2013) annunciare l’innovativa sperimen-
tazione lanciata da Harvard “SPOC – a small, private
online course” che trarrebbe vantaggio dai MOOC
ma li posiziona in un ambiente chiuso e più sicuro
per gli studenti che pagano la retta del campus. C’è
voluta abbastanza immaginazione per vedere questa
proposta come diversa dai corsi online che la mag-
gior parte delle università ha offerto in tutto il decen-
nio passato, ma chiamarla con un nuovo nome sotto
il cappello dei MOOC l’ha resa in qualche modo in-
novativa. Come abbiamo già visto, allo stesso modo
Coursera decise che un elearning in campus avreb-
be potuto costituire un mercato valido per i MOOC,
quando stabilirono partnership con dieci università.


                          169
                la battaglia per l’open

Come per SPOC ci fu quindi Micro-MOOCs, che era-
no dei “corsi brevi in elearning”, DOCCs (Distributed
Open Collaborative Course) e SOOCs (Social Online
Open Course e Small Open Online Course).
  Clayton Christensen sembrò arrivare alla conclu-
sione che un apprendimento completamente online
nei K-12 non sarebbe arrivato presto o non sarebbe
stato auspicabile, e che la versione mista che mol-
te scuole praticavano da anni avrebbe potuto essere
vantaggiosa. Invece che vederla come una tecnologia
di supporto o come un fallimento della disruption, fu
chiamata “didattica ibrida”e pubblicizzata come «un
concetto fondamentalmente nuovo nel mondo della
disruptive innovation» (Christensen, Horn e Staker
2013).
  EdX dichiarò che era difficile e costoso creare corsi
online di qualità (Kolowich 2012d) e Sebastian Thrun
attribuì il suo cambio di direzione con Udacity alla
constatazione che il mantenimento degli studenti
open entry è difficile (Chafkin 2013). Nell’intervista a
Khan citata prima, la maggior parte delle teorie peda-
gogiche sviluppate nel corso dei passati 120 anni fu
ignorata e attribuita quindi a Khan. Henry Petroski
(2012) suggerisce che la società si dimentica di lezio-
ni fondamentali sulla progettazione di ponti ogni 30
anni, dato che questa è la lunghezza media della car-
riera di un ingegnere. Lo stesso potrebbe valere per
la educational technology, eccetto il fatto che spesso è
una forma di amnesia intenzionale. I docenti hanno
progettato corsi a distanza su vasta scala e poi corsi
online per più di 40 anni e tuttavia gran parte del
movimento MOOC ha scelto di ignorare questa espe-
rienza pregressa.



                          170
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

   Una parte del rebranding sui MOOC è un inevitabi-
le e vantaggioso effetto collaterale dell’interesse cre-
scente nell’elearning che essi stessi hanno generato.
Chiamare un corso online SPOC può sembrare stra-
no, ma non è dannoso. C’è però un aspetto più ambi-
guo di una parte di questa amnesia, che è relativo alla
narrazione della Silicon Valley. Essa gonfia il valore
dell’innovazione se può reclamare l’invenzione di un
approccio completamente nuovo, e compromette an-
che lo stato di coloro che operano in un’industria se
il loro contributo è respinto o dimenticato, facendo
in modo che il ruolo di agenti esterni sia più fattibile.
   Ciò non è per ipottizzare un complotto di alto li-
vello generato dalla Silicon Valley, ma gli ingredienti
essenziali della narrazione della Silicon Valley costi-
tuiscono quella che può essere visto come una cospi-
razione di percezione. Si appella ad una visione del
mondo che imprenditori, giornalisti e tecnologi im-
plicitamente detengono e rafforzano.
   Come dice Watter, «La versione della storia che of-
frono la dice lunga, dato che riflette il modo in cui
percepiscono il passato, il modo in cui vogliono che
il resto del mondo percepisca il passato, e il modo in
cui sperano che “ci si muova verso il futuro”».


Conclusioni
  Tutto questo può non essere importante: molte di-
scipline lamenteranno il fatto che la loro generale co-
pertura mediatica è oltremodo semplicistica o di par-
te – basti pensare alla copertura dei problemi legati al
settore della salute, per esempio. Di certo può essere
vista come una benedizione. Qualsiasi copertura me-


                           171
                   la battaglia per l’open

diatica aiuta a rendere più probabili i finanziamenti
futuri e fa in modo che i progetti interni siano più
realizzabili. Essendo stato coinvolto nelle prime for-
me di MOOC, so per esperienza personale che c’è
stato un cambiamento nella recettività da parte dei
finanziatori per attivare la ricerca nei corsi open dal
momento in cui è iniziata la bolla dei MOOC.
   E non è nemmeno semplicemente una questione
di pedanteria storica, un desiderio di assicurare ai
primi pionieri MOOC il loro giusto posto nel passa-
to. Se l’accuratezza storica è sempre auspicabile in-
fatti, non influisce sul modo in cui le persone usano
l’eredità di quella scoperta una volta che la vittoria è
stata sancita. C’è di più in gioco che una semplice
precisione giornalistica. Nel capitolo 1 ho parlato di
una battaglia per la narrazione nella open education,
e di come la narrazione avrà una forte influenza sul-
la futura direzione che questa prenderà. Se i MOOC
sono l’aspetto più importante della open education,
allora la narrazione ad essi associata provocherà un
impatto su altri aspetti. Se la narrazione dominante
è quella della Silicon Valley, allora questa definirà ciò
che si ritiene essere il modello più appropriato per
altre forme di open education. Se si vuole creare un
corso open, allora il modello per farlo e i criteri per
decidere cosa si debba ottenere sono stabiliti per ser-
vire i bisogni di questa weltenschauung2 dominante.
Oppure se si volesse strutturare un programma per
rilasciare gli output del personale a basso costo (il ge-
nere di cose che esamineremo nel prossimo capito-
lo), ci si potrebbe trovare a doverlo ridurre in termini
di MOOC.


2   In filosofia indica la concezione del mondo e della vita.

                               172
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

   Tutto questo non è per insinuare che il fenomeno
dei MOOC non è stato importante sia per quanto
riguarda il settore dell’istruzione in sé, sia in modo
più significativo per gli studenti. Come ha dichiarato
Siemens (2012), «Chiunque esca là fuori e insegni
fornendo almeno un’opportunità di apprendimento
per persone che stanno in zone del mondo in via di
sviluppo, e lo fa senza costi e incrementa le loro pro-
spettive, ai miei occhi porta avanti un’idea fantasti-
ca». Sembra dunque triviale lamentarsi del tono della
copertura mediatica quando si è di fronte a migliaia
di studenti che hanno avuto esperienze positive con i
MOOC, alcune di esse anche a livello di cambiare la
vita. Lo scopo di questo capitolo non era quello di fare
una critica ai MOOC e alle loro applicazioni (cosa di
cui si è già parlato nel precedente capitolo), ma piut-
tosto di usare la copertura dei MOOC per esaminare
il modo in cui la open education è influenzata da nar-
razioni concorrenti.
   Analogamente, l’obiettivo di questo capitolo non è
quello di suggerire che le soluzioni commerciali del-
la Silicon valley non sono utili, o innovative. Si veda
anche solo all’impatto che Google ha avuto nella so-
cietà in generale – e nell’istruzione in particolare –
per capire quanto di successo esse possano essere.
Le università hanno le loro esigenze e i loro metodi
di funzionamento, ed è spesso necessario operare al
di fuori di queste per creare un prodotto specifico a
consumo diffuso. L’intenzione in questo capitolo era
piuttosto quella di portare l’attenzione sull’importan-
za della narrazione e su come essa dia forma alle per-
cezioni e alla direzione da prendere. I MOOC in par-
ticolare hanno visto la narrazione sull’openness su-
perata da altre, più dominanti. Si può concludere che

                          173
                la battaglia per l’open

sia necessario o inevitabile per conquistare l’impatto
che i MOOC hanno avuto, ma dovremmo almeno es-
sere consapevoli dell’influenza di questa narrazione
e se siano possibili narrazioni alternative.
  Una delle implicazioni negative della narrazione
“l’istruzione è malata”/Silicon Valley è che neces-
sariamente inquadra tutto come rivoluzionario. Ciò
crea una falsa dicotomia nell’audience, che o accetta
la rivoluzione e tutto quello che ne deriva, o si oppone
ad essa, sperando di mantenere lo status quo. Essere
diffidenti sulle motivazioni di coloro che dichiarano
che l’istruzione è malata oppure farsi delle domande
sulla natura di questa affermazione non vuol dire pro-
clamare che non vi siano problemi nell’istruzione. E
analogamente sminuire il concetto di disruption non
equivale ad essere resistenti al cambiamento.
  Un altro aspetto negativo della narrazione basata
sull’idea di rivoluzione è che necessita di dichiara-
zioni iperboliche per giustificare la portata della ri-
voluzione stessa, come la dichiarazione di Thrun che
ci saranno solo 10 fornitori mondiali di istruzione, o
che i MOOC significheranno la fine delle universi-
tà, fornendo formazione globale e gratuita per tutti.
Inevitabilmente queste previsioni falliscono – Thrun
ha cambiato direzione con Udacity, EdX ha scoperto
che collegare i datori di lavoro con gli studenti MOOC
non funziona e che «gli attuali dipartimenti di HR
preferiscono le lauree tradizionali ed eliminano tutti
i candidati non tradizionali» (Kolowich 2013d) e che
una scuola progettata per creare comunità mentre gli
studenti seguivano MOOC di loro scelta ha fatto fati-
ca a trattenere gli studenti (Caplan – Bricker 2013). Il
contraccolpo MOOC è iniziato, con il personale di al-
cune università che rifiuta di usare materiale MOOC

                          174
l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley

o di partecipare ai MOOC (Kolowich 2013e) e con
molti commenti online dal tono critico, per esempio
i “Five Myths About MOOCs” di Laurillard (2014).
  È da vedere se queste reazioni avrebbero potuto es-
sere osservate anche se i MOOC non fossero stati so-
pravvalutati, e c’è il rischio che il contraccolpo metta
a rischio futuri sviluppi dei MOOC.
  L’openness nell’istruzione offre molte opportu-
nità concrete per migliorare il settore in termini di
occasioni per gli studenti, sviluppando metodologie
didattiche basate sull’open practice, distribuendo ri-
sorse gratuite e democratizzando l’istruzione. Molti
di questi cambiamenti radicali sono stati guidati da
coloro che lavorano nell’ambito dell’istruzione, ma
la narrazione della Silicon Valley vuole escludere
questa parte della storia. I MOOC hanno messo in
evidenza come la battaglia per la narrazione delinei
la direzione che un’innovazione può prendere. Oggi
possono essere i MOOC, ma lo stesso percorso può
ripresentarsi per ogni innovazione della open edu-
cation, poiché c’è una storia potente da raccontare
sull’istruzione globale, e le dimensioni del merca-
to sono irresistibili per la narrazione della Silicon
Valley. Riconoscere questa lotta per la narrazione e
costruire alternative è quindi al centro della battaglia
per l’open. Un metodo per farlo è che gli accademici
utilizzino il potere di internet per condividere la loro
pratica in modo aperto. Questo sarà il tema del pros-
simo capitolo.




                          175
 CAPITOLO 7

La Open Scholarship

                      Le bande di guerriglia non dovrebbero
                      essere considerate inferiori all’esercito
                      che combattono solo perché hanno
                      una minore potenza di fuoco.
                                              Che Guevara


Introduzione
  Nei tre precedenti capitoli ci si è concentrati soprat-
tutto sui progetti e sulle pratiche istituzionali. Questi
movimenti su vasta scala stanno lasciando un’im-
pronta profonda nel panorama della open education
e sono il terreno su cui le caratteristiche chiave della
battaglia per l’open si manifestano con più evidenza.
Tuttavia sono anche significative le pratiche indivi-
duali che tracciano il percorso e definiscono le tipi-
cità all’interno di questo panorama. Questo capitolo
andrà ad analizzare come singoli professori stanno
adattando le loro pratiche accademiche con approcci
open.
  Il mio libro precedente si intitolava “The Digital
Scholar” (Weller 2011), ma si sarebbe anche potuto
chiamare “The Open Scholar”. ‘Digital’ e ‘open’ non
sono necessariamente sinonimi, certo – si possono
produrre output digitali ma salvarli in un hard disk
locale, pubblicarli su riviste che non sono in Open
Access e scegliere di non farsi un’identità online. Si
                 la battaglia per l’open

può chiamare anche questa digital scholarship, ma
l’elemento digitale qui non indica nessun cambia-
mento radicale nella pratica. Nel mio libro preceden-
te suggerivo che ‘digital scholar’ era un’abbreviazione
per descrivere l’intersecarsi di tre elementi: digitale,
online e open. Le prime due sono condizioni neces-
sarie, ma è l’aspetto open che porta un cambiamento
nella pratica scolastica che vale la pena di discutere.
   La pratica open ha un’evidente relazione con l’istru-
zione superiore. Come sostengono Wiley e Green
(2012): «L’istruzione è prima di tutto un’attività che
riguarda il condividere. La condivisione infatti è il
solo mezzo con cui essa si può realizzare». Eccetto
alcuni rari casi (e sono decisamente più rari di quan-
to molti accademici possano credere) di profitti com-
merciali che riguardano la ricerca, condividere il più
ampiamente possibile dovrebbe essere il cuore della
pratica didattica. La triade digital, online e open facili-
ta dunque questa condivisione, altera drasticamente
la scala di risultati e rimuove ostacoli e costi associati,
ma nasce dal concetto fondamentale che la condivi-
sione sia un elemento centrale per l’istruzione.

  Veletsianos and Kimmons (2012) propongono che
la open scholarship prenda tre forme:

  (1) Open Access e open publishing, (2) open educa-
tion, che include le open educational resources e l’o-
pen teaching, (3) la partecipazione in rete, concluden-
do che la open scholarship è una serie di fenomeni e
pratiche che riguardano l’uso scolastico delle tecno-
logie digitali e in rete, sostenuto da alcuni presuppo-
sti che riguardano l’openness e la democratizzazione
della creazione del sapere e della disseminazione.

                           178
                     la open scholarship

  Ho trattato in altre parti di questo libro la maggior
parte di queste pratiche, come la pubblicazione in
Open Access e l’open teaching, perciò questo capito-
lo si concentrerà soprattutto su tre elementi: quella
che Veletsianos and Kimmons hanno chiamato la
‘partecipazione in rete’, che è un’attività individuale
attraverso vari media e network; l’identità online e
come essa si relaziona alla pratica accademica tradi-
zionale; e nuove possibilità nella pratica della ricerca
che hanno origine dalle tecniche open.
  Come per i precedenti capitoli, l’obiettivo non è
quello di fornire un quadro generale e definitivo del-
la open scholarship come argomento, ma piuttosto
di concentrarsi su come l’openness sia un elemento
significativo nella pratica accademica. L’argomento
è meno definito di quello dei MOOC, delle OER e
dell’Open Access, dato che riguarda cambiamen-
ti nel comportamento accademico che sono portati
dalla pratica e dalla tecnologia open. Queste tre aree
(la pratica in rete, l’identità e i nuovi approcci nella
ricerca) possono essere dunque considerate rappre-
sentative di un particolare punto di vista sulla open
scholarship, che in realtà ingloba quanto detto nei
capitoli precedenti.


La pratica in rete
   Quando scrissi The Digital Scholar nel 2010/2011
l’idea di un uso accademico dei social media e del-
le nuove tecnologie fu presa con cautela. Proctor,
Williams e Stewart (2010) lo riassumono dicendo:
«Un uso frequente o intensivo è raro, e alcuni ri-
cercatori considerano i blog, i wikis ed altre nuove


                            179
                 la battaglia per l’open

forme di comunicazione come una perdita di tempo
o addirittura come pericolosi». Questa attitudine a
un “approccio cauto” sembra ancora prevalere, con
Esposito (2013) che riporta un «interesse cauto nei
confronti degli strumenti del web 2.0 a supporto di
attività di ricerca». Allo stesso modo Gruzd, Staves e
Wilk (2012) segnalano che molti enti di ricerca non
utilizzano profili online quando si occupano della
promozione, ma suggeriscono che questa situazione
sta iniziando a cambiare.
  Ciò che è cambiato è un uso più frequente degli
strumenti dei social media nella società in genera-
le, per cui è più probabile che gli insegnanti abbiano
un’identità su questi strumenti che mescolano pri-
vato e professionale. C’è anche stata una crescita su
siti accademici come Academia.edu, ResearchGate e
Mendeley. Academia.edu ad esempio (2013) ha par-
lato di quasi 9 milioni di utenti registrati nel 2013, e
ResearchGate più di 3 milioni, anche se non è chiaro
quanti di questi siano attivi. La combinazione di que-
sti due fattori dimostra come sia più probabile che gli
accademici abbiano qualche forma di identità online.
  Valetsianos (2012) individua sette modi in cui gli
studenti usano Twitter: per condividere dati, risorse e
media; per condividere informazioni riguardo all’in-
segnamento; per chiedere assistenza e rispondere
alle richieste di altri; per prendere parte a discussio-
ni social; per essere coinvolti in identità digitali e in
qualche modo impressionare il management; per fare
rete e connettersi con altri; e per mettere in evidenza
la loro partecipazione ad altri network, per esempio
linkando a blog. Ciò rispecchia il lavoro di Fransman
e altri (2011) alla OU, che scoprì che il 26% degli ac-
cademici aveva un account Twitter, che anche se non

                          180
                   la open scholarship

era la maggioranza rappresentava un dato significati-
vo di utilizzo di questi strumenti rispetto all’adozione
solo specialistica di qualche tempo prima. Essi infatti
si usavano in una varietà di modi, ad esempio per
comunicare all’interno di un team di progetto, per
diffondere i risultati e le riflessioni e per veicolare do-
mande relative alle ricerche.
  I siti specializzati di istruzione superiore come
Academia.edu rappresentano per molti accademici
un modo ‘sicuro’ o una strada più pertinente per farsi
un’identità online. Essi infatti fanno esplicitamente
riferimento alla pratica universitaria, rispetto ai so-
cial media generalisti che invece molti accademici ve-
dono come frivoli o irrilevanti. Come disse uno degli
intervistati nella ricerca di Fransman: «Il problema
è che non sono tanto sicuro di quale sia la funzio-
ne di Twitter o di queste tecnologie, e nemmeno di
come dovrei usarle». Altri le vedono con sospetto e
timore: un partecipante dichiarò: «Non ti piacerebbe
diffondere il tuo articolo di storia al mondo intero,
perché finirebbe per non essere più tuo! Anche dopo
che lo hai pubblicato devi fare attenzione al copyri-
ght, per cui non lo puoi semplicemente appiccicare
dappertutto».
  Nel sottolineare l’ascesa della open scholarship,
quindi, bisogna avere cautela e non sopravvalutarla.
Come molti altri aspetti della open education, la sto-
ria della open scholarship è stata quella di un adatta-
mento e di una crescita costante piuttosto che di una
repentina rivoluzione. Selwyn (2010) mette in guar-
dia sul fatto che c’è una forte tendenza al solipsismo
da parte dei tecnici dell’istruzione sui social media e
sull’openness. Le discussioni sul potenziale dei so-
cial media nell’istruzione sono «autonome, autore-

                           181
                la battaglia per l’open

ferenziali e autodefinite... Generalmente si tratta di
conversazioni che si svolgono tra gruppi di docenti
che usano i social media – di solito che usano i so-
cial media per parlare dei benefici dei social media
sull’istruzione».
  Questo tuttavia crea un dilemma per i docenti, dato
che la direzione dei social media e dell’openness sarà
influenzata dalle loro stesse azioni. Come abbiamo
visto per le OER, è necessario passare da una fase ca-
ratterizzata da credenze per costruire il contesto nel
quale può essere misurato l’impatto. L’osservazione
empirica di quanto è successo costituisce infatti un
approccio fondamentale per il ricercatore obiettivo
quando esamina gli effetti sulla società nel suo in-
sieme, ma in termini di formazione di un proprio
dominio è un approccio eccessivamente passivo che
potrebbe autorealizzarsi o fallire a seconda della pro-
spettiva di chi lo guarda. Presenta anche il contesto
attuale come neutrale, e ciò non può essere vero. La
presenza di molte prassi istituzionali può scoraggia-
re la open scholarship. Per esempio, Cheverie e altri
(2009) trovarono una correlazione tra l’assegnazione
della cattedra e l’opinione che «il passaparola a colle-
ghi più giovani disincentivava la scholarship digitale
nel processo di assunzione, assegnazione della catte-
dra e promozione». La open scholarship è unica tra
gli interessi degli accademici perché è un’area ancora
indefinita che riguarda sia il sapere sia le sue defini-
zioni. Ciò indica che c’è una tensione tra il contesto
nel quale gli accademici operano e il potenziale della
open scholarship. E questo ci permette di collegarci
all’identità accademica.




