Martin Weller LA BATTAGLIA PER L’OPEN COME L’OPEN HA VINTO, MA NON SEMBRA UNA VITTORIA TRADUZIONE DI SIMONE ALIPRANDI POSTFAZIONE DI ELENA GIGLIA Martin Weller La battaglia per l’open Come l’open ha vinto, ma non sembra una vittoria Traduzione italiana e prefazione di Simone Aliprandi Postfazione di Elena Giglia Ledizioni Come la versione originale dell’opera, anche la presente tra- duzione italiana con le note, la prefazione e la postfazione sono rilasciate nei termini della licenza Creative Commons Attribution 4.0 il cui testo integrale è disponibile all’URL http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/. Credits della versione originale: Weller, M. (2014) The Battle for Open: How openness won and why it doesn’t feel like victory. London: Ubiquity Press. DOI: https://doi.org/10.5334/bam Si ringrazia Luna Guaschino per la preziosa consulenza tec- nica sulla traduzione. Martin Weller, La battaglia per l’open. Come l’open ha vinto, ma non sembra una vittoria. ISBN cartaceo: 978-88-5526-343-6 ISBN eBook: 978-88-5526-344-3 Il volume è disponibile in Open Access e acquistabile nelle versioni ePub e cartacee a cura di Ledizioni sul sito internet www.ledizioni.it, nelle librerie online o tradizionali. Sito ufficiale del progetto: http://aliprandi.org/battaglia-open. Indice Ringraziamenti dell’autore 11 Prefazione all’edizione italiana 13 La traduzione 15 La vittoria dell’open 17 Introduzione17 Istruzione superiore e openness 21 Insegnamento 22 Ricerca 24 Open Policy 25 Perché l’openness è importante 26 È davvero una battaglia? 33 Lezioni da altri settori 36 Conclusioni42 Il libro 44 Che tipo di openness? 47 Introduzione47 Evitare di dare definizioni 48 L’istruzione open – Un breve accenno storico 56 Università open 56 Open Source e free software 58 Web 2.0 63 Principi che si fondono 65 Conclusioni66 La pubblicazione in Open Access 69 Introduzione69 Il successo dell’Open Access 71 Il report Finch 80 La Gold road 83 Il rapporto con gli editori 86 Nuovi modelli di pubblicazione 89 Conclusioni93 Le Open Educational Resources 95 Introduzione95 Learning objects 96 Le OER 101 Libri di testo open 106 I problemi delle OER 109 Una storia di successo? 111 La battaglia per le OER 113 Conclusioni117 I MOOC 123 Introduzione123 Il contesto dei MOOC 126 I MOOC e la qualità 130 I MOOC e i costi 133 I MOOC e il design dei corsi 136 Design per il mantenimento 137 Design per la selezione 138 MOOC come complemento all’istruzione formale 141 La commercializzazione dei MOOC 143 Conclusioni148 L’istruzione malata e la narrazione della Silicon Valley 155 Introduzione155 L’istruzione è malata 157 La narrazione della Silicon Valley 163 Ritorno al futuro, di nuovo 169 Conclusioni171 La Open Scholarship 177 Introduzione177 La pratica in rete 179 Lo studente open e l’identità 183 L’arte della Guerrilla Research 188 Conclusioni193 L’openness messa a nudo 197 Introduzione197 La politica dell’openness 198 Problemi legati all’openness 204 Conclusioni214 Open education e resilienza 217 Introduzione217 Resilienza218 La Open University e i MOOC 221 Libertà d’azione 223 Resistenza225 Precarietà 227 Panarchia228 Cicli di adattamento 230 Livelli di coinvolgimento delle OER 233 Conclusioni236 Il futuro dell’Open 239 Introduzione239 Open Policy 241 La lezione del Learning Management System 243 Le sfide dell’istruzione 247 Il prezzo dell’openness 251 Il virus open 252 Conclusioni254 Bibliografia257 Accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013.Una postfazione ragionata, di Elena Giglia285 Le politiche in favore della scienza aperta 287 I dati FAIR e la European Open Science Cloud 291 I testi, e la lenta transizione all’accesso aperto 293 Ai tre pionieri della moderna open education: Stephen Downes, George Siemens e David Wiley Ringraziamenti dell’autore La discussione sulla filosofia open e sulle sue va- rie forme ha luogo in diversi contesti e con persone che hanno interessi diversi. Qui di seguito quelli che sono stati particolarmente influenti nel formare il mio pensiero sull’argomento, nel mandare feedback sui blog e nel discuterne sia online che di persona. Alla Open University, l’OER Research Hub team ha fornito gran parte della base di questo lavoro, quin- di un grazie va a Patrick McAndrew, Rob Farrow, Leigh-Anne Perryman, Bea de os Arcos, Beck Pitt, Claire Walker, Simone Arthur, Natalie Eggleston, Gary Elliott-Cirigottis e Martin Hawksey. Tra quelli nel Regno Unito che esercitano una certa influenza sulla maggior parte degli argomenti di questo libro ci sono David Kernohan, Sheila MacNeill, Richard Hall, Josie Fraser, Joss Winn, Doug Clow, Katy Jordan and Cristina Costa. Posso vantare un network di amici e colleghi che regolarmente mi fanno sentire inade- guato con i loro commenti su molti dei temi tratta- ti; questi includono Audrey Watters, Brian Lamb, Jim Groom, Bonnie Stewart, Dave Cormier, Laura Pasquini, George Veletsianos, Michael Feldstein, Phil Hill, Valerie Irvine, Mike Caulfield, Cable Green, Alan Levine, Catherine Cronin, Alec Couros and Wayne Mackintosh. Questo libro si basa in gran parte sul lavoro dell’O- ER Research Hub, che è stato finanziato dal gene- roso contributo della William and Flora Hewlett Foundation, e per questo li voglio ringraziare, in par- ticolare Kathy Nicholson, TJ Bliss e Barbara Chow. la battaglia per l’open Le opinioni qui espresse sono comunque personali e pertanto non devono essere interpretate come il pun- to di vista di nessuna organizzazione in particolare. 12 Prefazione all’edizione italiana Simone Aliprandi Era l’inizio del 2018 quando Andrea Mangiatordi, ex collega di dottorato e “compagno di avventure” in vari progetti accademici e divulgativi, mi ha segnalato questo libro. Da un po’ di tempo riflettevo sull’ipotesi di curare la traduzione di un libro che si occupasse dei miei temi e che fosse liberamente ripubblicabile per effetto di una licenza open. All’inizio rimasi un po’ freddo, perché il libro si occupava di open edu- cation e aveva quindi una vocazione un po’ diversa rispetto alla mia, più orientata agli aspetti giuridici dell’openness. Poi però iniziai a sfogliare l’opera di Weller apprezzandone la completezza e l’approccio; e presto mi trovai a pensare che tradurre quel libro sarebbe stato per me un buon modo per imparare qualcosa di nuovo e per ampliare il pubblico. Ne parlai a Nicola Cavalli di Ledizioni e anche lui si mostrò favorevole al progetto. Quindi iniziai a la- vorarci coinvolgendo anche Luna Guaschino per un supporto tecnico-linguistico sulla traduzione. L’idea, ammetto molto ingenua, era di concludere il lavoro nel giro di pochi mesi e di mandare presto in stampa l’opera. D’altronde l’edizione in lingua ingle- se risaliva già a quattro anni prima; e sappiamo tutti quanto le opere letterarie su questi argomenti sono soggette a una veloce obsolescenza. la battaglia per l’open Purtroppo, come spesso accade, le cose non vanno sempre lisce e i tempi si dilatano, ancora più quan- do si tratta di progetti avviati senza finanziamenti e portati avanti nei ritagli di tempo a margine di un’at- tività lavorativa di per sé sufficientemente complessa e densa. A ciò si aggiunga la proposta sopraggiunta nell’autunno del 2019 da parte dell’editore Apogeo di scrivere un nuovo libro (poi diventato “Software licensing & data governance” di recente pubblicazio- ne), nonché l’irruzione devastante e imprevedibile della pandemia COVID-19, definitivo colpo di grazia per gli equilibri delicati della pianificazione dei miei progetti. Quando finalmente ho trovato la serenità e il tempo per finire e revisionare la traduzione, mi sono pur- troppo reso conto di quanto alcuni passaggi del libro risultassero ormai obsoleti. Non tanto nella parte teorica e “filosofica”, che a mio avviso è pienamente valida e probabilmente rimane ancora oggi una del- le meglio riuscite; mi riferisco piuttosto alle parti in cui si riportano dati quantitativi e in cui si parla di fenomeni che all’epoca della stesura di Weller (2014) erano ancora in via di stabilizzazione e che oggi sono invece realtà consolidate se non addirittura superate. In effetti è una criticità prevedibile quando si met- tono le mani su libri così infarciti di concetti prove- nienti e strettamente connessi con l’ambito tecnolo- gico, per di più in un’epoca come questa in cui quasi ogni anno nasce una nuova tecnologia rivoluzionaria. E poi la pandemia… che dire?! Nessuno avrebbe mai potuto prevedere uno sconvolgimento simile per il mondo occidentale; nessuno avrebbe mai pensato che centinaia di milioni di persone sarebbero state forzate a stare chiuse in casa per interi mesi e a tra- 14 prefazione all’edizione italiana sferire buona parte delle loro attività dal mondo reale a quello virtuale della rete, comprese le attività di ap- prendimento, di studio, di insegnamento e di divul- gazione scientifica di cui tratta proprio questo libro. Indubbiamente Weller si troverebbe a rivedere molti passaggi dell’opera ora che, nel momento in cui sto scrivendo questa prefazione, la didattica a distanza o, come più propriamente viene chiamata, la didatti- ca digitale integrata non è più un’opzione, non è più un’alternativa, bensì è diventata la regola per molti moltissimi studenti e docenti. Dunque ho forse peccato di ingenuità quando mi sono messo a lavorare a questa traduzione, oppure semplicemente la fortuna non mi ha assistito molto a questo giro. Ad ogni modo, è così che a fine 2020 mi sono trovato nel dilemma di aver lavorato per mesi su una traduzione che da un lato era pronta per essere pubblicata dall’altro lato era una lettura che ad alcuni sarebbe parsa fuori dal tempo. Ecco che qui è diventato provvidenziale il supporto di Elena Giglia, con la quale ho già avuto modo di collaborare sia in alcune iniziative di formazione sia nella realizzazione del libro a più mani “Fare Open Access” del 2017. L’appendice di Elena permette di riallineare con le evoluzioni degli ultimi anni le ri- flessioni di Weller e gli studi da lui citati nel corso dell’opera. La traduzione La traduzione è stata mantenuta il più letterale possibile. In quei passaggi in cui la costruzione o la terminologia sono fortemente inglesi, dove quindi si 15 la battaglia per l’open è reso necessario qualche intervento o qualche preci- sazione, ho aggiunto una “nota del traduttore” a pie’ di pagina per maggior chiarezza. Lo stile di Weller è lineare e chiaro dunque in fase di versione all’italiano non sono stati necessari particolari “aggiustamenti” sulla struttura sintattica dei periodi e sulla costruzio- ne delle frasi. In generale ho comunque preferito mantenere mol- te espressioni in dizione inglese, ritenendo che siano ormai divenute di uso comune tra gli addetti ai lavori di questo settore e che risultino di maggior efficacia semantica proprio se non tradotte: si pensi ad esem- pio ad espressioni come “open education” a mio av- viso più efficace di “istruzione aperta” e come “open access” a mio avviso più noto e utilizzato dell’italiano “accesso aperto”. Trattandosi di un libro molto set- toriale, sono certo che nessuno dei lettori di questa versione italiana avrà problemi a comprendere questi termini. La bibliografia, che a mio avviso rappresenta una delle componenti più utili del libro anche in ottica storica e in prospettiva futura, è stata riprodotta pe- dissequamente. Essa va a completarsi e ad aggiornar- si con i riferimenti bibliografici riportati in nota da Elena Giglia nella sua postfazione. Simone Aliprandi (dicembre 2020) 16 CAPITOLO 1 La vittoria dell’open Mi ha fatto pensare che tutto stava per succedere – quel momento in cui capi- sci e in cui tutto è deciso per sempre. Jack Kerouac Introduzione L’openness in questo momento è ovunque nel set- tore dell’istruzione: alla fine del 2011 un corso gratu- ito in intelligenza artificiale contava più di 160.000 iscritti (Leckart 2012); nel 2012 il governo del Regno Unito seguì quanto già fatto da altri enti nazionali negli USA e in Canada e annunciò la regola per cui tutti gli articoli finanziati da fondi pubblici per la ri- cerca dovevano essere messi a disposizione in Open Access (Finch Group 2012); i download dal sito Apple iTunes U, che fornisce gratuitamente contenuti per la formazione, hanno superato il miliardo nel 2013 (Robertson 2013); la British Columbia annunciò nel 2012 una politica per la quale i testi dei 40 corsi più popolari sarebbero stati messi a disposizione in mo- dalità open e gratuitamente (Gilmore 2012); i leader del G8 hanno firmato un trattato sugli open data nel giugno 2013 stabilendo che tutti i dati governativi sa- rebbero stati rilasciati open automaticamente (Ufficio del Governo britannico 2013). A parte questi dati più evidenti ci sono poi cambiamenti fondamentali nella la battaglia per l’open pratica: gli accademici stanno già creando e rilascian- do i loro contenuti con strumenti come Slideshare o Youtube; i ricercatori condividono risultati in tempi ridotti usando approcci open e crowdsourcing; ogni giorno milioni di persone usano strumenti e risor- se gratuiti e disponibili online per imparare e per condividere. In effetti l’openness è oggi una parte così impor- tante della nostra quotidianità che sembra superfluo qualsiasi commento. Ma non è stato sempre così, o almeno non sembrava essere qualcosa di inevitabile o prevedibile. Alla fine degli anni ‘90, quando l’esplo- sione del dotcom prese piede, c’era molto scetticismo riguardo a quei modelli di business (per gran parte giustificato dopo il collasso) e lo stesso per la bolla del web 2.0 dieci anni dopo. Ma nonostante molti dei modelli di business non fossero sostenibili, i modelli tradizionali che prevedevano di pagare per i contenu- ti hanno mostrato di non interferire con l’espansione del nuovo dominio digitale. “Diffondere i contenuti” non è più un approccio da sottovalutare. In nessun altro contesto l’openness ha giocato un ruolo così rilevante come nel caso dell’istruzione. Molti dei pionieri dei movimenti open vengono dalle università. I ruoli chiave degli accademici sono tutti soggetti ad un radicale cambiamento sotto il modello open: dai Massive Open Online Courses (MOOCs) che sfidano i metodi di insegnamento ai repository di articoli in versione “pre-print” che minano il tradizio- nale sistema di divulgazione e rivisitano il modello di ricerca, la filosofia open tocca tutti gli aspetti dell’i- struzione superiore. L’openness ha una lunga storia in questo settore: si fonda sull’idea di altruismo e sulla convinzione 18 la vittoria dell’open che la formazione sia un bene pubblico, idea che nel tempo ha subìto molte interpretazioni e adattamen- ti, partendo da un modello che aveva come obiettivo principale il libero accesso allo studio e arrivando ad un modello che enfatizza invece contenuti e risorse disponibili in modalità open. Il cambiamento è stato in gran parte una conseguenza della rivoluzione digi- tale: i progressi in altri settori, come la produzione di software open source e l’introduzione di valori asso- ciati al libero accesso ad internet, insieme ad approc- ci open, hanno influenzato (e sono stati a loro volta influenzati da) professionisti nel campo dell’istruzio- ne superiore. Il decennio passato ha visto la crescita di un movimento globale che ha ottenuto fondi im- portanti da enti come la William and Flora Hewlett Foundation e da vari comitati di ricerca. Attivisti nell’ambito universitario hanno cercato di creare pro- grammi che consentano di rilasciare contenuti – dati, risorse didattiche e pubblicazioni – in modalità open; altri hanno invece adottato pratiche open che sfrutta- no social media e blog. Ciò è avvenuto sia in contem- poranea ad un lavoro sulle licenze open, soprattutto le Creative Commons che consentono un facile riuti- lizzo e adattamento dei contenuti, sia a livello politico con gruppi di pressione che chiedevano l’adozione a livello nazionale e locale di contenuti open e risorse condivise, sia con il miglioramento di tecnologie e infrastrutture che consentono all’open di essere allo stesso tempo facile e poco costoso. Ci si potrebbe allora aspettare che sia il momen- to buono per i sostenitori dell’openness per cantare vittoria. Dopo aver lottato così a lungo perché il loro messaggio fosse ascoltato, sono ora corteggiati da di- rigenti e manager per la loro esperienza e per il loro 19 la battaglia per l’open punto di vista sulle varie strategie open. Si parla di approcci open nei maggiori mass-media, milioni di persone stanno ampliando le loro conoscenze con risorse e corsi aperti. In poche parole sembra che l’openness abbia vinto. Eppure si trova a fatica qual- che traccia di celebrazione da parte di questi stessi primi sostenitori, che sono piuttosto sconfortati dalla reinterpretazione del concetto di open come “free” o “online”, che non fa cenno alle libertà di riutilizzo che avevano inizialmente immaginato. Sono preoccupati dalla crescita di interessi commerciali che usano l’o- penness come uno strumento di marketing e sono in dubbio sui vantaggi di alcuni modelli per i paesi in via di sviluppo o per studenti che hanno bisogno di supporto. In questo momento vittorioso sembra dunque che la narrazione sull’open sia stata usurpa- ta da altri, e che le conseguenze non possano essere molto open. Nel 2012 Gardner Campbell ha tenuto una presentazione alla Open Education Conference (Campbell 2012) in cui ha espresso preoccupazio- ni e frustrazioni: «Ciò a cui stiamo assistendo – ha dichiarato – sono sviluppi nell’istruzione superiore che sembrano soddisfare tutti i criteri che abbiamo stabilito per il settore: maggiore accessibilità, dimi- nuzione dei costi, tutti elementi che permetteranno l’accesso a più persone su scala planetaria, a un mi- liardo di studenti alla volta... Non è questo ciò a cui stavamo pensando?». Ma man mano che presentava i successi il suo ritornello era sempre quello di T.S. Eliot: non era per niente ciò che avevo immaginato. Perché dunque questa ambivalenza? Possiamo dire che sono solo mele marce? I sostenitori dell’open stanno recriminando il fatto che altri ora rivendichi- no l’openness? È solo un esercizio sull’interpreta- 20 la vittoria dell’open zione semantica che interessa una manciata di acca- demici o piuttosto è qualcosa di fondamentale, che riguarda la strada dell’openness e il modo in cui si sviluppa? È proprio questa ambivalenza tra la vittoria e allo stesso tempo l’ansia legata all’open che il libro intende esplorare. Istruzione superiore e openness Il focus di questo libro è principalmente sull’istru- zione superiore e il motivo principale è che questa è l’area in cui la battaglia per l’openness è più du- ramente combattuta. L’istruzione aperta e gratuita può essere intesa come una componente di un mo- vimento più ampio: c’è infatti una comunità molto attiva che si occupa di open data, che cerca di fare in modo che i dati – come quelli della pubblica ammi- nistrazione e quelli delle aziende – siano accessibi- li a tutti. Organizzazioni come la Open Knowledge Foundation (OKFN) considerano l’accesso ai dati come un elemento fondamentale per l’assunzione di responsabilità e impegno in una serie di funzioni pubbliche tra cui la politica, il commercio, l’energia, la sanità, e questo posiziona l’openness all’interno di forme di attivismo di cui l’istruzione è solo un aspet- to. Del resto la stessa Open Knowledge Foundation dichiara: «Vogliamo che il sapere aperto diventi un concetto mainstream, così naturale e importante nel- le nostre vite come lo è l’ecologia». Il focus sull’istruzione permette di analizzare nel dettaglio la battaglia per l’open attraverso quattro esempi, anche se molti di questi trovano poi punti in comune con un più ampio movimento che si batte 21 la battaglia per l’open per il libero accesso agli articoli pubblicati o per il rilascio dei dati della ricerca. A differenza di setto- ri che hanno subìto l’imposizione dell’open come il risultato della rivoluzione digitale però, – ad esem- pio l’industria musicale con l’arrivo di programmi di condivisione come Napster – l’istruzione superiore ha cercato di sviluppare pratiche aperte in una va- sta gamma di aree. Ed è proprio questo che la rende un’interessante materia di studio che include edi- toria, didattica, tecnologia, pratiche individuali, co- municazione ed engagement. C’è molto di rilevante anche per altri settori qui, dove saranno applicabili uno o più di questi argomenti, ma raramente l’intera gamma. Si è spesso detto che l’istruzione superiore può prendere lezioni da settori che sono stati toccati dalla rivoluzione digitale, come i giornali, ma potreb- be anche essere vero il contrario: sono gli altri settori a poter imparare molto da quanto accade nel dibattito sull’open nell’istruzione superiore. Quali sono dun- que le principali aree di interesse in questo ambito? Ciascuna di esse verrà esplorata in un capitolo de- dicato, ma i principali sviluppi sono riassunti qui di seguito. Insegnamento L’avvento dei MOOC sta raccogliendo un grande interesse. Sviluppati inizialmente come metodo spe- rimentale per esplorare le potenzialità di un insegna- mento basato sul networking, i MOOC sono diven- tati oggetto di attenzione da parte dei media e del mondo business a seguito dei grandi numeri fatti dal corso di Sebastian Thrun sull’Intelligenza Artificiale. Da allora la maggiore azienda che si occupa di tec- 22 la vittoria dell’open nologie didattiche è Coursera, con due turnazioni di fondi di venture capital e oltre 4 milioni di iscritti ai sui 400 corsi (Coursera 2013a). L’idea alla base dei MOOC è semplice: rendere i corsi online accessibili a tutti e tagliare sui costi del personale. Se questo modello sia economicamente sostenibile è ancora da discutere, dato che si trova nella sua fase iniziale, ma i media non si sono rispar- miati e alcuni osservatori sono arrivati a ipotizzare che i MOOC siano la naturale conseguenza dell’effet- to di internet sull’istruzione superiore. I MOOC sono solo un aspetto di come l’openness sta influenzando il settore. Prima dei MOOC infatti c’è stato (e c’è ancora) il movimento Open Educational Resources (OER), che è iniziato nel 2001 quando la fondazione Hewlett ha finanziato il MIT per dare vita al sito OpenCourseWare, che doveva rilasciare gratuitamente materiale didattico. Da allora il movi- mento OER si è diffuso a livello globale e ad oggi vi sono grandi iniziative in tutti i continenti in cui le OER sono parte integrante della strategia centrale di progetti formativi, tra cui UNESCO, la Shuttleworth Foundation, la William and Flora Hewlett Foundation e l’Higer Education Funding Council for England (HEFCE). La distinzione tra MOOC e OER può a volte essere sottile: per esempio se si raccolgono e mettono a disposizione insieme di risorse OER all’in- terno della struttura di un corso, questo le fa diven- tare un MOOC? E viceversa se un MOOC è condi- viso anche dopo la fine del corso diventa un OER? Uno degli obiettivi dell’OER è di creare libri di testo open, visto il loro costo sempre più proibitivo special- mente negli USA, che va ad influire negativamente sulla partecipazione all’istruzione superiore. Questi 23 la battaglia per l’open testi open vogliono rimpiazzare le versioni standard di testi introduttivi, che sono spesso proprietà delle case editrici, con versioni gratuite e online create da gruppi o da singoli autori. Il processo sta avendo un impatto significativo, tanto che ad esempio OpenStax mira alla fornitura di libri di testo online o stampati a basso costo a 10 milioni di studenti, e al momento conta più di 200 college nella sua rete con un rispar- mio previsto per gli studenti di 90 milioni di dollari nei prossimi cinque anni (OpenStax 2013). Ricerca La pubblicazione in Open Access sta crescendo in modo costante, non solo come un modello valido per diffondere pubblicazioni di ricerca, ma come il mi- gliore in assoluto. Invece di pubblicazioni accademi- che su riviste private, il cui accesso è acquistato dalle biblioteche o dagli utenti per singoli articoli, l’Open Access mette infatti le pubblicazioni a disposizione di tutti. Ci sono molti modi per farlo: la cosiddetta Green Road (“via verde”), in cui l’autore mette l’arti- colo sul proprio sito o sul repository delle istituzioni; la Golden Road (“via d’oro”) nella quale l’editore chie- de una quota per mettere l’articolo a disposizione in modalità open; ed infine la via Platinum quando la rivista opera gratuitamente. La pubblicazione in Open Access è forse l’aspetto più riconoscibile di come l’attività accademica si stia adattando alle opportunità offerte dalla tecnologia di- gitale e dalla rete. Altre pratiche formano quella che è definita la open scholarship (ricerca aperta) e inclu- dono la condivisione di risorse individuali come pre- sentazioni, podcast e bibliografie, social media enga- 24 la vittoria dell’open gement attraverso blog, twitter etc e pratiche gene- ralmente più aperte come la pubblicazione di bozze di capitoli di libri, ma anche revisioni e metodi di ri- cerca open. Gli ultimi possono anche includere l’uso di approcci come il crowdsourcing o la social media analysis, che basano il loro successo sull’openness. La open scholarship sta offrendo anche nuove strade per il public engagement; ora si vedono infatti acca- demici avere profili pubblici per comunicare online mentre questa attività prima avrebbe richiesto un in- termediario. Un aspetto della open scholarship sono poi gli open data, che permettono ai dati di progetti di ricerca di essere pubblicamente disponibili (quan- do non si tratti di dati personali o sensibili). Come accennato all’inizio del capitolo, durante il G8 è sta- to firmato un accordo secondo cui questa dovrebbe essere la modalità di default per i dati governativi, e molti finanziatori della ricerca impongono già simili vincoli. Per molti temi, come il cambiamento climati- co, questo permette la creazione di un più ampio ba- cino di dati e di meta-studi che vanno a migliorare la qualità complessiva dell’analisi; in altri campi invece permette occasioni di confronto, analisi e interpreta- zioni che sono imprevedibili e che possono andare al di là del dominio originario. Open Policy Molto del lavoro fatto sull’open licensing, in parti- colare quello di Creative Commons, è stato avviato o influenzato dall’istruzione superiore. Le licenze, agli occhi di molti, sono uno dei veri test per l’openness, dal momento che la possibilità di prendere e riutiliz- zare un prodotto è ciò che differenzia l’ “open” dal 25 la battaglia per l’open semplice “gratis”. Le licenze sono la strada principa- le attraverso la quale si possono realizzare iniziative basate su politiche più ampie: con l’adozione di una posizione precisa sulle licenze infatti governi, orga- nizzazioni no profit, finanziatori della ricerca, editori e società che si occupano di tecnologia creano un ter- reno sul quale l’openness si può sviluppare. Quindi la promozione dell’openness come approccio, sia pra- tico che etico, è stata una componente crescente del movimento open basato sull’istruzione superiore. Questa breve panoramica dovrebbe dimostrare come l’openness costituisca l’essenza di gran parte del cambiamento nell’istruzione superiore e come esista un’intensa attività di ricerca nell’area. Uno de- gli obiettivi di questo libro è proprio quello di mettere in evidenza e celebrare questa attività. È un bel pe- riodo per essere coinvolti nell’istruzione superiore: ci sono opportunità di cambiare la pratica in quasi tutti gli aspetti, e l’openness è un elemento chiave. Il suc- cesso dipende però in primo luogo dall’impegno nel cambiamento e in secondo luogo dal prendersi la re- sponsabilità sul cambiamento, senza permettere che entrambe le cose siano determinate da forze esterne, per titubanza o per il desiderio di semplificare gli ar- gomenti di discussione. Di seguito analizzeremo l’a- nalogia con il movimento green, per dimostrare che il valore dell’openness sarà compreso da tutti. Perché l’openness è importante Nei paragrafi precedenti spero di aver iniziato a con- vincervi che l’openness è stata un approccio per lo più vincente. E con vincente non voglio necessariamente 26 la vittoria dell’open dire che sia il primo pensiero di accademici o studen- ti, ma che un aspetto o un altro dell’open education va a toccare nella pratica sia chi vuole imparare sia chi insegna, che siano studenti ad usare risorse open a supporto dei loro corsi oppure accademici che pub- blicano articoli o monografie in Open Access. Senza dubbio c’è ancora molto che la open education può fare prima di influire su tutti gli aspetti della pratica, ma questo periodo segna il momento in cui l’istru- zione aperta ha smesso di essere di interesse perife- rico e specialistico e ha preso ad occupare un posto nella pratica accademica mainstream. Se ancora non sono riuscito a convincervi ne parlerò meglio nei ca- pitoli dal 3 al 7. Ora voglio discutere della sua impor- tanza e del perché dobbiate interessarvi ad argomenti legati all’openness. Ci sono due ragioni principali per le quali l’openness conta nel settore dell’istruzione: le opportunità e la sua funzione. Sotto “opportunità” ci sarebbero molte sottocatego- rie da elencare, ma mi concentrerò solo su un esem- pio per poi sviluppare l’argomento più avanti nel li- bro. Un’occasione significativa che l’openness offre è nell’ambito della didattica. In The Digital Scholar (Weller 2011) ho mostrato come le risorse digitali e internet stanno portando ad uno spostamento da una “didattica di scarsità” ad una di “abbondanza”. Molti dei modelli di insegnamento esistenti (le lezioni ad esempio) sono basati sul presupposto che ci debba es- sere un accesso limitato al sapere e alle risorse (moti- vo per il quale molti vanno in una stanza ad ascoltare un esperto parlare). La possibilità di trovare molti più contenuti online modifica questo presupposto. Una didattica dell’abbondanza si concentra infatti sul con- tenuto, che è un elemento importante ma non l’unico 27 la battaglia per l’open di un approccio. Forse sarebbe più opportuno parlare di didattica dell’openness: una didattica open fa uso di contenuti aperti come le open educational resour- ces, video, podcast, etc; ma dà anche importanza al network e a come l’allievo si relaziona all’interno di esso. Nell’analizzare la didattica alla base dei MOOC (anche se la didattica open non è solo quello), Paul Stacey (2013) fa le seguenti raccomandazioni: • Siate il più open possibile. Andate oltre le iscrizioni aperte e usate metodi didattici open che sfruttino tutto il web, non solo la specifica parte contenuta nella piattaforma MOOC. Usate le OER come stra- tegia e mettete una licenza open alle vostre risorse usando Creative Commons, in modo che sia pos- sibile il riutilizzo, la revisione, il remix e la ridistri- buzione. Progettate le vostre piattaforme MOOC con un software open source. Pubblicate i learning analytics data che avete raccolto come open data usando una licenza CC0. • Usate metodi didattici online moderni e testati, non metodi didattici da aula che sappiamo non es- sere adatti all’apprendimento online. • Usate metodi didattici peer-to-peer per l’autoap- prendimento. Sappiamo che questo migliora i ri- sultati e che il costo di attivazione di un network di peers è lo stesso di quello di un network di conte- nuti, essenzialmente zero. • Usate il social learning, che include blog, chat, fo- rum di discussione, wiki e lavori di gruppo. • Sfruttate la partecipazione di massa, con tutti gli studenti che contribuiscono con qualcosa che ag- giunge o migliora il corso nel suo insieme. 28 la vittoria dell’open Esempi di metodo didattico open includono il DS106 di Jim Groom, un corso open che stimola gli allievi a creare prodotti ogni giorno, suggerire compiti, inven- tare il proprio spazio online e diventare parte di una comunità che va oltre il corso, sia da un punto di vista geografico che temporale. Dave Cormier ogni anno inizia il suo corso in tecnologie per l’apprendimento invitando gli studenti a firmare un contratto che sta- bilisca quanto lavoro vuole fare ognuno e per quale votazione. Lavori individuali sono valutati come “sod- disfacente” o “insoddisfacente” una volta completati (Cormier 2013). In corsi come Octel (http://octel.alt. ac.uk) gli allievi creano il proprio blog, che diventa il luogo dove lavorano, con vari contributi poi aggregati in un unico blog centrale. Tutto in modalità open. Ciò non vuol dire che questi esempi debbano essere la norma e debbano essere adottati da tutti gli altri. Sono esempi fatti su misura per particolari contesti e argomenti. Il punto chiave qui è che l’openness è la pietra miliare e la filosofia che sta alla base di questi corsi: è presente nella tecnologia adottata, nelle risor- se citate, nelle attività che gli studenti intraprendono e negli approcci di insegnamento. Il tutto è reso poi possibile dal fatto che il concetto di apertura va a toc- care aree diverse: le risorse devono essere disponibili, la tecnologia deve essere free, gli studenti hanno bi- sogno di essere preparati a lavorare in questo ambito e le università devono accettare i nuovi modi di ope- rare. Vorrei suggerire che siamo solo all’inizio dell’e- splorazione di modelli di insegnamento e apprendi- mento che hanno come base la mentalità open. È in- teressante notare che molti di questi sperimentatori in didattica aperta sono persone che fanno già parte del movimento. Si potrebbe pensare che siano stati 29 la battaglia per l’open “intaccati” dalla mentalità aperta e che vogliano ap- plicarla ovunque possibile. È questa opportunità di esplorare che è importan- te nell’istruzione superiore, se si vuole innovare e se si vogliono sfruttare al meglio le possibilità che l’o- penness offre. Un pre-requisito è l’engagement con la open education, sia che si parli di tecnologia, che di risorse, che di didattica. Uno dei pericoli dell’o- penness in outsourcing infatti è che appoggiandosi a venditori terzi per le piattaforme MOOC, oppure affidandosi ad editori per la creazione del contenuto, si restringa il raggio di sperimentazione. La soluzio- ne preconfezionata in questo modo diventa non solo il metodo accettato ma l’unico riconosciuto. Ci sono già esempi: Georgia Tech ha annunciato una colla- borazione con la società MOOC Udacity per offrire un master online. Come nota Christopher Newfield (2013) facendo un’analisi del contratto, Udacity ha una relazione esclusiva per la quale la Georgia Tech non può offrire il suo contenuto da altre parti. Udacity può invece offrire lo stesso contenuto ad altri studen- ti al di fuori del programma. Newfield sostiene che mentre cercano di recuperare i costi, «i grandi rispar- mi ironicamente vengono dal comprimere l’innova- zione – i compensi ai creatori dei corsi si abbassano – e dallo sfruttare l’overhead». Anche se accettiamo di guardare meno cinicamen- te questo accordo, il modello di compagnie come Udacity, Coursera e Pearson è quello di creare un brand globale diventando uno dei pochi fornitori. A loro non interessa la diversificazione del mercato e quindi il modello su come creare dei MOOC o su come rilasciare delle risorse online diventa limitato, sia per accordi contrattuali o semplicemente per la 30 la vittoria dell’open presenza di soluzioni preconfezionate che impedi- scono un’ulteriore esplorazione. Questo stesso messaggio sulla possibilità di spe- rimentazione si può applicare a tutte le funzioni in università: la ricerca, il public engagement, la crea- zione di risorse. In ciascuna di queste aree la possi- bilità di combinare elementi open e fare uso di un ambiente digitale in rete permettono la creazione di nuove opportunità, che però per trovare la loro piena realizzazione richiedono un impegno attivo sull’in- novazione portato avanti dalle enti di istruzione e da- gli accademici più che da fornitori esterni. E ora passiamo al secondo motivo per cui l’openness è importante, e cioè la “funzione”, o il ruolo dell’uni- versità. Le università si possono considerare come un raggruppamento di diverse funzioni: ricerca, inse- gnamento, public engagement, orientamenti politici e incubatori di idee e business. In tempi di ristrettez- ze economiche ogni aspetto della società è esaminato in base a quanto contribuisce in relazione a quan- to costa, e l’istruzione superiore non fa eccezione. Sempre più la narrazione è quella di un’operazione di investimento diretta – gli studenti pagano una tas- sa e in cambio ricevono un’istruzione che permetterà loro di guadagnare di più nella vita (Buchanan 2013). Anche se questa è certamente una prospettiva difen- dibile e logica, ignora o ridimensiona l’importanza di altri contributi: gli approcci open alla diffusione della ricerca, alla condivisione di materiale didattico, all’ac- cesso online a conferenze e seminari aiutano infatti a rafforzare un concetto più ampio di cosa servano le università. Non c’è niente di nuovo: la mia università, la Open University (OU) è tenuta in grande conside- razione nel Regno Unito anche da quelli che non ci 31 la battaglia per l’open hanno mai studiato forse per la sua collaborazione con la BBC nel creare programmi didattici, che sono di fatto primi tentativi di risorse per la open education. Forse la collaborazione dell’OU con la famosa emit- tente televisiva la mette in una posizione privilegiata. Gli approcci open consentono a tutte le istituzioni di adottare parti del metodo a costo relativamente basso. Ad esempio la università di Glamorgan (ora University of South Wales) ha creato il proprio sito iTunesU ad un costo basso e ha generato più di 1 mi- lione di download nei primi 18 mesi (Richards 2010). Sempre più quindi assistiamo ad una openness che contribuisce a formare l’identità non solo di una uni- versità in particolare, ma dell’istruzione superiore nel suo complesso e del suo relazionarsi con la società. Concludo con un breve esempio che mette insieme molte delle componenti dell’openness. Katy Jordan è un PhD alla OU e si occupa di network accademici su siti come Academia.edu. Su iniziativa personale ha studiato una serie di MOOC che integrano la ricerca offerta in università e uno di questi era un MOOC in- fografico fornito dall’università del Texas. Per il pro- getto di visualizzazione finale ha deciso di tracciare i dati di completamento su un grafico interattivo e ha bloggato i risultati (Jordan 2013). Questi dati sono stati ripresi da un famoso blogger che l’ha definito il primo tentativo di raccogliere e compilare dati riguar- do ai MOOC, e a sua volta lo ha twittato. I dati relativi al completamento dei MOOC sono in generale ogget- to di grande interesse e il post di Katy è diventato vi- rale, diventando di fatto il pezzo a cui linkare sull’ar- gomento e a cui quasi ogni MOOC fa riferimento. Questo come conseguenza ha portato a maggiori fondi da parte della MOOC Research Initiative e a 32 la vittoria dell’open varie pubblicazioni. E tutto dopo un post in un blog. Un piccolo esempio che prova come la diffusione dell’openness prende varie forme e ha impatti ina- spettati. Il corso aveva bisogno di essere open per- ché Katy potesse accedervi; le è stato possibile con- dividere i risultati come parte della sua pratica open. L’infografica e il blog si basano su un open software e sfruttano dati sul tasso di completamento dei MOOC che qualcuno ha messo a disposizione e il format stesso del lavoro di Katy permette ad altri di valuta- re i dati e di suggerire nuovi elementi. Infine l’open network diffonde il messaggio perché è ad accesso aperto e può essere linkato e letto da tutti. È difficile prevedere o innescare questi meccanismi, ma un ap- proccio chiuso in qualche punto della catena li avreb- be bloccati. È proprio nel replicare esempi come que- sto nell’istruzione superiore che si trova il vero valore dell’openness. È davvero una battaglia? Dopo aver cercato in qualche modo di convincer- vi della vittoria dell’openness e del motivo per cui le future direzioni che prenderà sono importanti, vo- glio ora chiarire perché ho usato il termine “batta- glia” e perché lo vedo come un momento di conflitto. Immagino che alcuni lettori saranno a disagio con un termine militaristico, ma l’ho usato intenzional- mente per mettere in evidenza fattori significativi dell’openness. In primo luogo c’è davvero un dibattito molto acceso sulla direzione che l’openness prende. Lo esaminere- mo meglio nel corso del libro ma per molti dei suoi 33 la battaglia per l’open sostenitori l’attributo fondamentale riguarda la liber- tà – degli individui ad avere accesso al contenuto, di riutilizzarlo come meglio credono, di sviluppare nuo- vi metodi di lavoro e di sfruttare le opportunità offerte dal mondo digitale e in rete. Un’interpretazione più commerciale vede invece l’openness come una tatti- ca iniziale per guadagnare utenti su una piattaforma privata o per avere accesso a fondi governativi. Alcuni dunque vedono i nuovi provider come usurpatori dei provider esistenti nell’istruzione superiore, come quando Sebastian Thrun predice che in futuro ci sa- ranno solo dieci provider globali nel campo dell’istru- zione (e spera che la sua compagnia, Udacity, sia uno di questi) (The Economist 2012). Non è dunque un cortese dibattito sulle definizio- ni: ci saranno reali conseguenze per l’istruzione e per la società in generale a seconda di chi vincerà la battaglia per l’openness. E questo ci porta al secondo fattore per la scelta del termine: come nelle vere bat- taglie ciò che ha valore viene più duramente conteso. La spesa media cumulativa per studente nei paesi OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) per gli studi terziari è di 57.774 dollari statunitensi (OECD 213) e l’intero mercato dell’istru- zione è stato stimato sui 5-6 miliardi di dollari statu- nitensi (Shapiro 2013). Nelle pubblicazioni accademiche Reed Elsevier ha registrato ricavi per più di 6 milioni di sterline nel 2012, di cui più di 2 milioni per pubblicazioni di scienza tecnologia e medicina (Reed Elsevier 2012), mentre Springer ha registrato vendite di 875 milio- ni di sterline nel 2011 (Springer 2011). Sono grandi mercati e la domanda sull’istruzione non sta per spa- 34 la vittoria dell’open rire, quindi rappresenta aree di business allettanti in tempi di recessione globale. La mia terza ed ultima giustificazione per aver usa- to il termine “battaglia” è che come il grande bottino spetta al vincitore, allo stesso modo anche la frase sui vincitori che scrivono la storia è pertinente. È in cor- so un contenzioso sulla narrazione riguardo all’open- ness. Un esempio si può trovare nel capitolo 6, dove andremo ad analizzare il meme ricorrente “l’istruzio- ne è malata” e dove esploreremo il discorso che fa la Silicon Valley a riguardo. Entrambe queste posizioni cercano di intendere l’istruzione superiore come un semplice settore di contenuti, come il business della musica, e quindi propongono una soluzione semplice e tecnologica a quello che viene visto come un sistema apparentemente compromesso. Questa narrazione è spesso accettata come indiscussa e ignora deliberata- mente il ruolo che l’istruzione superiore ha avuto in molti dei cambiamenti che ci sono stati (giustifican- doli come forze esterne che sono intervenute) o sem- plificando le funzioni stesse dell’istruzione superiore. Il termine “battaglia” sembra quindi appropriato a definire questi tre temi: conflitto, valore e narrazio- ne. Dopo un’iniziale vittoria dell’openness affron- tiamo ora il passaggio chiave nella battaglia a lungo termine. Non si tratta semplicemente di utilizzare un pezzo di tecnologia o un altro: l’openness sta al centro dell’istruzione superiore del XXI secolo. Nella sua migliore interpretazione è il mezzo attraverso il quale l’istruzione superiore diventa importante per una società nel momento stesso in cui apre il suo sapere e permette l’accesso ai suoi servizi, fornisce gli strumenti con cui l’istruzione superiore si adatta al nuovo contesto del mondo digitale. Nella sua peg- 35 la battaglia per l’open giore definizione invece, l’openness è la strada con la quale il commercio fondamentalmente danneggia il sistema fino al punto in cui esso viene indebolito senza possibilità di recupero. Spero in questo libro di sostenere la causa che vede la battaglia per l’open come quella per il futuro dell’istruzione. Lezioni da altri settori Possiamo cominciare a fare capire perché la cele- brazione della vittoria dell’openness è stata ammu- tolita con due brevi analogie. La prima è quella con quasi tutte le rivoluzioni e con le loro immediate con- seguenze. La rivoluzione francese del 1789 ha visto il sollevarsi di un innegabile movimento forte, mirato a rovesciare le ingiustizie imposte dalla monarchia, ma nel decennio successivo ci sono state numerose tensioni tra fazioni opposte, una dittatura e il Regno del Terrore che è culminato con la salita al potere di Napoleone. Quindi anche se i risultati a lungo ter- mine della rivoluzione sono stati positivi, nel corso del decennio successivo e più ancora dopo l’inizio del 1789, i cittadini francesi la dovevano pensare molto diversamente. Durante il governo di Robespierre e dei Giacobini non è chiaro infatti se si stesse meglio rispetto al vecchio regime. E si sentono simili os- servazioni anche dopo rivoluzioni più recenti – per