                          182
                  la open scholarship

Lo studente open e l’identità
   La open scholarship crea nuove opportunità e nuo-
ve tensioni tra individui, e un modo per analizzarli è
prendere in considerazione il concetto di identità ac-
cademica. In questo paragrafo si analizzeranno le te-
orie generali dell’identità, e dell’identità accademica
in particolare. Esamineremo poi come la open scho-
larship impatti su queste nozioni relative all’identità,
e anche quale sia la relazione con le forme tradiziona-
li di identità accademica.
   Un lavoro pionieristico sull’identità è quello di
Mead (1934) che osservava come il concetto di sé fos-
se pienamente sviluppato quando i comportamenti
e i valori della comunità erano integrati. Un compo-
nente forte della costruzione dell’identità è infatti il
grado in cui o assorbiamo i valori della comunità in
cui ci troviamo, o troviamo una comunità con i cui
valori ci sentiamo a nostro agio, in breve una “società
che si autoriflette”. La forza di queste identità si rive-
la in comportamenti tangibili – l’importanza data a
identità religiose ad esempio è in correlazione con
il tempo speso in attività religiose (Stryker e Serpe
1982). Questa visione sociale è ripresa da Snow
(2001) che diceva che l’identità è per gran parte una
costruzione sociale, e allo stesso modo dell’apparte-
nenza comprende un senso di diversità da altre co-
munità. In questa definizione l’identità viene vista
come un sentimento condiviso di “unicità” legata al
sé o al noi e ancorata a caratteristiche ed esperienze
condivise in contrasto con uno o più gruppi di “al-
tri”. Guardando all’identità nazionale Canetti (1962)
appurò che i “crowd symbols” sono molto significa-
tivi nella costruzione di questi valori condivisi. Disse

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                 la battaglia per l’open

ad esempio che per l’Inghilterra il mare è un crowd
symbol, mentre per i francesi è la Rivoluzione. Questi
crowd symbols secondo lui sono stati più significativi
della storia o del territorio e rappresentarono icone
comuni e comprese che possono supportare il senso
di appartenenza ad una nazione.
   Riguardo all’identità accademica, Henkel (2005)
individua un numero di caratteristiche significative,
l’autonomia in primis, sottolineando che «l’autono-
mia risulta essere importante in quanto integralmen-
te connessa all’identità accademica». I cambiamenti
nella struttura dell’istruzione superiore hanno fatto
in modo infatti che l’appartenenza di un individuo
ad un dipartimento non sia più così centrale per l’i-
dentità come lo era un tempo. Henkel ritiene infatti
che «il dipartimento è oggi solo uno, e non necessa-
riamente il più sicuro o importante, focus dell’attivi-
tà accademica e dell’identificazione». Becher (1989)
sottolinea l’importanza delle discipline nell’identità
accademica, sostenendo che il mondo universitario
può essere considerato come formato da tribù distin-
te, con il loro territorio stabilito attraverso regole e
convenzioni significative quanto il dominio della
conoscenza stessa. Tornando agli aspetti della open
scholarship, i blog probabilmente rappresentano la
forma di identità più consolidata. Ewin (2005) usa il
termine postmoderno “multiphrenic” per descrivere
le molteplici identità che gli autori mostrano, tra cui
forse una per la loro disciplina, una per la loro perso-
na fisica nel campus e una per la loro persona online.
Non si può dunque pensare che siano identità “vere”:
essi infatti proiettano aspetti diversi della loro indivi-
dualità che sono relativi alle norme sociali di quello
specifico contesto. Dennen (2009) osserva che alla

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                  la open scholarship

base della nascita di un blog c’è una decisione da parte
degli accademici riguardo alla loro identità: che tono
dovrà avere il blog? Che tematiche dovrà trattare?
Quanto della vita personale dell’autore dovrà essere
rivelato? Dennen suggerisce che come nei campus
esistono una serie di norme sociali, allo stesso modo
esistono online, e l’autore deve risponderne. Queste
norme identitarie si diffondono attraverso il mondo
altamente connesso della blogosfera «sulla base della
circolazione virale di azioni individuali sui blog».
  Queste nuove identità possono entrare in conflitto
con quelle tradizionali, come sostiene Costa (2013),
che dichiara: «è più probabile che le istituzioni che
si occupano di istruzione superiore supportino for-
me convenzionali di pubblicazione piuttosto che ap-
procci innovativi alla comunicazione della ricerca».
E va avanti suggerendo che, anche se le università
non si oppongono al cambiamento, la loro identità
è profondamente legata a certe tradizioni, che sono
rinforzate attraverso «strategie che spingono gli indi-
vidui a comportarsi secondo le regole» e attraverso la
creazione di certe forme di mito.
  Mettendo insieme questi elementi possiamo ri-
cavare un’immagine dell’open scholar e di come la
sua identità si relazioni alla pratica. La nozione di
crowd symbol presa dall’identità nazionale equivale
ai principi cardine del credo disciplinare, che siano
essi documenti simbolo o metodi. Come membro
di una disciplina accademica anche questi crowd
symbol aiutano a definire l’identità. E tuttavia, come
sostiene Denner, il bloggare, e per estensione altre
forme di identità online, hanno le loro proprie regole
sociali, che possono essere viste come un gruppo di
crowd symbol in competizione. L’identità online poi

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                 la battaglia per l’open

può anche aprire strada al ristabilirsi di valori accade-
mici fondamentali come quello dell’autonomia. Gli
open scholar sono dunque in una posizione piuttosto
schizofrenica: possono stare in due domini differen-
ti, con valori che sono in competizione tra di loro.
Per esempio, la comunità open scholarship crea un
precedente riguardo all’immediatezza, condividendo
brevi stralci di risultati e lavorando sulle idee in un
contesto open. La comunità disciplinare tradizionale
invece ritiene che abbiano più valore risultati estesi e
che sia importante non rilasciarli fino ad uno stadio
avanzato del processo di ricerca. Per gli open scholar
questa intersezione di norme sociali a volte in com-
petizione può creare tensione.
   Per analogia possiamo vedere gli open scholar come
quei gruppi che all’interno di una nazione conserva-
no una loro forte identità locale, che può trovarsi però
in contrasto con la loro identità nazionale. Si può os-
servare con i montanari, che hanno molta affinità
con altre comunità montane ma che si sentono an-
che parte di una stessa nazione. Prendendo in esame
gli abitanti delle Alpi Svizzere, Debarbieux e Rudaz
(2008) scoprirono che «le popolazioni di montagna,
al di là delle loro differenze culturali, religiose o poli-
tiche, si sentono in tutto il mondo come appartenen-
ti ad uno stesso gruppo» e che «un montanaro del
cantone Valais ha più in comune con un montanaro
agricoltore del Nepal che con qualcuno che vive nella
pianura svizzera». Gli abitanti delle Alpi hanno una
doppia identità che attraversa vari confini, per cui c’è
una forte comunità alpina che trascende l’identità
nazionale, ma che a volte fa prevalere la sua identi-
tà nazionale. Per esempio quando hanno a che fare
con il clima sono alpini, mentre quando si tratta di

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                 la open scholarship

tifare una squadra di calcio allora ritornano alla loro
identità nazionale e sono di nuovo francesi, italiani o
svizzeri. Molti di noi hanno queste molteplici identi-
tà, ma è meno complicato per chi vive in città. Mentre
ci si può classificare come londinese o britannico –
l’identità urbana opera ad un livello diverso da quella
nazionale – per gli alpini queste identità possono in-
trecciarsi e sovrapporsi.

   Gli open scholar si trovano ad essere in una posi-
zione simile, dovendo rimanere fedeli alla loro di-
sciplina ma allo stesso tempo lavorando all’interno
di norme sociali nella open community. Guardando
alle norme delle due comunità, è possibile identifi-
care le tensioni e determinare i vantaggi di ciascuna
nel realizzare le funzioni accademiche. Riguardo alla
battaglia per l’open, l’identità accademica può essere
vista come un fattore influente in tutti i movimenti
di maggiore estensione. Ad esempio la pubblicazione
in Open Access riguarda il modo in cui un ricercato-
re ha condiviso il suo lavoro, e molti considerano un
elenco di pubblicazioni come un elemento centrale
dell’identità accademica. Allo stesso modo l’uso e la
condivisione di contenuto didattico attraverso le OER
e i MOOC è fondamentale per l’identità dei docen-
ti. Comprendere dunque come l’openness riguardi
l’identità e come sia stata modificata dalla pratica
online può sembrare un concetto interessante ma
periferico, invece determinerà l’aspetto della open
education. Nel prossimo paragrafo lo esamineremo
più in dettaglio, vedendo come la open scholarship
può influenzare una pratica in particolare.




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                la battaglia per l’open

L’arte della Guerrilla Research
   Siamo abituati in università a considerare la ri-
cerca come costituita dalle seguenti componenti: è
spesso finanziata da fondi esterni e produce risulta-
ti tradizionali come un articolo su rivista o un libro.
Pensiamo quindi alla ricerca come a qualcosa che ha
una “dimensione” misurabile. Una delle implicazio-
ni della open scholarship invece è che crea modi di-
versi di vedere la ricerca. L’atteggiamento dominan-
te su come si fa ricerca si è venuto a formare prima
dell’arrivo delle tecnologie digitali, in rete e open, e
in parte è sicuramente ancora valido, ma ci sono mol-
teplici possibilità che ci sono precluse se rimaniamo
attaccati a questo modo di vedere le cose.

  Uno di questi aspetti è l’approccio “Fallo da te” op-
pure “Fallo ora”. Per esempio, fondare una rivista un
tempo era un compito faticoso, che aveva bisogno di
contrattazioni con l’editore e di un modello di busi-
ness sufficientemente sostenibile. Per alcune aree
però, come per le riviste interdisciplinari, il bacino
di mercato poteva essere troppo piccolo per valerne
la pena. Lo sviluppo di software per creare riviste
open online come OJS e Google Annotum rimuove
molte di queste complicazioni: si può fondare una
rivista in un pomeriggio. Io stesso l’ho sperimentato
creando il Meta EdTech Journal (Weller 2011), che
ripubblicava articoli di giornali Open Access che ave-
vo selezionato da altre riviste (in realtà più un espe-
rimento per valutare le possibilità che una rivista
seria). Una rivista di questo tipo può contenere con-
tributi originali, avere formati sperimentali o creare
un periodico interdisciplinare che ripubblica articoli

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                  la open scholarship

esistenti con un commento. Non è necessario nessun
permesso per crearlo e può operare a basso costo.
Naturalmente si potrebbe ribattere che la presenza
di un editore dia validazione al lavoro, ma se l’indi-
viduo (o il team) ha sufficienti identità in rete allora
si crea da solo la sua propria forma di validazione.
Un altro tipo di ricerca potrebbe essere quello di cre-
are una app: per esempio, quando un team alla OU
creò alcune app Facebook per gli studenti (Weller
2007), il loro presupposto di lavoro era che avrebbero
agito come se fossero gruppi esterni e senza accesso
privilegiato alle informazioni. Sebbene richiedesse
lo sviluppo specializzato di un software da parte di
un membro del team nel tempo libero, le app furono
prodotte a costo zero e senza nessuna richiesta di au-
torizzazione. Costruire app può essere poi un mezzo
legittimo per raccogliere dati.
   Un terzo esempio è costituito dall’interrogare gli
open data. Il blog di Tony Hirst fa molti esempi su
come estrapolare dati da siti governativi o da social
media come Twitter per verificare delle ipotesi. Ha
indagato per esempio quanto sono influenti i dati
di spesa sulle decisioni delle amministrazioni loca-
li (Hirst 2013), o chi twittava su un programma del-
la BBC e come era connesso (Hirst 2012). Un altro
approccio è usare la testi pubblici come fonte: per
esempio i travel blog si sono dimostrati un filone
ricco di dati per la ricerca, producendo articoli sull’i-
dentità (Kane 2012), sul marketing (Schmallegger
and Carson 2008) e sulla metodologia (Banyai and
Glover 2012).
   Vorrei sottolineare il fatto che nessuno di questi
esempi vuole sostituire gli approcci tradizionali alla
ricerca; non sono un miglioramento ma un’aggiunta,

                          189
                 la battaglia per l’open

spesso sono anche complementari. Un pezzo preli-
minare di ricerca individuale e a basso costo può for-
mare la base per competere per fondi destinati ad un
lavoro più significativo. Ciò che è comune a tutti que-
sti, e sicuramente a molti altri approcci della open
education come i primi MOOC, è che non richiedono
autorizzazioni eccetto alcune relative alla tempistica.
Nella sua critica al film “The social network” il fon-
datore di Creative Commons Larry Lessing (2010) ha
messo in evidenza il fatto che è stata proprio questa
rimozione di barriere la parte significativa della storia
di Facebook: «Ciò che è importante qui è che alla tro-
vata geniale di Zuckerberg potrebbero aderire mezzo
miliardo di persone in sei anni dal suo lancio senza
(e qui c’è la critica) aver chiesto il permesso a nessu-
no. La vera storia non è quella dell’invenzione, è la
piattaforma che rende l’invenzione interessante».
  La stessa libertà riguarda la pratica scolastica, inclu-
so come facciamo ricerca, come diffondiamo i risul-
tati e come insegniamo. Questo approccio “just do
it” può prendere in prestito un termine dal software
development: “guerrilla research”. Unger e Warfel
(2011) si sono detti a favore di questa definizione so-
stenendo che «i metodi della Guerrilla research sono
metodi più veloci, più economici e che producono ri-
sultati sufficienti da generare decisioni strategiche».
  La guerrilla research ha le seguenti caratteristiche:
• può essere portata avanti da uno o due ricercatori e
  non richiede un team
• si affida a dati, informazioni e strumenti open
  esistenti
• è piuttosto veloce da capire
• è spesso diffusa tramite blog e social media
• non richiede permessi

                           190
                   la open scholarship

   Come già detto in precedenza, la guerrilla research
non ha bisogno di essere in competizione con la ri-
cerca formale e finanziata. Anzi è un buon modo per
iniziarla: se un ricercatore ha bisogno di dimostrare
ad un finanziatore che vale la pena di investire in un
progetto, allora può essere utile mostrare qualche in-
teressante risultato preliminare, così come lo può es-
sere la capacità di mostrare attraverso analisi grafiche
che i blog e i tweet sui suoi risultati iniziali hanno
generato un certo livello di interesse.
   Parte dello spreco nella pratica corrente spesso
non viene notato, dato che è una pratica accettata
alla quale gli accademici hanno ormai fatto l’abitudi-
ne. Alcuni ricercatori ad esempio possono spendere
parecchio del loro tempo, anche mesi, a sviluppare
candidature da sottoporre a finanziatori. Stevenson
(2013) ha calcolato una media di tre mesi a proposta,
ma il Research Council del Regno Unito ha ritenuto
che dodici giorni per una proposta convenzionale era
la media (RCUK 2006). Il tasso di successo di queste
candidature è in calo, dato che sta diventando sem-
pre più competitivo: per esempio la ESRC ha stimato
che solo il 17% delle proposte nel 2009-10 ha avuto
successo (ESRC 2010). Se poi una proposta non ha
successo, alcune volte viene modificata e mandata al-
trove, ma più spesso è semplicemente abbandonata e
il ricercatore va avanti a farne altre. Il che significa un
sacco di tempo e di conoscenza andati perduti. Il re-
port di RCUK del 2006 stima che 196 milioni di ster-
line sono state spese in domande indirizzate agli otto
comitati britannici di ricerca, la maggior parte delle
quali era in sostanza tempo di staff già impiegato. Il
numero delle domande cresce ogni anno – ci sono
state 2.800 proposte inviate a ESRC nel 2009-10, con

                           191
                la battaglia per l’open

un incremento del 33% rispetto al 2005-6, quindi
probabilmente questa cifra è cresciuta in modo signi-
ficativo. Alcune di queste 2.800 proposte erano borse
di studio, che hanno un maggiore tasso di successo,
ma anche prendendo come dato ottimistico 800 pro-
poste accettate per farle diventare borse di ricerca,
comunque ne restano 2.000 che non hanno avuto
successo. Se prendiamo dunque il dato di dodici gior-
ni per candidatura che è stato portato dal RCUK, ciò
equivale a 65 anni di tentativi, e questo è solo uno
dei molti grandi centri di ricerca in UK e in Europa
ai quali i ricercatori mandano proposte. Ovviamente
questo è solo un dato indicativo, e nel calcolo ci sono
molte supposizioni discutibili, ma comunque la na-
tura della ricerca così come è attualmente concepita
prevede un sacco di sprechi. Ciò non vuole suggerire
che il processo di peer review non sia valido, ma che
la mancata capitalizzazione delle proposte rifiutate
rappresenta un sostanziale spreco di risorse. Come
per l’open source software e per gli approcci open
all’insegnamento, anche gli approcci open alla ricer-
ca possono suggerire una metodologia più efficiente.
  Molte di queste candidature costituiscono una ri-
cerca valida e potrebbero essere rifiutate solo perché
non soddisfano le specifiche tecniche relative al for-
mato della proposta. La guerrilla research può essere
un modo per realizzarne alcune, anche se in certe
aree, in particolare nell’ambito della ricerca scienti-
fica, non è possibile. Un approccio più open allo svi-
luppo della ricerca comunque ridurrebbe lo spreco
generale. La natura competitiva delle candidature
però spesso preclude la condivisione pubblica delle
proposte, specialmente nella fase di sviluppo, e come



                         192
                  la open scholarship

tale rappresenta una di quelle aree di tensione tra la
open scholarship e la prassi tradizionale.


Conclusioni
  La open scholarship può costituire un libro a sé e
ci sono molti aspetti che qui non sono stati trattati.
La citizen science è una di queste aree, in cui gli ac-
cademici stanno sviluppando piattaforme e in cui gli
approcci per coinvolgere un pubblico più ampio han-
no avuto grande successo. Per esempio un progetto
come iSpot che permette agli utenti di fotografare
specie diverse e chiederne l’identificazione può esse-
re usato per calcolare la distribuzione geografica di
certe specie. Gli open data, i cambiamenti portati al
sistema di peer review per farlo diventare di post-re-
view, il fondare comunità online – tutte queste sono
aree fertili della open scholarship. Il focus qui è sta-
to quello di dimostrare un particolare aspetto, quello
della ricerca, e di come esso sia influenzato dalla pra-
tica open, ma lo stesso si può applicare all’insegna-
mento o al public engagement o ad altre forme di
attività didattica.
  La open scholarship comunque non è esente da pro-
blemi. Anche se la privacy è diversa – perché la open
scholarship riguarda la scelta di condivisione di alcuni
aspetti e la privacy riguarda piuttosto l’invasione non
autorizzata in quegli elementi che si decide di non ren-
dere pubblici – molti sono a disagio con qualsiasi for-
ma di presenza online. Può essere che avere una tale
identità sia ora parte integrante dell’essere uno studio-
so, quindi c’è un elemento di costrizione che sottende
un po’ al proselitismo sulla open scholarship. Questo


                          193
                 la battaglia per l’open

è particolarmente vero nel caso degli allievi, alcuni dei
quali possono avere legittimi motivi per non volersi
fare un’identità nell’open (per esempio se sono stati
vittime di cyberstalking). L’apprendimento infatti è in-
trinsecamente un processo scomodo, in cui un allievo
passa dalla posizione di (relativa) ignoranza ad una di
(relative) competenze. Implicito in questo processo
è l’esposizione di alcuni a questa ignoranza. Perfino
uno dei grandi sostenitori dell’open teaching, George
Siemens (2014), ricorda che non ci dovremmo dimen-
ticare mai della vulnerabilità dell’imparare. Perciò un
ambiente chiuso e protetto come una piattaforma di
apprendimento istituzionale può certo fornire l’am-
biente ideale per molti studenti.
  Fa comunque parte del compito dell’istruzione equi-
paggiare gli allievi con gli strumenti e la conoscenza di
cui hanno bisogno e sempre più questa conoscenza ri-
guarda lo sviluppo di un’alfabetizzazione digitale. Non
è il tema di questo libro, ma agire in maniera sicura ed
efficiente all’interno dell’open e costruirsi un’adegua-
ta identità online può essere un elemento fondamen-
tale. Per esempio Jim Groom ha fondato il progetto
Domain of One’s Own appena uscito dalla University
of Maryland Washington (Udell 2012). Questo proget-
to offre agli studenti uno spazio web con un loro do-
minio. Oltre ad aggiornare il loro blog su WordPress,
gli studenti possono installare altri software e «rita-
gliarsi uno spazio web che gestiscono e controllano».
Possono assumerne la proprietà una volta che si sono
laureati. Groom ritiene che questo livello di controllo,
legato agli individui e non alle istituzioni, sia essenzia-
le per crearsi un’identità online.
  È anche necessario essere prudenti sugli inconve-
nienti dell’operare nell’open: ci sono molte storie di

                           194
                  la open scholarship

persone che sono state licenziate per aver postato o
condiviso tweet in modo imprudente, e gli accademici
non dovrebbero sentirsi immuni da questo. Forse di
maggiore preoccupazione è il modo in cui altri potreb-
bero abusare del dibattito open per dare contro agli
insegnanti. Molti blogger del settore educational co-
minciano a bloggare proprio perché questo permette
loro di commentare su temi politici o sullo stato dell’i-
struzione superiore. Il blogger britannico che usa lo
pseudonimo di Plashing Vole spesso critica il governo
britannico ed è stato minacciato da un quotidiano na-
zionale con una storia che avrebbe potuto rovinargli la
carriera (Plashing Vole 2013). La storia non uscì mai
ma la stessa minaccia è sufficiente a fare temere molti
accademici di operare con approccio open.
   La battaglia per l’open in termini di open scholar-
ship è dunque meno definita che in altri aspetti della
open education, forse perché è un’area meno definita
di per sé. È meno una battaglia contro forze esterne
che ne usurpano la pratica, e più una lotta interna, tra
pratiche esistenti e opportunità disponibili. Il rapporto
con il commerciale è meno teso in questo ambito, gli
accademici useranno siti commerciali come Twitter,
Researchgate, Slideshare etc per tutto il tempo in cui
li riterranno utili. Le funzioni che sostengono fanno
parte di un miscuglio più ampio dell’identità dell’open
scholar, quindi nessuno di essi è fondamentale come
la pubblicazione o l’insegnamento, dove gli interessi
commerciali hanno creato molta tensione.
   La discussione sull’identità dell’open scholar rive-
la che c’è tensione all’interno della stessa istruzio-
ne, e ciò è più significativo. Tanto più le università
aumentano la loro consapevolezza del valore della
open scholarship per la reputazione del loro stesso

                          195
                 la battaglia per l’open

brand, quanto più creano linee guida su come opera-
re. Generalmente queste sono utili e mirano ad aiu-
tare l’open scholar, ma dato che la maggior parte del
mondo si muove online, il possibile danno portato
dalle “tempeste di Twitter” che vediamo da altre parti
aumenta. E ciò può creare frizioni tra l’open scholar
e l’istituzione. La ragione per cui molti studiosi ope-
rano nell’ambito dell’open è per la libertà che offre:
questa libertà che è forse la caratteristica chiave della
open scholarship, come abbiamo visto per il potenzia-
le della guerrilla research. Come per i primi MOOC,
per le pubblicazioni in Open Access e per l’uso delle
OER, l’open scholarship permette sperimentazione e
autonomia, e questa può essere la direzione che la
battaglia prende in quest’area.
   Abbiamo dunque parlato delle quattro aree princi-
pali dell’open education che questo libro tratta: l’O-
pen Access, le open educational resources, i MOOC e
la open scholarship. Per ciascuno di questi casi si può
portare un esempio che dimostri il successo dell’ap-
proccio open e il suo spostarsi sempre più nel main-
stream della pratica didattica. Contemporaneamente,
in ciascuna di queste aree sorgono problemi che
sono principalmente correlati alle nuove sfide dell’o-
penness. L’argomentazione centrale di questo libro,
e cioè che l’openness ha avuto successo ma che sta
affrontando oggi una battaglia per la sua direzione
futura, è evidente in ciascuno dei quattro temi, ma
l’esatta natura del successo e delle tensioni varia per
ciascuno di loro. Dopo aver dimostrato la natura della
battaglia per l’openness in queste aree specifiche, gli
ultimi tre capitoli.




                          196
 CAPITOLO 8

L’openness messa a nudo

                     Tutto è pubblicato online di questi tem-
                     pi, come se non fossimo che una nota a
                     piè di pagina di qualcosa che un tempo
                     era così reale da avere un suo nome.
                                        Margaret Atwood


Introduzione
   Spiegando il modo in cui l’openness ha avuto suc-
cesso, questo libro l’ha presentata come un approccio
decisamente vantaggioso. Pur avendo molti benefici
essa però porta con sé anche problemi e complicazio-
ni. Una delle conseguenze dell’evoluzione della open
education portata avanti in modo controverso, con
l’interferenza di interessi commerciali come quelli di
editori che o fanno ostruzionismo oppure provano ad
appropriarsene, è che i suoi sostenitori sono spinti
ad ignorare ogni possibile problema per paura che
l’intero approccio sia screditato. È un po’ come per
gli scienziati che si occupano di cambiamento clima-
tico, che difficilmente danno voce a dubbi su specifici
dati o interpretazioni per paura che ogni perplessità
possa essere usata per compromettere l’intero mes-
saggio. È l’ennesima conseguenza della battaglia per
l’openness. Come per il mito della disruption che ab-
biamo visto nel capitolo 6, essa spinge le persone ver-
so estremi diametralmente opposti, ed è il motivo per
                la battaglia per l’open

cui in questo capitolo andremo ad esplorarne anche
alcune critiche. Pur condividendo l’idea di un bene
intellettuale aperto e comune, James Boyle (2008)
sottolinea ad esempio che «non è vero che l’openness
va sempre bene. Piuttosto abbiamo bisogno di un
equilibrio tra ciò che deve essere aperto e chiuso, tra
la proprietà e la gratuità, e sistematicamente – con
tutta probabilità – otteniamo un equilibro sbagliato».
Alla stesso modo Dave Cormier (2009), che coniò
il termine MOOC e che è un sostenitore della open
practice, mette in guardia: «L’openness non è una
panacea. Non si metterà ad insegnare all’improvviso
agli studenti né a diffondere una ‘buona istruzione’, e
non è nemmeno esente dal portarsi dietro un suo ba-
gaglio culturale». Sia Boyle che Cormier hanno sicu-
ramente ragione, tuttavia queste critiche sono ancora
ignorate nella battaglia per l’openness. Il pericolo di
non affrontare alcune delle criticità è che saranno
usate per screditare l’intero approccio.