esempio i russi che dicono che si stava meglio sotto Stalin o gli abitanti della Germania dell’Est che ricor- dano con nostalgia il regime comunista (Bonstein 2009). Un esempio più recente è quello delle pri- mavere arabe, che dopo due anni hanno lasciato pro- fonde divisioni in molti paesi, con il peggioramento 36 la vittoria dell’open delle condizioni economiche e con continui e violenti scontri. Molti di quelli che vivono uno stato post-ri- voluzionario sarebbero d’accordo nel dire che questa non è una vittoria. Molti gruppi poi hanno tutto l’in- teresse a sfruttare l’incertezza che la rivoluzione crea, le vecchie strutture di potere non spariscono senza fare rumore, le pressioni di quotidiane preoccupazio- ni portano a lotte intestine tra chi in precedenza era alleato e così via. È complicato, confuso e decisamen- te umano. Un modo di vedere queste rivoluzioni nazionali è considerare che le lotte post-rivoluzionarie sono l’i- nevitabile sacrificio che porta una democrazia in cre- scita, ma che la direzione generale è comunque verso la libertà. Viste infatti in una prospettiva storica sono completamente prevedibili per la natura stessa del cambiamento. Ciò rimanda ad una seconda più ge- nerale lezione e cioè che è in questi periodi di trasfor- mazione, dopo un’iniziale vittoria, che si determina il successo a lungo termine. Una seconda analogia è con il movimento green, che una volta era periferico e oggetto di attenzioni solo da parte degli hippies, ma che ora è centrale nel dibattito all’interno della società. I prodotti gre- en sono pubblicizzati, il riciclo è diventato pratica comune, le fonti alternative di energia sono venute ad essere parte di un piano energetico nazionale e ciascun partito politico deve tenere conto di attività ecosostenibili. L’impatto sull’ambiente di ogni gran- de decisione è ora in agenda, anche se non sempre la priorità. Visto da una prospettiva anni ‘50 è un progresso radicale, la vittoria del messaggio eco, ep- pure per molti nel movimento non sembra affatto una conquista. Lo sforzo globale per mettere in atto accordi significativi sulle emissioni di carbone e le 37 la battaglia per l’open complesse politiche per trasformare questi accordi in interessi davvero mondiali e a lungo termine – da locali e a breve termine – ha reso infatti il messaggio “green” vittima del suo stesso successo. È penetrato così bene nella narrazione mainstream che ora è un valore commerciabile. Il fatto che lo sia è certamen- te necessario per avere un impatto concreto a livello individuale, per esempio sull’acquisto di macchine, lampadine, cibo, vestiti, viaggi. Ma ovviamente è sta- to anche sfruttato da aziende che lo usano come un mezzo per commercializzare i loro prodotti. Molti at- tivisti negli anni 70 non avrebbero mai previsto che il nucleare avrebbe trovato un rinnovato interesse nella promozione delle sue qualità verdi (ad esem- pio contro la diossina del carbone) e a prescindere da cosa si pensi sul nucleare, possiamo probabil- mente assumere che migliorare la sua reputazione non era certo una delle cose più auspicabili per loro. Nel 2010 negli Stati Uniti gli assets dove le perfor- mance ambientali erano una componente principa- le sono stati valutati a 30,7 mila miliardi di dollari statunitensi, rispetto ai 639 miliardi di dollari sta- tunitensi del 1995 (Delmas&Burbano 2011). Being green fa decisamente parte del grande business. La conseguenza sono aziende che chiamano i loro pro- dotti verdi su basi piuttosto pretestuose; il “fat-free” o “dietetico” nei prodotti alimentari, “eco-friendly” o “naturale” o “verde” in altri prodotti significa che spesso nascondono altri peccati o sono di dubbia promozione. È un processo chiamato greenwashing: per esempio l’airbus A380 a quanto si dice produce il 17% in meno di emissioni rispetto ad un Boeing 747, che va benissimo, ma promuoverlo come eco-friendly mi sembra un po’ forzata come defini- 38 la vittoria dell’open zione. Allo stesso modo la serie di annunci green di BP per promuovere il suo messaggio “oltre il pe- trolio” fornisce un buon esempio di come il mes- saggio eco possa essere adottato da compagnie che per la loro stessa natura sono in contrasto con esso. L’agenzia di marketing ambientale Terra Choice, ha individuato i “sette peccati del greenwashing” (Terra Choice 2010), con analogie che possiamo vedere nel- la vita di tutti i giorni: 1. Peccato del trade-off nascosto – quando un nume- ro estremamente limitato di attributi è usato per rivendicare l’ecosostenibilità, senza attenzione ad altri importanti problemi ambientali. 2. Peccato dell’assenza di prove – quando la pretesa di ecosostenibilità non è supportata da informa- zioni facilmente accessibili. 3. Peccato di genericità – definizione vaghe e generi- che che portano il consumatore a confonderne il significato. 4. Peccato di irrilevanza – una definizione che è vera ma non importante o di poco aiuto. 5. Peccato del diavolo minore – definizioni che pos- sono essere vere all’interno della categoria di pro- dotto ma che rischiano di distrarre il consumatore dall’impatto ambientale della categoria nel suo complesso. 6. Peccato del raccontare frottole – dare definizioni completamente false. 7. Peccato dell’adorazione di false etichette – quando un prodotto, con parole o immagini, dà l’impres- sione di un’approvazione da parte di terzi che in realtà non esiste. 39 la battaglia per l’open Nel mondo IT la somiglianza tra il greenwashing e le rivendicazioni di openness ha portato a coniare il termine openwashing. Klint Finley (2011) lo spiega così: Il vecchio dibattito “open vs proprietario” è finito e l’o- pen ha vinto. Poiché l’infrastruttura IT si sposta verso il cloud, l’openness non è solo una priorità per il codice sorgente ma per gli standard e per l’API. Quasi tutti i commercianti nel mercato IT vogliono piazzare i loro prodotti come open. Quelli che non hanno un prodot- to open source invece dicono di avere un prodotto che usa “standard open” o “open API”. Se da un lato le aziende cercano di accreditarsi come open, vediamo applicazioni del termine anche nel settore dell’istruzione, con un simile cinismo (Wiley 2011a). Come per “green” anche per “open” ci sono una serie di connotazioni positive – e dopotutto chi si metterebbe a discutere sul fatto che è impor- tante essere invece “chiusi”? La cooptazione commer- ciale del termine green ci porta poi alla terza lezione da applicare al movimento open: la definizione del termine sarà in qualche modo piegata a un vantag- gio commerciale. Vedremo questo openwashing più avanti nel libro, in particolare riguardo ai MOOC. Queste due analogie ci forniscono tre lezioni che in- contreremo spesso man mano che esploreremo di- verse aree dell’open education. La mia interpretazio- ne di ciò che queste analogie offrono è la seguente: 1) la vittoria è più complessa del previsto; 2) la direzione futura è modellata dalle lotte più pro- saiche che vengono dopo la vittoria iniziale; 3) non appena un termine viene accettato come main- stream allora se ne fa un uso commerciale. 40 la vittoria dell’open Se si osservano queste affermazioni da un punto di vista della open education, non è difficile concludere che l’openness ha avuto la meglio. La vittoria potreb- be non essere assoluta, ma il trend va in quella dire- zione – sembra impossibile che torniamo a sistemi chiusi in accademia così come lo sarebbe ritornare ai venditori porta a porta dell’enciclopedia britannica. Che si tratti di pubblicazioni Open Access, di open data, di MOOC, di OER, di software open source o di open scholarship, il messaggio dell’openness è stato unanimamente accettato come un messaggio valido (che non vuol dire comunque che deve essere l’unico approccio). Tempo di gioire, si potrebbe pensare, ma ovviamente come la prima lezione ci dimostra, non è mai così semplice. Quando infatti si trattava di “aper- to vs chiuso” c’era una distinzione chiara: la apertura andava bene, la chiusura no. Non appena però si è cantata vittoria non ci è voluto molto a capire che la faccenda era diventata più complessa. È nella natura della vittoria in fondo, e così è per l’openness – non dovremmo vederla come un’opportunità mancata o romanticizzare un breve periodo in cui c’è stata una Camelot ora depredata. La direzione generale è posi- tiva, ma questo si porta dietro maggiore complessità. La seconda lezione mette in luce invece che rimpiaz- ziamo la dicotomia open vs closed con una serie di dibattiti più variegati e con sfumature che possono sembrare meno specialistiche. Ad esempio: 1) i differenti approcci alla didattica MOOC, chiamati xMOOC o cMOOC (ne parleremo nel capitolo 5); 2) la varietà di licenze come la più aperta Creative Commons CC-BY versus la CC-NC che restringe gli usi commerciali; 41 la battaglia per l’open 3) le diverse strade per l’Open Access, dalla Gold alla Green; 4) le diverse opzioni tecnologiche, ad esempio le piat- taforme MOOC vs un mix di servizi forniti da terzi. Ma è proprio attraverso questi dibattiti minori che si viene a formare il quadro generale, ed è la costru- zione di questo quadro generale che il resto del libro cercherà di riportare. Conclusioni La natura della vittoria dell’openness e le lotte suc- cessive possono essere spiegate con un esempio che riguarda il settore in cui la battaglia è forse più aspra, e cioè la pubblicazione Open Access. La esplorere- mo in dettaglio nel capitolo 3, ma un’anticipazione qui può essere utile per introdurre il tema di questo capitolo. Il modello convenzionale di pubblicazione uni- versitaria di norma vede gli accademici presentare, rivedere ed editare i loro scritti in modo gratuito, per poi darli ad editori privati che li vendono alle biblioteche in formato di raccolte. La maggior par- te dei fondi per la ricerca che sta alla base di que- sti articoli e del tempo speso per produrli sono soldi pubblici, da qui la richiesta nell’ultimo decennio di renderli pubblicamente accessibili. Questa è diven- tata ormai la prassi per molti dei finanziatori della ricerca, e anche molti governi hanno adottato politi- che Open Access a livello nazionale che stabiliscono che i risultati di studi finanziati con fondi pubblici siano messi a disposizione di tutti. Poi la pratica si è 42 la vittoria dell’open estesa a dati utili per la ricerca e alle pubblicazioni. La pubblicazione in Open Access è ad oggi la nor- ma per molti professori universitari e non solo per coloro che potrebbero essere considerati come i pri- mi sostenitori: un’indagine portata avanti da Wiley sui suoi autori ha scoperto che il 59% di loro ave- va pubblicato su riviste Open Access (Warne, 2013). In Gran Bretagna il report Finch del 2012 (Finch Group 2012) ha raccomandato che «ci sia una chia- ra politica a supporto delle pubblicazioni in Open Access o su riviste ibride, finanziata da APC, come metodo privilegiato di divulgazione della ricerca spe- cialmente quando si tratta di fondi pubblici». APC sta per Article Process Charges: così è spesso chiamata la Gold road per l’Open Access, in cui gli autori (o più spesso i finanziatori della ricerca) pagano gli edi- tori per mettere in Open Access un loro articolo. Ed è opposta alla Green road, in cui ci si autopubblica, o a alla Platinum road, cioè riviste dove non c’è l’APC. Quello che possiamo vedere qui è un iniziale trion- fo dell’openness: l’Open Access si è mosso dalla pe- riferia al mainstream ed è diventato il metodo consi- gliato per pubblicare articoli di ricerca, ma allo stes- so tempo il conflitto sulla realizzazione è evidente, così come lo sono le deviazioni dalle ambizioni open originarie. Il report Finch è stato criticato per aver cerca- to di proteggere gli interessi commerciali degli editori, e per non aver promosso l’uso di metodi come il Green o il Platinum Open Access (Harnad 2012). Inoltre il modello pay-to-publish ha visto la crescita di un numero di giornali di dubbia natura Open Access, che usano l’openwashing come mez- zo per fare profitti ignorando la qualità degli arti- 43 la battaglia per l’open coli. Bohannon (2013) riferisce di un falso artico- lo che è stato accettato da 157 riviste Open Access, e ciò dimostra come il modello pay-to-publish crei uno stress differente sui filtri per la pubblicazione. Le tensioni nel mondo delle pubblicazioni Open Access sono rappresentative di quelle presenti in tut- ti gli aspetti dell’openness nell’istruzione: i detentori hanno il legittimo diritto a mantenere lo status quo; girano somme di denaro importanti; l’approccio open permette l’ingresso di nuovi operatori nel mercato; l’etichetta open diventa uno strumento di marketing; ci sono tensioni per mantenere le parti migliori della pratica attuale non appena ci si sposta verso nuove pratiche. A guidare il tutto è la convinzione che il modello open sia l’approccio migliore, sia in termi- ni di accesso che di innovazione. La Public Library of Science (PloS) per esempio ha interpretato l’Open Access come un mezzo per accedere gratuitamente al contenuto, ma ha anche usato l’approccio open per ripensare il processo di peer review e il tipo di articoli che si pubblicano, come il PloS Currents, che forni- sce una rapida peer review su temi specifici (http:// currents.plos.org/). Il libro Questo libro è prima di tutto indirizzato a coloro che lavorano nell’ambito dell’istruzione superiore e che hanno un interesse per la open education. Non richiede che si abbia una conoscenza specialistica della open education o delle tecnologie educational. L’obiettivo è piuttosto quello di stabilire il modo in cui l’openness è diventata un approccio di successo, 44 la vittoria dell’open ma soprattutto di rivelare le tensioni all’interno di ciascuna area. Alla fine del libro spero vi avrò convin- ti che la direzione futura dell’openness è importante per tutti coloro che si muovono nell’ambito dell’istru- zione superiore. Il capitolo 2 indaga nel dettaglio la natura dell’open- ness nell’ambito formativo e in particolare le influen- ze significative che l’hanno formata. I successivi cin- que capitoli esaminano la risposta dell’istruzione su- periore all’openness in quattro aree chiave, che sono la pubblicazione Open Access, le open educational resources, i MOOC e la open scholarship. Dato che la battaglia sulla narrazione è rappresentata al meglio dai MOOC, il capitolo 6 fa una breve digressione per parlare di questo. In ognuno dei capitoli sarà ulte- riormente esaminato lo scopo del libro. Innanzitutto parlando della storia del successo dell’openness in quell’area, e il libro è tanto una celebrazione del mo- vimento open education quanto una critica sulle at- tuali tensioni. Poi si parlerà delle aree chiave in cui c’è tensione, i campi di battaglia. Infine si proporranno future direzioni. In questo modo spero di ribadire i temi della vittoria dell’openness, del suo significato e delle tensioni che sono stati messi in luce in questo capitolo. Il capitolo 8 prende una posizione più critica sui problemi legati all’openness e il capitolo 9 propo- ne la resilienza come una narrazione alternativa per considerare il cambiamento nell’istruzione superio- re. Infine nel capitolo 10 si proporranno alcuni mezzi per inquadrare la direzione future dell’openness. 45 CAPITOLO 2 Che tipo di openness? Cosa succederebbe se di fatto ci fossero sempre solo due individui distinti che passeggiano nella bruma della storia? Ogni differenza deriverebbe da quella dualità? David Foster Wallace Introduzione Avendo parlato dell’argomento generale del libro nel precedente capitolo, in questo si entrerà più in dettaglio nel concetto di open in relazione all’istru- zione, stabilendo delle motivazioni per l’approccio open, e accennando a qualche dato storico rilevante nello sviluppo della open education. Ciò aiuterà a comprendere i successivi cinque capitoli, ciascuno dei quali coglierà un particolare esempio della open education. Nel capitolo precedente si è messo in evidenza il consenso sull’approccio open nell’ambito dell’istru- zione. Si potrebbe anche solo considerare la varietà con cui il termine è stato usato per dimostrarlo: cor- si open, didattica open, open educational resources, Open Access, open data, open scholarship – sem- bra che ogni aspetto della pratica dell’istruzione sia oggi soggetto all’essere open. Lavoro per la Open University nel Regno Unito e spesso commento che, la battaglia per l’open se si dovesse fondare oggi un’università, questo sa- rebbe il nome ideale; certamente una definizione in- vecchiata meglio rispetto ad alternative suggerite al suo inizio, che includono “the University of the Air” (letteralmente, l’Università dell’Aria). Gli esempi di openness presentati possono essere visti come le più recenti interpretazioni dell’approc- cio applicato all’istruzione, forme che non sono sorte dal nulla, ma che fondano le loro radici in più di un interesse storico per il dibattito. In questo capitolo esplorerò la storia dell’openness nell’istruzione con lo scopo di gettare le basi per i successivi capitoli, che ne esamineranno poi particolari aspetti più in dettaglio. Evitare di dare definizioni Prima di prendere una prospettiva storica, comun- que, è bene capire cosa si intende per openness. È un termine che nasconde una serie di interpretazioni e motivazioni che sono la sua benedizione e allo stesso tempo la sua maledizione. È un termine abbastan- za generico da poter essere usato in più contesti, ma anche sufficientemente vago perché ognuno possa farne riferimento, rendendolo così inutile. Una so- luzione potrebbe essere adottarne una definizione specifica. Per esempio possiamo dire che qualcosa è open solo se conforme alle quattro R di David Wiley (2007a)1: 1. Reuse – il diritto di riutilizzare il contenuto nella sua versione inalterata/letterale (es. fare un backup del contenuto) 1 Si veda https://opencontent.org/blog/archives/355. 48 che tipo di openness 2. Revise – il diritto di adattare, modificare, aggiu- stare o alterare il contenuto stesso (es. tradurre il contenuto in un’altra lingua) 3. Remix – il diritto di combinare il contenuto ori- ginale o rivisto con un altro contenuto per crear- ne qualcosa di nuovo (es. incorporare il contenuto dentro un altro) 4. Redistribute – il diritto di condividere copie dell’o- riginale, le proprie revisioni/remix con altri (es. dare una copia del contenuto ad un amico) Widley nel 2014 aveva aggiunto la quinta R di Retain (cioè il diritto di produrre, possedere e controllare copie del contenuto) (Widley, 2014). Questa prospet- tiva propone il riutilizzo e quindi il licencing come attributo chiave dell’openness. La Open Knowledge Foundation propone una definizione molto precisa di openness proprio perché preoccupati di un suo uso sbagliato. La loro definizione è: “Un pezzo di dati o di contenuto è open nel momento in cui si può li- beramente utilizzare, riutilizzare e ridistribuire con la sola limitazione di attribuzione o di share-alike”. Ciascuno dei termini chiave è anche descritto in det- taglio (OKF senza data). Nonostante il Reuse sia certamente importante, esso potrebbe ignorare alcune interpretazioni più ampie del termine, per esempio se è un aspetto im- portante della didattica open, è vero anche che fa rife- rimento ad una certa openness nell’approccio, ad un ethos. Un focus principalmente sul riutilizzo porta ad una visione contenuto-centrica e l’openness riguarda anche la pratica. Lo stesso vale per ogni definizione circoscritta di “openness” che possiamo adottare. In questo libro perciò io accetterò come dato di fatto che 49 la battaglia per l’open sia un termine generico, con una serie di definizioni che dipendono dal contesto. Come sostengo nel ca- pitolo 8, non è mia intenzione creare un’ortodossia rigorosa dell’essere open, o esporre imbrogli legati all’open, ma incoraggiare un coinvolgimento sulle pratiche open da parte di accademici e di istituzioni. Quindi se rifiutiamo una qualsiasi definizione di openness, qual è il modo migliore per affrontare l’ar- gomento? Probabilmente è un errore il fatto stesso di parlarne come se fosse un approccio univoco; al con- trario, è un “termine ombrello”. Ci può essere stato un tempo in cui il significato era più certo, in parti- colare agli albori del movimento dell’open education. Per proseguire con la metafora della battaglia del ca- pitolo 1, all’inizio si trattava semplicemente di mette- re l’open contro il closed, ma man mano che le argo- mentazioni si sono sviluppate allora i termini sono diventati più sfumati. Non solo ci sono diversi aspetti dell’openness, ma può anche accadere che alcuni di questi ne escludano altri, o almeno che dare la prio- rità ad alcuni significhi toglierla ad altri. Un modo di approcciarsi è considerare le motivazioni per cui le persone hanno adottato l’openness. Seguono alcune possibili motivazioni, ma non vuole essere in alcun modo una lista esaustiva. • Incremento dell’audience – Il principale obiettivo qui è rimuovere le barriere che separano le persone dall’accesso alle risorse, siano esse un articolo, un libro, un corso, un servizio, un video o una presen- tazione. Questo significa che la risorsa deve essere gratuita, facilmente condivisibile online e con i giu- sti diritti. Per esempio, Davis (2011) ha scoperto che su 36 riviste e che erano pubblicate in Open Access 50 che tipo di openness hanno ricevuto molti più download e raggiunto un’audience molto più ampia. • Incremento del riutilizzo – Questo si relaziona alla precedente motivazione, ma si basa più che altro sull’intenzione che altri hanno di prendere ciò che hai creato e combinarlo con altri elementi, adattarlo e ripubblicarlo. Sono necessarie le stesse conside- razioni di cui sopra, ma con un’enfasi maggiore sui diritti minimi e nel rendere la risorsa frazionabile in parti che possano poi essere adattate. Mentre la prima motivazione può significare semplicemente mettere un articolo online, la seconda potrebbe por- tare alla condivisione dei dati che ne sono alla base. • Incremento dell’accesso – La differenza dalla prima motivazione sta nell’intento di raggiungere gruppi che possono essere particolarmente svantaggiati. Potrebbe significare open access nel senso che non è necessaria nessuna qualifica di ingresso per iscri- versi al corso di studio. In questo caso open non significa gratuito, dato che può essere che gli allievi abbiano bisogno di un supporto extra, che viene in qualche modo pagato. Aiutare gli allievi che spesso falliscono il loro percorso di istruzione pone il focus più sul supporto e meno sul semplice fare in modo che una risorsa sia gratuita. L’aumento dell’accesso non ha necessariamente a che vedere con il prezzo. • Incremento della sperimentazione – Una delle ra- gioni per cui la gente adotta approcci open è che questi permettono loro di sperimentare. Ciò può significare l’uso di diversi supporti, il creare iden- tità differenti o il provare un approccio che non rientrerebbe nei vincoli della pratica standard. Per esempio molti MOOC hanno usato la piattaforma per condurre test A/B in cui modificano una varia- 51 la battaglia per l’open bile in due gruppi, come la posizione di un video o il tipo di feedback fornito, e analizzano l’impatto (Simonite 2013). Il corso open crea entrambe le op- portunità con grandi numeri e frequenti presenta- zioni, all’interno del quadro etico che lo consente. Gli studenti MOOC non pagano, quindi c’è un ac- cordo diverso con l’istituzione scolastica. • Incremento della reputazione – Essere in rete e online può aiutare a migliorare il profilo di un in- dividuo o di una istituzione. L’openness consente a più persone di vedere ciò che gli autori realizza- no (la motivazione dell’incremento della audien- ce), ma l’obiettivo principale è quello di migliora- re la loro reputazione. Come accademico, operare nell’ambito open, pubblicare apertamente, creare risorse online, essere attivo sui social media e sta- bilire identità online possono essere buoni metodi per ottenere il riconoscimento da parte dei colleghi, che può portare a conseguenze più tangibili come inviti a presentazioni in keynote o a collaborazioni nella ricerca. I problemi legati alla reputazione in- dividuale e all’identità sono trattati nel capitolo 7 dedicato all’open scholarship. • Incremento delle entrate – Nel capitolo precedente ho sollevato i problemi dell’openwashing e dell’u- sare l’openness come strada per un successo com- merciale; ma è anche vero che un approccio open o parzialmente open può essere un efficace modello di business. L’approccio freemium funziona così, quando un servizio è per la maggior parte open ma alcuni utenti pagano per servizi extra, come Flickr ad esempio. Se questo è l’obiettivo allora l’openness lavora per creare una significativa domanda del 52 che tipo di openness prodotto. Per le università ciò equivale ad un au- mento di studenti nei corsi formali2. • Incremento della partecipazione – Potrebbe essere necessario raccogliere informazioni da un pubblico senza pagare per accedervi. Può essere il caso del fare crowdsourcing nella ricerca oppure dell’ottene- re feedback su un libro o su una proposta di ricerca. Essere open permette agli altri di accedere e di for- nire gli input richiesti. Per dimostrare come queste diverse motivazioni possano influenzare la natura dell’openness, permet- tetemi di porre uno scenario ipotetico: un’università vuole creare un MOOC e chiede al proprio esperto di tecnologie per la formazione di formulare una pro- posta. I dirigenti dell’università hanno sentito parlare dei MOOC e pensano che si dovrebbe essere attivi in quel settore. Contattano il nostro esperto di tec- nologie per la formazione, che a sua volta si consulta con un numero di stakeholder diversi e chiede loro: “Qual è l’obiettivo del MOOC? Che cosa vi aspetta- te?”. Chi si occupa del marketing risponde che vuole aumentare il profilo e la reputazione online dell’uni- 2 [Nota del traduttore] Più volte nel testo si incontra l’espressione “formal course” per indicare i corsi universitari “regolari”, cioè quelli che prevedono una formale immatricolazione; in con- trapposizione con “informal course” che invece vuole indicare quei corsi di formazione (anche di livello universitario) fruibili online da chiunque senza che l’utente sia effettivamente imma- tricolato. Come vedremo più avanti questa distinzione si trova anche in “formal student” vs “informal student”. Nella traduzio- ne ho scelto di rimanere il più possibile letterale e aderente alla scelta lessicale di Weller, pur sapendo che in italiano gli aggetti- vi “formale” e “informale” possono avere un’accezione diversa. Questa nota serve appunto per sgombrare il campo da equivoci semantici su questi aggettivi. 53 la battaglia per l’open versità. Secondo questa prospettiva il MOOC propo- sto si concentrerà su un tema conosciuto, mettendo- ci un noto professore. Il tema si intitolerà “Vita su Marte”, sarà una produzione costosa e di alta qualità che funzionerà come vetrina dell’università e attirerà l’attenzione della stampa. Quando poi si consulta il decano della Facoltà di Scienze, lui invece risponderà che sono preoccupati per il reclutamento di studenti nei corsi post laurea: vorrebbero quindi un MOOC che porti studenti da fuori che paghino tasse elevate. Il modello che po- trebbe funzionare qui è quello che prevede le prime sei settimane del corso in modalità open targettizzato su una specifica audience, che si possa poi iscrivere dopo le prime sei settimane. L’esperto di tecnologie per la formazione parla poi con un docente che vorrebbe provare l’approccio ge- stito dagli studenti. Gli insegnanti si sentono frustra- ti dall’approccio client-oriented dell’insegnamento convenzionale e vedono nei MOOC un’opportunità di provare un metodo didattico più radicale, che fino ad ora è stato loro impedito. Non lo considerano par- ticolarmente impattante in termini di pubblico, ma piuttosto un’esperienza di apprendimento ricca per chi la prova, dato che gli studenti stessi si creeranno il loro curriculum. La sua proposta è un MOOC ba- sato su Wordpress che mostri una serie di tecnologie che permettano agli studenti di collaborare alla crea- zione del contenuto. Successivamente l’esperto di tecnologie per la for- mazione ha una conversazione con il comitato finan- ziatore, che vuole portare gruppi poco rappresenta- ti nelle discipline scientifiche. Avranno bisogno di molto supporto, ma sono d’accordo nel finanziare 54 che tipo di openness la fornitura di mentori e di gruppi di sostegno nel- la comunità. Quello che suggeriscono è quindi un MOOC basato sull’adattare materiali esistenti, con target molto mirato e minime barriere tecniche. Per ciascuna di questa prospettive il MOOC sarebbe diverso: sempre open, ma con un’enfasi differente sulla forma che l’openness dovrebbe prendere. Allo stesso modo Haklev (2010) propone quattro obiettivi per lo sviluppo di OER che possono essere applicati all’approccio open in generale: • Produzione trasformativa – Qui il processo di pro- duzione modifica coloro che ne sono coinvolti. Può avvenire attraverso una riflessione sul processo di insegnamento o sull’esposizione a modelli di pra- tica open, con l’obiettivo principale di cambiare un individuo o, più frequentemente, la prassi di un’istituzione. • Uso diretto – L’obiettivo per un allievo è quello di essere in grado di usare le risorse in modo indipen- dente, per cui deve essere completo. • Riutilizzo – A differenza del precedente obiettivo, qui l’accesso dell’allievo è mediato dal riutilizzo di un terzo, ad esempio un insegnante. Creare mate- riali che gli insegnanti possano usare implica un’at- tenzione diversa alle caratteristiche richieste rispet- to ad un focus direttamente sul fruitore finale. • Trasparenza/consultazione – L’obiettivo qui è infor- mare gli utenti su come il tema è insegnato. Gli obiettivi possono poi mescolarsi ed essere com- plementari gli uni con gli altri. Per esempio, il mo- vimento open textbook è ampiamente giustificato in termini di costi, in quanto con la creazione di libri di testo gratuiti c’è un considerevole risparmio per gli 55 la battaglia per l’open studenti, ma c’è anche una motivazione di riutilizzo, dato che i docenti possono adattare liberamente il li- bro alle loro specifiche necessità. L’istruzione open – Un breve accenno storico Quando è iniziato l’attuale movimento della open education? È una domanda di difficile risposta, dato che è inevitabile replicare “dipende da cosa intendi per l’attuale movimento di open education”. Ed è an- che una risposta rivelatrice, in quanto dimostra che il movimento non è facilmente definibile. Come la de- finizione di openness, infatti, bisognerebbe conside- rarla non come un’entità singola ma piuttosto come una raccolta di principi ed idee che si intersecano. Questo paragrafo parlerà proprio di questo, cercando di focalizzarsi sulle radici della open education. Suggerisco tre filoni chiave che portano all’attuale insieme di concetti centrali nella open education: l’i- struzione Open Access, il software open source e la cultura del web 2.0. Università open L’accesso aperto all’istruzione risale a ben prima della Open University (OU), con la pratica delle le- zioni pubbliche. Prendiamo però la fondazione della OU come il punto di partenza della storia dell’istru- zione Open Access, così come viene comunemente interpretata. Proposta nel 1926 come una “università wireless”, l’idea prende piede nei primi anni ‘60 e di- venta un impegno concreto del manifesto del Partito 56 che tipo di openness Laburista nel 19663. Fondata nel 1969 con la mis- sione di voler essere un’università “aperta a persone, luoghi, metodi e idee”, la OU puntava a facilitare l’ac- cesso all’istruzione superiore a persone che altrimen- ti ne sarebbero state escluse, sia per mancanza delle qualifiche necessarie, sia perché il loro stile di vita o i loro impegni impedivano loro di dedicarsi full-ti- me allo studio. L’approccio dell’università era dunque mirato alla rimozione di queste barriere. Cormier (2013) suggerisce che erano importanti le seguenti accezioni di open: • Open = accessibile, “supporto all’apprendimento open”, interattivo, dialogico. L’accessibilità era la chiave. • Open = pari opportunità, senza restrizioni porta- te da barriere o ostacoli all’istruzione e alle risorse didattiche. • Open = trasparenza, condivisione di obiettivi didat- tici con gli studenti, divulgazione degli schemi di votazione e offerta di tutoraggio per esami. • Open = ingresso aperto, nessuna richiesta di quali- fiche per l’accesso. Tutto ciò che si richiedeva erano ambizione e motivazione/desiderio di imparare. • In questa interpretazione la open education pro- muoveva un’istruzione part-time, a distanza, sup- portata e in Open Access. Il modello della OU ri- scontrò grande successo e furono fondate altre uni- versità open in diversi paesi che seguivano questa strada. Il bisogno di estendere l’accesso all’istru- zione superiore anche a coloro che non potevano sfruttare il modello convenzionale divenne ad un certo punto qualcosa che anche i governi dovette- 3 Si veda http://www.open.ac.uk/about/main/the-ou-explained/ history-the-ou. 57 la battaglia per l’open ro riconoscere, e la reputazione della OU, sia per i suoi materiali di insegnamento di alta qualità sia per la buona esperienza di apprendimento, resero questo approccio un metodo esemplare. La maggior parte degli obiettivi delle università open, ad esempio il rendere democratico l’appren- dimento e il raggiungere gruppi di persone esclu- se, sono riemersi poi con l’arrivo dei MOOC (Koller 2012). Da notare che non c’è nessuna enfasi parti- colare sull’accesso gratuito in questa interpretazio- ne. L’istruzione doveva essere pagata dai governi, e le università open erano alleate di qualsiasi forma di più ampia partecipazione essi volessero adottare. L’accento era posto spesso su un’istruzione econo- micamente accessibile, ma prima di internet le altre forme di openness erano viste come più rilevanti. È stato infatti con il concetto di open source che “open” e “gratuito” hanno iniziato ad essere usati insieme. Open Source e free software Nel 1970 Richard Stallman, uno scienziato infor- matico al MIT, si rese conto di quanto poteva esse- re limitante il controllo che la sua istituzione aveva sui sistemi informatici e fece di questa sua frustra- zione una campagna per i diritti associati al softwa- re che durò tutta la vita. Nel 1983 iniziò il progetto GNU, nato con l’obiettivo di sviluppare un siste- ma di software operativo rivale a Unix che avrebbe permesso agli utenti di adattarlo come meglio cre- devano. Il codice sorgente di GNU fu rilasciato in modalità open, in contrasto con la pratica standard per la quale si rilasciava solo un codice compilato 58 che tipo di openness a cui gli utenti non avevano accesso e che non po- teva essere modificato. Stallman intuì con anticipo che le licenze erano la chiave per il successo di un progetto e promosse l’approccio copyleft (in oppo- sizione al copyright) per apportare modifiche dopo aver riconosciuto il lavoro originale (Williams 2002). Come vedremo, questo approccio e la licenza GNU hanno avuto una connessione diretta con il movi- mento della open education. Stallman sosteneva che il software doveva essere libero così da poter es- sere usato per altri scopi, e fondò la Free Software Foundation nel 1985, prendendo una chiara posizio- ne ideologica sulla libertà. Come dichiara l’organiz- zazione GNU: “gli utenti (sia individui che gruppi) controllano il programma e cosa può fare per loro. Quando gli utenti non possono controllare un pro- gramma, allora il programma controlla loro”4. Ci sono quattro libertà di base promosse dal movimento free software, che riecheggiano le 4R di Reuse e più tardi le licenze nell’istruzione. Un programma per elaboratore è free softwa- re se gli utenti hanno le seguenti quattro libertà fondamentali: • Libertà di eseguire il programma come si desidera, per qualsiasi scopo (libertà 0). • Libertà di studiare come funziona il programma e di modificarlo in modo da adattarlo alle proprie ne- cessità (libertà 1). L’accesso al codice sorgente ne è un prerequisito. • Libertà di ridistribuire copie in modo da aiutare gli altri (libertà 2). • Libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente i miglioramenti da voi apportati (e le 4 Cfr. http://www.gnu.org/philosophy/free-sw.html. 59 la battaglia per l’open vostre versioni modificate in genere), in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio (libertà 3). L’accesso al codice sorgente ne è un prerequisito.5 Da notare che queste libertà riguardano il control- lo, non i costi. Certo Stallman è abbastanza chiaro sul fatto che ciò non preclude utilizzi commerciali e che sia legittimo comprare software “free”. La frase citata spesso è “libertà nel senso di libertà di parola non di birra gratis” (“freedom as in speech not as in beer”), ma questa confusione tra i due tipi di libertà viene sollevata spesso per quanto riguarda l’istruzio- ne open. Legato al movimento free software c’era il mo- vimento open source software, spesso uniti sot- to l’unica definizione di FLOSS (Free/Libre Open Source Software). Il movimento open source fa co- munemente capo a Eric Raymond, il cui saggio The Cathedral and the Bazaar (2001) ne ha gettato le basi. Il movimento open source, seppure con principi te- orici forti, può essere considerato un approccio più pragmatico. Raymond amava il fatto che lo sviluppo del software non fosse competitivo (per cui si pote- va condividere tenendone una copia) e che il codice poteva essere sviluppato da una comunità di svilup- patori che spesso lavoravano per piacere e non per denaro. Il principio cardine dietro l’open source è che produrre software open è più efficiente. Il mantra co- niato da Raymond è “con un numero sufficiente di occhi tutti i bug vengono a galla” (“given enough eye- balls, all bugs are shallow”), quindi facendo in modo che il codice fosse aperto, il software era migliore. La 5 La traduzione delle quattro libertà è tratta da https://www.gnu. org/philosophy/free-sw.it.html. 60 che tipo di openness Free Software Foundation ha distinto chiaramente il free software dall’open source in questo modo: I due termini descrivono quasi la stessa categoria di software ma rappresentano valori fondamentalmente diversi. L’open source è una metodologia di sviluppo mentre il free software è un movimento sociale. Per il movimento free software avere il software aperto è un imperativo etico, nel rispetto della libertà degli utenti. Al contrario la filosofia dell’open source considera il problema dal punto di vista del miglioramento tecnico del software (Stallman 2012). Lo stesso Raymond evidenzia la particolare natura dell’open source dichiarando che “per me non è una faccenda morale o legale, è un problema ingegneri- stico. Io sto per l’open source perché, molto concreta- mente, ritengo che porti a migliori risultati dal punto di vista tecnico ed economico” (Raymond 2002). Per chi non è sviluppatore questa distinzione può sem- brare pedante o ottusa, dato che spesso i due termini sono uniti e ovviamente chi sostiene l’open source è anche un sostenitore della libertà. Tuttavia vale la pena di notare la differenza in quanto ha risonanza nelle motivazioni della open education. L’openness nell’istruzione può essere vista come un approccio pratico: per esempio, il movimento learning object dei primi anni 2000 ha spesso usato l’argomentazione dell’efficienza, come vedremo nel prossimo capitolo. Ma anche il tema “sociale” è centrale nella open edu- cation, cioè il mettere a disposizione di tutti i risultati di una ricerca finanziata con fondi pubblici, piuttosto che in database privati. 61 la battaglia per l’open I movimenti free software e open source possono essere visti come gli elementi che creano un contesto nel quale la open education può fiorire, in parte per analogia, in parte stabilendo un precedente. Ma c’è anche un collegamento molto diretto. David Wiley (2008) ricorda che nel 1998 si interessò allo sviluppo di una open licence per contenuto didattico e contat- tò sia Stallman che Raymond direttamente. Ne risul- tò la licenza open content che lui stesso sviluppò con gli editori per arrivare alla Open Publication Licence (OPL). Questa licenza aveva due varianti: il tipo A che proibiva la distribuzione di versioni modificate sen- za il permesso dell’autore; e il tipo B che proibiva la distribuzione del libro stampato per fini commercia- li. Come lo stesso Wiley commenta, la convenzione terminologica non era stata di aiuto, in quanto non indicava a cosa si riferiva la licenza e le etichette non dicevano quale delle due era stata selezionata. Ma fu adottata dalla compagnia operante nel settore dei me- dia O’Reilly e divenne precursore di una licenza più ampiamente adottata. La OPL è risultata essere una delle componenti chiave, assieme alla licenza GNU della Free Software Foundation, per lo sviluppo delle licenze Creative Commons di Larry Lessig e altri nel 2002 (Geere 2011). Queste hanno affrontato alcune problematiche relative alle licenze open content e sono diventate es- senziali per la open education. Le semplici licenze di Creative Commons (CC) permettono agli utenti di condividere facilmente risorse e non sono limitate al codice software. Il licenziante può decidere le condi- zioni sotto le quali possono essere usate le sue ope- re – quella di default è che si riconosca sempre l’au- tore (CC-BY), ma ci sono anche ulteriori restrizioni 62 che tipo di openness come il divieto di uso commerciale senza il permesso dell’autore (CC-NC). Le licenze Creative Commons sono più permissive che restrittive, consentono cioè all’utente di fare quello che la licenza permette senza dover chiedere i vari permessi. Non vietano altri usi, come l’uso commerciale per una licenza CC-NC; di- cono solo di contattare prima l’autore. Queste licenze sono state un requisito molto pratico per il movimen- to OER al fine di convincere le istituzioni e i singoli a rilasciare contenuti in modo aperto, consapevoli del fatto che la loro proprietà intellettuale sarebbe stata protetta.6 La connessione diretta a Tim O’Reilly por- ta dunque al prossimo sviluppo influente, dato che è stato O’Reilly a coniare il termine “web 2.0”. Web 2.0 Pur essendo una frase che è passata da un picco di popolarità e ormai entrata a far parte della storia, il fenomeno del web 2.0 di metà anni 2000 ha avuto 6 [Nota del traduttore] La traduzione di questo paragrafo sulle Creative Commons e sulla loro applicazione al mondo delle ri- sorse didattiche è stata mantenuta il più letterale possibile; tutta- via devo constatare che alcuni concetti potevano essere espressi meglio dall’autore. Ad esempio, il passaggio “non sono limita- te al codice software” è a mio avviso fuorviante poiché in real- tà Creative Commons ha sempre detto chiaramente che le sue licenze non dovrebbero essere utilizzate per il software poiché mancano di specifiche clausole che riguardano la disponibilità del codice sorgente. Le licenze CC nascono proprio per coprire tutte quelle forme di creatività che non erano già state coperte dalle licenza open source. Invece il passaggio “la licenza permette senza dover chiedere i vari permessi” sembra abbastanza tauto- logico; “licenza” deriva dal latino “licére” e indica sempre un atto autorizzativo; in altre parole, dove c’è una licenza c’è sempre un licenziante (titolare del copyright) che autorizza un licenziatario (utilizzatore dell’opera) a fare determinate attività. 