La politica dell’openness
  Nel capitolo 2 ho intenzionalmente evitato defini-
zioni sulla open education per concedere un certo
grado di variabilità nella pratica. Mentre alcune aree
come le OER hanno una definizione molto chiara,
altre come la open scholarship stanno ad indicare un
approccio generale e un insieme di idee. Trovare una
sola definizione escluderebbe alcuni elementi della
storia della open education che sono interessanti, e
da qui la mia decisione di optare per un insieme di
principi che si stanno fondendo insieme. Questo ap-
proccio però rende in qualche modo la terminologia


                            198
                l’openness messa a nudo

più vaga e ne impoverisce il significato, rendendolo
vulnerabile e soggetto ad abusi.
  Nella sua interessante critica all’editore open sour-
ce Tim O’Reilly, Morozov (2013) mette in luce come
questa genericità del termine sia stata deliberatamen-
te costruita da O’Reilly per fare una buona operazio-
ne di public relation:

 Poche altre parole in inglese contengono così tanta
 ambiguità e seduzione come il termine “open”. E dopo
 i pomposi interventi di O’Reilly – «L’open permette
 la sperimentazione. L’open promuove la competizio-
 ne. L’open vince» proclamò una volta in un saggio – il
 suo fascino non ha fatto che crescere. Approfittando
 dell’ambiguità del termine quindi, O’Reilly e i suoi
 collaboratori hanno messo in relazione l’“openness”
 del software open source con l’“openness” dell’im-
 prenditorialità accademica, dei mercati e della libertà
 di espressione. “Open” pertanto potrebbe, di fatto, si-
 gnificare di tutto.

  Per Morozov la co-opzione di uso del termine ha
consentito a O’Reilly di spostarlo su un piano econo-
mico, che il mercato trovava più appetibile, permetten-
do a lui e a molti altri dell’ambiente del software di
«sembrare politici portando avanti un’agenda che con
la politica aveva poco a che fare». Come abbiamo visto
nel capitolo 1, l’openwashing implica che proclamare
di avere credenziali open abbia un valore di mercato, e
in questo caso l’ambiguità del termine lo facilita.
  Nel capitolo 2 ho presentato una breve storia dell’o-
penness nel campo dell’istruzione, ma anche questo
ha implicazioni politiche. Descrizioni di questo genere
sulla open education hanno di solito uno o due punti
di partenza. La prima opzione è prendere come inizio


                          199
                 la battaglia per l’open

la fondazione della Open University. Lane (2009) af-
ferma «Si può ritenere che il dibattito sul ruolo dell’o-
penness nell’istruzione superiore sia iniziato sul serio
con la nascita della United Kingdom Open University
(UKOU) nel 1969». In alternativa, il secondo punto
di partenza è quello del movimento open source, che
è quello che scelgono Wiley e Gurell (2009) quando
ammettono «le storie sono complicate da scrivere, per
molte ragioni. Una di queste è la difficoltà a decidere
da dove iniziare – perché non c’è mai un vero punto
di partenza per un racconto fatto di persone, eventi e
idee che si intrecciano». La scelta di un punto di par-
tenza influirà dunque sul tipo di interpretazione di
open education che viene portata avanti: quello della
OU potrebbe suggerire un approccio universitario e
studentesco, mentre il secondo potrebbe indicare una
prospettiva più tecnologica e definita dalle licenze.
   Peter e Diemann (2013) propongono una prospettiva
storica di più ampio raggio, mettendo in luce aspetti
della open education risalenti addirittura al Medioevo,
quando furono fondate università che «contenevano in
sé l’idea dell’openness, seppur incompleta. Quel perio-
do valorizza l’open come elemento guida, che si regge
su una curiosità crescente e su un’accresciuta consa-
pevolezza delle opportunità didattiche». Si può trovare
traccia della open education nel XVII secolo con le caf-
fetterie e poi ancora nella rivoluzione industriale con
scuole e gruppi di lavoro. Una panoramica di questa
interpretazione storica più ampia dell’openness si può
vedere rappresentata nella Figura 9. Questa prospetti-
va porta con sé alcune lezioni illuminanti per il dibat-
tito corrente. L’autore infatti conclude che «le forme
antiche di openness ci mettono in guardia sull’ipote-
si che alcune particolari conformazioni prevarranno,

                          200
               l’openness messa a nudo

o che alcuni aspetti sociali si debbano considerare by
default auspicabili… Dopo un periodo di movimenti
open molte volte ci sono stati lievi ma importanti spo-
stamenti dall’openness “pura” verso forme di open-
ness “presunta”, cioè alcuni aspetti di essa sono stati
modificati per offrire più controllo ai produttori e ad
altri stakeholder.»




                         201
                 la battaglia per l’open

   Ciò mostra come l’openness sia sempre stata per-
cepita come problematica e come una delle sue
principali difficoltà sia andare contro il bisogno di
controllo individuale e, cosa più significativa, contro
quello delle organizzazioni, e dove c’è un bisogno di
controllo c’è sicuramente un aspetto politico. Peters e
Britez (2008) sono categorici su questo tema nel loro
libro sulla open education, che si apre con la dichia-
razione: «La open education implica un impegno per
l’openness ed è quindi inevitabilmente un progetto
politico e sociale». Si può ribattere – e la open source
community lo fa – che l’openness è semplicemente
il modo più efficiente di operare, e c’è qualcosa di
vero in questo se prendiamo ad esempio il dibattito
per i learning objects e per le OER. Ma anche se le
cose stanno così, la politica è coinvolta, che sia per
un insieme di convinzioni che include concetti come
democrazia, altruismo, condivisione o una più gene-
rale prospettiva liberal, o più direttamente per un lob-
bismo politico, per esempio per introdurre i libri di
testo open in un paese o in una regione.
   La dimensione politica dell’openness è forse rap-
presentata al meglio dalla storia di Aaron Schwartz.
Giovane programmatore e attivista online, Schwartz
scaricò 19 milioni di articoli accademici dal databa-
se JSTOR mentra era al MIT, per renderli pubblici.
Fu incriminato e accusato di frode informatica e di
violazione del Computer Fraud and Abuse Act, che
poteva portare ad una sanzione di 1 milione di dollari
e a 35 anni di reclusione. Shwartz si suicidò nel gen-
naio 2013. Il caso resta complicato poiché Schwartz
non distribuì gli articoli e non fu pertanto accusato
sulla base delle leggi sul copyright, ma la severità del-
la possibile pena (anche se non si sa se sarebbe mai

                          202
                l’openness messa a nudo

stata messa in pratica) rinforza la teoria che ci sono
argomenti di reale valore contestati nella battaglia
per l’openness. Per alcuni Schwartz è un eroe, per al-
tri fu imprudente (Aaronovitch 2013). Probabilmente
nessuna di queste opinioni è giustificata, ma quel-
lo che questa storia triste evidenzia è una parte dei
problemi che sorgono quando la cultura open si
scontra con le pratiche tradizionali. Il rapporto tra
l’individuo e la sua istituzione (alcuni criticarono il
MIT per non aver protetto Schwartz), l’adeguatez-
za del diritto nell’affrontare simili casi e la possibi-
lità di distribuire facilmente una grande quantità di
materiale coperto dal copyright sono tutti problemi
che si ripresenteranno. Il gesto di Schwartz può so-
lamente essere interpretato come politico e come
direttamente connesso al problema dell’openness.
Ci sono poi state esplicite critiche politiche ad alcuni
aspetti della open education. Per esempio i MOOC
sono stati visti come sistemi di sfruttamento del lavo-
ro accademico (Zevin 2012) e come portatori di un’a-
genda neoliberale (Hall 2013). La stessa narrazione
della Silicon Valley può essere vista come una forma
di capitalismo neoliberista, quindi non ci si dovrebbe
sorprendere che i MOOC siano interpretati secondo
la stessa prospettiva. Per altri invece il movimento
della open education non è sufficientemente radica-
le nel suo ripensamento del ruolo delle università.
Winn (2012) si chiede: «Si sta usando la open edu-
cation per compensare il declino dello stato sociale?
La promozione governativa delle OER è un modo per
affrontare la scarsità di risorse all’interno di un siste-
ma di istruzione superiore in espansione?». Winn e
altri sono a favore di un’interpretazione più sociale
dell’openness, che attinge ad alcuni dei trend storici

                           203
                la battaglia per l’open

citati prima, come pure dalle solide basi etiche del
free software movement di Stallman. In questa inter-
pretazione la open education tende ad una università
collaborativa, quindi «una libera associazione di per-
sone che si mettono insieme per produrre collettiva-
mente conoscenza. Ed è anche un progetto politico»
(Winn 2013).
  Per volendo ignorare questi aspetti esplicitamente
politici della open education, c’è un’involontaria (o
forse intenzionale) forma di imperialismo culturale
associato all’esportare il suo credo, che è strettamente
conforme alle open educational resources. Cormier
(2009) allude al fatto che le OER possono essere vi-
ste come un mezzo per esportare un modello educa-
tivo. Il potere di un brand istituzionale globale come
il MIT, combinato con la gratuità, rende difficile la
competizione a provider locali, sia in termini di costi
che di influenza. Come sostiene Cormier, «i profes-
sori locali, mettendo a confronto il valore relativo del
loro curriculum con il potere standardizzante di una
grande università, come possono essere in grado di
proporre le loro idee?». Come per molte delle criti-
che in questo capitolo, ci sono argomentazioni con-
tro e modi per mitigare il problema, come attraverso
progetti locali, quindi avercela con la open education
non è ragionevole. Si deve comunque tenere presen-
te che una dimensione politica esiste e che possono
esserci alternative.


Problemi legati all’openness
  Il paragrafo precedente si è occupato di riserve fi-
losofiche o politiche relative alla open education, in


                          204
                l’openness messa a nudo

questo invece si tratteranno problemi più specifici
associati all’approccio open. Non sarà una lista esau-
stiva ma piuttosto rappresentativa, nell’intento di
mettere in evidenza alcune delle complicazioni che
sorgono come conseguenza diretta dell’openness.
  Una delle difficoltà più preoccupanti associate alla
open education è che non raggiunge il target deside-
rato, o quello che dice di raggiungere. Come abbiamo
visto molta della retorica associata sia alle OER che
ai MOOC sottolinea la natura democratizzante degli
approcci open, ma mentre si usano spesso aneddoti
a sostegno di questa affermazione, l’evidenza poi non
la supporta. Sembra esserci infatti un chiaro trend
secondo cui la maggior parte degli utenti della open
education sono studenti già esperti. Per esempio un
sondaggio su utenti dell’archivio OER OpenLearn
della OU dimostrò che questo è spesso utilizzato da
alunni formali e informali istruiti, qualificati e spes-
so già impiegati: il 26% degli intervistati indicava
di avere qualifiche universitarie e un ulteriore 20%
diceva di possedere qualifiche di specializzazione
post laurea (Perryman, Law & Law 2013). Allo stesso
modo l’OpenCourseWare Consortium fece un son-
daggio tra i suoi utenti e scoprì che quasi la metà era-
no studenti attualmente in formazione secondaria
o universitaria, il 22% professionisti che già lavora-
vano e l’8% insegnanti o membri di facoltà (OCWC
2013). I MOOC rivelano una simile demografia, con
uno studio fatto dalla Edinburgh University su uten-
ti dei sei MOOC basati su Coursera che mostra un
70% di partecipanti con titolo universitario o supe-
riore (Edinburgh MOOC group 2013). Christensen et
al. (2013) scoprì anche che prendendo in esame 32



                          205
                la battaglia per l’open

MOOC il trend di tipologia di studenti era maschio,
giovane, bianco, istruito e impiegato.
  Lane (2012) sostiene che non è ancora possibile mi-
surare come le OER stiano effettivamente allargando
la partecipazione sia formale che informale all’istru-
zione superiore, ma suggerisce che la maggior parte
di esse sono perlopiù fatte per allievi che hanno espe-
rienza. Bossu, Bull and Brown (2012) segnalano che
nel contesto australiano coloro che hanno più biso-
gno di accesso all’istruzione superiore hanno gene-
ralmente scarso accesso alla tecnologia, e quindi alle
OER. Liyanagunawardena, Williams e Adams (2013)
esprimono simili preoccupazioni sul potenziale dei
MOOC di democratizzare l’istruzione nei paesi in via
di sviluppo, facendo riferimento all’accesso alle tec-
nologie, alla lingua e all’alfabetizzazione informatica
come barriere che possono avere come conseguenza
la limitazione di uso all’ambito di paesi sviluppati e
privilegiati.
  Di certo questo, assieme alle accuse mosse ai pro-
duttori di MOOC di concentrarsi solo sulla ricerca di
università elitarie (Rivard 2013), va a minare la pre-
tesa di democratizzazione. Non solo quindi la open
education potrebbe non raggiungere una parte dei
gruppi target che si prefigge di raggiungere, ma po-
trebbe esacerbare la situazione: se uno studio indi-
pendente portato avanti con MOOC e OER diventa
infatti una componente riconosciuta e attraente del
curriculum, allora l’accesso a questi strumenti ironi-
camente va ad aumentare il divario digitale con que-
gli studenti esperti che sono in grado di sfruttarne i
benefici.
  Due fattori sono in grado di mitigare questo scena-
rio. Il primo è che questi risultati iniziali rappresen-

                          206
                l’openness messa a nudo

tano gradi preliminari di una “curva di adozione”: si
può prevedere infatti che gli allievi esperti con alti
livelli di connettività siano tra le prime “tribù” di un
nuovo sviluppo. Man mano che questi strumenti ven-
gono accolti come parte di una pratica mainstream,
allora ci possiamo aspettare che prendano piede nel-
la società nel suo insieme, come Facebook è passato
dall’essere un sito usato solo da una elite tecnologica
a diventare uno strumento di massa. Il secondo fat-
tore è che progetti globali stanno prendendo molto
dall’etica open e la stanno applicando a contesti loca-
li. Per esempio il progetto TESSA ha sviluppato OER
a supporto della formazione di insegnanti nell’Africa
Sub Sahariana, con contributi locali che hanno svi-
luppato il materiale. Il progetto LatIN sviluppa libri
di testo per l’America Latina usando professori ed
autori locali, risolvendo quindi sia il problema dei
costi che quello della pertinenza. Allo stesso modo
Siyavula in Sud Africa ha creato libri di testo open
su temi chiave che sono distribuiti in tutte le scuole
a livello nazionale. Ci sono progetti OER nella mag-
gior parte dei grandi paesi, dato che il modello open
è visto come un modo per risolvere specifici bisogni
locali.
   Parte della risposta ai dubbi è quindi il fatto che
si tratta di un quadro in via di sviluppo e che è ir-
realistico aspettarsi soluzioni immediate a problemi
di accesso che hanno colpito l’istruzione tradizionale
per lungo tempo. Il movimento della open education
si sta adattando e modificando per incontrare la do-
manda dei contesti locali. E tuttavia il profilo degli
studenti rimane un problema, e l’esperienza delle
università open negli ultimi 40 anni dimostra come
l’apprendimento ad accesso aperto richieda un gran-

                          207
                 la battaglia per l’open

de supporto. La filosofia di alcuni progetti di open
education “costruisci e poi verranno” probabilmente
non è sufficiente a superare le barriere alla partecipa-
zione, e ciò sottolinea l’importanza di mantenere una
diversità di interpretazioni dell’openness e di evitare
la definizione semplicistica open = free, dato che l’o-
pen entry nell’apprendimento può richiedere diversi
modelli di supporto.
  Un aspetto correlato è il tasso relativamente basso
di riutilizzo e di modifica del contenuto open. Molto
è stato detto nei 4R di Riutilizzo di cui si è parlato nel
capitolo 2, in realtà solo il primo di essi (il diritto di
riutilizzo) è ampiamente implementato. Gli altri, la
modifica, il remix e la ridistribuzione rimangono di
minore interesse. Per esempio il team di OpenLearn
scoprì che il reversioning era raro e che gli utenti
tendevano a prendere e a presentare unità in blocco.
Constatarono inoltre che si evitava di usare il mate-
riale per altri scopi per non imbattersi nei seguenti
quattro ostacoli (McAndrew et al. 2009):
1. non era specifico compito di nessuno remixare e
   riutilizzare;
2. il contenuto fornito sul sito era di alta qualità e
   questo disincentivava la modifica;
3. c’erano pochi esempi che mostravano il metodo e il
   valore del remixing;
4. l’uso di formati poco conosciuti (come XML) ren-
   deva gli utenti insicuri su come procedere.

  Ciò suggerisce un insieme di problemi culturali,
come la mancanza di ruoli definiti, insieme a proble-
mi tecnici hanno fatto da barriera alla riconversione.
Come nel flipped learning network citato nel capitolo
4, in cui si diceva che c’è stato un divario tra insegnan-

                           208
                l’openness messa a nudo

ti che usavano materiali di altri e quelli che poi con-
dividevano i propri (De Los Arcos 2014). Tuttavia, il
quadro potrebbe cambiare. Le statistiche di OpenStax
(da gennaio 2014) mostrano 361 versioni dei loro libri
di testo prese da un totale di 1.116 (OpenStax 2014).
Alcuni di questi sono adattamenti diversi dello stesso
modulo, per cui alcuni moduli sono più reimpiegati
di altri, ma ciò indica un alto grado di adattabilità al
riutilizzo rispetto a quanto abbiamo visto nella mag-
gior parte dei progetti OER. Può darsi che il contesto
conosciuto delle OER in questo caso, un libro di testo
piuttosto che un’unità di elearning, permetta di supe-
rare alcune barriere culturali e pratiche. E la fornitura
di facili strumenti per l’adattamento è anch’esso un
fattore.
   Tutto questo può non essere significativo: ci sarà
sempre più riutilizzo piuttosto che adattamento, dato
che il primo è più semplice. Così come su YouTube
ci sono più consumatori di video che produttori di
video, allo stesso modo creare e condividere conte-
nuti implica un maggiore impegno. Eppure perché
molte delle pratiche di open education si sviluppino
occorre che ci sia un certo grado di creazione comu-
nitaria. Ho fatto in precedenza la distinzione (Weller
2012) tra OER grandi (ad esempio istituzionali) e
piccole (ad esempio individuali), ma lo stesso si può
dire della open scholarship, delle pubblicazioni in
Open Access e dei MOOC. In parte si tratta di un
argomento a favore della sostenibilità: questi approc-
ci lavorano bene sul lungo periodo, quando non de-
vono fare affidamento su grandi progetti finanziati a
livello centrale per la consegna, e diventano invece
un sottoprodotto della pratica quotidiana. Ed è anche
un’argomentazione a favore della proprietà, che si re-

                          209
                 la battaglia per l’open

laziona più nello specifico alla battaglia per l’open. Se
si sviluppano soltanto MOOC con produzioni di fa-
scia alta, con insegnanti universitari superstar, o se le
OER sono solo rilasciate da grandi progetti di istitu-
zioni elitarie e sono accettati all’ingrosso, allora l’uni-
versità non fa propri nè i problemi né le opportunità
che esse offrono. Rimangono una pratica imposta al
settore educational da altri, piuttosto che appartenen-
ti al settore stesso.
   Un ulteriore problema della open education è
un’implementazione troppo zelante. Come discusso
prima, la open education è senza dubbio un movi-
mento politico, e come tale ci sono nel mezzo anche
estremisti. Sono spesso mossi da buone intenzioni
e prendono una posizione sull’openness che non la-
scia spazio a nessuna reinterpretazione del termine,
come abbiamo visto invece nel caso dell’openwashing.
Eppure, come per il movimento open source, si può
arrivare a forme di “Stalinismo dell’openness” in cui
si è fatti fuori per non essere abbastanza open. E alla
fine questo allontana molti professori accademici,
che non vogliono essere forzati con la paura o con il
bullismo a praticare l’openness. Essa può diventare
dunque in fretta un bastone con il quale percuotere,
e il pericolo di un atteggiamento mentale di questo
tipo è che essa si riduca ad una checklist. Forse uno
degli aspetti più eccitanti della pratica open è la sua
apertura alla sperimentazione e alla diversità e sareb-
be davvero una falsa vittoria sostituire un monopolio
di comportamento con uno nuovo.
   L’openness e l’accesso ad una rete globale porta
con sé un nuovo tipo di considerazioni morali. Può
essere usata per giustificare un comportamento.
Per esempio, è accettabile trasmettere una frase o

                           210
                l’openness messa a nudo

un video di qualcuno che dice qualcosa di offensi-
vo a sua insaputa? La pretesa di apertura giustifica
la pubblica critica di un professore? Molti di questi
temi vanno oltre l’area dell’istruzione, dato che la
società si sforza di capire cosa significa per ognu-
no avere accesso ad un network globale, quando le
conseguenze delle proprie azioni vengono forte-
mente amplificate, come il caso di Aaron Schwartz
ci rammenta. La “Twitter storm” (cioè la tempesta
su Twitter), dove un misfatto iniziale ottiene l’atten-
zione globale e attrae una folla infuriata, è ormai un
fatto comune. Spesso l’azione originaria è veramente
offensiva, come la storia di Justine Sacco che postò
uno scherzo razzista prima di andare in SudAfrica e
si trovò per questo senza lavoro mentre era in aereo.
Ma anche se quello che aveva postato era indubbia-
mente volgare, Wadhwa (2013) sostiene: «In nessun
momento della storia è stato così facile distruggere
la tua vita in pochi secondi». E se l’imprudenza di
Sacco poteva essere decisamente di cattivo gusto, ci
sono altri casi di misunderstanding come il caso di
una adolescente che per scherzo la notte dello scor-
so capodanno disse che il mondo aveva 2.014 anni
e per questo fu minacciata di morte da persone che
non ne apprezzarono l’ironia (Zimmerman 2014).
Inoltre se le offese morali su Twitter di Sacco ed al-
tri sono basate su messaggi sgradevoli, spesso non
sono più offensive di certi tipi di conversazione che si
ascoltano in un qualsiasi luogo pubblico. Non si avrà
certo la vita rovinata per dire cose di questo tipo su un
treno o in un bar, ma se un’emittente televisiva le dice
allora ci sentiremmo offesi. Ciò potrebbe evidenziare
la differenza che stiamo incontrando tra le nostre co-
municazioni e le nostre reazioni – applichiamo una

                           211
                la battaglia per l’open

moralità da broadcast alla comunicazione personale.
Ci sono chiari consigli per il comportamento online,
come ad esempio “considera che tutto ciò che dici
online è automaticamente trasmesso al mondo”, ma
qualsiasi espressione umoristica o qualsiasi opinione
può generare una Twitter storm se interpretata male.
La natura globale e incontrollabile di questi eventi
mette il rapporto tra l’individuo accademico e la sua
istituzione sotto un nuovo tipo di pressione. In modo
analogo, per gli accademici che lavorano in aree te-
matiche potenzialmente sensibili, come la politica
del Medioriente, i cambiamenti climatici o la psicolo-
gia evolutiva, la pressione ad essere open o ad aprire
un’identità online può renderli soggetti a particolari
gruppi con interessi forti.
   Un ulteriore fattore da considerare in relazione
all’opennes è quello dei costi. Spesso gli individui
sovrastimano il tempo necessario ad interagire con
strumenti come i blog o i social network. Se aprire
un’identità online prende tempo, c’è un periodo di
investimento da cui si trae beneficio una volta che
l’identità è stata aperta. I network online poi agiscono
come efficaci filtri di informazioni, che rispondono a
specifiche richieste, ricercano categorie per progetti
formali e modi per divulgarli, facendone una pratica
time-saving. Tuttavia, alcuni costi dell’openness pos-
sono essere sottostimati. Un esempio è quello degli
open data. Può sembrare abbastanza banale rilascia-
re dati per un particolare progetto – che sia attraverso
il sito stesso del progetto, in allegato ad una pubbli-
cazione pertinente o in un archivio centrale. È il caso
di molti progetti come quelli delle scienze esatte – la
condivisione pubblica di dati presi da una raccolta di
campioni geologici, ad esempio. Ma non appena c’è

                          212
                 l’openness messa a nudo

un coinvolgimento del fattore umano nei dati, allo-
ra la condivisione diventa più complicata: se infatti
è facile rendere i dati anonimi, succede che non sia
così difficile “deanonimizzarli”. Per rendere accessi-
bili i dati relativi alle persone infatti, sia che si tratti
di sondaggi, registrazioni di dati o interviste, i ricer-
catori hanno bisogno o del consenso per diffonder-
li così come sono (ad esempio una video intervista)
oppure devono renderli anonimi. Questo significa
la rimozione di elementi di identificazione come il
nome o la matricola nel caso dello studente. Tuttavia
altre informazioni necessarie perché i dati siano uti-
li ai ricercatori sono sufficienti per permettere una
reidentificazione. Negli USA ad esempio la data di
nascita, il genere e il CAP sono unici per una percen-
tuale che va dal 61% (Golle 2006) all’87% (Sweeney
2000). Quindi per rilasciare questi dati è necessario
uno sforzo considerevole per renderli davvero ano-
nimi, e per fare ciò la qualità delle informazioni po-
trebbe risentirne e rendere l’intero processo inutile.
Ohm (2009) conclude: «I dati possono essere o utili
o anonimi, mai entrambe le cose».
   Questi esempi sono utili a comprendere come l’o-
penness porti con sé anche un insieme di problemi.
Una reazione a questo tipo di sfide spesso è quella di
ritrarsi, ma ciò significa lasciare il controllo in mano
ad altri; e per il settore dell’istruzione e per gli ac-
cademici significa essere esclusi dalla società in cui
vivono. Istituire il tipo di identità online credibile di
cui si è discusso nel capitolo precedente è una strada,
ma richiede la comprensione e il supporto delle isti-
tuzioni che si relazionano con questi individui.