63 la battaglia per l’open un impatto significativo sulla natura dell’openness nel campo dell’istruzione. Il termine è stato usato per identificare un crescente sviluppo nel modo in cui le persone usavano il web. Non era proprio un movimento ma piuttosto un modo per contraddistin- guere la natura più interattiva e user-generated di un numero di strumenti ed approcci. Nel 2005 Tim O’Reilly evidenziò otto principi del web 2.0 che caratterizzavano il modo in cui gli stru- menti si stavano evolvendo ed erano usati, compresi siti come Wikipedia, Flickr e YouTube. Alcuni prin- cipi risultarono essere più significativi di altri, e al- cuni legati più agli sviluppatori che agli utenti, ma riassumevano un modo di usare internet che si era spostato da un modello broadcast ad un modello più colloquiale. Questo insieme di sviluppi si combinerà più tardi con social media come Twitter e Facebook. Dal punto di vista della open education, il movi- mento del web 2.0 è stato significativo per due ragio- ni. Prima di tutto ha decentralizzato molto dell’enga- gement con il web. Gli insegnanti non avevano più bisogno di un’autorizzazione per creare siti web; po- tevano creare un blog, aprire un account Twitter, ca- ricare video su YouTube e condividere le loro presen- tazioni su SlideShare in modo indipendente. Questo ha contribuito a creare una cultura dell’openness tra quegli insegnanti che adottavano questi approcci, cosa che spesso portava a un coinvolgimento con la open education in qualche forma. Lo vedremo più in dettaglio nel capitolo 7 quando parleremo di identità online. In secondo luogo, ha creato un contesto nel quale open e free erano visti come caratteristiche di default del materiale online. Gli utenti che siano stati insegnanti, studenti, potenziali studenti o pubblico 64 che tipo di openness generico si aspettavano che il contenuto che trovava- no online fosse liberamente accessibile. Principi che si fondono Da questi tre principali filoni – università open, open source e web 2.0 – derivano un certo numero di principi che si fondono nell’attuale movimento open education. Dalle università open abbiamo ereditato i principi dell’Open Access e la rimozione di barrie- re sull’istruzione, ristretti comunque alla particolare interpretazione di open education e strettamente le- gati a particolari politiche nazionali. Il software open source ci ha portato i principi della libertà di utilizzo, del reciproco beneficio che viene dal condividere le risorse e ha gettato le basi per le licenze. Non si è an- dati però molto al di là delle ristrette e specializzate comunità di sviluppatori software. Infine, il web 2.0 ha creato il contesto culturale all’interno del quale l’openness viene ampiamente riconosciuta e attesa. Una lista di principi generali ereditati da questi tre filoni potrebbe essere: • libertà di riutilizzo • Open Access • gratuità • facilità di utilizzo • contenuto digitale in rete • approcci social e community based • argomenti etici a supporto dell’openness • openness come modello efficiente Queste sono trasformazioni digitali, di rete; la na- tura non competitiva del contenuto digitale e la facile 65 la battaglia per l’open distribuzione del contenuto delle conversazioni onli- ne, le mette tutte in evidenza. E mentre è possibile immaginarle come un cluster di principi intercon- nessi, si dovrebbero anche immaginare campi o clu- ster di minore dimensione all’interno. Per esempio, l’idea che il contenuto dovrebbe essere gratuito non era inizialmente una preoccupazione dell’università open o del movimento per l’open source software, anche se il software open source è spesso gratuito. È stato con lo sviluppo del web 2.0 che “free” è diventa- to una prospettiva. Si potrebbero osservare poi che i vari aspetti dell’openness nell’istruzione si allineano con alcuni di questi principi, ma non con tutti. Per esempio, i MOOC commerciali stanno adottando un approccio di gratuità e di accesso aperto ma non ne- cessariamente la libertà di riutilizzo. È proprio per questo miscuglio di principi che ho preferito non dare una definizione univoca di open- ness nell’ambito dell’istruzione superiore e che pro- porrei invece che fosse vista come un mix di principi che si sovrappongono. Conclusioni L’openness nel settore dell’istruzione raccoglie molti filoni e, a seconda della particolare accezione di open education che si considera, alcuni di essi prevalgono su altri. Questo rende problematico il parlare della open education come di un movimento o di un’entità chiaramente definiti, e l’adottare una singola definizione è controproducente. Così come la open education ha molti aspetti tra loro legati, come l’Open Access, le OER, i MOOC e l’open scholarship, 66 che tipo di openness allo stesso modo essa si definisce sovrapponendo di- stinte influenze. In questo capitolo si sono proposte tre di queste influenze – e cioè l’università open, l’o- pen source e il web 2.0 – ma ce ne potrebbero essere altre, ad esempio prendendo una prospettiva socio-e- conomica: alcuni hanno trovato elementi di neo-li- berismo nella popolarità dei MOOC (Hall 2013). Ma non è nelle intenzioni di questo libro esplorare questi aspetti, anche se un’analisi di questo genere riguardo alla open education sarebbe molto interessante. Dopo aver osservato le possibili motivazioni per l’approccio open, e i fattori di influenza che hanno portato alla sua forma attuale, i differenti aspetti dell’openness nell’istruzione possono ora essere ora presi in considerazione. Il primo di questi è forse il più venerando, cioè la pubblicazione in Open Access, ed è il tema del prossimo capitolo. 67 CAPITOLO 3 La pubblicazione in Open Access Bisogna essere preparati a combattere per i propri semplici piaceri e pronti a difenderli contro l’eleganza, la saccente- ria e tutte le tendenze glamour. Amor Towles Introduzione Nel capitolo 1 si diceva che abbiamo assistito alla transizione dell’openness da un interesse periferico ad un approccio mainstream nel campo dell’istruzio- ne superiore. Questa transizione ha portato con sé un certo numero di tensioni e problemi, come si è vi- sto dall’analogia con le rivoluzioni e con il movimen- to green. Dopo aver analizzato il concetto di open- ness più in dettaglio nel precedente capitolo, i pros- simi cinque vanno dunque al centro dell’argomento. Ciascun capitolo prenderà in esame un aspetto della open education ed entrerà nel dettaglio di come ha avuto successo e di quali siano le sue maggiori sfi- de. E comincia in questo capitolo con un elemento di grande successo nell’ambito della open education, e cioè la pubblicazione in Open Access. Nella battaglia per l’open la pubblicazione in Open Access (OA) è probabilmente quella con la storia più lunga. Vale la pena di dare un’occhiata ai pro- blemi che stanno nascendo in questo campo prima la battaglia per l’open di considerare altri aspetti, dal momento che mo- strano al meglio le caratteristiche della battaglia ac- cennate nel capitolo 1. Ad esempio c’è un considere- vole giro di denaro in questo settore. Reed Elsevier ha parlato di guadagni che hanno superato i sei mi- liardi di sterline nel 2012, dei quali più di due mi- liardi sono stati usati per pubblicazioni scientifiche, tecniche o mediche. È un’area in cui l’openness ha “vinto”, e di gran lunga, con richieste vincolanti da parte di finanziatori della ricerca, di governi e di istituzioni che rendono l’Open Access obbligato- rio. Eppure nel momento della vittoria i sostenitori dell’Open Access sono contestati e messi in dubbio. La Gold road mette le riviste accademiche in Open Access in modo che qualsiasi lettore possa avere ac- cesso al contenuto gratuitamente. Il focus di questa scelta è usare le riviste come mezzo per condividere contenuti. Ci sono molti modi in cui queste possono essere finanziate, per esempio da università o società professionali, se invece si tratta di una rivista pubbli- cata da una casa editrice, allora il percorso general- mente scelto è l’Article Process Charges (APC) in cui l’autore (o il finanziatore della ricerca) paga una quo- ta per rendere l’articolo open. La Gold road è l’indi- cazione favorita in molti casi, ma con APC potrebbe finire per costare di più sia in termini economici che di opportunità, come vedremo in seguito. La trappola Open Access pubblicata su Science (Bohannon 2013) dove articoli evidentemente deboli e falsi furono ac- cettati da 157 riviste OA, dimostrò che questo modello “pay-to-publish” poteva creare tensione nei rapporti con l’editore. Fu però illuminante nell’ambito della battaglia per l’open per due motivi: in primo luogo di- mostrò di nuovo come il termine “openness” avesse 70 la pubblicazione in open access un mercato e come riviste di dubbia provenienza si fossero messe in gioco offrendo pubblicazioni Open Access; in secondo luogo i decisori (molti dei quali pubblicarono l’articolo) potrebbero non essere inte- ressati al successo dell’OA. Se l’Open Access è perce- pito infatti come di bassa qualità, ciò va a rinforzare il loro mercato e l’esistente sistema di abbonamenti ai loro archivi. Questo dimostra il pericolo di lasciare che interessi commerciali influiscano sulla direzione dell’openness. Ma prima diamo un’occhiata a come la pubblicazione in Open Access ha avuto così tanto successo. Il successo dell’Open Access La pubblicazione in Open Access come abbiamo visto iniziò nel 1990 prendendo ispirazione dalle co- munità open source e osservando che il contenuto digitale e in rete aveva cambiato la natura della divul- gazione. Open Access è generalmente interpretato con il significato di “accesso online e gratuito a la- vori accademici”, anche se la Budapest Open Access Initiative (2002) ne dà una definizione più precisa, che comprende il significato di free access non solo in termini di costo, ma anche di accesso libero dai limiti di copyright: Per “accesso aperto” a tale letteratura intendiamo la sua disponibilità pubblica e gratuita in Internet, e la possibilità per ogni utente di leggere, scaricare, co- piare, diffondere, stampare, cercare, o linkare al testo completo degli articoli, di analizzarli e indicizzarli, di trasferirne i dati in un software, o usarli per ogni al- tro utilizzo legale, senza ulteriori barriere (legali, tec- 71 la battaglia per l’open niche o finanziarie) se non quelle relative all’accesso a Internet. L’unico vincolo riguardo la riproduzione e la distribuzione, e l’unica funzione del copyright in questo ambito, dovrebbe essere la tutela dell’integrità del lavoro degli autori e il diritto di essere debitamente riconosciuti e citati.1 Questo ricorda la distinzione tra free cost e free reuse (gratuito e riutilizzabile liberamente) che fa Stallman riguardo al software. Anche se la definizione di Open Access non è controversa come altri termini che incontreremo, il percorso lo è. Ci sono due metodi principali che consentono l’Open Access: • La Gold road, secondo cui sono gli editori a mettere la rivista (o l’articolo) in Open Access. Per le case editrici i guadagni che di norma venivano presi dal modello privato di iscrizione all’archivio devono essere recuperati, e questo può avvenire con l’ap- plicazione dell’APC. Uno studio su 1.370 periodici pubblicati nel 2010 ha parlato di un range tra gli 8 e 3.900 dollari con un APC medio di 906 dollari (Solomon&Bjork 2012). La Gold road comunque non richiede un APC, è solo un modello per ren- derla fattibile. • La green road, in cui l’autore archivia lui stesso una copia dell’articolo sia sul proprio sito sia su un ar- chivio istituzionale. Con la scelta della Green road l’enfasi è posta sulla rivista, mentre con la scelta Green sugli archivi onli- ne. A queste si aggiunge poi una terza opzione, chia- 1 Nota del traduttore] Per questo paragrafo è stata ripresa la versione italiana della Budapest Open Access Initiative che si trova al sito https://www.budapestopenaccessinitiative.org/ translations/italian-translation. 72 la pubblicazione in open access mata Platinum, in cui il giornale non applica nessun APC e pubblica in Open Access, ma questa può es- sere vista come una variante della Gold road. Riviste di questo tipo sono di solito gestite da società o uni- versità per le quali la rendita finanziaria è di minore importanza rispetto alla diffusione. In realtà le cose stanno in modo un po’ più comples- so. Per quanto riguarda la Green road, ciò che è “gre- en” può variare. Molti editori metteranno un embargo per un determinato periodo, decidendo che un articolo non può essere archiviato autonomamente prima di un certo lasso di tempo, che può variare dai 6 ai 18 mesi. Nelle sue policy Open Access l’Office of Science and Technology Policy americano (OSTP) ha un embargo di 12 mesi (Holdren 2013), mentre Science Europe (2013) chiede solo 6 mesi. La Gold road può essere usata in modo ibrido, per cui in una rivista alcuni articoli sono Open Access ma non tutti. In questo caso gli editori ancora applicano una tariffa per l’abbonamento alla ri- vista, anche se può essere ridotta, e ricevono un APC per i singoli articoli. Può essere visto come un model- lo di transizione all’Open Access, ma alcuni ritengono che sia solo un modo per guadagnare due volte dalla stessa rivista (Harnard 2012). Science Europe prende una posizione molto chiara contro il modello ibrido, dichiarando che “come è attualmente strutturato e im- plementato dagli editori non è un percorso fattibile e che può funzionare per l’Open Access. Tutti i modelli di transizione all’Open Access sostenuti dalla Science Europe Member Organisation infatti devono essere contrari al ‘doppio gioco’ e aumentare la trasparenza sui costi”. Per quanto riguarda i diritti, è ancora possibile fare in modo che un articolo sia disponibile in moda- lità open, ma le definizioni di Open Access sottoline- 73 la battaglia per l’open ano il fatto che il riutilizzo è fondamentale, quindi l’u- so delle licenze Creative Commons2 diventa la norma. La diffusione dell’Open Access ha avuto grande succes- so. Laakso e altri (2011) hanno tracciato la crescita delle riviste OA e degli articoli dal 1990 come mostrato nella Figura 1. Allo stesso modo il progetto ROARMAP (Registry of Open Access Repositories Mandatory Archiving Policies) della University of Southampton mostra i nu- meri delle politiche Open Access a livello istituzionale, a livello di finanziatori e a livello teorico. Il modello qui è un po’ in ritardo rispetto a quanto visto con le riviste OA, dato che le politiche sono entrate in vigore solo quando l’OA è diventato una pratica consolidata, ma mostrano lo stesso un trend di sostanziale crescita dal 2003 al 2013 (Figura 2). Entrambi i trend sembra- no andare in una direzione precisa, e non c’è nessuna ragione per supporre che rimarranno stabili o scen- deranno. Un recente studio di Wiley ha scoperto che il 59% degli autori ha pubblicato su riviste OA, la pri- ma volta cioè che la proporzione ha superato la metà (Warne 2013). Le pubblicazioni in Open Access non sono più una questione di nicchia, riservata a coloro che ne hanno una particolare attrazione. È diventata 2 [Nota del traduttore] A ben vedere non tutte le sei licenze Creative Commons sono conformi alla più accreditata defini- zione di Open Access, cioè quella fornita nella Dichiarazione di Berlino del 2003. Rimangono infatti escluse le licenze vietano gli utilizzi commerciali (clausola Non Commercial) e quelle che vietano le attività di modifica e di realizzazione di opere derivate (No Derivatives). Per approfondimenti si legga il testo integrale del documento: https://it.wikisource.org/wiki/Dichiarazione_ di_Berlino; per un commentro al testo rimando a quanto da me scritto nel libro “Fare Open Access. La libera diffusione del sapere scientifico nell’era digitale” (Ledizioni, 2017) disponibile qui https://aliprandi.org/books/fare-openaccess/. 74 la pubblicazione in open access una pratica mainstream. E questo è in linea con quan- to discusso nel capitolo 1. 75 la battaglia per l’open 76 Figura 2. Adozione di politiche open access Fonte: ROARMAP. Pubblicata sotto licenza CC-BY. la pubblicazione in open access Prima di esaminare i problemi che in questo mo- mento affliggono l’OA, vale la pena di considerare le ragioni di una così ampia diffusione. Gli argomen- ti a favore dell’Open Access rientrano in generale in due campi, che riflettono quelli dei movimenti free e open source – e cioè che l’Open Access è un efficiente modo di operare ed ha una forte base etica. Può essere considerato efficace dalla prospettiva di un autore che vuole che il suo lavoro sia letto e citato da più persone possibili. Potrebbe sembrare logico in- fatti che articoli pubblicati senza nessuna restrizione di accesso ricevano più attenzione di quelli in databa- se privati, ai quali si deve accedere attraverso biblio- teche (o acquistati con una logica di singolo articolo). Dall’influenza del web 2.0 sulla open education sap- piamo che ci si aspetta un contenuto gratuito, e quindi i lettori che trovano un articolo che richiede un paga- mento semplicemente vanno a cercare altro. Anche i social media possono essere visti come modi per met- tere pressione Open Access sugli articoli. Per condivi- dere le risorse in modo efficace su Twitter o con altri mezzi infatti, l’articolo deve essere già disponibile in modalità open. Serve a poco condividere un link ad un articolo interessante se questo richiede un pagamento di 50 dollari per leggerlo. Anche se la maggior parte dei lettori sono accademici, le istituzioni che li ospi- tano potrebbero non avere sempre l’accesso a quella particolare rivista. Dal 2001 (Lawrence 2001) ci sono state crescenti prove del fatto che articoli disponibili in modalità open hanno più download e citazioni di quelli in database privati, come Gargouri e altri (2010) riassumono: “Questo ‘vantaggio dell’impatto OA’ si ritrova in tutti i campi analizzati fino ad ora – fisico, tecnologico, biologico, di scienze sociali e umanistico”. 77 la battaglia per l’open L’Open Citation Project (2013) ha un’ampia bibliogra- fia di studi che dimostrano questo effetto. Alcuni studi riportano che le citazioni non sono aumentate3 ma il numero di download sì, a volte di percentuali sostan- ziali, per esempio Davis e altri (2008) parlano di un aumento dell’89% di download di testi completi per articoli in Open Access. Nell’esaminare le motivazioni per cui gli accademi- ci pubblicano su giornali peer reviewed, Hemming e altri (2006) suggeriscono tre categorie di fattori: incentivo, pressione e supporto. L’incentivo è il più saliente e può prendere forme intrinseche come la condivisione di risultati, e forme estrinseche come l’aumento di possibilità di promozione. Dato che gli universitari sono di rado pagati per i loro contributi, il vantaggio dell’impatto Open Access sta nella mo- tivazione a cercare stimoli – anche se il principale obiettivo è quello di aumentare l’interesse nell’area o di migliorare un profilo individuale, quindi incre- mentare il numero di download e citazioni di un arti- colo facilmente andrà a beneficio di tutto ciò. Questa tendenza è solo contrastata dal prestigio che viene dal pubblicare su certe riviste, che siano esse open o no. 3 [Nota del traduttore] La situazione potrebbe già essere cambia- ta e secondo studi più recenti anche il numero delle citazioni pare essere aumentato. A tal proposito rimando all’apposita pagina dell’Open Citation Project: http://opcit.eprints.org/oa- citation-biblio.html. Inoltre, dal momento che il focus è stato spostato dalla pubblicazioni scientifiche ai dataset con i dati del- le ricerche, vari studi hanno mostrato come la disponibilità dei relativi dati incrementa le citazioni di un articolo o di un report (a tal proposito si veda “The effect of open access and downlo- ads (‘hits’) on citation impact: a bibliography of studies” dispo- nibile qui https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/ journal.pone.0230416). 78 la pubblicazione in open access La pubblicazione in Open Access opera come mo- dello efficiente e pragmatico per divulgare i risultati della ricerca, che è uno degli scopi principali delle pubblicazioni universitarie, e ha anche una forte ar- gomentazione etica, o ideologica, a suo supporto, dato che molti fondi per gli studi che vengono pubblicati sulle riviste provengono da risorse pubbliche. Questo va a formare il principio cardine della maggior parte delle policy Open Access: per esempio la Wellcome Trust (senza data), un’organizzazione benefica che finanzia la ricerca medica, dichiara: “crediamo che massimizzare la diffusione di queste ricerche – ga- rantendone l’accesso gratuito, libero e online – sia il modo migliore per assicurarsi che l’analisi che noi finanziamo sia accessibile, letta e sviluppata”. La policy dell’americana OSTP (Holdren 2013) dice che “i risultati diretti della ricerca scientifica suppor- tata da fondi federali sono messi a disposizione di pubblico, aziende e comunità scientifica”. Qui c’è un dibattito molto acceso e cioè che se il pubblico paga per la ricerca allora deve averne accesso. C’è anche un ulteriore argomentazione che sostiene che la ricerca progredisce solo con la condivisione tra il maggior numero di persone possibili, e che l’accesso ad essa (non importa chi sia il finanziatore) dovrebbe essere praticabile. Mike Taylor (2013a) lo dice senza mezzi termini: “Pubblicare la scienza dietro compenso è immorale”. La combinazione di questi dibattiti prati- ci ed etici ha reso difficile giustificare o mantenere le pratiche esistenti che traggono profitti dalle pubbli- cazioni accademiche. Come vedremo con altri aspetti dell’openness, il dibattito diventa affascinante. È dove la battaglia per l’openness ha inizio, come vedremo. 