                            213
                la battaglia per l’open

Conclusioni
  Insieme a questi temi, i precedenti capitoli di que-
sto libro hanno sollevato altri problemi legati all’ap-
proccio open, che includono:
1. La Gold road per le pubblicazioni in Open Access
   che porta a opportunità di pubblicazione non eque.
2. La costrizione di studenti ad assumere comporta-
   menti open con i quali potrebbero essere a disagio.
3. I bassi tassi di completamento dei MOOC.
4. Un percorso che consente una maggiore commer-
   cializzazione dell’istruzione.
5. La sostenibilità a lungo termine dei progetti OER.

  Ciascuna delle questioni sollevate in questa pano-
ramica nasce dalla natura open della pratica, in più ci
saranno altre questioni correlate che incidono sulla
open education, come i costi associati all’istruzione
superiore. Ciò evidenzia il fatto che la open educa-
tion se da una parte offre soluzioni ad alcuni proble-
mi, dall’altra porta una nuova serie di preoccupazioni
che devono essere affrontate. La gravità e l’impatto
di questi problemi non è ancora chiaro: alcuni di
essi possono essere attribuiti al fatto che è un settore
relativamente nuovo, e i cambiamenti nella pratica
hanno bisogno di tempo per affermarsi. La consape-
volezza in merito alle risorse online è cresciuta molto
nell’ultimo decennio, anche se spesso confinata a siti
più popolari come YouTube, iTunes U, e i TED talks,
ed è probabile che questo trend continui nel prossi-
mo decennio e che il riutilizzo di contenuti diventi
una pratica accettata. Allo stesso modo la consape-
volezza dei diritti e il desiderio di rimescolare i con-
tenuti crescerà, semplicemente come conseguenza

                          214
                l’openness messa a nudo

dell’accresciuta consapevolezza nella società. L’uso
dei social media e l’azione ormai quotidiana di condi-
videre foto e video dimostra che è una pratica molto
più comune di quanto non lo fosse cinque anni fa.
Anche la consapevolezza istituzionale delle pra-
tiche open è cresciuta vertiginosamente, e qui bi-
sogna dare un po’ di merito al ruolo che i MOOC
hanno giocato. I MOOC hanno alzato moltissi-
mo il livello dell’attenzione sulla pratica open, che
porta sempre con sé risultati negativi e positivi.
Questo capitolo spiega che non dovremmo conside-
rare l’openness come una semplice checklist; piutto-
sto, consentendo una definizione più ampia, cresco-
no le possibilità di un uso scorretto, sia per ragioni
commerciali, come l’openwashing, sia per giustifica-
re un comportamento dubbio. Un modo per pensare
la pratica della open education è ciò che Kelty (2008)
chiama “recursive public”, cioè un «pubblico costitu-
ito dalla preoccupazione condivisa a mantenere gli
strumenti di aggregazione con i quali sono diventati
un pubblico». Questo concetto è stato utilizzato per
esaminare il modo in cui gli hacker del software li-
bero collaborano e si comportano in una comunità
altamente funzionale, senza la necessità di un chia-
ro manifesto o di una costituzione. Kelty ritiene che
essi operino in un dominio pubblico e che nel men-
tre questo modifichi il loro stesso comportamento,
quindi si sviluppa una definizione in fieri di cosa
significhi essere hacker. I valori chiave li tengono in-
sieme, ma allo stesso tempo essi stanno creando il
contesto nel quale operano. Come suggerisce Winn
(2013), questo concetto può essere applicato anche
alla open education, che è allo stesso tempo “dentro e
contro” un particolare contesto. Come abbiamo visto

                          215
                 la battaglia per l’open

nel precedente capitolo sull’identità, gli open scholar
si possono definire sia entro i confini della loro disci-
plina e istituzione, ma anche in contrasto con molte
di quelle pratiche. E non deve essere un “contro” con-
flittuale, piuttosto un modo per mettere in eviden-
za contrasti rilevanti. L’editoria Open Access non è
contro le pubblicazioni, dopo tutto, ma si definisce
evidenziando sostanziali elementi di differenza.
   Questa idea di definire la pratica open come qual-
cosa che è allo stesso tempo dentro e contro l’attuale
pratica educativa fa sorgere molta della tensione di
cui si è parlato nei precedenti capitoli. Nel prossimo
capitolo parleremo di un metodo per inquadrare que-
ste tensioni e per considerare le capacità individuali
perché hanno una minore potenza di fuoco.




                          216
 CAPITOLO 9

Open education e resilienza

                     Nessuno è così in ansia come quelli
                     che guardano e aspettano.
                                      Charles Dickens


Introduzione
   Nei precedenti capitoli si è parlato della vittoria
dell’approccio open e degli ambiti in cui ad oggi si
gioca la battaglia per l’open. Nel capitolo 6 si è argo-
mentato che la battaglia per la narrazione ha gioca-
to un ruolo significativo nell’ambito più ampio della
disputa e che è stata spesso dominata da richieste
semplicistiche di rivoluzione e disruption. In questo
capitolo si propone uno schema che permetta di ana-
lizzare queste tensioni e un altro che offra una narra-
zione alternativa per interpretare i cambiamenti che
l’openness porta al settore dell’istruzione. Il capitolo
6 ha messo in evidenza quello che per molti membri
del movimento open education è un paradosso: come
enfatizzare le possibilità e le potenzialità che l’open-
ness porta al settore dell’istruzione senza ricorrere
alle richieste di un totale rovesciamento del sistema
educativo stesso, che molti di coloro che usano l’eti-
chetta “open” invece ritengono necessario. La presa
di posizione “l’istruzione è malata” vuole che esista
un cambiamento solo a patto di fare una rivoluzione,
                 la battaglia per l’open

e forza le persone a prendere posizioni estreme, che
siano pro o contro.
  Offrendo una narrazione alternativa questo capito-
lo vuole dimostrare come l’approccio rivoluzionario
non sia l’unico modo di considerare il cambiamento
nell’istruzione superiore. Il quadro suggerito qui è
quello della resilienza, ma la sua funzione è pura-
mente illustrativa e serve a dimostrare che sono pos-
sibili narrazioni e concettualizzazioni alternative. La
resilienza offre uno strumento per considerare sia il
contesto attuale che le aree che un individuo o un’isti-
tuzione devono toccare per far fronte alla sfida della
open education. Si tratta di un adattamento della no-
zione di resilienza usata in ecologia e l’ho proposto
come possibile modello alla fine del libro The Digital
Scholar (2011). Questo capitolo estende quel lavoro,
e oltre all’approccio pratico per valutare l’impatto di
particolari strategie di open education, propone l’uso
della resilienza per una narrazione che considera i
cambiamenti dal sistema educativo nel suo insieme.


Resilienza
  Il concetto di resilienza è stato applicato a molti do-
mini, ma trova le sue radici nello studio di Holling
(1973) sulla stabilità dei sistemi ecologici. La defini-
zione usata era «una misura della persistenza dei si-
stemi e della loro capacità di assorbire cambiamento
e disturbo pur mantenendo la stessa relazione tra
popolazioni o variabili di stato». La resilienza è stata
considerata favorevolmente come un modo per esa-
minare il cambiamento climatico. Hopkins (2009)
l’ha definita come «la capacità di un sistema di assor-


                          218
              open education e resilienza

bire disturbo e riorganizzarsi in corso di cambiamen-
to in modo da mantenere essenzialmente la stessa
funzione, struttura, identità e feedback».
  Walker e al. (2004) propongono quattro forme di
resilienza, che vanno a formare la base dell’approccio
usato in questo capitolo:
1. Latitudine: il limite massimo nel quale un sistema
   può essere cambiato prima di perdere la sua capa-
   cità di recupero.
2. Resistenza: la facilità o difficoltà a cambiare un si-
   stema: quanto cioè esso è resistente all’essere mo-
   dificato.
3. Precarietà: quanto l’attuale stato del sistema è vici-
   no al limite o alla “soglia”.
4. Panarchia: le influenze di forze esterne a livelli in-
   feriori e superiori. Per esempio politiche esterne
   oppressive, invasioni, spostamenti di mercato o
   cambiamenti climatici globali possono scatenare
   sorprese locali e spostamenti di sistema.

   Utilizzando questi fattori la resilienza fornisce ot-
timi strumenti per considerare la risposta di allievi
e istituzioni al potenziale impatto della open educa-
tion. L’enfasi in questa analisi è nella salvaguardia
della funzione, non solo nella “resistenza” al cam-
biamento. Taleb (2012) ha sostenuto che la prospet-
tiva dovrebbe andare oltre la resilienza e considerare
l’anti-fragilità, dicendo che «L’antifragile va oltre il
resistente o il robusto. Il resiliente resiste agli shock
e rimane lo stesso; l’antifragile migliora sempre di
più». Questo accomuna resilienza con resistenza. Di
certo una forte resistenza non va sempre a beneficio
di un ecosistema, come osserva Holling: per esempio
alcune popolazioni di insetti fluttuano all’impazzata

                          219
                  la battaglia per l’open

a seconda dei diversi fattori ambientali, ma si dimo-
strano resilienti nel tempo. La resilienza richiede
dunque adattamento ed evoluzione a nuove condi-
zioni ambientali, ma mantiene l’identità. Negli eco-
sistemi ciò significa che la specie persiste, sebbene
si possa adattare, e in termini organizzativi significa
che rimangono le funzioni chiave anche se possono
essere realizzate in modi nuovi (e secondo il punto di
vista di Taleb, migliori).

  Sotto il profilo della pratica della open education,
la resilienza si riferisce alla capacità di utilizzare l’ap-
proccio open dove auspicabile, mantenendo però la
funzione e l’identità di fondo che le pratiche esistenti
rappresentano, se sono ancora ritenute necessarie.
Le pratiche in sé non sono centrali per il sapere: piut-
tosto esse sono i metodi attraverso i quali si realizza-
no delle funzioni chiave, e questi metodi possono e
dovrebbero cambiare. Ad esempio il processo di peer
review nella pubblicazione accademica è un modo
per garantire qualità, obiettività e affidabilità. Ma po-
trebbe non essere il solo o il migliore modo per otte-
nerle, come abbiamo visto, e la open education può
facilitare la realizzazione di altre forme. Una prospet-
tiva di resilienza cerca di garantire la protezione di
queste funzioni fondamentali e non solo di resistere
a livello di metodo.

  Anche se la resilienza può essere considerata da
un punto di vista individuale, essa vede forse la sua
migliore applicazione a livello istituzionale, che può
essere visto come un ecosistema complesso di per sé,
comprensivo di un certo numero di individui, com-



                            220
             open education e resilienza

portamenti e compiti. L’approccio resiliente sarà ora
esaminato in un caso di studio alla Open University.
  In questo approccio si prenderanno in considera-
zione i quattro aspetti di resilienza di Walker e sarà
assegnato a ciascuno di essi un punteggio, che serva
a dare una misura indicativa della resilienza com-
plessiva. A ciascun fattore si assegna un numero che
va da 1 a 10 (1=bassa resilienza, 10=alta resilienza).
Un punteggio superiore a 35 indica che probabilmen-
te non si tratta di una sfida particolarmente nuova (o
che l’istituzione si è già incredibilmente ben adatta-
ta), e un punteggio inferiore a 15 dimostra che l’isti-
tuzione è minacciata da questa sfida, alla quale non
si è adattata.


La Open University e i MOOC
  Per dimostrare l’utilità del modello di resilienza
esamineremo uno dei principali sviluppi che abbia-
mo visto nei capitoli precedenti – e cioè i MOOC. Si
considererà il loro impatto per la britannica Open
University per farne un esempio illustrativo.
  Come abbiamo visto ci sono stati un clamore e
un’aspettativa eccessivi riguardo ai MOOC, ma essi
rappresentano comunque un buon esempio per
un’analisi in termini di resilienza, per una serie di
ragioni. In primo luogo sono una pratica nuova che
potrebbe essere stata praticamente realizzata solo in
un contesto digitale, in rete e open. Come abbiamo
osservato più in dettaglio nella storia della open edu-
cation nel capitolo precedente, ci sono stati vari ten-
tativi di free e open education ma limitati da vincoli
fisici e geografici – solo in questo modo così tante


                         221
                la battaglia per l’open

persone potevano frequentare una sala conferenze,
e del resto i formati di corrispondenza mancavano
di una varietà interattiva e intermediata e di appeal.
Al contrario gli open online courses sono disponibili
per tutti con la sola connessione internet e, a parte
alcune restrizioni di server, non fa nessuna differen-
za se si iscrivono più o meno studenti. La seconda
ragione per cui rappresentano un buon caso di studio
è che costituiscono allo stesso tempo una minaccia e
un’opportunità per la pratica educativa standard, al-
meno agli occhi di molti partecipanti. Non sono dun-
que un interesse di nicchia, limitato ad una specifi-
ca disciplina, cultura o regione geografica. In terzo
luogo sono presenti in numero crescente e se alcuni
possono fare previsioni (positive o negative) sul loro
sviluppo futuro, ad oggi ci sono numeri ed interessi
sufficienti a prenderli in esame. Non sono basati su
un possibile modello di cosa può o potrebbe succe-
dere, ma su un modello funzionale di cosa sta già
succedendo. Daniel (2013) suggerisce che, anche se
abbiamo visto altre iniziative sparire, è probabile che
i MOOC resistano e che «avranno un impatto impor-
tante in due modi: nel migliorare l’insegnamento e
nell’incoraggiare le istituzioni a sviluppare missioni
diverse». Rappresentano pertanto un caso di studio
ideale per la resilienza.
  Per la Open University i MOOC rappresentano in-
sieme una sfida e un’opportunità. Come istituzione
basata puramente sull’istruzione a distanza probabil-
mente essa è più vulnerabile alla loro minaccia: se
gli studenti possono imparare gratuitamente allora
perché dovrebbero pagare per ottenere un’istruzione
campus-based?



                         222
               open education e resilienza

   Nel dicembre 2012 la OU annunciò il lancio di
FutureLearn, una società autonoma finanziata dalla
OU in consorzio con una serie di università inglesi e
nata per fornire i MOOC su una piattaforma globale.
Questo è un esempio significativo di investimento in
termini di risorse, finanze e marchio nei MOOC, che
sottolinea il loro allineamento con le funzioni centra-
li della OU.
   Prendere le quattro prospettive di resilienza offre
un mezzo e una lente sia per misurare questo rischio
che per sottolineare le potenziali linee di azione.


Libertà d’azione
  La OU sviluppò un modello di distance learning
basato principalmente su unità stampate a cui era-
no allegati supporti mediatici (programmi televisivi,
audiocassette o DVD), con l’appoggio di un tutor o di
un associate lecturer. Si tratta del modello Supported
Open Learning (SOL), che Jones e al. (2009) dicono
essere basato su tre fattori chiave:

1. Distance/Open Learning
   a. Apprendere “secondo i tuoi tempi”
   b. Leggere, intraprendere una serie di attività e compiti
      c. Possibilità ma non costrizione a lavorare con
      altri

2. Risorse
   a. Materiali stampati per il corso, libri di testo pre-
      scelti, audio e videocassette, materiali su CD/
      DVD, home experiment, siti del corso e pro-



                            223
                 la battaglia per l’open

     grammi (in precedenza trasmessi su program-
     mi TV)

3. Supporto sistematico
   a. Un tutor del corso, una rete regionale di centri,
      supporto tecnico e per studenti da parte della bi-
      blioteca centrale.
   b. Tutorial creati a livello regionale, centri di for-
      mazione e online (ad esempio scuole di lingua
      o corsi estivi).

  L’avvento dell’elearning alla fine degli anni ‘90 ha
visto un adattamento di questo modello, ma non un
cambiamento radicale. Bell e Lane (1998) descrivono
come l’implementazione di ICT nell’attuale model-
lo di distance learning possa essere visto come una
combinazione tra i punti di forza del campus tradi-
zionale e i modelli a distanza. La OU ha introdotto
gli home computer nel 1988 e implementato corsi in
elearning su larga scala nel 1999 (Weller &Robinson,
2002). Ciò dimostra che il suo modello core SOL
non era così rigido da non essere adattabile e che era
sufficientemente resistente da sopravvivere ai nuovi
esempi di implementazione. La OU quindi ha un
adeguato livello di libertà d’azione, dato che possie-
de una storia di adattamento dei suoi modelli per far
fronte a nuove tecnologie e pratiche.
  Con i MOOC il grado di libertà d’azione richiesto è
ancora incerto. Il modello MOOC attuale non è sup-
portato (o principalmente peer supported) ed è gra-
tuito per gli studenti. Ciò sottolinea un conflitto con
SOL, il modello core della OU, che prevede un sup-
porto di tutoraggio umano come elemento centrale e
che inevitabilmente comporta dei costi. Come è stato

                          224
              open education e resilienza

dimostrato nel capitolo 5, il costo di questo supporto
è l’elemento più significativo nella vita di un corso.
Kop (2011) nota che gli studenti di un MOOC:

 devono avere destrezza e competenza nell’usare stru-
 menti differenti per portare avanti interazioni efficaci.
 Ci va tempo perché le persone si sentano competenti
 e a proprio agio ad apprendere in modo autonomo, e
 anche leggere e scrivere può essere critico… che sono
 i prerequisiti per un apprendimento attivo in un am-
 biente di studio in continuo cambiamento e comples-
 so senza la presenza di una guida troppo organizzata
 da parte dei facilitatori.

  Per molti degli studenti con cui tradizionalmente
la OU interagisce lo sviluppo di queste alfabetizza-
zioni attraverso il modello supportato è una funzione
chiave del processo educativo. Per di più coloro che
sono messi alla prova sui loro progressi o sulle loro
capacità nel conseguimento di competenze possono
contare su una varietà di sostegni e servizi di sup-
porto alla OU. Con i MOOC le opzioni sono in larga
misura limitate al ritiro dal corso o alla ricerca di un
supporto da parte di colleghi.


Resistenza
   La OU è una grande istituzione, con più di 250.000
studenti e 11.000 impiegati. Come tale, le è stato ri-
chiesto di sviluppare processi ben definiti per essere
pronti ad evoluzioni in scala, per esempio nel gestire
i compiti, nell’assegnare tutor e nel supporto agli stu-
denti. Inevitabilmente, sistemi in larga scala si adat-
tano più difficilmente di quelli in piccola scala, come

                           225
                 la battaglia per l’open

le aziende grandi sono meno adattabili delle piccole,
che sono più agili. La OU ha pertanto sviluppato un
modello produttivo che inizialmente si concentrava
sui prodotti stampati ma che continua ad adeguar-
si alle diverse esigenze di costo dell’elearning (Bates
1995).
  Cambiare questi sistemi è possibile ma richiede
pianificazione strategica e leadership, e non si fa alla
svelta. Il successo dipende dal grado di adattabilità ri-
chiesto. I MOOC sembrano aver bisogno di molti dei
sistemi già esistenti: per esempio l’infrastruttura IT
per fare fronte a grandi numeri, dei contenuti elear-
ning che siano progettati per studiare in modo indi-
pendente, metodi per una valutazione informale… Il
lavoro fatto in precedenza per le OER su OpenLearn
nello specifico, e l’elearning in generale, gettano le
basi per far sì che i MOOC siano tecnicamente fattibili.
Le questioni più ampie – come garantire che gli
studenti abbiano una buona esperienza di appren-
dimento laddove non c’è un tutor presente e imple-
mentare metodi di valutazione informale (come i
badge di Mozilla) e capire come questi si possano re-
lazionare ad accreditamenti ufficiali, sollevando pro-
blemi per un’istituzione di grandi dimensioni con un
marchio globale – sono più complicate. In termini di
resistenza allora la OU è ben posizionata, perché ha
una struttura adattabile, ma è sensibile in quanto ha
probabilmente maggiori possibilità di danneggiare il
proprio marchio rispetto a un’istituzione più piccola.
  La considerazione di questo fattore rivela più
chiaramente la soluzione della OU ai MOOC in
FutureLearn. La OU ha le infrastrutture di sistema
richieste per supportare MOOC di alta qualità su lar-
ga scala, ma non l’approccio snello richiesto da ver-

                          226
              open education e resilienza

sioni più sperimentali. Una soluzione che permet-
ta di fare incontrare questi punti di forza combina
elementi che comprendono sia le competenze che le
dimensioni dell’organizzazione esistente con l’agilità
richiesta di una piccola startup. FutureLearn pertan-
to rappresenta un modello che più convenientemen-
te gioca sui punti di forza della OU e prende in poca
considerazione la resistenza.