79 la battaglia per l’open Il report Finch Il report Finch è il risultato di un gruppo di lavo- ro guidato da Dame Janet Finch che il governo bri- tannico ha messo insieme con il compito di stilare una lista di raccomandazioni sull’uso dell’open pu- blishing. Il gruppo pubblicò la relazione nel luglio 2012, consigliando una transizione ad un ambiente Open Access e scegliendo la Gold road per la pub- blicazione (Finch Group 2012). Le raccomandazio- ni del report vennero accettate dal governo britan- nico, anche se in un secondo momento fu avviata una breve inchiesta per esaminarne alcuni dettagli attuativi. Fu messo a disposizione un finanziamen- to di 10 milioni di sterline per aiutare le universi- tà nella transizione alla Gold road in Open Access. Anche se è focalizzato sul Regno Unito, il report Finch rappresenta un microcosmo che compren- de alcune delle questioni in materia di open educa- tion, perciò vale la pena di analizzarlo nel dettaglio, in quanto è uno schema che ritorna. Ad una prima occhiata sembra un successo straordinario per i so- stenitori dell’Open Access: non solamente le racco- mandazioni sono a favore dell’accesso aperto, ma il Governo lo ha accettato e ha fatto in modo che ci fos- sero fondi per sostenerlo. Un’analisi più approfondi- ta della relazione e della sua attuazione però solleva una serie di preoccupazioni. Il primo problema riguarda la cautela insita nel progetto. Il report riconosce che alcuni archivi come arXiv (l’archivio di bozze definitive dei fisici) hanno avuto successo ma conclude che non sono di per sé un modello fattibile, dichiarando: 80 la pubblicazione in open access c’è una diffusa presa di coscienza che gli archivi di per sè non costituiscano una valida base per un sistema di comunicazione della ricerca che voglia dare accesso ad un contenuto di qualità garantita, poiché non for- niscono nessuno strumento per una peer review delle bozze. Anzi si rifanno ad un’offerta di materiale pub- blicato che è stato oggetto di una peer review da parte di altri; o in alcuni casi forniscono strumenti che per- mettono commenti o giudizi da parte dei lettori che diventano un sistema più informale di peer review una volta che il materiale è stato depositato e disseminato attraverso l’archivio stesso. Comunque, questa è una dichiarazione della posi- zione corrente. Se si sta proponendo un’iniziativa a livello nazionale, allora un archivio (o una collezio- ne di archivi) può davvero essere un approccio fat- tibile. La raccomandazione di passare ad un Open Access con la Gold road significa che il contribuente finanzierà efficacemente gli editori, dato che il dena- ro arriverà dagli enti di ricerca. Considerando questi soldi come un possibile esborso da mettere sull’O- pen Access, allora potrebbero essere allocati in modo utile su un arXiv interdisciplinare e nazionale. Il di- fensore del Green OA Harnad (2012) sostiene invece che il Green OA è gratuito e che il Gold OA proposto nel report Finch costerebbe 50-60 milioni di sterline all’anno per la sua implementazione, e critica Finch per non sostenere il modello alternativo. Il secondo problema è la mancanza di obblighi che il report impone agli editori. Il report suggerisce che sarebbe bene che gli editori linkassero ai dati delle pubblicazioni, ma non lo esige: 81 la battaglia per l’open In un mondo ideale ci dovrebbe essere una maggiore integrazione tra il testo e i dati presentati negli articoli di giornale, con link diretti ai dataset; una conseguente diminuzione del materiale di supporto; e collegamenti bidirezionali, con interactive viewers, tra pubblicazio- ni e dati rilevanti contenuti negli archivi. La disponi- bilità e l’accesso a pubblicazioni e ai relativi dati allora diventa davvero integrata, in un sistema che si arric- chisce reciprocamente. Il report potrebbe consigliare di finanziare le uni- versità per pubblicare direttamente riviste in OA (come diremo in seguito), nei quali l’autore avrebbe il pacchetto “base” al quale gli editori potrebbero ag- giungere valore. Senza imporre quanto richiesto dal- la Gold road o un contributo ragionevole da versare, si crea una situazione finanziaria che potrebbe risul- tare peggio del modello corrente per le università e per i finanziatori. Il report Finch ha poi un ulteriore problema, cioè la troppa influenza degli editori nel decidere le linee guida da seguire. Mantenere la sopravvivenza econo- mica dell’industria delle pubblicazioni accademiche così com’è nella sua forma attuale sembra essere fon- damentale. Per esempio, nel report si dice: si deve fare in modo che gli editori (sia che operino nel settore commerciale che nel no-profit) possano soste- nere i costi della peer review, della produzione e del marketing, così come alti standard di presentazione, ricerca e navigazione, così come collegamenti e arric- chimento dei testi (“semantic publishing”) che i ricer- catori e gli altri lettori si aspettano sempre di più. Gli editori hanno anche bisogno di generare un surplus da poter reinvestire nell’innovazione e in nuovi servizi, per distribuire gli utili agli azionisti etc... 82 la pubblicazione in open access Generare un profitto per editori e azionisti dovreb- be essere un effetto secondario rispetto a quello di offrire un servizio utile, non l’obiettivo principale. L’obiettivo è quello di una divulgazione efficace della ricerca. Il pericolo di questa tendenza è che crea un modello che è economicamente impraticabile, in cui la mag- gior parte del denaro va agli azionisti o è usato per cre- are sistemi che mirano ad ottenere un vantaggio nella concorrenza. E nessuno di questi ha a che vedere con la divulgazione della ricerca. Un report di Deutsche Bank (citato in McGuidan e Russel 2008) dice: Crediamo che l’editore aggiunga ben poco valore al processo di pubblicazione. E non stiamo cercando di sminuire ciò che 7000 persone fanno ogni giorno nelle case editrici per vivere. Stiamo semplicemente osservando che se il processo fosse davvero così com- plesso e caro e se aggiungesse il valore che dicono gli editori, probabilmente un 40% di margine non sareb- be possibile. La conclusione del report Finch (e il suo successivo aggiornamento che sostanzialmente non la cambia) non fa riferimento a questo problema e certo può peggiorare le cose. Perde anche un’opportunità di pensare a metodi più radicali attraverso i quali otte- nere una buona divulgazione della ricerca, perché si assume la stabilità dell’attuale approccio. La Gold road Una delle critiche fatte a Finch è il suo appoggio alla Gold road per quanto riguarda l’open publishing. 83 la battaglia per l’open Come accennato in precedenza, i sostenitori della Green road pensano che sia più sicura e meno cara. Tuttavia, la Gold road non è sbagliata di per sé; è più una questione di quale modello economico si adotti e quale costi e libertà esso offra. Così com’è il dibattito sulla Gold road fornisce un esempio dei dettagli più sottili che riguardano l’openness, che si intravedono solo nel momento in cui l’iniziale approccio open è stato accettato. Una ragione di questa agitazione sul Gold OA è che si tratta di un metodo messo a pun- to dagli editori invece che dagli universitari, cosa che può avere numerose conseguenze involontarie. Ironicamente l’openness può portare all’elitarismo: se un autore infatti ha bisogno di pagare per pubbli- care, specialmente in tempi di ristrettezze, questo diventa inevitabilmente un lusso. I giovani ricerca- tori o le università di minori dimensioni potrebbe- ro poi non avere questi fondi a disposizione. Molte case editrici hanno inserito esenzioni per i giovani ricercatori: PLoS per esempio ha una liberatoria “no question asked” e non fa pagare i paesi in via di svi- luppo. Tuttavia non c’è nessuna garanzia a riguardo e se il Gold OA finanziato da APC diventa la norma, allora ci potrebbe essere un conflitto con gli editori che puntano a massimizzare i profitti. Se ci sono suf- ficienti clienti che pagano, allora non è nel loro inte- resse accordare troppe esenzioni. Significa anche che università più ricche possono inondare i giornali di articoli e significa anche che quelle che hanno borse di studio per la ricerca possono pubblicare, dato che è da lì che arrivano i fondi, e chi invece non ne ha può vedersi escluso. Questo incrementa la competizione in un regime di finanziamenti alla ricerca già alta- mente competitivo. L’Open Access può incrementare 84 la pubblicazione in open access l’”Effetto Matthew”, per cui lo stesso autore pubblica più articoli (Anderson 2012). Sarebbe certo una stra- na ironia se l’Open Access finisse per creare una elite che si autoalimenta. Un altro possibile problema con il Gold OA finan- ziato da APC è che può portare costi aggiuntivi. Una volta che il costo di pubblicazione è caricato sui fi- nanziamenti alla ricerca, allora l’autore non ha un in- teresse legittimo a controllare il prezzo. Non c’è per- ciò un forte interesse a tenere i costi bassi o a trovare meccanismi alternativi; il costo della pubblicazione è sulle spalle dei contribuenti (che sono quelli che alla fine finanziano la ricerca) o degli studenti (se vengo- no dalle finanze delle università). I profitti e i benefici restano agli editori che vanno avanti come prima, for- se anche con meno moderazione. La riserva finale che ho riguardo al Gold OA è che come è comunemente interpretato non promuove il cambiamento. In The Digital Scholar (2011) ho par- lato di come un approccio digitale interconnesso e aperto possa modificare la nostra interpretazione di cosa costituisca ricerca e di come gran parte della no- stra attuale percezione è stata dettata da forme di pro- duzione già esistenti. Quindi per esempio possiamo considerare una granularità di output minori rispetto ai tradizionali articoli di 5000 battute; un maggiore uso di revisioni a posteriori invece che ex-ante; e l’a- dozione di diversi format mediatici che cominciano a cambiare la nostra idea di cosa sia ricerca. Ma un mo- dello Gold OA che rafforza il potere degli editori com- merciali semplicemente mantiene uno status quo e conserva l’articolo peer reviewed come il principale obiettivo che la ricerca debba raggiungere. 85 la battaglia per l’open È ancora troppo presto per scoprire se qualcuno di questi scenari avrà luogo, ma sono del tutto fattibili e se si presentassero allora sarebbe difficile raffigu- rare l’Open Access come qualsivoglia forma di vitto- ria. Questo non significa necessariamente che biso- gna seguire il punto di vista di Harnad per il quale il Green OA è l’unico percorso corretto, anzi bisogne- rebbe considerare il dibattito corrente sul Gold OA come sintomatico di un rapporto con gli editori che sta semplicemente cambiando. Il rapporto con gli editori Nel 2008 la Cambridge University Press, la Oxford University Press e Sage hanno intentato un’azione le- gale contro la Georgia State University per aver usato contenuti di loro proprietà non autorizzati su delle “e-reserves” per gli studenti, sostenendo che questo andava al di là del cosiddetto “fair use”4. Nel 2012 più di 14.000 studenti universitari si unirono nel boicottaggio della casa editrice Elsevier per protestare contro i suoi costi e pratiche “esorbitanti”, che vedeva- no come limitativi di uno scambio libero del sapere (Cost of Knowledge 2012). Nel 2013 Elsevier ha invia- to a sua volta degli “avvisi di ritiro” nel social media universitario Academica.edu chiedendo che le copie 4 [Nota del traduttore] L’espressione fair use solitamente non viene tradotta e viene mantenuta in lingua inglese poiché in- dividua un istituto giuridico tipico del diritto angloamericano. Letteralmente significa “uso corretto” o “uso leale” e indica quei casi in cui l’utilizzo di un’opera ancora tutelata da copyright viene ritenuto appunto corretto, non dannoso, e dunque libero anche senza l’obbligo di chiedere preventiva autorizzazione al titolare dei diritti. 86 la pubblicazione in open access di articoli condivisi su profili accademici del sito ve- nissero rimosse (Taylor 2013b). Comunque la si veda, questi eventi sono sintomati- ci di un rapporto sempre più anomalo tra accademici ed editori. Ma non è sempre andata così; quella che era stata una relazione reciprocamente vantaggiosa ha iniziato ad essere percepita come forma di sfrut- tamento. Come ricordano Edwards e Shulenberger (2002): «Dalla fine degli anni 60/inizio anni 70, que- sto sistema di scambio di regali ha iniziato a creparsi. Alcuni editori capirono che la ricerca prodotta a spe- se pubbliche e concessa dagli autori stessi gratuita- mente per la pubblicazione rappresentava una merce commercializzabile». Perché successe? In parte la ragione fu il passaggio al digitale. Nell’ultimo capitolo ho insistito sul fatto che la natura digitale e di rete della open education fosse fondamentale e il settore della pubblicazione in Open Access dimostra perché è così importante. In teoria le stesse restrizioni esistevano anche prima per il modello stampato, ma quando gli accademici non avevano nessun vero controllo sul canale di di- stribuzione ciò non aveva nessuna conseguenza pra- tica. Firmare dei moduli di copyright con gli editori significava sacrificare i diritti o il merchandising di un film, ma Hollywood di raro veniva a cercare gli autori universitari, quindi non aveva nessun impatto pratico. Gli autori erano liberi di distribuire fotocopie su richiesta o di utilizzarle durante le loro ore di in- segnamento. Date le barriere “naturali” alla distribu- zione delle copie, ciò non aveva nessun impatto sugli editori, così che autori ed editori potevano coesistere in una relazione di reciproco beneficio. Ma appena il contenuto è diventato digitale e si è potuto distribui- 87 la battaglia per l’open re gratuitamente, allora la natura di questa relazione cambiò e gli interessi di ciascuna delle due parti di- vennero antagonistici. Ora l’autore vuole il diritto di distribuire i suoi testi liberamente come prima, ma le barriere per farlo sono state rimosse e il danno per gli editori è più sostanziale. In ciascuno degli esempi di conflitto che ho fatto all’inizio di questo paragrafo, è la natura digitale e di rete dell’approccio alla pubblicazione la base della di- sputa. Gli “avvisi di ritiro” inviati al sito di Academia. eu da Elsevier offrono un esempio rivelatore di come questo rapporto sia cambiato. Creare un profilo su Academia.eu può essere visto da un accademico come un modo per crearsi un’identità online (lo ve- dremo più in dettaglio in seguito). Le pubblicazioni accademiche costituiscono una parte fondamentale di quella identità professionale e quindi in un conte- sto digitale e in rete ha senso per un accademico usa- re questo sito per costruire un hub centrale che inclu- da l’accesso a tutte le sue pubblicazioni. Dal punto di vista di Elsevier questo significa che Academia.edu si comporta come un distributore non autorizzato dei loro contenuti, che potenzialmente danneggia il loro guadagno. Se consideriamo l’istituzione di una iden- tità online come un elemento essenziale dell’essere accademico (come spiego nel capitolo 7), allora que- ste due istanze sono ora in conflitto in un modo in cui non lo sono state in precedenza. Oltre ai conflitti con gli editori esistenti, l’Open Access ha portato anche nuove figure chiamate “pre- datori”. Queste riviste cercano spesso nuovi contribu- ti, chiedono un alto APC e hanno standard accademi- ci piuttosto bassi. Beall (2010) li descrive come segue: “Lavorano mandando spamming alle mailing list di 88 la pubblicazione in open access studenti, con inviti a presentare ricerche e a partecipa- re a falsi comitati di redazione… Inoltre di solito non fanno peer review. Infatti, nella maggior parte dei casi il loro processo di peer review è di facciata”. Sul suo sito Scholarly Open Access (http://scholarlyoa.com) Beall fornisce una lista di giornali predatori con an- che i criteri per individuarli. Un’altra pratica che si è fatta strada è quella del “journal hijacking”, in cui un giornale vecchio ed esistente è usato per crearne una falsa versione online per attirare finanziatori, usando di nuovo il metodo Gold OA per ricavarne denaro. In pratica con gli editori esistenti da una parte che chiedono alte commissioni per concedere l’Open Access, pur continuando con i modelli di abbona- mento, e le riviste predatorie dall’altra che cercano di sottrarre denaro agli autori, la sensazione per mol- ti degli autori stessi è che l’Open Access non abbia migliorato di molto la pratica della pubblicazione. Ci ricorda la lezione che abbiamo imparato da altre vit- torie, come abbiamo visto nel capitolo 1 – la vittoria che non sa di vittoria. Non va sempre così comunque e ci sono esempi anche di buone pratiche, come di molte opportunità, che esploreremo in seguito. Nuovi modelli di pubblicazione Un certo numero di editori ha cercato di ride- finire (o ripristinare) la relazione con gli autori ac- cademici su una base più collaborativa. Il model- lo tradizionale di stampa prevedeva che parte del contratto fosse sulla creazione di un prodotto. Nel mondo digitale in cui i templates possono essere facilmente usati per creare riviste online, il focus 89 la battaglia per l’open si sposta dal prodotto ai servizi che l’editore offre. Editori come PloS e Ubiquity offrono un Gold OA ma a costo relativamente basso e con esenzioni per coloro che non possono pagare. Questi editori usano spesso software open source (rafforzando l’influenza di questo dominio nella open education) come l’O- pen Journal System (OJS) o Ambra. L’uso di questi software su sistemi personalizzati sviluppati da edi- tori commerciali offre considerevoli benefici finan- ziari (Clarke 2007) e permettono anche l’accesso ad una comunità di sviluppatori. Il contributo pagato a questi editori va essenzialmente a coprire una serie di servizi che includono il copyediting, l’amministrazio- ne e la disseminazione (per esempio la registrazione di riviste in un database). Questo permette alla uni- versità di decidere in modo chiaro se il costo di questi servizi sia ragionevole paragonato al pubblicarlo loro stessi. Questo ci porta ad un secondo modello: quello dell’editoria universitaria (university press). La university press fu istituita per distribuire libri e riviste laddove l’interesse commerciale non era rite- nuto abbastanza forte. La Oxford University per pri- ma pubblicò nel 1478, poi la US Cambridge Press nel 1640. Givler (2002) dice che la motivazione per fonda- re moderne university press è stata quella di “lasciare la pubblicazione di ricerche accademiche altamente specializzate alle dinamiche di un mercato commer- ciale sarebbe stato in effetti una condanna a farle lan- guire inosservate”. Ci fu dunque una crescita regolare nelle stampe, con aperture annuali dal 1920 al 1970 (Givler, 2002). L’editoria universitaria superò bene l’i- nizio del XXI secolo, quando l’aumentata concorrenza da parte di editori commerciali mise a dura prova le sue possibilità di sopravvivenza. Questa concorrenza 90 la pubblicazione in open access fu determinata in parte da significativi investimenti di fondi speculativi che le resero difficile, con fondi limi- tati, restare sul mercato. Fu presa infatti in una mano- vra a tenaglia tra una diminuzione di supporto econo- mico che doveva fare i conti con la crisi finanziaria e un’aumentata concorrenza da parte degli editori com- merciali con le loro attività (Greco e Wharton 2010). Una delle difficoltà economiche era che stampare e distribuire riviste cartacee era un business estraneo alle università. Erano necessari strumenti e coordina- mento logistico che risultavano costosi da mantenere e sempre più lontani dalle problematiche giornaliere dell’università. Ma il passaggio quasi universale alle riviste online e ai libri su richiesta (POD – print on demand) ha visto un riallineamento con funzioni e competenze universitarie. Le università gestiscono siti web, che sono luoghi dove le persone cercano in- formazioni. L’esperienza che il settore dell’istruzio- ne superiore ha guadagnato attraverso le OER (tema del prossimo capitolo), lo sviluppo del software e la maintenance dei siti web ora si allineano con le com- petenze che le università hanno sempre avuto nella revisione, modifica, scrittura e gestione delle riviste. Quindi ora può essere il momento giusto per la rina- scita della university press come luogo che gestisce una serie di riviste online in Open Access. Gestire riviste ad hoc all’interno delle università è un processo inefficiente. Centralizzando invece le ri- sorse per la maintenance e l’amministrazione di siti web, un’università può supportare diversi giornali. Gli altri ruoli principali sono quelli che gli accade- mici avrebbero ricoperto in ogni caso gratuitamente – rivedere, gestire ed editare la rivista, organizzarne edizioni speciali etc... 91 la battaglia per l’open Le stesse università stanno pagando cifre considere- voli agli editori attraverso le loro biblioteche; prenden- do parte di questa spesa e riassegnandola a pubblica- zioni interne, l’università potrebbe coprire questi co- sti. Oltretutto l’università guadagna prestigio e ricono- scimento per le sue riviste e l’esperienza e il controllo sono mantenuti all’interno dell’ateneo. Se abbastanza università lo fanno, cioè se pubblicano quattro o più riviste, allora l’editoria universitaria può iniziare a co- prire la gamma di competenze necessarie. È un processo che sta avvenendo in molte univer- sità ma resta un approccio frammentario, spesso fat- to nei ritagli di tempo tra un lavoro e l’altro. Basta guardare le liste di riviste che utilizzano OJS per constatare che l’approccio sta crescendo. Le univer- sità possono esternalizzare le funzioni di back offi- ce ad un editore come Ubiquity5 pur mantenendo il controllo della funzione editoriale della rivista. Frances Pinter di Knowledge Unlatched sta cercando di creare un consorzio di biblioteche per finanziare la creazione di pubblicazioni in Open Access6. Questo modello adotta una visione globale e riflette sul fatto che le biblioteche stanno acquistando da editori terzi il materiale prodotto dagli accademici, quindi una ri- definizione di questo approccio dovrebbe permettere alle biblioteche stesse di riversare fondi direttamente nella pubblicazione di contenuto sotto licenza Open Access (che quindi nè loro nè altri hanno bisogno di acquistare). 5 [Nota del traduttore] In Italia proprio la casa editrice che pubbli- ca la collana “I libri di Copyleft-Italia.it” (in cui è inserito questo libro), cioè Ledizioni di Milano, è specializzata in questo tipo di supporto. 6 Si veda http://www.knowledgeunlatched.org/about/how-it-works/. 92 la pubblicazione in open access Negli Stati Uniti in particolare c’è stato anche un mo- vimento per creare Open Textbooks attraverso iniziati- ve come OpenStax, il cui obiettivo è quello di fare libri di testo in Open Access per temi chiave come la sta- tistica, tagliando il costo considerevole per l’acquisto che era a carico degli studenti universitari. I libri di te- sto open si sovrappongono alla pratica OER, pertanto li esamineremo più in dettaglio nel prossimo capitolo. Tutto questo non è per suggerire che uno di questi approcci è quello “corretto” da seguire, ma piuttosto per illustrare possibili modelli di pubblicazione in Open Access. Ciò che tutti questi approcci hanno in co- mune è che l’openness è un elemento chiave, non un tentativo (spesso riluttante) di inserire l’Open Access in pratiche esistenti turbandole il meno possibile. Conclusioni L’intenzione di questo capitolo non era quella di fornire un resoconto completo dei modelli di pubbli- cazione, licenze ed economie Open Access, ma piut- tosto di illustrare come l’Open Access mostri molte delle caratteristiche chiave della battaglia per l’open. La prima di queste caratteristiche è la considerevole vittoria dell’approccio Open Access con la sua adozio- ne obbligatoria in molti paesi, e con la sua popolarità crescente tra gli accademici. La seconda è che que- sti cambiamenti sono guidati dai principi generali di openness che abbiamo visto nel precedente capito- lo, come la libertà di riutilizzo di contenuti digitali e in rete, le argomentazioni etiche per l’openness e l’openness come modello efficiente. 93 la battaglia per l’open La terza caratteristica è il lato negativo di questa vit- toria, con nuove aree di tensione e di conflitto, come si è visto nei dibattiti sulla Gold OA road, negli em- barghi per l’auto-archiviazione e con i predatori che entrano nel mercato. Infine l’importanza del fatto che gli accademici stessi siano coinvolti e gestiscano in autonomia il processo è messa in evidenza dal mo- dello possibile che le pratiche open offrono. Nel suo libro “What money can’t buy”, Sandel (2012) esplora il crescente approccio consumistico della so- cietà. Tra i suoi esempi quello di pagare mendicanti per fare la coda al proprio posto, e un asilo che quan- do ha iniziato a fare pagare una tariffa per i gruppi di bambini che venivano ritirati in ritardo, ha scoperto che i gruppi erano aumentati. I comportamenti che erano un tempo governati da convenzioni sociali sono diventati monetizzabili e possono essere acquistati. Sandel avrebbe potuto aggiungere alla lista la natura mutevole del rapporto con gli editori accademici. A suo parere una volta che gli autori iniziano a pagare direttamente gli editori per pubblicare, come è il caso della Gold road, questo cambia radicalmente la natu- ra del rapporto. La pubblicazione accademica è una pratica che sta al centro dell’identità universitaria e come tale questo fondamentale cambiamento nella sua natura dimostra l’impatto dell’openness, e l’im- portanza di impegnarsi nella sua direzione futura. Se la pubblicazione Open Access è l’area più conso- lidata della open education, allora le risorse didatti- che open (OER) arrivano subito dopo e offrono uno studio comparativo di un movimento che è in larga misura appartiene alle università stesse. Questo sarà il focus del prossimo capitolo. 