Precarietà
  Con 246.626 studenti iscritti e 252 milioni di ster-
line di riserve finanziarie (Open University 2012) la
OU non è in una condizione immediatamente pre-
caria, anche se entrambi questi dati potrebbero esse-
re influenzati negativamente dai cambiamenti nella
struttura delle tasse studentesche, come dimostrato
di seguito. I MOOC sono arrivati in un periodo di
grande scompiglio nel sistema dell’istruzione supe-
riore del Regno Unito, con l’introduzione di tasse per
gli studenti. E di questi si parlerà più in dettaglio nel
prossimo paragrafo sul tema della panarchia, dato
che si tratta di una forza esterna.
  Si è reso necessario un cambiamento su larga scala
nel modello usato dalla OU, sia in termini di fondi
che di rilascio dei corsi. Le tasse degli studenti sono
associate al rilascio di una qualifica e non a moduli
individuali e richiedono uno spostamento nella gra-
nularità dell’operazione verso un livello superiore.
Ciò ha richiesto i cambiamenti in larga scala e siste-
mici menzionati prima, che sono certo possibili ma
che necessitano di tempo, spesso sono motivanti a
livello personale e portano un esaurimento delle ri-


                          227
                la battaglia per l’open

sorse. Probabilmente quindi questa influenza ester-
na ha forzato dei cambiamenti che hanno significato
minore attenzione e minori risorse da investire nella
sperimentazione dei MOOC di quanto era stato pos-
sibile negli anni precedenti.
  Un’improvvisa e grande defezione di studenti da-
gli studi formali ai MOOC porterebbe una situazio-
ne precaria alla OU, ma non sembra ora essere un
pericolo imminente. Oltretutto si potrebbe dire che
i MOOC e l’istruzione formale sono complementa-
ri, dato che i MOOC portano ad un coinvolgimento
a basso rischio per gli studenti, una parte del quale
è realizzato con l’istruzione formale. La OU ha por-
tato avanti una serie di studi strategici (ad esempio
Sharples e al. 2012) secondo una prospettiva didat-
tica, tecnica e commerciale, che suggeriscono che
la precarietà non è un fattore attualmente rilevante,
anche se c’è una possibilità che nel futuro i MOOC
abbiano un impatto sul core business. FutureLearn
può dunque essere visto come un chiaro tentativo di
ridurre le minacce di precarietà fornendo una solu-
zione strategica e politica ai MOOC.


Panarchia
  L’influenza di forze esterne è particolarmente im-
portante in questo periodo di crisi finanziaria globa-
le, di crisi europea e di cambiamenti nel modello di
finanziamento dell’istruzione superiore nel Regno
Unito. Tutti questi fattori possono portare ad una di-
minuzione del numero di studenti che entrano e re-
stano nei programmi di istruzione superiore, e pro-
babilmente sono anche fattori responsabili di gran


                         228
              open education e resilienza

parte dell’interesse nei MOOC, dal momento che i
corsi open sono proposti come soluzione al proble-
ma di un’istruzione superiore costosa (ad esempio
Kamenetz 2010).
  Come si è detto, i cambiamenti nella struttura dei
finanziamenti hanno richiesto mutamenti istituzio-
nali su larga scala alla OU, insieme alla necessità di
aumentare le tasse universitarie per compensare la
perdita di fondi statali. Ciò può portare ad una di-
versa demografia degli studenti (per esempio ad una
diminuzione di coloro che studiano per piacere, ma
all’aumento di studenti full time che invece vedo-
no nella OU un’opzione più abbordabile rispetto al
campus), anche se è troppo presto per valutare questi
impatti.
  I MOOC entrano perciò nel mercato in tempi di
grande incertezza, quando gli effetti della panarchia
sono importanti per la OU (e per tutte le altre uni-
versità inglesi), forse anche il motivo per cui le uni-
versità in Regno Unito hanno dato una risposta più
cauta (Fazackerley 2012) rispetto a quelle del Nord
America.
  Questa analisi può essere riassunta in un punteg-
gio soggettivo da 1 (debole resilienza) a 10 (forte ca-
pacità di recupero) per ciascun dei quattro fattori. Un
punteggio pari o inferiore a 20 indicherà una gene-
rale suscettibilità a questo particolare fattore digitale,
ma metterà anche in evidenza aree di debolezza indi-
viduale. Di seguito il punteggio relativo alla OU.
  Il punteggio di 29 indica che i MOOC rappresenta-
no una sfida per la OU, ma che sta allo stesso tempo
sviluppando pratiche resilienti.




                           229
                        la battaglia per l’open


Fattori di resilienza   Punteggio   Commenti
                                    In riferimento alla capacità e alla storia
Latitudine              8           di adattamento al cambiamento ecolo-
                                    gico
                                    Grandi istituzioni e sistemi stabili e
Resistenza              8           alta soglia del rischio, soluzioni rivolte
                                    alle forze
                                    Non immediata, ma sopraggiunge
                                    nei periodi di cambiamento e ha una
Precarietà              7
                                    rilevanza diretta sul modello di Open
                                    University
                                    Le materie da considerare come desta-
Panarchia               6           bilizzanti nei settori ad elevata educa-
                                    zione nel Regno unito
                                    Un’area di preoccupazione, ma le risor-
                                    se e la pratica consentono di adattarsi.
                                    La sfida con un sistema a larga scala e
Totale                  29
                                    l’impatto con i cambiamenti in settori
                                    del Regno unito sono priorità per rin-
                                    forzare la resilienza
Tabella 1. fattori di resilienza per i MOOC secondo la UK Open University




Cicli di adattamento
  Walker e Salt (2006) applicano la filosofia della resi-
lienza a scenari economici oltre che a quelli ecologici,
ad esempio per valutare le mutevoli fortune di un’im-
presa edile o la natura di una città nel tempo. Nel
loro modello è cruciale il “ciclo di adattamento”, che
Gunderson e Holling (2002) hanno osservato anche
rispetto ai cicli ecologici. L’adaptive cycle ha quattro
fasi principali: rapida crescita, conservazione, rilascio
e riorganizzazione, come illustrato nella Figura 10.
La crescita rapida si riferisce all’iniziale espansione
(di un business o di una popolazione), la conserva-

                                    230
               open education e resilienza

zione è il mantenimento di una condizione stabi-
le, il rilascio è un periodo di “distruzione creativa”,
quando si entra in una nuova fase, e la riorganizza-
zione è quando si ristabilisce una nuova condizione.




L’adaptive cycle [ripreso e rimaneggiato da Walker & Salt 2006]

   Per Walker e Salt, un sistema può avere diversi sta-
ti di stabilità, separati da soglie. Quando un sistema
supera una certa soglia, allora entra in uno stato dif-
ferente. La resilienza dunque può essere vista come
la distanza tra due soglie. Prendendo il nostro esem-
pio di prima, un modo per interpretare l’ansietà e il
clamore relativo ai MOOC è che essi sono presentati
come il fattore che può spingere le università verso
un nuovo stato (uno quando cessano di esistere in
alcuni scenari, o quando alterano radicalmente il loro
modello di business). In questa interpretazione si po-
trebbe osservare che le università hanno mantenuto
con successo la loro fase di conservazione nel corso
degli ultimi 200 anni. Walker e Salt sostengono che
la fine di questa fase di conservazione sia inevitabile
e che «più a lungo durerà la fase di conservazione
minore sarà lo shock necessario per terminarla».

                             231
                 la battaglia per l’open

  La rapida crescita e la conservazione rappresenta-
no il “fore loop” nel ciclo di adattamento, quando un
sistema sta maturando ma è inevitabilmente seguito
da una fase di rilascio e riorganizzazione. Potrebbe
dunque essere la open education il “piccolo shock”
richiesto per fare in modo che le università passino
alla fase di rilascio?
  Come suggeriscono, è importante guardare oltre le
dimensioni e non ad un livello di granularità, quin-
di forse l’università o l’istruzione non sono il livel-
lo giusto su cui focalizzarsi. L’istruzione superiore
è un’offerta complessa e sfaccettata, che comprende
insegnamento, ricerca e funzione sociale: piuttosto
che interpretarla come un sistema unico sarebbe in-
vece meglio vederla come una combinazione di si-
stemi più piccoli e interconnessi. Da questo punto
di vista l’openness potrebbe certo giocare il ruolo di
rilascio e riorganizzazione di un particolare elemento
all’interno dell’università o del sistema nel suo com-
plesso. Ad esempio, la pubblicazione è un elemen-
to che riguarda l’intero sistema accademico, e qui si
può vedere come l’Open Access spinga la struttura
esistente verso una modalità di rilascio. Si tratta di un
periodo in cui si sviluppano nuovi modelli, le aziende
esistenti e i ruoli sono modificati, e si entra in una
fase di riorganizzazione. Ne emerge un meccanismo
di pubblicazione accademica molto diverso.
  La battaglia per l’open può essere dunque vista
come il cambiamento necessario che avviene duran-
te il “back loop”. Nel capitolo 2 si diceva che è una
questione di quale tipo di openness si voleva, piut-
tosto che semplicemente parlare di open vs closed.
Un’opzione è vederla come una serie di più piccole
transizioni di resilienza, dove il tema comune è un

                          232
              open education e resilienza

approccio open che provoca il cambiamento. Ma il
sistema nel suo insieme (quello dell’istruzione) po-
trebbe essere ancora resiliente, nello stesso modo
in cui possono verificarsi alcuni piccoli incendi bo-
schivi, ma a livello nazionale il sistema delle foreste
conserva la sua resilienza. Questo cambiamento di
granularità ci consente di osservare i cambiamenti
significativi che la open education crea senza ricorre-
re alla “rivoluzione” o alla “disruption” richieste dalla
mentalità vista nel capitolo 7.


Livelli di coinvolgimento delle OER
  Per mostrare come questo approccio offra una nar-
razione alternativa sulla open education, proviamo
a considerare le OER e i diversi livelli di coinvolgi-
mento che la gente ha con essi. La open education in
generale, e le OER in particolare, formano una base
dalla quale traggono beneficio molte altre pratiche,
tuttavia spesso coloro che si muovono all’interno di
quelle aree non conoscono in modo chiaro le OER. È
probabile che questi secondi e terzi livelli di consa-
pevolezza rappresentino un’audience di gran lunga
più grande che il primo livello, quello degli OER-
consapevoli. Possiamo dunque paragonare le dimen-
sioni di queste audiences a un metaforico iceberg,
che cresce in dimensioni man mano che procediamo
in zone meno visibili. Ci sono dunque tre possibili
aree di utilizzo delle OER:
• Uso primario delle OER – Questo gruppo è quello
  definito “OER-consapevole”, cioè in generale hanno
  idea di cosa significhi il termine: sono coinvolti in
  problemi legati alla open education, sono consape-

                          233
                la battaglia per l’open

  voli della licenze open e spesso sono promotori del-
  le OER. Questo gruppo è stato spesso destinatario
  di finanziamenti, conferenze e ricerche relative alle
  OER, con l’obiettivo di farle crescere. Un esempio
  potrebbe essere quello di un insegnante di college
  che adotta e contribuisce a libri di testo open.
• Uso secondario delle OER – Questo gruppo può
  avere una conoscenza minima delle OER o delle li-
  cenze open, ma ha un approccio più pragmatico ad
  esse. Le OER sono di interesse secondario rispetto
  ai loro impegni principali, come ad esempio inse-
  gnare. Le OER (e l’openness in generale) possono
  essere visti come il substrato che permette ad alcu-
  ne delle loro pratiche di svilupparsi, ma loro non
  sono interessati o consapevoli della open education
  come tema a sé, piuttosto danno priorità alla loro
  area di pertinenza; e le OER sono interessanti nella
  misura in cui facilitano l’innovazione o l’efficien-
  za di essa. Un esempio di questo gruppo può es-
  sere un insegnante di “flipped learning” che usa la
  Khan academy, i TED talks e alcune OER nelle sue
  lezioni.
• Uso terziario delle OER – Questo gruppo userà le
  OER all’interno di un mix di altri media, spesso
  non differenziandoli. La conoscenza delle licen-
  ze open è minima e non prioritaria. Le OER sono
  un’opzione “nice to have” ma non fondamentale,
  e gli utenti spesso sono consumatori piuttosti che
  creatori. Un esempio potrebbe essere quello di uno
  studente iscritto ad una università che usa i mate-
  riali di iTunes U come supplementari al materiale
  condiviso a lezione.




                         234
              open education e resilienza

  David Wiley (2009) ha parlato di Dark Reuse –
quando il riutilizzo avviene in luoghi che non possia-
mo osservare (come avviene per la materia oscura), o
semplicemente non sta accadendo molto. Egli pone
la questione della sfida delle OER in questi termini:

 Se il nostro obiettivo è quello di catalizzare e facilitare
 una quantità significativa di riutilizzo e adattamento
 di materiali sembra che in questo stiamo fallendo. [...]
 Se il nostro scopo è quello di creare siti web incredibil-
 mente popolari caricati di contenuti gratuiti e visitati
 da milioni di persone ogni mese che riconoscono il
 valore del contenuto ma non lo adattano mai né lo re-
 mixano, allora ce la stiamo cavando abbastanza bene.

  Considerando questi tre livelli di coinvolgimento è
possibile vedere come entrambi gli obiettivi di Wiley
siano realizzabili. L’obiettivo principale delle iniziati-
ve OER è stato spesso l’utilizzo da parte del gruppo
primario. Qui le OER sono create e si fa in modo di
promuoverle. Per esempio Wild (2012) suggerisce tre
livelli di coinvolgimento per lo staff di HE, che passa
da un utilizzo delle OER sporadico a uno strategico
e a uno integrato. L’assunzione implicita è che si do-
vrebbe incoraggiare la progressione lungo questi tre
livelli, cioè che la strada per il successo delle OER è
incrementare la popolazione del gruppo primario.
  E se questa è sicuramente una buona pratica (assu-
mendo che si creda nei benefici delle OER), può non
essere il solo approccio possibile. Un altro modo può
essere quello di aumentare la penetrazione delle OER
nei livelli secondario e terziario. In questi gruppi la co-
noscenza dei repository disponibili è molto bassa se
paragonata a risorse come la Khan Academy o TED.
Il modo per aumentarne la diffusione consiste dun-

                            235
                 la battaglia per l’open

que nell’incrementare la visibilità, l’ottimizzazione del
motore di ricerca e la convenienza delle risorse in sé,
senza per forza avere una conoscenza della open edu-
cation. Questo si può fare creando un brand affidabile
che faccia concorrenza a risorse come TED.
  Applicando il modello di resilienza a questo mo-
dello di utilizzo delle OER si può ipotizzare di esse-
re passati attraverso una fase di rapido sviluppo per
quanto riguarda l’uso primario di OER, e che ora si
è entrati nello stato conservativo. Ci sono infatti una
comunità e un approccio stabili. Per fare in modo
però che le OER raggiungano gli utilizzatori seconda-
ri, c’è bisogno di entrare in una nuova fase di rilascio,
e questo di solito si ottiene attraverso un periodo di
distruzione creativa. Si potrebbe sostenere che l’im-
patto dei MOOC sulla comunità delle OER sia questa
forza necessaria che li spinga verso un nuovo stato,
e che un cambiamento nei finanziamenti e nella di-
rezione sia utile a creare un passaggio di questo tipo.
  La prospettiva utile che ciò offre è che non si trat-
ta di un ribaltamento del precedente approccio e di
un cambiamento radicale, ma piuttosto di passare
da uno stato a un altro. Questa visione permette una
maggiore continuità tra gli sviluppi nel settore dell’i-
struzione rispetto a quanto permetta la narrazione
della Silicon Valley.


Conclusioni
  Il modello di resilienza in ecologia offre uno sche-
ma per osservare quanto un sistema sia capace di
assorbire i cambiamenti. Pertanto fornisce uno stru-
mento utile anche per analizzare l’abilità di un’istitu-


                          236
              open education e resilienza

zione ad adattarsi all’interno di un ambiente alterato,
pur mantenendo la sua funzionalità di base. Tuttavia
non è esente da critiche o privo di difficoltà. Si do-
vrebbe sempre essere cauti quando un’analogia con
il mondo naturale si può applicare a costrutti socio-
logici come l’istruzione. Come la disruption, potreb-
be infatti essere inteso anche come avanzamento di
un’agenda neoliberale, e si potrebbe certo contestare
la conclusione di Walker e Salt che la fine dello stato
conservativo è sempre inevitabile. Però serve per tre
ragioni nel contesto della battaglia per l’open. In pri-
mo luogo fornisce uno schema per analizzare qualsi-
asi impatto, come per l’esempio quello dei MOOC vi-
sto prima; in secondo luogo offre un mezzo per con-
siderare aree di impatto individuale all’interno di un
sistema più ampio; e da ultimo suggerisce che sono
possibili altre narrazioni oltre a quella dominante
della Silicon Valley.
   Riguardo alla prima di queste funzioni, il modello
si può usare come strumento di analisi qualitativa per
evidenziare motivi di preoccupazione e per aiutare a
stilare le priorità. Il metodo di assegnazione di un pun-
teggio spiegato in questo capitolo è un modo per ot-
tenerlo, ma senza immaginare punteggi corretti, solo
soggettivi. La metodologia è stata portata avanti con
un gruppo più ampio di otto partecipanti alla OU. I
punteggi sono stati da 23 a 32, ma c’è stato un consen-
so generale sui problemi più rilevanti e sulle risposte.
Applicando il metodo alla stessa sfida formativa (i
MOOC) in una università diversa questo probabil-
mente rivelerà differenze in aspetti come la prepa-
razione, i contesti nazionali, le demografiche degli
studenti etc. Analisi di una diversa sfida della open
education, come la pubblicazione in Open Access,

                          237
                 la battaglia per l’open

nella stessa università metterebbe in evidenza fattori
come il grado di impatto, la maturità del cambiamen-
to, l’area di impatto etc.
   Come schema per analizzare l’impatto di un parti-
colare cambiamento provocato da una nuova tecnolo-
gia, tuttavia, la metafora fornisce un mezzo per iden-
tificare i punti di forza e di debolezza e per articolare
risposte. Fornisce anche un quadro per analizzare
come i diversi aspetti dell’openness siano connessi
in una parte di un intero più grande pur mantenen-
do l’integrità dello stesso. Come sostengono Walker
e Salt «Ci sono molte più probabilità di passare la
soglia di un nuovo sistema se non si sa della sua esi-
stenza». Quindi valutare l’impatto della open educa-
tion può essere il modo migliore per mantenere la
resilienza.




                          238
 CAPITOLO 10

Il futuro dell’Open

                     Nella batteria di Keith Moon non c’è
                     un time-out perché non c’è un time-in.
                     È tutto roba divertente.
                                              James Wood


Introduzione
  In questo capitolo conclusivo rivedrò alcuni dei
temi del libro e proverò a spiegare perché l’open-
ness conta davvero per il futuro dell’istruzione.
Darò anche qualche suggerimento per esamina-
re la open education nel breve e medio periodo.
Nel capitolo 1 ho affermato che l’openness ha vinto
sotto molti punti di vista, tesi che è stata rinforzata
considerando il successo delle pubblicazioni in Open
Access, delle OER, dei MOOC e della open scholar-
ship. Tuttavia, a molti che lavorano nell’ambito dell’i-
struzione superiore questa sembra un’affermazione
piuttosto esagerata. Alcuni di essi infatti lavorano in
contesti nei quali la open scholarship non solo non
è riconosciuta ma è anche attivamente scoraggiata,
dove il solo menzionare le OER incontra sguardi va-
cui e dove ogni cambiamento proposto per sfruttare
le opportunità offerte dalla open education è osteg-
giato. Ogni riferimento alla vittoria dell’openness
sembra dunque un vagheggiamento di pochi privi-
                la battaglia per l’open

legiati che operano all’interno della bolla della open
education.
  Concordo con questa opinione, e prima di proce-
dere vale la pena di rivisitare le mie affermazioni e
in qualche modo di chiarirle. Nel corso di questo li-
bro ho portato molti esempi che credo dimostrino il
successo dell’approccio open: gli obblighi sull’Open
Access; il numero di studenti e di media interessa-
ti ai MOOC; l’impatto e la sostenibilità dei libri di
testo open e la natura mutevole di fondamentali
pratiche scolastiche come risultato dell’approccio
open. Suggerire che l’openness ha avuto successo
non significa affermare che ha raggiunto la satura-
zione o il 100% di adozione. Piuttosto, tutti questi
successi separati indicano un fenomeno più ampio
– il momento in cui l’openness è passata dall’essere
di interesse periferico e specialistico a conquistare un
approccio mainstream. Per usare un termine spesso
usato (e forse privo di significato) è ad un “punto di
svolta”. Da questo momento l’applicazione dell’ap-
proccio open a tutti gli aspetti della pratica dell’i-
struzione superiore è al tempo stesso legittima e in
qualche modo inevitabile. Ciò non vuol dire che sarà
sempre adottata, allo stesso modo in cui l’approc-
cio open source al software non è sempre seguito,
ma significa che è un metodo sempre più pervasi-
vo. La velocità di assorbimento sarà influenzata da
una serie di fattori, come le culture disciplinari, i
programmi nazionali, le politiche, i finanziamenti,
la presenza di sostenitori e gli immediati benefici.
La vittoria della open education, quindi, consiste nel
fatto che ora è un serio contendente, proposto non
solo dai suoi devoti accoliti ma anche da altri come
metodo per qualsiasi iniziativa di istruzione supe-

                          240
                   il futuro dell’open

riore, che sia ricerca, insegnamento o public engage-
ment. È proprio questa transizione ad essere oggetto
del libro, poiché legate ad essa ci sono opportunità
e sfide, proprio come una piccola startup deve af-
frontare tutta una serie di problemi nel momento in
cui cresce e diventa una grande multinazionale. In
questa transizione ci sono parecchie insidie – l’intera
impresa può fallire, può essere conquistata da altri
o possono andare perduti i valori e l’identità che ne
hanno caratterizzato lo stato embrionale.


Open Policy
  Un aspetto di questa transizione è il passaggio dalla
pratica informale a quella formale, e una conseguen-
za di questo è l’aumento di regole relative alla pra-
tica di open education. Possono essere a livello na-
zionale, regionale, di finanziamento, istituzionale o
di dipartimento e possono riguardare diversi aspetti
della pratica, come la pubblicazione in Open Access,
il rilascio di open data, i profili accademici online,
il rilascio di materiali di open education e così via.
Data quest’ampia varietà di cosa costituisca una po-
licy di open education, è difficile mappare la loro
diffusione. Il progetto ROARMAP alla Southampton
University traccia le politiche di Open Access a livello di
finanziamenti, istituzionale e sub-istituzionale, men-
tre Creative Commons ospita un archivio di politiche
relative alle OER (Creative Commons 2013b) e l’OER
Research Hub (2014) mappa tutte queste policies.
Il progetto POERUP ha analizzato in modo appro-
fondito le politiche relative alle OER e messo in evi-
denza la natura complessa di questo settore (Bacsich


                           241
                 la battaglia per l’open

2013). Negli USA ci sono un numero crescente di
politiche statali o scolastiche, ma sono spesso rivol-
te solamente alla fornitura di libri di testo open e
hanno per la maggior parte il risparmio come fatto-
re trainante. Questa forma di OER è meno frequen-
te in Europa. Inoltre ci sono politiche che possono
avere una forte influenza sulla open education ma
che non sono strettamente open education policies.
Ad esempio, sistemi concordati di valutazione della
formazione pregressa e un riconoscimento dell’i-
struzione informale aiuterebbero l’adozione di OER
e MOOC senza esplicitamente essere politiche OER.
Ci sono due messaggi piuttosto contrastanti che ven-
gono da questo lavoro, che possono essere considera-
ti rappresentativi del più ampio stato in cui si trova la
open education. Quello positivo è che c’è un’evidente
crescita di politiche direttamente o indirettamente le-
gate alla open education. Le politiche di Open Access
sono forse le più ovvie, ma sono seguite da politiche
sugli open data (cioè non solo che pubblicazioni fi-
nanziate con soldi pubblici devono essere messe a
disposizione in modalità open, ma che anche i dati
sperimentali dovrebbero esserlo) e sui libri di testo
open. Questo indica anche che esiste un modello di
concatenazione per cui, una volta che un elemento è
open, allora anche gli altri lo devono essere (lo vedre-
mo meglio in seguito). Da questa prospettiva sem-
bra che le politiche open possano essere la prossima
importante svolta per il movimento della open edu-
cation, e come tale marcheranno un punto impor-
tante nel suo passaggio per diventare mainstream.
Tuttavia come suggeriscono Bacsich, Farrow and
Frank-Bristow (2014) è un’area ad oggi molto ete-
rogenea, con diversi tipi di politiche che a livello di

                          242
                  il futuro dell’open

OER mancano di una strategia forte. Spesso i proget-
ti OER sono portati avanti all’interno di uno specifico
lavoro universitario, e una volta che i fondi finiscono
il progetto si arresta. Farrow e Frank-Bristow affer-
mano che le politiche fanno parte di una formula che
si trova spesso in OER di successo, e che richiede un
progetto pilota, finanziamenti, un promotore e una
strategia mirata alla sostenibilità e a portare un im-
patto rilevante. A meno che questo modello sosteni-
bile sia supportato dall’impegno diretto dell’alta diri-
genza, molti progetti non portano all’adozione di una
politica OER da parte dell’istituzione. Lo sviluppo di
una strategia che riguarda le OER è dunque crucia-
le per la durata di queste policies, ma troppo spesso
non viene vista come un obiettivo specifico, perciò il
progetto si esaurisce per mancanza di una direzio-
ne strategica. Mentre la open education progredisce
verso la fase successiva, le politiche non dovrebbero
solo essere viste come il motore di questo processo,
ma come l’obiettivo: l’esplicita volontà di definire una
politica dovrebbe fare parte di ogni progetto di open
education.


La lezione del Learning Management System
  L’esempio della open policy fornisce un’indicazione
più ampia sulla risposta che gli insegnanti devono
dare all’openness se vogliono continuare ad avere
successo e a soddisfare le loro necessità. Possiamo
portare un esempio recente, che fa da monito per aiu-
tare a capire questa direzione. Si tratta del Learning
Management System (LMS), o del Virtual Learning
Environment (VLE).


                          243
                 la battaglia per l’open

  Alla fine degli anni ’90 l’elearning era visto come
un approccio originale all’istruzione. Era soggetto
agli stessi entusiasmi e ansie che abbiamo visto per
i MOOC. Poteva variabilmente offrire un modo eco-
nomico di garantire l’accesso all’istruzione (Noam
1995), rendere superflui i docenti (Noble 1998),
aprire la strada a forme innovative di insegnamen-
to (Weller 2002) oppure rimuovere le barriere lega-
te alla distanza (Mason 2000). Se molti nell’ambito
dell’istruzione accolsero le possibilità dell’elearning,
adottando metodologie didattiche innovative e usan-
do una serie di media e strumenti diversi, molti altri
si dimostrarono invece riluttanti. Una combinazione
dei vantaggi percepiti in termini di efficienza, di fles-
sibilità per gli studenti e di capacità di raggiungere
nuove audiences significò per l’elearning un posto
nell’agenda dei principali dirigenti delle università.
I primi passi nell’adozione dell’elearning furono spes-
so caratterizzati da un’economia mista di tecnologie,
con dipartimenti diversi che adottavano diversi siste-
mi, di solito guidati da sostenitori o da early adopter.
Furono i primi anni 2000 a vedere una fase di inevi-
tabile consolidamento: il mantenimento di così tanti
sistemi differenti divenne problematico e per ottene-
re i benefici che l’elearning prometteva si richiese un
approccio univoco. Ed è allora che l’LMS divenne una
soluzione diffusa, per esempio, nel Regno Unito che
nel 2003 vide l’86% di enti di istruzione superiore
che ne possedevano uno (Brown and Jenkins 2003).
Il Learning Management System forniva una gamma
di strumenti che con un sistema standardizzato per-
metteva alle università di portare avanti programmi
di sviluppo del personale e allo stesso tempo facili-
tava l’accesso degli studenti ad una tecnologia con-

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                  il futuro dell’open

forme. Tutto ciò facilitò l’adozione dell’elearning e se
qualcuno se ne faceva sostenitore, era visto come un
avanzamento positivo. Il LMS fu la chiave per fare
dell’elearning un approccio mainstream.
  Tuttavia ci furono un paio di sfortunati effetti col-
laterali legati all’adozione su vasta scala del LMS. Il
primo era che spesso le università davano in gestione
a terzi la tecnologia e anche l’approccio all’elearning.
Adottando sistemi commerciali come Blackboard,
si potevano avere soluzioni immediate e veloci ma
si perdevano competenza e controllo richiesti per
innovare quest’area. Oltretutto relazioni di questo
tipo non andavano sempre a beneficio di entrambi
i partner, come quando Blackboard tentò di impor-
re brevetti a generici requisiti di elearning come la
formazione di gruppi di tutoraggio (Geist 2006).
Il secondo problema era in gran parte in funzione del
primo: piuttosto che essere un trampolino di lancio
per la sperimentazione dell’elearning, il LMS diven-
ne un punto d’arrivo. Appena i processi istituzionali
entrarono in vigore crearono un sedimento sul siste-
ma per cui la domanda non era più “cosa possiamo
fare per l’elearning?” ma piuttosto “cosa posso fare
con il LMS per soddisfare i requisiti dell’università?”.
Il modello di classe online, o l’utilizzo del LMS come
archivio di appunti delle lezioni, venne visto come un
elearning esso stesso, e vennero interrotti altri tipi
di sperimentazione. Ciò dimostra l’importanza della
strategia nella realizzazione, ma anche mette in evi-
denza la necessità di consentire un margine tale da
permettere l’innovazione.
  Groom e Lamb (2014) ritengono che l’LMS sia il pri-
mo responsabile della minore innovazione dell’elear-



                          245
                 la battaglia per l’open

ning in università. Le loro motivazioni contro il LMS
si possono riassumere in cinque punti principali:
• Sistemi - Il LMS predilige una mentalità di gestione
  tecnologica.
• Effetto Silos – L’ambiente artificialmente chiu-
  so e protetto del LMS non consente i benefici
  dell’openness.
• Mancate opportunità – Gli studenti usano un siste-
  ma che è diverso da qualsiasi altro al di fuori dell’i-
  struzione e sprecano il loro tempo ad imparare ad
  usare il LMS.
• Costi – Il LMS consuma risorse umane e finan-
  ziarie, per cui c’è scarsa capacità di sostenere di-
  versi tipi di innovazione al di fuori del sistema.
  Sostanzialmente il LMS diventa la risposta a tutti i
  problemi di elearning
• Fiducia – C’è una mancanza di entusiasmo nei
  confronti del LMS, e per gestire il sistema sono ne-
  cessari tecnici dell’istruzione che potrebbero occu-
  parsi invece di lavori più innovativi, e questo porta
  ad una perdita in fiducia nella sperimentazione.

   Parlando del modo in cui le università spesso si ri-
fiutano di fare un uso innovativo di internet nell’am-
bito dell’insegnamento, Groom (2014) lo riassume
dichiarando: «Per un crudele scherzo del destino
l’istruzione superiore ha dato in outsourcing la più
sorprendente innovazione della storia della comuni-
cazione che sia nata all’interno dei suoi campus». La
risonanza con la open education è molto forte: si po-
trebbe sostituire MOOC commerciali con LMS nella
frase precedente e resterebbe comunque vera. La sto-
ria recente dimostra il potenziale pericolo che si cor-
re nel permettere a terzi di determinare le modalità

                          246
                  il futuro dell’open

di controllo e la direzione dell’istruzione. Le univer-
sità diventano troppo velocemente i fruitori di questa
soluzione invece che la forza motrice.


Le sfide dell’istruzione
   Dopo aver analizzato le regolamentazioni come
una possibile area di crescita della open education,
e dopo aver parlato dell’importanza del coinvolgi-
mento e del controllo sulla sua futura direzione,
rivedremo ora il valore dell’approccio open per rin-
forzare il concetto della sua importanza. Nel ca-
pitolo 2 ho elencato alcune delle possibili ragioni
per adottare un approccio open a livello individua-
le. In questo paragrafo sottolineerò invece i possi-
bili benefici dell’openness come soluzione ai più
grandi problemi che deve affrontare l’istruzione.
Un problema per le università è quello di giustificare
la loro rilevanza sociale. In un’epoca digitale qual è
il loro ruolo? Nel mondo di Wikipedia e di Google,
perché si dovrebbe andare all’università per tre anni
o più? Si possono trovare queste domande nei com-
menti a qualsiasi articolo di giornale riguardo al tema.
Le università sono spesso viste come torri d’avorio,
indietro con i tempi e fuori dal mondo. Naturalmente
questi argomenti si possono facilmente controbattere
sottolineando la qualità e la profondità dell’istruzione
universitaria, la capacità critiche che si sviluppano,
così come la loro funzione sociale. Il problema non
è che si possono confutare le affermazioni sull’irri-
levanza dell’università, piuttosto il fatto che sono di-
ventate opinioni comunemente accettate, a prescin-
dere dalle prove. Come abbiamo visto nel capitolo


                           247
                 la battaglia per l’open

sulla narrazione della Silicon Valley, una volta che i
miti diventano pervasivi sono difficili da contrastare.
La soluzione che qui offre la open education è quella
di dimostrare in modo semplice tutti gli aspetti posi-
tivi dell’istruzione superiore. Se si tratta della qualità
delle risorse, allora le OER possono mostrare perché
c’è una profondità dietro l’articolo di Wikipedia. Se si
tratta della ricerca, allora gli articoli in Open Access
danno prova del valore di uno studio approfondito che
non sia finanziato da enti commerciali e dunque di
parte. La open scholarship sottolinea che i professori
non operano come singoli ma sono coinvolti in una
comunità più ampia, e in tutto ciò che essa compor-
ta. Un esempio pratico è quello della biblioteca della
Oregon State University. Proprio come per la rilevan-
za delle università, così anche il ruolo delle bibliote-
che nell’era digitale è sotto esame. La biblioteca OSU,
in collaborazione con la loro stampa universitaria,
lavora insieme ai professori per creare libri di testo
open (OSU 2014). L’obiettivo è principalmente quello
di rispondere al problema del costo per gli studenti,
ma anche di migliorare la reputazione delle universi-
tà, dato che questi libri sono aperti a tutti e aumen-
tano la soddisfazione degli studenti fornendo mate-
riale adattabile alle varie esigenze del curriculum. Le
biblioteche universitarie sono dunque perfette per
adempiere a questa funzione, con i requisiti e le capa-
cità necessarie, e offrono probabilmente un migliore
ritorno di investimenti rispetto all’accesso a riviste
che sono lette solo da piccoli gruppi di ricercatori.
Tutte queste forme di openness sono relativamente
facili da realizzare e mirano semplicemente ad espor-
re la buona pratica all’interno delle università. In
un’epoca digitale e interconnessa è controproducen-

                           248
                  il futuro dell’open

te alzare barriere su una istituzione, semplicemente
perché la si isola.
   Un tema correlato è quello dell’utilità di questa
esperienza di apprendimento nel mondo che lo stu-
dente incontra dopo la laurea. Ci si lamenta spesso
del fatto che i laureati non hanno competenze neces-
sarie per lavorare (Levy 2013). È possibile che questa
affermazione sia infondata e che invece siano i datori
di lavoro a non essere pronti a riconoscere la gamma
di moderne competenze che i laureati possiedono.
Tuttavia, se questa affermazione è valida, la pratica
open fornisce di nuovo una parziale soluzione. Per
riprendere una delle affermazioni di Groom e Lamb,
il LMS, e quindi l’ambiente fisico delle università, è
per lo più diverso da qualsiasi altro e troppo spesso le
valutazioni e il programma di studi si concentrano su
obiettivi artificiali o esempi innaturali. Pratica l’open
consente invece agli studenti di misurarsi con il tipo
di compiti e di sviluppare il tipo di competenze di
cui possono avere bisogno in qualsiasi tipo di lavoro,
senza ridurre l’istruzione universitaria ad un mero
esercizio di formazione professionale. Per esempio
aprire un’identità online o bloggare con un’ audience
aperta richiede lo sviluppo di capacità comunicative
che vanno al di là di un focus ristretto. La modifi-
ca di articoli di Wikipedia richiede l’impegno in un
processo di raccolta fonti e collaborazione. La crea-
zione di video su Youtube esige creatività e capaci-
tà di acquisire autonomamente competenze, e così
via. Questo non è per suggerire che tutta l’istruzione
universitaria debba essere portata avanti in modalità
open: ci sono ancora valide ragioni dietro all’esigenza
di nutrire fiducia in un ambiente più chiuso. Tuttavia
tendo a credere che lo sviluppo delle competenze

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                la battaglia per l’open

necessarie ad operare su internet più facilmente for-
nisca a chi entra nel mondo del lavoro competenze
utili, rispetto ad un modello “chiuso” di istruzione.
Alla base di queste due preoccupazioni è spesso il co-
sto. Visto il prezzo elevato delle lauree (indipenden-
temente dal fatto che siano esse finanziate dallo stato
o dal singolo studente), ci sono alternative più econo-
miche? Il modello universitario rappresenta ancora
il miglior rapporto qualità/prezzo? Questa promessa
di un’istruzione meno costosa è stato uno dei fattori
alla base dell’elearning e dei MOOC. Raramente vie-
ne però confermato: il costo della produzione di corsi
in elearning non è stato così basso come si pensava e,
come abbiamo visto nel capitolo 5, il modello finan-
ziario dei MOOC non è così stabile. Le affermazio-
ni che riguardano la riduzione dei costi dovrebbero
quindi essere trattate con un certo scetticismo. Ciò
che la open education può fare in modo efficace è
piuttosto influenzare i fattori correlati. Per esempio
creare un corso che utilizza un’ampia varietà di OER
di buona qualità riduce la quantità di materiali che
devono essere creati ad hoc. E questo a sua volta ri-
duce il tempo richiesto per creare il corso o i costi
per crearne uno di qualità superiore. Come abbiamo
visto nella discussione sulle OER, esse sono spesso
usate dagli studenti prima di entrare in un corso di
studi o mentre stanno già seguendo un corso forma-
le; e questo può ridurre il numero di studenti che
scelgono un tema che poi scoprono di non amare,
oppure può aiutare a mantenere iscritti quelli che già
lo sono. Più precisamente, i libri di testo open sono
una risorsa gratuita, che permette a studenti o a scuo-
le di risparmiare. I MOOC e le OER offrono a coloro
che studiano per diletto l’opportunità di soddisfare

                         250
                  il futuro dell’open

un loro desiderio di apprendimento a costo zero,
anche se poi decidono di andare oltre con gli studi.
Le tre aree del rilievo sociale, dell’idoneità universi-
taria e dei costi sono tutte questioni ricorrenti per le
università. L’openness non è la sola soluzione, ma
è comunque una soluzione relativamente facile da
adottare senza ricorrere all’approccio rivoluzionario
che è spesso richiesto.


Il prezzo dell’openness
   Nel capitolo 1 abbiamo fatto il paragone con il gre-
enwashing, dimostrando come nell’openwashing l’e-
tichetta “open” abbia acquisito un certo valore com-
merciale e sia per questo promossa. Anche se non
sono d’accordo con un approccio dogmatico all’uso
del termine, è vero però che una risposta all’uso indi-
scriminato dell’openness è quella di non permetter-
ne un uso superficiale. Se “openness” ha un valore
di mercato allora dovremmo chiedere a coloro che la
usano a loro vantaggio di aderire ai principi genera-
li – per esempio fare in modo che il loro contenuto
sia coperto da licenze open. Un caso che si incontra
spesso è quello di articoli di ricerca che parlano di
open education e poi non sono pubblicati sotto licen-
za open. È quantomeno singolare imbattersi in un
articolo che parla dei vantaggi delle OER e poi dover
pagare 40 dollari per poterlo leggere.
   Come abbiamo visto nel capitolo 3, c’è già un pro-
gressivo cambiamento che va in direzione di un ri-
lascio di articoli in Open Access, ma almeno per le
ricerche che riguardano la open education (MOOC,
OA, OER, open data etc) è ragionevole aspettarsi che


                          251
                 la battaglia per l’open

le relative pubblicazioni lo siano. Non appena un ri-
cercatore inizia ad occuparsi di quest’area infatti, si
dovrebbe sentire moralmente obbligato a pubblica-
re i suoi risultati in modalità open, che sia essa una
Green o una Gold road. La sua ricerca infatti è stata
possibile solo perché altri hanno scelto di rendere
aperti i dati (anche se sono critici), quindi il ricercato-
re è obbligato a fare lo stesso. L’openness è la strada
che facilita questa ricerca e ha valore nel momento
in cui la gente vorrà leggere l’articolo proprio perché
parla di openness. Sia i ricercatori che gli editori ne
traggono beneficio e non dovrebbero poter ottene-
re questi benefici gratuitamente: l’Open Access è il
prezzo di ammissione.
  Esempi simili si possono trovare per i MOOC o per
altre piattaforme tecnologiche. Se si usa l’appellativo
“open” , allora quantomeno si affronta una sfida che
riguarda la misura di questa openness.


Il virus open
   Un modo di vedere l’approccio open è quello di
considerarlo come un virus: una volta preso tende
a diffondersi sotto molte altre forme. Per esempio,
nella pratica personale una volta che un accademi-
co pubblica un saggio in licenza Open Access viene
incentivato ad usare varie forme di social media per
promuoverlo, che come abbiamo visto nel capitolo 7
possono influenzare visualizzazioni e citazioni. Allo
stesso modo, sebbene la gratuità è un iniziale fattore
trainante per l’adozione di libri di testo open, una vol-
ta che diventa la pratica, allora la capacità di adattare
il materiale alle proprie esigenze si trasforma in un


                           252
                   il futuro dell’open

fattore importante per gli insegnanti. Quando inse-
gnanti e istituzioni iniziano ad usare le OER nel loro
materiale didattico, allora sorge la domanda sul per-
ché non stiano ricambiando. Come abbiamo visto nel
capitolo 4, questa pratica non è garantita è può avere
una lenta assimilazione, ma l’azione del condivide-
re viene legittimata dall’adozione di materiali prove-
nienti da istituzioni con una buona reputazione.
   Non è una coincidenza che molti dei pionieri dei
MOOC siano anche stati tra i primi ad adottare l’Open
Access, tra i primi blogger e promotori della licenze
open. La creazione di corsi open sembrava essere il
logico passo successivo, dato che erano interessati
alle possibilità che l’openness offriva e che avevano
già visto i benefici da altre parti nella loro pratica. Ma
questa diffusione dell’open virus non è affatto garan-
tita: molti praticanti ne restano immuni, e per altri
la pratica open resta limitata ad una funzione mol-
to specifica. Non sembra tuttavia essere uno schema
che si ripete in tutti gli aspetti della pratica. Ha sen-
so nel contesto di questo libro, perché se siamo in
un periodo di transizione in cui la pratica open sta
diventando mainstream, allora (per continuare con
la metafora) il numero di persone “esposte” al con-
tagio dell’open virus aumenta notevolmente e diven-
ta pandemico. È anche significativo perché richiede
alle persone di essere agenti di azione. La divisione
in comparti della pratica open in progetti specifici o
il suo outsourcing a fornitori esterni crea una forma
di barriera che isola i singoli insegnanti e li proteg-
ge dall’esposizione. L’impatto dell’openness è perciò
contenuto. Si potrebbe concludere, seguendo la me-
tafora del virus, che un buon approccio alla diffusio-
ne della open practise è quello di cercare dei punti di

                           253
                 la battaglia per l’open

ingresso come cavalli di Troia, dove l’aspetto iniziale
dell’openness possa essere seminato. Tuttavia, come
per l’esempio dell’LMS, questo successo iniziale e fa-
cile non dovrebbe diventarne la fine.


Conclusioni
   In questo capitolo si sono analizzati una serie di
aspetti dell’openness che hanno implicazioni sulla
sua futura direzione. La regolamentazione sarà la
leva attraverso cui la pratica aperta diventerà soste-
nibile e mainstream. Tuttavia, la lezione del LMS di-
mostra che qualsiasi approccio regolatore deve anche
consentire uno spazio sufficiente per l’innovazione
e la sperimentazione, che sono le strade per ottene-
re i veri benefici dell’openness. L’innovazione che
l’openness permette offre soluzioni ad una serie di
sfide molto importanti per l’istruzione superiore. Per
certi aspetti, la rivoluzione open e digitale è la causa
di queste sfide, e ne è anche la soluzione. La vittoria
dell’openness è evidenziata dal valore che il termi-
ne “open” acquista nel marketing, e una risposta è
avanzare richieste a coloro che cercano di piegare il
termine per i propri scopi. Infine, si è suggerito che
l’openness ha la capacità di diffusione virale attraver-
so pratiche diverse una volta che è stata adottata in
una di queste.
   Ciò che tutte queste direzioni hanno in comune è
la ownership (la titolarità). In questo libro ho provato
a dimostrare due argomentazioni sull’openness: che
è un approccio di successo per buona parte dell’istru-
zione e che si trova ora ad un punto cruciale rispetto
alla sua direzione futura. Alla base del successo dell’o-


                          254
                   il futuro dell’open

penness per l’istruzione c’è la sua capacità di aprirsi
alla sperimentazione e all’innovazione. I MOOC, le
OER, l’Open Access e la open scholarship sono sta-
ti tutti il risultato di coloro che lavorando all’interno
dell’istruzione superiore hanno cercato di sfruttare le
possibilità che l’openness offre. L’aver vinto la prima
battaglia – che è un modo efficace di agire – è essen-
ziale che non si perda la seconda battaglia sulla futu-
ra direzione dell’openness abdicando responsabilità
e ownership. Questo non vuol dire che solo le univer-
sità possono dedicarsi alla open education: ci sono
molti modi differenti attraversi i quali si può approc-
ciare, e sarebbe folle essere prescrittivi. Però vuol dire
che quelli che lavorano nell’ambito dell’istruzione
devono partecipare al dibattito di cui si parla in que-
sto libro e decidere come l’openness possa funziona-
re per loro. In caso contrario altri decideranno.