94 CAPITOLO 4 Le Open Educational Resources Per comprendere il mondo a volte ci si potrebbe concentrare su una piccola parte di esso. Donna Tartt Introduzione Dopo aver parlato della pubblicazione in Open Access nel precedente capitolo, un’area in cui le ten- sioni sulla direzione che l’openness deve prendere sono evidenti, questo capitolo continua ad approfon- dire l’idea che l’openness sia un successo, ma che stia affrontando ora un conflitto sulla sua direzio- ne futura. In questo capitolo esamineremo un’area che fornisce un utile contrasto con l’Open Access e cioè quella delle Open Educational Resources (OER). Mentre l’Open Access vede gli insegnanti lottare per recuperare dagli editori il controllo sulle pubblica- zioni, e spesso mette gli uni contro gli altri, il movi- mento OER si è sviluppato in gran parte dall’interno del settore dell’istruzione superiore. Ci sono offerte commerciali anche in quel settore, molti alleati degli editori che abbiamo incontrato nel precedente capito- lo, ma l’appartenenza del movimento resta ancora al settore dell’istruzione. Un’area in cui si può trovare un tipo di tensione simile a quella di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo è quella dei libri di la battaglia per l’open testo in Open Access, ai quali dedicherò una sezione più avanti. In questo caso infatti le OER si sovrappon- gono alla pubblicazione in Open Access. Dall’altro capo del filo c’è la sequenza di OER per creare un cor- so, dove invece si sovrappongono con l’altro tema del prossimo capitolo, e cioè i MOOC. Questo solleva un problema di definizione – cosa intendiamo per OER – e per rispondere a questo per prima cosa vedremo un po’ di storia del movimento. Learning objects Il movimento OER nasce da precedenti attività sui cosiddetti learning objects [nota del traduttore: espressione poco traducibile che indica generica- mente singoli materiali o strumenti per l’apprendi- mento] e molti dei suoi benefici si sono avuti nella formazione, perciò vale la pena di partire da lì. Da quando l’elearning è diventato mainstream (intorno all’anno 2000), insegnanti e istituzioni scoprirono che stavano creando dal nulla risorse didattiche spes- so costose. Nel capitolo 2 sono state esaminate alcu- ne influenze da altri campi e una di queste lezioni provenienti dal movimento open source era l’efficien- za nel riutilizzare parti del codice software. Se si vuo- le una mappa, un correttore ortografico o un foglio di stile, allora è logico prenderne uno già esistente e semplicemente ricopiarlo nel tuo programma piutto- sto che svilupparlo da zero. Questa stessa logica ha suggerito che con la digitalizzazione del contenuto risorse preziose potevano essere condivise tra istitu- zioni. Ciò ha portato ad un interesse per quello che è stato chiamato “learning objects” (o per enfatizza- 96 le open educational resources re la loro possibilità di riutilizzo “reusable learning objects”). Stephen Downes (2001) ha presentato una convin- cente motivazione economica a riguardo: Ci sono migliaia di scuole superiori e università dove ci sono ad esempio corsi introduttivi di trigonometria. In ciascuno di questi corsi, e in ciascuna di queste istituzioni, si descrive ad esempio la funzione d’onda sinusoidale. Dunque, dato che le proprietà della fun- zione d’onda sinusoidale rimangono costanti da istitu- zione a istituzione possiamo dedurre che la descrizio- ne sia più o meno la stessa ovunque. Ciò che abbiamo dunque sono migliaia di descrizioni simili di funzione d’onda sinusoidale... Ora come premessa: il mondo non ha bisogno di mi- gliaia di descrizioni simili di funzione d’onda sinusoi- dale online. Piuttosto ciò di cui ha bisogno è una, o forse al massimo una dozzina, di descrizioni della fun- zione d’onda sinusoidale disponibili online. Immaginiamo che sia prodotta solo una descrizione della funzione d’onda sinusoidale. Una parte di mate- riale didattico di alta qualità e completamente interatti- vo potrebbe essere prodotto per diciamo 1000 dollari. Se 1000 istituzioni lo condividono il costo allora diven- ta di 1 dollaro per istituzione. Ma se ciascuna di que- ste migliaia di istituzioni produce un simile elemento, allora il costo per ciascuna istituzione diventa di 1000 dollari, con una spesa totale di 1 milione di dollari. Per una lezione. In un solo corso. Suona irresistible, no? E invece, nonostante inve- stimenti e ricerca, l’idea di una grande quantità di risorse didattiche condivisibili non si è mai materia- lizzata. Vale la pena di considerare il motivo, poiché le ragioni saranno importanti per le successive mani- festazioni dell’open education. 97 la battaglia per l’open La prima ragione per cui i materiali didattici non hanno ottenuto la sperata massa critica era quella che Wiley (2004) ha chiamato il “paradosso del riutiliz- zo”. Wiley sostiene che il contesto è quello che deter- mina l’importanza dell’apprendimento per le perso- ne, quindi più contesto ha un learning object e più utile è per uno studente. Se prendiamo come esem- pio la funzione d’onda sinusoidale di Downes, non è solo questa ad essere utile ma il collocarla all’interno di un contesto di riferimento, per esempio fare dei collegamenti con contenuti precedenti. È probabile che contenuti con confini chiari, come le funzioni d’onda sinusoidale, possano essere facilmente stacca- bili e collocabili in altri corsi in cui vengono effettua- te queste connessioni, ma si rivela più difficile con temi con limiti meno definiti. Ad esempio prendere un argomento didattico sul tema della schiavitù da un contesto ed inserirlo da un’altra parte può perde- re molte delle condizioni necessarie a completare il suo significato. Mentre dunque gli allievi vogliono il contesto per renderli riutilizzabili, i learning object dovrebbero avere meno contesto possibile dato che ne riduce la possibilità di riutilizzo. Questo porta al paradosso di Wiley, che lui stesso riassume così: «Succede che la riutilizzabilità e l’efficacia didattica siano completamente ortogonali l’una rispetto all’al- tra. Perciò, l’efficacia didattica e il potenziale di riu- tilizzo sono in contrasto l’uno con l’altro». Questo è dimostrato nella Figura 3. 98 le open educational resources Figura 3. Il paradosso della riutilizzabilità. Figura di Wiley 2004. Pubblicata con licenza CC-BY. Un secondo problema con i materiali didattici ri- guarda la iper-specializzazione. Al momento del loro sviluppo l’interoperabilità era la maggiore preoccupa- zione, quindi l’obiettivo era prendere un materiale svi- luppato da un’università e poterlo usare nel learning management system (LMS) di un’altra. C’erano anche questioni riguardanti la reperibilità, molte di esse pre- cedenti all’avvento del dominio di Google. Ciò ha por- tato allo sviluppo di una serie di standard, tutti con il lodevole obiettivo di fare in modo che le risorse fossero sia più facili da trovare che riutilizzabili. Il problema di questo approccio è che gli standard sono diventati troppo complessi fino a trasformarsi in un limite all’a- dozione del materiale da parte degli accademici. Una terza questione significativa è stata la sosteni- bilità dell’approccio. Anche se aveva senso sia da un punto di vista economico che pedagogico sviluppare materiali didattici di alta qualità, essi richiedevano una massa critica per essere utili agli insegnanti. E ottenerla pareva essere problematico. Le barriere cre- 99 la battaglia per l’open ate dagli standard erano scoraggianti per molti degli insegnanti. Più significativamente, condividere le ri- sorse didattiche contribuendo ad archivi di materiale non faceva parte della comune pratica di insegna- mento, almeno nel modo in cui lo era condividere i risultati della ricerca attraverso articoli scientifici. Quindi acquisire una quantità ampia di risorse che potessero incontrare il bisogno degli insegnanti di- ventava difficilmente praticabile. Questi tre fattori – riutilizzabilità, standardizzazioni e cultura – sarebbero stati poi parzialmente risolti da sviluppi esogeni ed endogeni nel settore dell’istruzio- ne. Alcuni di essi però furono in larga parte dimentica- ti e si stanno ora rispolverando, in particolare i MOOC come vedremo nel prossimo capitolo. Quindi se i ma- teriali didattici procedevano a fatica per alcuni aspetti essi possono essere considerati come il primo passo necessario nel processo di apertura dei materiali di- dattici. Era semplicemente troppo presto. Il problema degli standard troppo complicati ad esempio sarebbe stato in larga misura superato con gli sviluppi del web 2.0 e delle più semplice pratiche di “embedding” e “tagging”. Contribuire con un gruppo di materiali ad un archivio didattico e fare in modo che aderissero a standard come SCORM (Sharable Content Object Reference Model), e aggiungere una collezione di me- tadati li può rendere decisamente riutilizzabili; ma la complessità può superare i benefici. Paragonate que- sto a salvare un PowerPoint su SlideShare e taggarlo con qualche parola chiave, che è un’attività che ora gli insegnanti normalmente fanno. 100 le open educational resources Le OER Nel 2001 il movimento OER comincia seria- mente quando il MIT annuncia la sua iniziativa OpenCourseWare. L’obiettivo del MIT era quello di rendere tutti i materiali didattici usati nei suoi 1800 corsi disponibili online, dove le risorse potevano es- sere usate e riadattate a piacimento a costo zero. La William and Flora Hewlett Foundation, che finanziò il progetto del MIT, definì le OER come: Risorse di insegnamento, apprendimento e ricerca che sono di dominio pubblico o che sono state rila- sciate sotto una licenza di proprietà intellettuale che permette il loro utilizzo gratuito e il loro riadattamento da parte di altri. Le open educational resources inclu- dono interi corsi, materiali di corsi, moduli, libri di te- sto, video in streaming, testi, software e qualsiasi altro strumento, materiale o tecnica usata a supporto di un accesso al sapere (Hewlett Foundation). È una definizione ampia che comprende un insie- me che va dagli interi corsi (MOOC) alle risorse indi- viduali, dai libri di testo ai software. L’elemento chiave è il sottolineare l’esigenza di una licenza che permetta l’utilizzo libero e il riadattamento, cosa che di nuovo attinge alla distinzione tipica del mondo open source tra “free as in free beer” e “free as in free speach”. Per soddisfare la definizione di Hewlett non è sufficien- te infatti semplicemente essere gratuito (come molti MOOC sono), ma deve essere riutilizzabile. Ci sono altri definizioni di OER disponibili (vedi Creative Commons 2013a per un paragone) ma anche se non chiedono esplicitamente una licenza open, tutte enfa- tizzano il diritto a riutilizzare il contenuto. 101 la battaglia per l’open L’iniziativa OpenCourseWare ha anche cercato di rispondere ad alcuni dei problemi che abbiamo vi- sto con i learning objects, in particolare quello della sostenibilità, dato che ha preso i contenuti didatti- ci esistenti e li ha rilasciati. Agli insegnanti non si chiedeva di produrre contenuti specialistici, anche se il metterli a disposizione non era un processo senza frizioni vista la necessità di riadattarli, di ge- stirne i diritti e in parte di modificarli. Il MIT sti- ma che annualmente ampliare e gestire il loro sito OpenCourseWare costi 3.5 milioni di dollari. E nono- stante questo l’iniziativa non contava su insegnanti individuali che dovevano avere a che fare con com- plicati standard e con l’adozione di nuove pratiche, al contrario OpenCourseWare partiva da una pratica standard che prevedeva di prendere materiali esisten- ti dai corsi e rilasciare quelli, invece che sviluppare materiali didattici ad hoc. Riallacciandosi all’annuncio del MIT iniziò così un movimento OER, con molte altre università che ne seguirono l’esempio. Iniziative di questo tipo erano spesso finanziate da fondazioni come la William and Flora Hewlett o da iniziative nazionali come la Joint Information System Committee (JISC) nel Regno Unito. Una buona domanda a questo punto è perché tante università hanno cercato di rendere disponibili materiali gratuitamente? Una ricerca di JISC sui vari programmi OER nel Regno Unito ha individuato cin- que ragioni (McGill e al. 2013): • costruire una reputazione per individui, istituzioni o comunità; • migliorare l’efficienza, i costi e la qualità della pro- duzione; • promuovere un accesso aperto al sapere; 102 le open educational resources • migliorare la didattica e l’“esperienza di apprendi- mento” degli studenti; • dare un nuovo slancio tecnologico. Come gli autori sottolineano, queste motivazio- ni non si escludono l’una con l’altra e spesso si so- vrappongono. Analogamente, la Hewlett Foundation (2013) ha condiviso cinque motivazioni per cui loro finanziano il campo delle OER: • riducono radicalmente i costi; • forniscono una maggiore efficienza di apprendi- mento; • promuovono un continuo miglioramento dell’i- struzione e dell’apprendimento personalizzato; • incoraggiano la traduzione e la localizzazione dei contenuti; • offrono a tutti un uguale accesso al sapere. Questa moltitudine di motivazioni è un punto si- gnificativo nella battaglia per l’openness. Le universi- tà sono esse stesse istituzioni complesse che rispon- dono ad una varietà di ruoli che includono la forma- zione, la ricerca, i centri di innovazione (Etzkowitz et al. 2000), il public engagement, gli attori del cambia- mento sociale (Brennan, King and Lebeau 2004), la cura e conservazione del sapere, e la presenza di una voce indipendente e affidabile, quindi non dovrebbe stupire che la open education abbia una miriade di ruoli e funzioni. Questa complessità funzionale sarà analizzata nuovamente nel prossimo capitolo sui MOOC, dato che crea non poca tensione con entità commerciali che spesso chiedono un obiettivo più coinvolgente. 103 la battaglia per l’open Le OER sono spesso raccolte in archivi, e la loro vastità è impressionante. È quasi impossibile quanti- ficare le OER in base alla data o ai progetti, dato che varia molto a seconda della definizione. Per esempio, si devono includere le collezioni dei musei? I video di Youtube? I download di iTunes U? Anche se il focus è unicamente su progetti OER di matrice universita- ria, il Consorzio OpenCourseWare conta più di 260 membri, ciascuno dei quali si impegna nella open education e nel rilasciare OER. Il MIT ha creato più di 2000 corsi gratuiti e accessibili e il sito OpenLearn della Open University ha rilasciato più di diecimila ore di risorse didattiche. In termini di utilizzo il 71% degli studenti universitari negli USA ha usato OER, anche se solo uno su dieci le ha usate in modo conti- nuativo (Dahlstrom, Walker and Dziuban 2013), circa il 50% degli insegnanti negli USA è al corrente delle OER e il 40% le usa a sostegno del proprio materiale didattico (BCG 2012). L’impatto delle OER sull’apprendimento non è fa- cile da quantificare, dato che esiste un aspetto di uso supplementare da parte degli studenti formali7. C’è 7 [Nota del traduttore] Come già precisato in una precedente nota a proposito delle espressioni “formal course” e “informal cour- se”, più volte nel testo si incontra l’espressione “formal student” (o anche “formal learner”) per indicare gli studenti regolarmen- te immatricolati a corsi universitari “regolari”; in contrapposi- zione con “informal student” (o anche “informal learner”) che invece vuole indicare studenti (o più genericamente discenti, corsisti) che seguono un corso di formazione o un corso uni- versitario senza essere immatricolati presso un’università o una scuola. Anche qui, nella traduzione ho scelto di rimanere il più possibile letterale e aderente alla scelta lessicale di Weller, pur sapendo che in italiano gli aggettivi “formale” e “informale” pos- sono avere un’accezione diversa. Questa nota serve appunto per sgombrare il campo da equivoci semantici su questi aggettivi. 104 le open educational resources ampia evidenza della convinzione che le OER miglio- rino l’apprendimento, ma non è la stessa cosa che avere una prova di un effettivo miglioramento. Se cerchiamo un’evoluzione nella soddisfazione o nelle performance degli studenti, c’è infatti a volte un diva- rio tra quello che pensano loro e quello che pensano gli insegnanti. Per esempio, il 63% degli insegnanti è d’accordo che usare le risorse OpenLearn della OU migliori la soddisfazione degli studenti, un’opinione condivisa dall’85% degli insegnanti K-12 coinvolti nel “flipped learning” (cioè un approccio di insegnamen- to in cui gli studenti usano risorse online a casa e sfruttano il tempo in classe per interagire con gli altri – De Los Arcos 2014). Però solo il 47% di studenti ha dichiarato che usare OpenLearn ha migliorato la sua soddisfazione riguardo all’esperienza formativa (Perryman, Law and Law 2013). Per quanto riguarda le prestazioni, il 44% degli in- segnanti ha convenuto che usare OpenLearn ha por- tato a miglioramenti scolastici e il 63% di insegnanti K-12 era d’accordo che usare risorse online nelle “flip- ped classroom” ha contribuito a migliorare i risultati dei test. Si ha una migliore dimostrazione quando ci sono elementi di confronto, in particolare in relazione all’a- dozione di risorse open senza testo: il dipartimento di Matematica della Byron High School ha parlato di un salto da 29,9% nel 2006 a 73,8% nel 2011 nel- la padronanza della matematica, e da un punteggio medio di 21,2 (su una scala di 36) nel 2006 al 24,5 nel 2011 nell’ACT – American College Test (Fulton, 2012). Wiley e altri (2012) invece hanno rilevato che l’adozione di libri di testo open in sostituzione ai li- bri tradizionali da parte di venti insegnanti di scienze 105 la battaglia per l’open della scuola media e superiore (e 3.900 studenti) in due anni non è correlabile ad un cambio nei voti de- gli studenti (inteso come sia aumento sia calo). Questa panoramica sulle OER ha dimostrato che fin da suoi esordi con i materiali didattici, l’approccio della open education sta iniziando a stabilizzarsi. La disponibilità e diffusione delle OER sta ora entran- do nell’istruzione mainstream, anche se l’evidenza dell’impatto ancora è mista. Un format in cui le OER stanno guadagnando strada però è quello dei libri di testo Open Access, di cui parleremo nella prossima sezione. Libri di testo open Come stabilisce la definizione di OER della Hewlett, esse possono includere anche libri di testo. Il campo dei libri di testo ha dimostrato di essere uno dei più propensi all’approccio open, e fornisce delle prove concrete di risparmio in termini di costi e di bene- fici didattici. Quello che è certo è che in gran parte del Nord America i libri di testo open sono diventati quasi sinonimo di OER. Il presupposto degli open textbook è relativamente semplice – creare versioni elettroniche di libri di testo standard che siano dispo- nibili gratuitamente e che possano essere modifica- ti dagli utenti. La versione stampata di questi libri è messa a disposizione a basso costo per coprire le spese di stampa, per un minimo di 5 dollari (Wiley 2011b). Le motivazioni per farlo sono particolarmen- te evidenti negli Stati Uniti, dove il costo dei libri in- fluisce del 26% su un programma di laurea di quat- 106 le open educational resources tro anni (GAO 2005). È sicuramente un argomento forte per la loro adozione. Ci sono una serie di progetti che sviluppano libri di testo open usando vari modelli di produzione: un buon esempio è OpenStax, che riceve fondi da diver- si enti. Loro trattano aree tematiche che coinvolgono una grande parte della popolazione di studenti na- zionale, per esempio “Introduzione alla statistica” o “Concetti di Biologia”, “Introduzione alla sociologia” etc. Questi libri sono co-prodotti da autori che ven- gono pagati per lavorarci, e sono peer reviewed. Le versioni elettroniche degli stessi sono gratuite e sono disponibili anche versioni stampate a pagamento. I libri sono rilasciati sotto la licenza CC-BY e gli inse- gnanti sono incoraggiati a modificarli in base alle loro esigenze. In termini di adozione, i testi di OpenStax sono stati scaricati più di 120.000 volte e 200 istitu- zioni hanno deciso formalmente di adottare materiali OpenStax, portando ad un risparmio per gli studenti che è stato stimato a 3 milioni di dollari (Green 2013). Allo stesso modo una relazione della Open Course Library (Allen 2013) ha stimato che OCL ha permesso agli studenti di risparmiare 5,5 milioni di dollari dal suo inizio, con un risparmio medio di 96 dollari per corso rispetto all’utilizzo di libri di testo tradizionali – qualcosa come il 90% di riduzione rispetto ai costi precedenti, che equivarrebbe a 41,6 milioni di dollari di adozione in tutto lo stato di Washington. Il College of the Canyons ha calcolato risparmi provenienti dai libri di testo open per 400.000 dollari nella regione (Daly e altri 2013) usando una formula che si basava su modelli di acquisto precedente. Va osservato che questi risparmi sono spesso calcolati sulla base della spesa prevista dagli studenti; quindi la loro esistenza 107 la battaglia per l’open potrebbe essere controversa, dato che implica che gli studenti avrebbero acquistato i libri. Insieme all’impatto economico ci dovrebbe essere poi anche quello didattico, dato che semplicemente gli studenti non acquistano i libri di testo se sono cari. Feldstein e altri (2013) hanno riportato che, mentre solo il 47% degli studenti acquistava i libri di testo, soprattutto per il fatto che il costo non era abbordabile, quando si passò ai libri di testo open, allora emerse che il 93% degli studenti leggeva la ver- sione gratis online. Forse una delle ragioni per cui i libri di testo open si stanno dimostrando un’area feconda per lo svilup- po delle OER è che facilmente mappano pratiche già esistenti. Uno dei problemi che i materiali didattici hanno incontrato infatti era che per avere successo dovevano adottare troppe pratiche aliene o nuove – condividere materiali di insegnamento, caricarli in archivi, taggarli con metadati, usare i materiali di altri nei corsi in elearning etc. I libri di testo open hanno solo bisogno di un docente (o istituzione, sta- to o paese) che consigli un testo alternativo. Fintanto che la qualità di questo libro è ritenuta buona, se non migliore rispetto al testo standard, il solo risparmio diventa un irresistibile motore di adozione. Nello scegliere tra due alternative di uguale valore didatti- co infatti il prezzo diventa un fattore di scelta impor- tante e la gratuità è difficile da battere. Altri fattori come le licenze open e la possibilità di modificare il libro di testo diventano interessanti successivamen- te. Per esempio OpenStax riporta che di 1.245 risor- se, solo 419 sono state modificate e questo suggeri- sce che intervenire in un libro di testo è ancora per molti insegnanti una pratica aliena ma in crescita. 