                           255
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                            284
Accesso aperto, conoscenza aperta:
cosa è cambiato dal 2013.
Una postfazione ragionata


Elena Giglia, Università di Torino



   Il pregio del volume di Weller tradotto da Simone
Aliprandi sta nell’aver sistematizzato una serie di
concetti chiave nella battaglia per l’apertura della ri-
cerca e della conoscenza, mostrando le opportunità
legate all’approccio aperto in un quadro organico che
va dalle pubblicazioni ai dati alle risorse educative al
software. Non sempre condivido la visione ottimisti-
ca su quanto le istanze di apertura abbiano permea-
to l’ambiente della ricerca e dell’istruzione, mentre
non si può non essere d’accordo sul fatto che la di-
cotomia aperto/chiuso abbia aumentato il livello di
complessità.
   Se i concetti di fondo restano validi, ciò che è cam-
biato – e in modo sostanziale – è il contesto.
   Senza appesantire ogni pagina con note su risor-
se aggiornate e nuovi documenti, questa postfazione
vuole ripercorrere i principali filoni di riflessione del
volume per attualizzarne spunti e prospettive.
   In via preliminare, occorre riportare il dibattito a
una domanda di fondo: a cosa serve la ricerca scien-
tifica? Se, come sostiene Elisabeth Gadd, “abbiamo
    accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

creato una generazione di ricercatori che pensano
solo alla gloria di un articolo in riviste prestigiose e
non a fare buona ricerca che cambi il mondo, allora
siamo nei guai”1. La scienza deve contribuire al pro-
gresso, e per questo deve essere aperta. Su questo si
sofferma il documento programmatico Foundations
for Open Scholarship Strategy Development2, che tratta
in modo organico di tutti gli aspetti di cui parleremo
più avanti, ovvero testi, dati, infrastrutture, risorse
educative, per una scienza che sia accessibile, equa,
inclusiva, trasparente.
   La visione dell’università e della formazione che
emerge dal volume Open Knowledge Institutions3 è
la naturale continuazione e attualizzazione del vo-
lume di Weller, perché partendo dall’idea di “open
by deafult” analizza la spinta all’apertura, le moda-
lità di attuazione, le criticità, i possibili indicatori, e
l’approccio più efficace verso una società della cono-
scenza globalmente aperta e inclusiva. Già qualche
anno prima, Erin McKiernan4 aveva additato la strada
verso la condivisione della conoscenza nella ricerca
e nella formazione per rendere gli atenei il fulcro
della “società della conoscenza inclusiva” prospetta-
ta dall’UNESCO. Non a caso UNESCO nel 2019 ha
pubblicato le proprie Raccomandazioni sulle Risorse

1      Gadd, Elisabeth, The purpose of publications during a pande-
       mic and beyond, aprile 2020, https://wonkhe.com/blogs/
       the-purpose-of-publications-in-a-pandemic-and-beyond/.
2      Tennant, Jonathan, et al. Foundations for Open Scholarship Strategy
       Development, 2019, https://osf.io/preprints/metaarxiv/b4v8p/.
3      Montgomery, Lucy et al. Open Knowledge institutions, MIT press,
       2018, https://wip.mitpress.mit.edu/pub/oki/release/3.
4      McKiernan, Erin, Imagining the “open” university: Sharing scho-
       larship to improve research and education, PloS Biology, 2017, ht-
       tps://doi.org/10.1371/journal.pbio.1002614.

                                   286
                una postfazione ragionata

Educative aperte5 indicate come strumento principe
per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile
delle Nazioni unite, di cui parleremo fra poco.


Le politiche in favore della scienza aperta
  Sul piano politico, la scienza aperta è entrata de-
finitivamente nell’agenda: un numero crescente di
organizzazioni internazionali ha fatto proprio il prin-
cipio per cui la scienza finanziata con fondi pubblici
debba essere aperta, a beneficio della società nel suo
insieme.
  Le Nazioni Unite, in una tavola rotonda tenuta alla
fine del 2019, hanno ribadito che la scienza aperta
è perfettamente funzionale al raggiungimento degli
Obiettivi di sviluppo sostenibile6 e hanno sottolinea-
to alcuni principi quali inclusione, equità, reciproci-
tà, rispetto delle diversità, opportunità per la crescita
che devono essere parte integrante del paradigma
dell’apertura, in ogni ambito7. Assai significativo è
che nel corso della discussione sia emersa la questio-
ne dell’”ultimo miglio”: ovvero, siamo d’accordo sui
principi, ma come coinvolgere maggiormente la co-
munità di chi fa ricerca, ancora troppo legata a siste-
mi chiusi tradizionali?



5   UNESCO, Open Educational Resources recommendations, 2019,
    https://en.unesco.org/themes/building-knowledge-societies/
    oer/recommendation.
6   Obiettivi per lo sviluppo sostenibile, https://unric.org/it/
    agenda-2030/.
7   United Nations Science commons round table, novembre 2019,
    https://research.un.org/ld.php?content_id=51390330.

                             287
accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

  OCDE, l’Organizzazione per lo sviluppo economi-
co, ha pubblicato all’inizio del 2020 un Rapporto8 in
cui si riconosce l’importanza della condivisione aper-
ta dei dati non solo per una ricerca più efficace ed ef-
ficiente, ma anche per favorire innovazione e tecno-
logia. In prospettiva futura, per completare l’ultimo
capitolo del volume di Weller, il Rapporto individua
sette sfide per una politica efficace di apertura, quali
la necessità di trovare un bilanciamento fra i benefici
della condivisione dei dati e i rischi connessi, di de-
finire standard e aspetti legali, di creare competenze
per far leva sul capitale umano.
  L’UNESCO ha lanciato nel 2020 una consultazio-
ne pubblica per definire la prima bozza delle proprie
Raccomandazioni sulla scienza aperta9, indicata e so-
stenuta come lo strumento attraverso cui la scienza
può esprimere appieno il suo potenziale e contribu-
ire a dare una risposta alle sfide globali quali il cam-
biamento climatico o la pandemia da coronavirus in
corso.
  Proprio nel corso della pandemia, UNESCO, CERN
e Organizzazione Mondiale della Sanità hanno diffu-
so un appello congiunto per la condivisione di dati e
risultati, unica via che può portare a cure efficaci in
breve tempo10.
8  Enhanced Access to Publicly Funded Data for Science,
   Technology and Innovation, OECD, maggio 2020, https://
   www.oecd-ilibrary.org/science-and-technology/enhanced-ac-
   cess-to-publicly-funded-data-for-science-technology-and-inno-
   vation_947717bc-en.
9 UNESCO recommendation on Open Science, ottobre 2020,
   https://en.unesco.org/news/milestone-unescos-develop-
   ment-global-recommendation-open-science.
10 Jojnt appeal on Open Science, ottobre 2020, https://en.unesco.
   org/sites/default/files/joint_appeal_for_open_sciences_fin_
   en_fin.pdf.

                              288
                  una postfazione ragionata

   Se è vero che nei momenti di crisi l’esigenza di
apertura risulta più evidente, la scienza aperta ren-
de la ricerca più efficace e trasparente in ogni cam-
po. Per questo da anni la Commissione Europea ha
compiuto una scelta decisa adottando politiche di
apertura sempre più stringenti, perché sostenere la
scienza aperta significa “rendere la scienza adatta al
21° secolo”11 ed essere sicuri che la scienza sia al ser-
vizio dell’innovazione e della crescita sociale. Scienza
aperta significa infatti sfruttare appieno le potenziali-
tà del web per poter condividere e mettere a disposi-
zione di tutti (imprese, innovatori, fornitori di servi-
zi, cittadini) non solo la sintesi finale sotto forma di
articolo scientifico ma ogni elemento del ciclo della
ricerca, dai dati ai protocolli al software ai risultati
e alla loro discussione, con benefici per tutti. Il pro-
cesso è lungo, occorrono scelte responsabili anche da
parte dei singoli enti di ricerca, ma se è vero che ci
sono rischi a essere i primi, ci sono rischi maggiori a
essere gli ultimi – ovvero essere tagliati fuori.
   Chi volesse una sintesi ragionata sui progressi del-
la scienza aperta in Europa può iniziare dall’ottimo
Rapporto finale12 della Open Science Policy Platform,
che identifica per ognuno degli otto pilastri (nuovo si-
stema di valutazione, dati, formazione e competenze,
citizen science, futuro della comunicazione scientifi-
ca…) le barriere ancora esistenti e, soprattutto, sposta
il focus verso gli impegni concreti per l’implemen-

11 Burgelman JC et al. Open Science, Open Data, and Open
   Scholarship: European Policies to Make Science Fit for the Twenty-
   First Century, Frontiers in Big Data, 10 December 2019, https://
   doi.org/10.3389/fdata.2019.00043.
12 Progress on Open Science: Towards a Shared Research
   Knowledge System, OSPP, giugno 2020, https://ec.europa.eu/
   research/openscience/pdf/ec_rtd_ospp-final-report.pdf.

                                289
 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

tazione da parte di ognuno degli attori coinvolti, per
arrivare nel 2030 ad avere un “sistema di conoscenza
condivisa”.
   Il principio sotteso all’ultimo programma quadro di
finanziamento della ricerca in Europa, Horizon2020,
era “as open as possible, as closed as necessary”: tut-
ti i dati e i risultati devono essere sempre aperti per
principio, a meno che ci siano precisi e ben motivati
ostacoli quali privacy o sicurezza. Il prossimo pro-
gramma quadro, Horizon Europe, in avvio dal 2021,
sarà ancora più “aperto” perché non solo conterrà gli
stessi obblighi su testi e dati, ma sarà basato su cin-
que “mission”, ovvero grandi capitoli di ricerca, che
per natura sono interdisciplinari: e senza scienza
aperta l’interdisciplinarietà è ardua.
   La Commissione Europea ha sostenuto la scienza
aperta non solo come ente finanziatore della ricerca
ma anche come legislatore: la Raccomandazione 790
del 201813 riconosce infatti la scienza aperta come
“strategica”, elemento fondamentale per gli stati
membri che vogliano assicurare innovazione aperta
e ricerca responsabile. Prendendo in considerazione
ogni tassello della scienza aperta, la Raccomandazione
prevede che ogni stato membro e ogni ente di ri-
cerca adotti politiche sull’accesso aperto ai testi e ai
dati, che modifichi i criteri di valutazione di ricerca
tenendo conto delle pratiche Open, che sostenga le
infrastrutture di ricerca, che assicuri la formazione
di nuove competenze per i ricercatori e i tecnici. Nel
corso degli ultimi anni la Commissione Europea ha
anche pubblicato rapporti e guide sui temi cruciali
13   Raccomandazione (UE) 2018/790 della Commissione del 25
     aprile 2018 sull’accesso all’informazione scientifica e sulla sua
     conservazione, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/
     HTML/?uri=CELEX:32018H0790.

                                290
                  una postfazione ragionata

della valutazione della ricerca, delle competenze per
la scienza aperta, di nuove misure di impatto, per so-
stenere in modo concreto la creazione di consapevo-
lezza e la diffusione di politiche aperte14. In Europa
paesi quali la Francia, l’Olanda, la Finlandia, l’Austria
hanno già adottato Piani Nazionali per la scienza
aperta che prevedano azioni concrete e obiettivi mi-
surabili per testi, dati, valutazione e formazione – su
questo l’Italia è un po’ in ritardo.


I dati FAIR e la European Open Science Cloud
  Le novità maggiori rispetto al 2013 si registrano
però per i dati della ricerca. La Commissione ha fatto
propri nei programmi di finanziamento della ricerca
i principi FAIR (Findable, Accessible, Interoperable,
Reusable – Reperibili, Accessibili, Interoperabili,
Riusabili)15 che assicurano il più ampio riuso possibi-
le, anche da parte delle macchine e dell’intelligenza
artificiale, per i dati generati con fondi interamente
o prevalentemente pubblici. A livello legislativo, la
Direttiva 102416 del 2019 equipara i dati della ricer-

14 Evaluation of research careers fully acknowledging Open
   Science practices, 2017, https://ec.europa.eu/research/open-
   science/pdf/os_rewards_wgreport_final.pdf, Providing rese-
   archers with the competences and skills they need to practise
   Open Science, 2017, http://ec.europa.eu/research/openscien-
   ce/pdf/os_skills_wgreport_final.pdf, Open Science, Altmetric
   and reward, 2018, https://rio.jrc.ec.europa.eu/en/file/12319/
   download?token=wDanwJls.
15 “The FAIR Guiding Principles for scientific data management
   and stewardship”, Nature Scientific data, 2016, https://www.na-
   ture.com/articles/sdata201618.
16 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno
   2019 relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazio-

                                 291
accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

ca ai dati del settore pubblico (cosiddetta public sec-
tor information o PSI), che hanno quindi l’obbligo
di essere aperti per favorirne il riuso, poiché i dati,
a differenza di altri beni, possono essere usati con-
temporaneamente da più soggetti senza perdere il
proprio valore – anzi, aumentandolo grazie ai ritorni
sull’intera società.
   Per favorire la diffusione delle pratiche di scienza
aperta e di riuso dei dati, dal 2016 la Commissione
Europea ha avviato con ingenti finanziamenti e un
enorme sforzo organizzativo il processo verso la
European Open Science Cloud, che diventerà opera-
tiva a fine 2020. La European Open Science Cloud
non è un cloud in senso informatico, né una infra-
struttura di ricerca, ma un ambiente virtuale in cui
produttori di dati, produttori di servizi e innovatori
si incontreranno. La European Open Science Cloud
darà accesso ai dati FAIR in modo trasparente, ren-
dendo ricerca e innovazione più efficaci e fluide, evi-
tando la “situazione insostenibile” di cui parlava la
presidente Von der Leyen a Davos nel 2020 per cui
l’85% dei dati generati con fondi pubblici non viene
utilizzato17. In Italia il soggetto che ha preso in carico
il coordinamento delle attività per la European Open
Science Cloud è ICDI18, il consorzio delle infrastrut-
ture di ricerca recentemente formatosi proprio per
coordinare gli sforzi in ambito europeo.


   ne del settore pubblico, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/
   IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32019L1024.
17 Keynote speech by President Von der Leyen at the World
   Economic Forum, 22 gennaio 2020, https://ec.europa.eu/
   commission/presscorner/detail/en/SPEECH_20_102.
18 ICDI, Italian Computing and data Infrastructure, https://www.
   icdi.it/it/.

                               292
                 una postfazione ragionata

  Va sottolineato che la European Open Science
Cloud è anche una enorme opportunità di lavoro per
professionalità elevate: per rendere i dati FAIR e ge-
stirli correttamente serviranno mezzo milione di data
stewards, una nuova figura che deve unire a compe-
tenze di dominio sui dati delle singole aree di ricerca
competenze tecniche sui formati, gli standard, le li-
cenze – occorrono quindi dottori di ricerca o speciali-
sti della materia. Prendersi cura dei dati della propria
ricerca è una questione di etica e di integrità, non solo
di riuso. Per questo ogni ente finanziatore dovrebbe
vincolare il 5% di ogni fondo di ricerca alla cura dei
dati e alla loro “FAIRificazione”19: dati gestiti bene e
resi FAIR snelliscono i tempi della ricerca, la rendo-
no più fluida ed efficace. Assumere un data steward
assicura quindi ottimi ritorni sull’investimento.


I testi, e la lenta transizione all’accesso aperto
  Per quanto riguarda l’accesso aperto ai testi – arti-
coli e volumi, materiale didattico – alla situazione de-
lineata da Weller si sono aggiunti ulteriori elementi
di complessità.
  Un ottimo punto di partenza è la magistrale Analisi
condotta da Claudio Aspesi per il consorzio SPARC20.
Nel rapporto, che prende in considerazione sia risor-
se accademiche sia didattiche, che larga parte hanno
nel volume di Weller, vengono delineate le strategie
di acquisizione ed espansione dei principali gruppi
19 Mons, Barend, “Invest 5% of research funds in ensuring data are
   reusable”, Nature 578, 491 (2020). doi: https://doi.org/10.1038/
   d41586-020-00505-7.
20 Aspesi, Claudio, et al., SPARC Landscape Analysis, 29 Marzo
   2019, https://doi.org/10.31229/osf.io/58yhb.

                               293
accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

editoriali, che mostrano come l’interesse precipuo
non sia più solo la pubblicazione intesa in senso tra-
dizionale, ma il controllo di una serie di servizi che
coprono l’intero ciclo della ricerca, e dei dati utili alla
valutazione e alla definizione delle strategie di ricerca
dei singoli atenei. Il messaggio è chiaro: occorre in-
vestire in infrastrutture aperte ed evitare di delegare
a soggetti terzi commerciali la raccolta e gestione di
dati che possono risultare strategici per le istituzio-
ni di ricerca. Sulle infrastrutture aperte si concentra
non a caso anche un’altra iniziativa, in questo caso
promossa da SPARC Europe con altri partner, per
l’analisi del panorama21 e il sostegno economico con-
creto a infrastrutture aperte a sostegno della ricerca22.
   Fra i ricercatori, invece, accesso aperto e comunica-
zione scientifica aperta sono ancora oggetto di disin-
formazione e di preconcetti: vale la pena leggere la
magistrale disamina dei dieci miti più diffusi, fra cui
l’editoria predatoria, una scarsa qualità delle revisio-
ni, le spese di pubblicazione…23
   Si tende poi a parlare di accesso aperto solo per
articoli e riviste – come accade anche nel volume di
Weller – ma non dimentichiamo che nelle scienze
umane e sociali la monografia di ricerca, il libro, sono
ancora il canale preferenziale di comunicazione. Per
questo negli ultimi anni la riflessione intorno ai libri
in accesso aperto è cresciuta: sono usciti importanti

21 SPARC Europe, Scoping the Open Science Infrastructure
   Landscape in Europe, 2020, https://sparceurope.org/
   new-sparc-europe-report-out-scoping-the-open-science-infra-
   structure-landscape-in-europe/.
22 SCOSS, Sustainability Coalition for Open Science Services, ht-
   tps://scoss.org/.
23 Tennant, Jonathan et al, Ten myths around open scholarly publi-
   shing, PeerJ preprint, 2019, https://peerj.com/preprints/27580/.

                               294
               una postfazione ragionata

rapporti che fotografano il panorama e tracciano una
via per il futuro24, progetti sulla sostenibilità econo-
mica di infrastrutture aperte per la pubblicazione25,
strumenti pratici per favorire la pubblicazione26, una
comunità per la discussione27, e l’infrastruttura di ri-
cerca OPERAS28 sta proponendo un ecosistema che
si prenda cura dell’intero ciclo della comunicazione
scientifica nelle scienze umane, offrendo strumenti
di ricerca, di analisi, di pubblicazione e di dissemina-
zione, perché mai come nelle scienze umane e socia-
li un libro è a sua volta oggetto di nuova ricerca o di
un colloquio sempre aperto con la società.
   La pandemia ha messo in evidenza la necessità as-
soluta di avere accesso immediato ai risultati e ai dati
della ricerca. Gli editori commerciali sull’onda del
clima di emergenza globale si sono affrettati ad apri-
re – ma solo per la durata dell’emergenza – tutti gli
articoli su ricerche correlate al COVID-19, rendendo
ancora una volta manifesto quanto sia disfunziona-
le il sistema attuale: aprire solo certi articoli e solo
a tempo determinato è un’ammissione implicita che
tenere chiusi gli articoli dietro abbonamento fa solo
gli interessi degli editori, e non quelli della scienza.
Viene da chiedersi quindi: perché aprire solo gli arti-
coli sul COVID 19? Forse il cancro, o l’Alzheimer, o il
cambiamento climatico, o la violenza di genere sono

24 Knowledge Exchange, Landscape study on Open Access mono-
   graph, 2019, https://www.knowledge-exchange.info/event/
   open-access-monographs.
25 COPIM, Community-led Open Publication Infrastructures for
   Monographs, https://www.copim.ac.uk/.
26 Open Access book toolkit, https://oabooks-toolkit.org/.
27 Open access books network, https://hcommons.org/groups/
   open-access-books-network/.
28 OPERAS, https://www.operas-eu.org/.

                            295
accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

ricerche meno importanti? Tutta la ricerca deve esse-
re aperta, anche perché “non possiamo stabilire oggi
che cosa potrà essere interessante e portare a nuove
scoperte domani”, come sottolinea il coordinatore di
PlanS Johan Roorick29.
  PlanS è la novità più rilevante nel campo della co-
municazione scientifica, ed è stata lanciata nel set-
tembre 2018 da una coalizione di enti finanziatori
della ricerca guidati da Science Europe (CoalitionS)
per accelerare la transizione definitiva verso l’acces-
so aperto – la S sta per speed, velocità30. Preso atto
che a oltre 15 anni di distanza dalla Dichiarazione di
Berlino il tasso di articoli disponibili in accesso aper-
to si aggira ancora intorno al 20%, e che di questo
passo serviranno ancora anni per raggiungere l’obiet-
tivo fissato dal Consiglio sulla Competitività dell’U-
nione europea del maggio 201631 – ovvero la totalità
delle pubblicazioni finanziate pubblicate in accesso
aperto – un nutrito gruppo di enti ha stabilito che
tutta la ricerca finanziata con i loro fondi dovrà esse-
re ad accesso aperto a partire dal 1 gennaio 2021. La
prima versione di PlanS prevedeva il 1 gennaio 2020;
la data è stata spostata in avanti a causa delle reazioni
variegate del mondo della ricerca e degli editori in
particolare. Argomenti pretestuosi si erano appuntati
sulla pretesa mancanza di libertà accademica – che
consiste nell’essere liberi di fare ricerca su qualsiasi
argomento, non su dove pubblicare, anche perché le

29 Roorick, Johan, Open Access lessons during Covid-19: No lockdown
   for research results!, giugno 2020, https://www.coalition-s.org/
   open-access-lessons-during-covid-19-no-lockdown-for-resear-
   ch-results/.
30 CoalitionS – PlanS https://www.coalition-s.org/.
31 Consiglio competitività 26 maggio 2016, https://www.consi-
   lium.europa.eu/it/meetings/compet/2016/05/26-27/.

                               296
                 una postfazione ragionata

scelte oggi sono pesantemente influenzate dai criteri
di valutazione della ricerca – o sui tempi ridotti per
le modifiche tecniche richieste per essere conformi,
come se peraltro non fossero state le stesse che ven-
gono richieste da 15 anni. Il pilastro su cui si basa
PlanS è chiaramente espresso nel Preambolo: “i ri-
cercatori stanno facendo un grosso disservizio alla
scienza continuando a pubblicare in riviste che sono
chiuse dietro abbonamento. Ci rendiamo conto che
possono essere spinti a farlo da un sistema di incen-
tivi male indirizzati, che pongono troppa enfasi sugli
indicatori sbagliati (ad esempio l’Impact Factor). Per
questo ci impegniamo a rivedere sostanzialmente i
nostri criteri di valutazione della ricerca”32.
  La forza di PlanS sta nei suoi dieci principi33, fra i
quali spiccano la richiesta che gli autori mantengano
i diritti sui propri lavori, che le spese di pubblicazione
ove presenti (vengono richieste, occorre sempre sotto-
linearlo, solo dal 27% delle riviste ad accesso aperto34)
siano pagate dall’ente e non dal singolo, che ci sia un
tetto alle spese stesse e che non siano ammesse le rivi-
ste ibride, ossia quelle che generano una doppia spesa
per le istituzioni perché pur restando in abbonamento
offrono di aprire singoli articoli dietro pagamento.
  PlanS è un’iniziativa articolata, che mira ad affron-
tare il tema dell’accesso aperto ai testi in modo orga-
nico. In seguito al dibattito apertosi in seno alla co-
munità scientifica sono state specificate le modalità
con cui si può essere conformi a PlanS: pubblicando
32 Perché PlanS, https://www.coalition-s.org/why-plan-s/.
33 PlanS,iprincipi,https://www.coalition-s.org/addendum-to-the-co-
   alition-s- guidance- on-the-implementation- of-plan-s/
   principles-and-implementation/.
34 Directory of Open Access journals, percentuale di riviste che
   richiedono APC sul totale, https://tinyurl.com/yyz4fxuc.

                              297
accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

su riviste o piattaforme (lo vedremo fra poco, que-
ste possono essere la vera rivoluzione) Open Access,
depositando negli archivi (la consueta green road
dell’autoarchiviazione ma senza embargo) o pubbli-
cando in una rivista tradizionale purché sotto con-
tratto trasformativo. I contratti trasformativi di cui
diremo fra poco possono essere – se correttamente
intesi – un’ottima leva per favorire la transizione.
   I due aspetti più significativi di PlanS sono due
iniziative complementari: in primis la Right reten-
tion strategy35, la strategia secondo la quale gli autori
devono mantenere i diritti sulla loro opera, per cui
gli editori verranno informati preventivamente che
l’autore finanziato da CoalitionS dovrà pubblicare
con una licenza CC BY e dovrà poter autoarchivia-
re il proprio lavoro senza alcun periodo di embargo
(tecnicamente, l’embargo è un periodo richiesto dagli
editori in cui il file pur essendo depositato nel repo-
sitory non risulta visibile agli utenti, e può arrivare
fino a 48 mesi). Questo ci permette di sottolineare
che PlanS è stato inteso fin dall’inizio per gli editori,
perché modifichino più rapidamente il loro modello
di business, non per gli autori.
   Vi è poi il Price and service transparency fra-
mework36, ovvero uno schema in base al quale gli
editori devono specificare per quali servizi vengo-
no pagate le spese di pubblicazione (APC, Article
Processing Charges) suddividendo la cifra in specifi-
ci capitoli. Per PlanS, inoltre, le spese così dettagliate
devono essere coerenti con il tipo di servizio offer-
to. Questo è un importante passo avanti per scalfire
35 PlanS right retention strategy, https://www.coalition-s.org/
   rights-retention-strategy/.
36 PlanS price and service transparency framework, https://www.
   coalition-s.org/price-and-service-transparency-frameworks/.

                             298
                 una postfazione ragionata

quella logica del prestigio delle riviste, per cui si paga
il marchio e non l’effettivo servizio.
   Uno dei due schemi per il dettaglio dei prezzi vie-
ne dall’iniziativa FOAA, Fair Open Access Alliance37,
nata qualche anno fa sulla scia della battaglia intra-
presa dal comitato editoriale della rivista Lingua, in-
teramente dimessosi in seguito al rifiuto dell’editore
Elsevier di garantire il passaggio a una pubblicazione
in accesso aperto in termini equi. I principi di FOAA
prevedono che la rivista abbia una proprietà chiara
e trasparente, nelle mani della comunità scientifica,
che gli autori mantengano i diritti, che le spese di
pubblicazione siano commisurate agli effettivi servi-
zi offerti.
   Pagare per i servizi offerti è il concetto alla base dei
cosiddetti “transformative agreements”, i contratti tra-
sformativi38, che riguardano le riviste ibride degli edi-
tori commerciali tradizionali, quelle che pur restando
in abbonamento offrono un’opzione Open dietro pa-
gamento di una somma ulteriore. Il processo verso
la trasformazione è lungo e complesso: si parte dal
quantificare la cifra spesa per le spese di pubblicazio-
ne in accesso aperto, che al momento non sono trac-
ciate dalle singole istituzioni e sono quindi fuori dalla
somma già pagata per gli abbonamenti come definite
nei contratti nazionali, per poi gradualmente trasferi-
re la somma che si paga per gli abbonamenti verso il
pagamento di servizi di pubblicazione, posto che tutti
gli articoli verranno pubblicati in accesso aperto. Una
volta scardinato il sistema dei “big deals” attualmente
in vigore, per cui si pagano abbonamenti per pacchetti

37 FOAA, https://www.fairopenaccess.org/.
38 ESAC initiative, Transformative agreements, https://esac-initia-
   tive.org/about/transformative-agreements/.

                               299
accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

di riviste indipendentemente dal loro uso, il singolo
ricercatore dovrebbe essere incentivato a pubblicare
sulla rivista che offre i migliori servizi editoriali, ripor-
tando un minimo di competizione all’interno del mer-
cato anelastico delle pubblicazioni scientifiche oggi
solo governato dalla regola del prestigio, e non della
domanda e dell’offerta. Va da sé che anche in questo
caso, come per PlanS che il movimento OA202039 –
la coalizione internazionale che coordina chi negozia
contratti trasformativi – supporta in piena consonan-
za, il presupposto è che cambino i criteri di valutazio-
ne della ricerca, e si inizi a valutare il singolo lavoro
invece della sua sede editoriale.
  Poiché il panorama è in rapida evoluzione, si stan-
no sperimentando diversi modelli di contratti tra-
sformativi, ben delineati nel recente rapporto della
European University Association40. Uno di questi, il
Read&Publish, è frutto del Rapporto Finch citato da
Weller, che ha rivelato nel lungo periodo la sua falla-
cia: pagando sia per leggere sia per pubblicare, non
solo non c’è stata trasformazione perché di fatto si
perpetuava il modello ibrido, ma le spese per le APC
sono cresciute secondo la stessa logica aberrante del
prestigio che ha portato alla spirale insostenibile dei
prezzi delle riviste scientifiche negli ultimi 30 anni41.
  I contratti più recenti, Publish&Read, si basano in-
vece sulla somma storicamente spesa per gli abbo-
namenti, divisi per il numero di articoli pubblicati

39 OA2020 initiative, https://oa2020.org/. Sulla pagina si trova
   anche un Report sui progressi dei contratti trasformativi.
40 EUA, Read and publish contracts in the context of a dynamic
   scholarly publishing system, luglio 2020, https://eua.eu/re-
   sources/publications/932:read-publish-agreements.html.
41 JISC report Article processing charges (APCs) and subscriptions,
   2016, https://www.jisc.ac.uk/reports/apcs-and-subscriptions.

                               300
                 una postfazione ragionata

dagli autori di quella nazione, da cui risulta la quota
per articolo. Questa a sua volta viene moltiplicata per
il numero di articoli attesi, creando una situazione di
rischio condiviso: se l’editore offre buoni servizi e gli
articoli saranno in numero maggiore, il contratto sarà
vantaggioso per le istituzioni; qualora invece gli artico-
li pubblicati fossero in numero inferiore, le istituzio-
ni avrebbero uno svantaggio. Va da sé che per poter
negoziare su queste basi occorre avere i dati precisi a
livello nazionale, e qui la realtà nelle diverse nazioni è
assai variegata. I contratti Publish&Read sono un’evo-
luzione positiva, ma hanno pur sempre evidenti criti-
cità, perché si basano sulla somma storicamente spesa
da una nazione per un editore, portando ad aberrazio-
ni quali il recente contratto con l’editore Nature, che
prevede una quota per articolo esorbitante42. La vera
rivoluzione sarebbe stato adottare lo schema di simu-
lazione proposto nel Libro bianco43 del 2015, in cui si
proponeva di decidere a priori una quota per le spese
di pubblicazione, senza dividere per la spesa storica:
così sì si sarebbero ottenuti ingenti risparmi. Ma ci si
scontra contro l’atteggiamento degli editori, che pre-
tendono di essere pagati per la pubblicazione e per
l’Open Access come fossero due servizi diversi – men-
tre tradizionalmente gli abbonamenti hanno sempre
coperto pubblicazione e lettura.



42 Van Noorden, Richard, Nature journals announce first open-ac-
   cess agreement, ottobre 2020, https://www.nature.com/articles/
   d41586-020-02959-1.
43 Disrupting the subscription journals’ business model
   for the necessary large-scale transformation to open ac-
   cess, Max Planck Gesellschaft, 2015, http://hdl.handle.
   net/11858/00-001M-0000-0026-C274-7.

                              301
accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

  Il vantaggio innegabile è che i contratti trasformati-
vi sono finalmente pubblici44, e non più blindati die-
tro le clausole di riservatezza imposte dagli editori,
per cui in Italia non sapevamo quanto pagavano per
lo stesso pacchetto in Germania e viceversa.
  I contratti trasformativi, come dice il nome stesso,
sono e devono essere temporanei, strumento ver-
so un passaggio il più rapido possibile all’accesso
aperto. L’orizzonte temporale è quindi due/tre anni
al massimo, deve essere esplicito l’impegno verso
la “trasformazione”, e deve essere previsto l’accesso
aperto per tutti gli autori di quella specifica nazione.
Purtroppo questo non è quanto accaduto in Italia:
oltre a essere in grave ritardo rispetto ad altri paesi,
non sembra che i contratti firmati finora a livello na-
zionale rispecchino queste caratteristiche45. Un’altra
differenza, fondamentale, fra quanto avviene nel no-
stro paese e analoghe esperienze internazionali sta
nella consapevolezza e nel supporto da parte della co-
munità di ricerca: all’Università della California e al
MIT di Boston, quando Elsevier ha chiuso l’accesso
per l’intero campus della California a tutte le riviste
dopo aver interrotto le trattative, la comunità è sta-
ta solidale nel sostenere la posizione dei negoziatori
dell’università per un bene collettivo maggiore, ovve-
ro ottenere l’accesso aperto e immediato per tutti46.
44 Si veda ad esempio il contratto firmato fra l’editore Wiley e i
   negoziatori tedeschi del consorzio Project DEAL: https://www.
   projekt-deal.de/wiley-contract/.
45 Galimberti, Paola, Contratti trasformativi: a vantaggio di chi?,
   ROARS, 9 settembre 2020, https://www.roars.it/online/
   contratti-trasformativi-a-vantaggio-di-chi/.
46 The University of California and Elsevier: An Interview with
   Jeff MacKie-Mason, Scholarly Kitchen, maggio 2019, https://
   scholarlykitchen.sspnet.org/2019/05/06/the-university-of-ca-
   lifornia-and-elsevier-an-interview-with-jeff-mackie-mason/     e

                               302
                  una postfazione ragionata

In Italia siamo ancora a polemiche sterili sul pagare
per pubblicare, e l’accesso aperto è ancora poco co-
nosciuto tra i ricercatori, se si esclude qualche sin-
golo coraggioso. Del resto, in paesi quali l’Olanda,
la Svezia, la Finlandia o la Francia la contrattazione
trasformativa fa parte di una visione più ampia, con-
tenuta nei Piani Nazionali per la scienza aperta, e ha
obiettivi temporali ben precisi entro i quali l’intera
produzione nazionale deve essere trasformata. Non
solo: mentre negli Stati Uniti e negli altri paesi euro-
pei i negoziatori hanno un mandato preciso su quali
siano le richieste da ottenere (accesso aperto per tutti,
riduzione o parità dei costi), in Italia ciò che viene of-
ferto agli atenei per la firma è il contratto già conclu-
so, senza alcuna possibilità di discutere nel merito,
ovvero “per cosa” si sta pagando, né una possibilità
reale di interrompere le contrattazioni47.
  Posizioni più decise sarebbero invece utili a scardi-
nare il sistema attuale, per cui ogni anno nel mondo
si pagano 7.6 miliardi di dollari in abbonamenti a ri-
viste, chiudendo di fatto il contenuto per tutti quel-
li che non possono sottoscrivere un abbonamento,
inclusi professionisti, piccole e medie imprese, start
up, innovatori… Non dimentichiamo che il contenu-
to scientifico viene fornito dagli autori gratuitamente
sotto forma di articolo, e altrettanto gratuitamente
viene revisionato dagli esperti attraverso il sistema
della peer review.


   MIT, guided by open access principles, ends Elsevier negotia-
   tions, giugno 2019 http://news.mit.edu/2020/guided-by-o-
   pen-access-principles-mit-ends-elsevier-negotiations-0611.
47 Pievatolo, Maria Chiara, Accordi trasformativi, un’offerta che
   non si può rifiutare?, AISA, luglio 2020 https://aisa.sp.unipi.it/
   accordi-trasformativi-unofferta-che-non-si-puo-rifiutare/.

                                303
accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

  Lo scenario futuro è perfettamente delineato nel ci-
tato Rapporto EUA, in cui vengono prese in esame
con punti di forza e di debolezza quattro possibili
alternative: mantenimento della situazione attuale
ibrida con accesso aperto tramite deposito Green;
contratti Publish&Read; accesso aperto globale su
piattaforme proprietarie degli editori, accesso aperto
globale su piattaforme aperte e pubbliche. L’ultima
soluzione è quella auspicabile, funzionale agli inte-
ressi della scienza, e di una comunità di ricerca che si
riappropria della comunicazione scientifica48.
  Utopia? No, i primi passi si vedono già. La
Commissione Europea a fine 2020 lancia Open
Research Europe49, una piattaforma di pubblicazio-
ne gratuita per chi scrive e per chi legge, sul model-
lo del successo di analoghe piattaforme della Gates
Foundation e dell’ente di finanziamento britannico
Wellcome Trust50. Open Research Europe assicurerà
una pubblicazione rapida e trasparente della ricer-
ca sotto forma di preprint, cui viene associata la re-
visione dei pari (peer review) aperta e la possibilità
di commenti da parte dei ricercatori, riportando la
comunicazione scientifica al suo ruolo di “grande
conversazione”.
  I preprint, ovvero gli articoli appena terminati da-
gli autori, senza che siano stati ancora revisionati dai
pari, hanno giocato un ruolo importante durante la
pandemia da COVID19. Fino a qualche anno fa era-

48 EUA, Read and publish contracts in the context of a dynamic
   scholarly publishing system, luglio 2020, https://eua.eu/re-
   sources/publications/932:read-publish-agreements.html.
49 Open Research Europe, ORE, https://open-research-europe.
   ec.europa.eu/.
50 Si veda Gates Open research https://gatesopenresearch.org/ e
   Wellcome Open research https://wellcomeopenresearch.org/.

                             304
                  una postfazione ragionata

vamo abituati a considerarli solo il primo stadio del
processo di pubblicazione, ovvero il preprint come la
versione inviata alla rivista al momento della propo-
sta di pubblicazione da parte degli autori. In realtà
negli ultimi anni, sulla scia del più famoso arXiv, l’ar-
chivio di preprint dei fisici nato nel 1991, sono nati
archivi disciplinari quali biorXiv, medarXiv, psychar-
Xiv, agriarXiv in cui il preprint si è affermato come
canale di comunicazione a sé stante, ovvero senza
che sia prevista una successiva proposta a una rivista,
con innegabili vantaggi: comunicazione immediata
dei risultati della ricerca, senza attendere i tempi a
volte biblici (fino a due anni o più) di pubblicazio-
ne sulla rivista, discussione aperta con gli esperti, e
ai fini valutativi focus sul contenuto invece che sul
contenitore, come dovrebbe essere una sana valu-
tazione della ricerca. Nel corso della pandemia si è
registrato un incremento esponenziale di pubblica-
zioni di preprint, proprio grazie alla loro caratteristi-
ca di mettere subito a disposizione della comunità
scientifica i risultati di una ricerca51. Se non utilizzati
correttamente, ovvero se non inseriti in una corretta
pratica di scienza aperta (messa a disposizione dei
set di dati, dei metodi, dei protocolli, di tutta la docu-
mentazione atta a far comprendere l’esperimento o
la ricerca) i preprint possono mostrare anche qualche
limite, come appunto si è potuto riscontrare durante
la pandemia52.

51 All that’s fit to preprint, editorial, Nature Biotechnology, maggio
   2020, https://www.nature.com/articles/s41587-020-0536-x.
52 Borrelli, Giovanna e Sparano, Francesco, “Scienza aperta e
   Covid-19: che cosa non ha funzionato. Ma la condivisione è la
   strada giusta”, Altreconomia, settembre 2020. L’articolo è una
   intervista a Paola Masuzzo, autrice fra gli altri di Besancon,
   Lonnie et al. Open Science Saves Lives: Lessons from the

                                305
accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.

  Esistono poi nuovi strumenti quali gli Open Lab
Notebook, che contengono testo, dati, metodi, softwa-
re attivabile, in una parola l’intero esperimento e non
solo la sua estrema sintesi che può essere pubblicata
in un articolo tradizionale in pdf53. O ancora una piat-
taforma come Hypergraph54, che riunisce le caratte-
ristiche di un lab notebook con altri servizi a valore
aggiunto, corredando l’esperimento o la ricerca di
tutti gli elementi che la costituiscono e la valorizzano.
  Il futuro di una comunicazione scientifica aperta è
forse più vicino di quanto immaginiamo, purché le
agenzie nazionali e le istituzioni abbiano il coraggio
di virare dall’attuale sistema di valutazione della ri-
cerca, che è il cardine grazie al quale l’attuale sistema
disfunzionale delle riviste scientifiche e del loro pre-
stigio si perpetua. Una valutazione più consapevole
dovrebbe tener conto e valorizzare tutti gli elementi
della ricerca e non solo la sintesi finale sotto forma
di articolo, ovvero i dati, i metodi, il codice, fino alle
revisioni tra pari, e dovrebbe permettere agli autori
di utilizzare tutti i canali possibili (piattaforme, pre-
print, notebook) per una comunicazione immediata,
invece di mantenerli entro il perimetro ormai un po’
obsoleto delle riviste.

                                                   Elena Giglia
                                              (dicembre 2020)




   COVID-19 Pandemic, preprint, ottobre 2020, https://doi.
   org/10.1101/2020.08.13.249847.
53 Open notebook science, Wikipedia, https://en.wikipedia.org/
   wiki/Open-notebook_science.
54 Hypergraph, https://blog.libscie.org/introducing-hypergraph-beta/.

                                306
                                                                                                                                 Nella stessa collana

                                                                                                                                  Titolo: Open Source, Software libero e
                                                                                                                                  altre libertà
                                                                                                                                  Sottotitolo: Un’introduzione alle libertà
                                                                                                                                  digitali
                                                                                                                                  Autore: Carlo Piana
                                                                                                                                  ISBN: 9788867057665
                                                                                                                                  Formato: cartaceo, 157 p.
                                                                                                                                  Prezzo: 16 €


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                                                                                                                                  Sottotitolo: Scenari di didattica digitale
                                                                                                                                  condivisa
                                                                                                                                  A cura di: Alberto Panzarasa
                                                                                                                                  ISBN: 9788867055456
                                                                                                                                  Formato: cartaceo, 140 p.
                                                                                                                                  Prezzo: 14,00 €




                                                                              CITTADINANZA DIGITALE
                           Andrea Trentini, Giovanni Biscuolo, Andrea Rossi




IVISMO
 INIZIA DAI BIT

                                                                              E TECNOCIVISMO
dono automatica-
 e essere neutrale
 ezza va asservito                                                            IN UN MONDO DIGITALE                                Titolo: Cittadinanza digitale e tecnocivismo
 diritti o merci? La
                                                                              LA CITTADINANZA INIZIA DAI BIT
                                                                                                                                  Sottotitolo: Nel mondo digitale la
 cnologia: traspa-
  Risponderemo a
endersi conto che
tostanti i processi                                                           VOLUME PRIMO
 peremo a questa




                                                                                                                                  cittadinanza inizia dai bit
ecnico, delle tec-

 attivisti politici, gli                                                      Andrea Trentini, Giovanni Biscuolo, Andrea Rossi
rs, i professionisti
ici, categorie che
e, politica e tec-



                                                                                                                                  A cura di Andrea Trentini, Giovanni
irizzare la società
                           CITTADINANZA DIGITALE E TECNOCIVISMO




                                                                                                                                  Biscuolo, Andrea Rossi
 nformatica dell’Uni-
Digitale e Tecnocivi-
bero e della condivi-
o quanto.




                                                                                                                                  ISBN: 9788855261609
co di un’azienda in-
uppo e supporto di
ware Libero non per
 ca a funzionare: nel




 è founder&CEO di
egnata per la ri-de-
                                                                                                                                  Formato: cartaceo, 361 p.
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      Nella stessa collana

         Titolo: Fare Open Access
         Sottotitolo: La libera diffusione del
         sapere scientifico nell’era digitale
         Autore: Simone Aliprandi
         ISBN: 9788867056019
         Formato: cartaceo, 194 p.
         Prezzo: 14 €



         Titolo: Creative Commons:
         manuale operativo
         Sottotitolo: Una guida pratica e
         un’introduzione teorica al mondo CC
         Autore: Simone Aliprandi
         ISBN: 9788867051342
         Formato: ePub
         Prezzo: 1,99 €


         Titolo: Il fenomeno open data
         Sottotitolo: Indicazioni e norme per un
         mondo di dati aperti
         Autore: Simone Aliprandi
         ISBN: 9788867051687
         Formato: cartaceo, 112 p.
         Prezzo: 12 €



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LA BATTAGLIA PER L’OPEN
COME L’OPEN HA VINTO,
MA NON SEMBRA UNA VITTORIA

Digitalizzazione pervasiva e iperconnessione ci rendono automatica-
mente cittadini più informati e partecipi? La Rete deve essere neutrale
o “indirizzata” per il nostro bene? Il diritto alla riservatezza va asservito
all’interesse superiore? Le infrastrutture digitali sono diritti o merci? La
conoscenza deve essere accessibile a tutti? E la tecnologia: traspa-
rente o oscura? La Cittadinanza Digitale è possibile? Risponderemo a
queste ed altre domande rivolgendoci a chi inizia a rendersi conto che
la piena consapevolezza sugli aspetti tecnologici sottostanti i processi
sociali, politici ed economici è importante. Ci aggrapperemo a questa
consapevolezza costruendo un quadro, pur a tratti tecnico, delle tec-
nologie connesse alla Cittadinanza Digitale.
I nostri lettori ideali sono in particolare gli studenti, gli attivisti politici, gli
accademici, gli amministratori pubblici, i policy makers, i professionisti
delle tecnologie (ad esempio gli sviluppatori) e i politici, categorie che
tradizionalmente ricoprono ruoli di “influenza” sociale, politica e tec-
nologica e che quindi potrebbero e dovrebbero indirizzare la società
verso il bene comune.


Martin Weller
Martin Weller è professore di Educational Technology alla Open University del
Regno Unito. Ha diretto il primo e principale corso di elearning alla OU nel 1999,
che contava più di 120.000 studenti, e ha portato avanti diverse grandi iniziative
di elearning. Ha cominciato a bloggare nel 2005 interessandosi all’impatto delle
nuove tecnologie sulla pratica accademica. Al momento è direttore del progetto
OER Research Hub e ha la cattedra ICDE in OER.

Simone Aliprandi
Martin Weller è professore di Educational Technology alla Open University del
Regno Unito. Ha diretto il primo e principale corso di elearning alla OU nel 1999,
che contava più di 120.000 studenti, e ha portato avanti diverse grandi iniziative
di elearning. Ha cominciato a bloggare nel 2005 interessandosi all’impatto delle
nuove tecnologie sulla pratica accademica. Al momento è direttore del progetto
OER Research Hub e ha la cattedra ICDE in OER.

Elena Giglia
Elena Giglia è responsabile dell’Unità di progetto Open Access dell’Università
di Torino. Svolge una intensa attività di formazione e promozione su logiche e
vantaggi dell’accesso aperto e sulla comunicazione scientifica. È membro del
Gruppo di lavoro “Open Access” della CRUI e di AISA, l’Associazione Italiana
per la promozione della Scienza Aperta.




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