108 le open educational resources Probabilmente un simile cambiamento richiederà molto tempo, ma l’esempio dei libri di testo dimostra come iniziare da una pratica compresa e acquisita possa portare ad un’adozione di successo delle OER, e da questa iniziale esposizione all’openness segui- ranno altre pratiche. I problemi delle OER Uno dei problemi che viene spesso sollevato per i progetti OER è quello della sostenibilità. Molti pro- getti OER hanno ricevuto fondi da enti come la fon- dazione William and Flora Hewlett. Produrre OER e mantenere grandi progetti e nel mentre gestire uno staff non è un’attività a costo zero, quindi sorge il problema di come portarli avanti quando finiscono i fondi di partenza. In un rapporto per l’OCSE nel 2007, David Wiley ha definito la sostenibilità come «la continua capacità di un progetto sulle risorse didattiche aperte di rag- giungere i suoi obiettivi» (Wiley 2007b p.5). Wiley ha proposto tre modelli di sostenibilità che ha etichetta- to in base alle università che li hanno sviluppati: 1. Il modello MIT: le OER sono create e rilasciate da un team di progetto dedicato, centralizzato e retri- buito. 2. Il modello USU (Utah State University): le OER sono create da un ibrido tra un team centralizzato e uno staff decentralizzato. 3. Il modello Rice: modello decentralizzato basato su una comunità di contributori. 109 la battaglia per l’open La sostenibilità economica delle OER è importan- te, perché le stesse domande ora si pongono per i MOOC e per altri approcci open. Molte università ri- chiedono fondi di avviamento per fare partire le OER, di norma a fondazioni come la Hewlett oppure a enti nazionali come lo JISC; ma i finanziamenti esterni a supporto di progetti non sono una soluzione a lungo termine. Alla Open University il progetto OpenLearn opera come un modello USU e fa del rilascio di OER una pratica standard. Ciascun nuovo corso deve con- dividere un certo numero di materiali, che vengono poi “ripuliti”, formattati e resi indipendenti dal conte- sto da un team centrale, che poi li rilascia attraverso l’archivio OpenLearn. Il costo aggiuntivo di questo lavoro è coperto dal “recruitment value” del materia- le open, che copre le spese in termini di registrazio- ni di studenti, cioè quelli studenti che vengono su OpenLearn e poi si iscrivono ad un corso formale (Perryman, Law&Law, 2013). Le OER dunque sono sostenibili ma bisogna preve- dere i costi per farle partire. Un modello alternativo è quello che viene dal campo dei libri di testo open, che propone che i fondi che vengono ora usati per acquistare libri di testo per il college siano impiegati per creare libri di testo open e gratuiti. Come per la sostenibilità ci sono anche altri pro- blemi che affliggono il materiale didattico, che non sono stati interamente superati delle OER. La rilut- tanza degli insegnanti ad adottare OER ad esempio è un problema che nasce dalla difficoltà a trovarle e dal tempo speso per adattarne contenuti e contesto (Il paradosso del riutilizzo di Wiley) (McGill 2012). C’è anche un problema di reperimento di materia- le, che nasce da una difficoltà culturale che hanno gli 110 le open educational resources insegnanti a condividerlo facilmente, nonostante la crescente visibilità delle OER. Ad esempio, un’inda- gine condotta tra insegnanti che aderiscono al nuovo sistema di insegnamento ha scoperto che, mentre il 70% degli intervistati dichiara che le licenze open sono importanti quando si usano risorse online gra- tuite per i corsi, solo il 43% di loro pubblica online ciò che ha creato e solo il 5% sotto una licenza CC (De Los Arcos 2014). C’è comunque una maggiore con- sapevolezza sulla condivisione, e attraverso siti come iTunes U, Flickr e YouTube le barriere sia tecniche che culturali si sono molto abbassate. Ritorneremo su questo punto quando tratteremo la open scholar- ship nel capitolo 7. Una storia di successo? La tesi di questo libro è che l’openness sia stata un approccio riuscito, e mentre è relativamente facile dimostrarlo per la pubblicazione in Open Access, risulta meno chiaro per le OER. Dal punto di vista della creazione di un movimento che ha continuato a crescere per più di un decennio, le OER sono una storia di relativo successo, soprattutto se paragona- ta ai “learning objects” per esempio, o a molti altri movimenti nel campo delle tecnologie per l’appren- dimento. Ma non hanno completamente trasforma- to l’istruzione o cambiato le sue regole come mol- ti pensavano avrebbero fatto (Kortemeyer 2013). Ci sono voluti oltre dieci anni e investimenti notevoli per arrivare a questo punto, ma stanno entrando ora nella pratica globale mainstream dell’istruzione, e il prossimo decennio deciderà con tutta probabilità se 111 la battaglia per l’open il loro utilizzo passerà dall’essere complementare al diventare invece primario. Queste tempistiche e que- sta quantità di investimenti sono significative perché danno l’idea dello sforzo necessario per avere un impatto nel settore dell’insegnamento. L’efficienza e i benefici didattici delle OER sono stati evidenti fin dai tempi dei “learning objects”, ma ci sono notevo- li barriere da superare nel realizzarle, incluse quelle culturali come la riluttanza degli insegnanti nel riuti- lizzare i contenuti di altri. Questo dimostra che lo sforzo richiesto per avere un impatto anche modesto nel settore dell’istruzione non dovrebbe essere sottostimato. Le storie a lungo termine con risultati altalenanti sono difficili da rac- contare alla gente comune, e i media preferiscono un tipo particolare di narrazione che esploriamo nel capitolo 6. Mentre le OER sono state largamente tra- scurate dai mass media, la rivoluzione da un giorno all’altro dei MOOC ha offerto una storia più digeribi- le. Dato l’investimento richiesto per trasformare l’i- struzione, non si sa se tante aziende con un sostegno di venture capital saranno disposte ad aspettare dieci anni per vederne l’impatto. Nella sua analisi critica di Tim O’Reilly, Morozov (2013) fa il punto sulle diverse scale temporali dei movimenti free e open source che abbiamo visto nel capitolo 2, e a cui qui si può fare riferimento: Stallman il riformatore sociale potrebbe aspettare de- cenni per vedere prevalere la sua argomentazione etica sul free software nel dibattito pubblico. O’Reilly, l’im- prenditore esperto, ha avuto tempi molto più brevi: una rapida acquisizione del software open source da parte della comunità imprenditoriale ha garantito una richiesta stabile dei libri e delle attività di O’Reilly, spe- 112 le open educational resources cialmente nel momento in cui alcuni analisti stavano iniziando a preoccuparsi. Se si sostituisse “free software” con OER e “open- source software” con MOOC nell’analisi di Morozov allora lo schema sarebbe simile. Le OER, per la mag- gior parte concepite come un bene sociale alleato ai ruoli dell’università, possono permettersi di realizza- re il loro obiettivo e capire che questi cambiamenti richiedono effettivamente tempo. I MOOC, in parti- colare quelli finanziati da fondi venture capital, su- biscono invece pressioni per realizzare un impatto il più rapido e plateale possibile. Nel capitolo 1 una del- le ragioni per porre la questione della open education come battaglia era quella della narrazione. Questo bisogno di rapidi risultati per realizzare target com- merciali crea un contesto nel quale le narrazioni del- la rivoluzione e del cambiamento radicale non sono desiderabili, ma essenziali. È un tema che esplorere- mo più in dettaglio nel capitolo 6, ma per ora vale la pena di notare il lasso di tempo, gli investimenti e il duro lavoro richiesti dalla comunità OER per realiz- zare i loro obiettivi a lungo termine. La battaglia per le OER Se ritorniamo al tema del libro, e cioè che l’open- ness sta ora affrontando un conflitto circa la sua di- rezione futura, allora quale dovrebbe essere il fulcro di quel conflitto per le OER? Uno potrebbe essere la competizione per gli interessi commerciali all’inter- no dell’ambito OER. Il movimento OER è stato in larga parte trainato dall’istruzione, ma ci sono anche aspetti commerciali. La motivazione di molte univer- 113 la battaglia per l’open sità non è puramente altruistica: la visibilità del mar- chio, il puro marketing e il reclutamento degli stu- denti sono tra le motivazioni per una politica OER. Oltre a quelle generate da enti di istruzione, un nu- mero di aziende le usa sia come materiale a supporto dei loro prodotti di punta sia come offerta primaria, e in altri casi c’è un confine labile tra interessi commer- ciali e open. Ad esempio la Virtual School crea OER per insegnanti (in collaborazione con loro) e li rilascia sotto licenza CC. È creata e finanziata dalla società di corporate elearning Fusion Universal e si presenta come impresa sociale. La Khan Academy è un’orga- nizzazione no profit che crea e condivide in modalità open risorse didattiche in forma di video-tutorial. Il fondatore, Salman Khan, è ritenuto essere “il perso- naggio più influente nelle educational technologies” da Forbes (High 2012). La Khan Academy registra 6 milioni di visitatori al mese (Khan Academy 2013) e il loro approccio ha influito su molti dei pionieri dei MOOC, come Sabastian Thrun (High 2013), quindi forse questa affermazione non è così esagerata, alme- no in termini di copertura mediatica. Un diverso impiego delle OER è quello di OpenEd, che è un catalogo di risorse che include giochi e va- lutazioni per K-12, molte allineate allo standard USA Common Core. Queste provengono da altri creatori, come la Khan Academy, ma il servizio raccoglie risor- se conformi agli standard e offre anche un Learning management System e un API per integrarsi alle ri- sorse di altri sistemi. L’editore di materiale didatti- co Pearson ha lanciato OpenClass, una piattaforma di apprendimento online gratuita che permette agli insegnanti di creare i loro corsi usando le OER (sia 114 le open educational resources proprie sia provenienti da altri). In questo model- lo la fornitura di OER è un modo attraverso il qua- le una piattaforma di apprendimento può essere commercializzata. L’iniziativa OpenClass è interessante perché il suo lancio è stato accompagnato da una buona dose di scetticismo. Pearson non è nota per dar via contenu- ti o per fare parte di movimenti open, quindi alcuni commentatori si sono chiesti quale interesse avesse nell’offrire un LMS gratuito. Kim (2011) ha suggeri- to che dovrebbero essere «brutalmente onesti circa i rischi per un editore che provengono dal passaggio da libri di testo stampati a contenuti digitali e circa la loro necessità di non perdere il controllo sul canale di vendita». Allo stesso tempo Watters (2011) avver- te che «si deve mettere in discussione il loro uso di aggettivi come free e open». Queste risposte indica- no la cautela nei confronti di fornitori commerciali che adottano approcci open, dato che il sospetto è che questa forma open sia stata usata per attirare gli utenti su servizi a pagamento o per provare a stabili- re un monopolio (anche se Pearson ha sottolineato il fatto che non intende vendere ulteriori prodotti agli utenti OpenClass). Comunque fornitori commerciali che offrono OER non vanno necessariamente a scapito del movimento stesso: da molti punti di vista è un’aggiunta neces- saria e benvenuta a contribuire ad un più largo ba- cino di risorse. Diventa un problema solo se, come nel caso del movimento green, va ad intaccare i valori chiave dell’openness. I problemi legati al rilascio di OER sono forse rias- sunti al meglio da un rapporto rilasciato nel 2014. La National Association of College Stores ha esaminato 115 la battaglia per l’open l’uso di libri di testo open creati dal progetto della Open Course Library (OCL) nello stato di Washington (Biemiller 2014). I risultati sono sconfortanti per i promotori delle OER, e riportano che «di 98.130 studenti iscritti in questi 42 corsi di 25 campus, solo 2.386 erano in sezioni che usavano i materiali con- sigliati da OCL». Il rapporto però risulta in qualche modo strano, per una serie di ragioni. Prima di tutto la ricerca è stata fatta da negozi di libri universitari, e molti utenti di testi online e open non passano certo da lì per procurarseli. Ci si potrebbe anche chiedere se i negozi universitari siano interamente a favore di risorse gratuite e online, ma anche se ignoriamo i dubbi metodologici e accettiamo che ci siano nu- meri bassi, questo rivela molto del contesto in cui le OER operano. Si potrebbe supporre che di fronte alla scelta tra un testo che costa diciamo 100 dollari e uno che è gratuito (o la cui copia fisica è disponibile per 25 dollari), il secondo sia il preferito. Le ragioni per cui l’adozione può essere inferiore di quanto ci si aspetti indicano le aree per la fase successiva del movimento OER. Prima tra tutte c’è semplicemente la conoscenza delle risorse. Gli editori commerciali usano mezzi di marketing sofisticati e costosi, con i quali competere per informare allievi e studenti sul- le alternative open sarebbe problematico, soprattutto per le organizzazioni no-profit. Il secondo problema è meno economico e più commerciale: i libri sono consigliati da docenti universitari che hanno usato lo stesso libro per molti anni e hanno costruito il loro curriculum su di esso. Per scegliere un’alternativa, non importa quanto valida, serve uno sforzo in più. Anche se gli insegnanti possono preoccuparsi delle spese a carico degli studenti, i costi dei libri di testo 116 le open educational resources non sono a carico loro, quindi non c’è un incentivo reale a passare ad alternative gratuite. Questo non vuol dire che non se ne curano, ma piuttosto che per facoltà spesso sovraccariche di lavoro non è sempre una priorità. In più molte università ricevono percen- tuali dai negozi di libri del campus, quindi di nuovo non c’è nessun incentivo a ridurre i costi. Quello che OCL riporta quindi rivela che semplicemente creare OER che siano di buona qualità e disponibili gratui- tamente non è una ragione sufficiente per assicurar- ne l’adozione. C’è un ecosistema culturale di lunga data che circonda l’uso corrente dei libri di testo, e le nuove versioni open devono affrontarne tutti i diversi elementi per avere successo. Conclusioni Tra le diverse categorie di open education si può pensare che le OER stiano nel mezzo, intersecando da un lato l’Open Access, attraverso i libri di testo aperti, e dall’altro i MOOC, che possono essere con- siderati come un sottoinsieme delle OER. Il campo OER è occupato da un mix di università, agenzie nazionali, organizzazioni no profit ed interessi com- merciali. Mentre ci sono alcune riserve sulle inten- zioni dei player commerciali, la combinazione di di- versi fornitori di OER rappresenta un sano miscuglio di differenti interessi. I principi chiave delle OER sono ben consolidati e beneficiano di una definizio- ne abbastanza chiara che prefigura l’importanza del riutilizzo e delle licenze open, quindi tutti nuovi par- tecipanti in questo settore sono obbligati a compor- tarsi in larga misura in modalità open. Si può inten- 117 la battaglia per l’open dere questo come il risultato delle radici altruistiche del movimento e del tempo che gli è stato necessario per affermarsi, guidato principalmente da fornitori di servizi formativi e da attività no profit, che ha fatto anche in modo che le istituzioni scolastiche siano ri- maste in larga parte prominenti nel settore. Come impatto le OER hanno avuto successo in ter- mini di numero di risorse e di persone che ne han- no avuto accesso, anche se sono state criticate per non avere avuto una grande influenza nella pratica quotidiana: per esempio, Kortemeyer (2013) lamenta che «le OER non hanno intaccato in modo rilevante il tradizionale modello commerciale dell’istruzione superiore né hanno cambiato gli approcci di inse- gnamento quotidiano della maggior parte degli isti- tuti». Tuttavia l’impatto può essere visto da una serie di ottiche differenti. L’OER Research Hub (2013) ha elencato undici ipotetiche convinzioni principali sul- le OER: 1. L’uso delle OER porta ad un miglioramento delle performance e della gratificazione degli studenti. 2. L’aspetto open delle OER permette diversi modelli di utilizzo e di adozione rispetto ad altre risorse online. 3. I modelli di open education portano ad un acces- so più egualitario all’istruzione, aiutando un più grande bacino di studenti rispetto all’istruzione tradizionale. 4. L’uso delle OER è un metodo efficace per migliora- re la ritenzione degli studenti a rischio. 5. L’uso delle OER porta ad una riflessione critica da parte degli insegnanti, con un evidente migliora- mento nella loro pratica. 118 le open educational resources 6. L’adozione di OER a livello istituzionale porta be- nefici economici sia a studenti che a istituzioni. 7. Gli studenti informali usano una varietà di indica- tori quando selezionano le OER. 8. Gli studenti informali adottano una varietà di tec- niche per compensare la mancanza di supporto, che possono essere supportate dai corsi open. 9. La open education funziona da ponte con l’istru- zione formale, e ne è complementare non in com- petizione. 10. La partecipazione a progetti pilota nel settore OER porta a cambiamenti normativi a livello isti- tuzionale. 11. Mezzi di valutazione informale incentivano l’ap- prendimento con le OER Queste convinzioni potrebbero spesso risultare ov- vie, innegabilmente vere o basate su aneddoti, ma sono raramente sostenute da prove. Il movimento OER ha guadagnato ora abbastanza slancio per stu- diarle meglio e l’evidenza del loro impatto si può tro- vare nella Impact Map (OER Research Hub 2014). In generale si sono trovate prove a sostegno delle ipo- tesi, anche se per alcune di esse erano ancora equi- voche o sfumate. Questo metodo di iniziale promo- zione sulla base delle convinzioni che vengono poi soggette ad una valutazione oggettiva è necessario per proseguire in nuovi campi. Come abbiamo visto nel capitolo 2, la combinazione tra risorse digitali e internet ha creato possibilità nuove che non hanno nessun precedente su cui basarsi. Pertanto, per nuo- vi campi come le OER, per raggiungere uno stato di maturazione dove sia possibile farne una valutazione critica, è fondamentale passare da una fase iniziale 119 la battaglia per l’open caratterizzata dalla sperimentazione e da una sorta di “evangelizzazione”. Le OER possono essere presentate dunque come una storia di successo per la open education – hanno un impatto positivo sugli studenti, hanno sviluppato modelli sostenibili di operatività, possono contare su una fiorente comunità globale, l’aspetto open è stato mantenuto e c’è una risonanza con la funzione socia- le dell’istruzione, il tutto racchiuso in un approccio moderno e digitale proprio del XXI secolo. Se andia- mo a rivedere i principi dell’openness elencati nel ca- pitolo 2, allora possiamo vedere come le OER siano in linea con essi: • libertà di riutilizzo – le licenze open fanno anche parte della definizione di OER; • Open Access – una caratteristica distintiva; • gratuità – di norma, anche se alcuni providers com- merciali operano con il modello “freemium”, in cui parte del contenuto è gratuito e parte non lo è; • facile utilizzo – di solito sono semplici, anche se modificarne il contenuto può richiedere alcune competenze specifiche; • contenuto digitale e in rete – si, anche se da tene- re presente il punto precedente sulla visibilità delle OER; • approccio sociale, comunitario – esiste una buona comunità OER e per molti progetti specifici l’ap- proccio open è stato fondamentale per mettere in- sieme gruppi; • argomentazioni etiche a favore dell’openness – han- no costituito la base anche di molti progetti OER; • openness come modello efficiente – in crescita, so- prattutto con l’approccio dei libri di testo open. 120 le open educational resources Dimostrato ciò, ha senso chiedersi come mai que- sta storia di successo non ha avuto la stessa copertu- ra mediatica nella stampa che hanno avuto i MOOC. Perché un blogger che si occupa di tecnologie didat- tiche dovrebbe dichiarare che i MOOC hanno porta- to «più fermento in un anno che negli ultimi 1000 anni» (Clark 2013)? La fondazione Hewlett (2013 pag 16) si è sentita in dovere di specificare che «stiamo assistendo a un sacco di confusione nel mercato sui termini ‘Open’ e ‘OER’. Un esempio è la gran- de crescita di corsi open online (MOOC) che hanno suscitato molta attenzione per il movimento». Che cos’è dunque che ha attirato così tanta attenzione sui MOOC da parte dei media rispetto alle OER che sono state in larga misura ignorate? Rispondere a questa domanda ci dirà molto sulla open education e sul- le tensioni al suo interno, e sarà il tema trattato nel prossimo capitolo. 121 CAPITOLO 5 I MOOC Attento all’uomo che lavora duro per imparare qualcosa, lo impara e non si ritrova più saggio di prima. Egli è pieno di risentimento omicida verso le persone che sono ignoranti senza es- serlo diventate nel modo più faticoso. Kurt Vonnegut Introduzione Dopo aver esaminato la pratica consolidata delle pubblicazioni in Open Access nel capitolo 3 e l’ap- proccio relativamente stabile delle OER nel capitolo 4, questo capitolo tratterà il mondo veloce e un po’ volatile dei MOOC. Nessun argomento nell’ambi- to della educational technology in tempi recenti ha suscitato tanto entusiasmo tra gli imprenditori del settore istruzione e tanta angoscia tra gli accademici di ruolo come i MOOC. Se l’Open Access rappresen- ta il caso più lampante del successo dell’openness, i MOOC sono probabilmente il migliore esempio della seconda componente, e cioè della battaglia che si sta combattendo per sua la futura direzione. Dopotutto sono stati i MOOC, e non le OER, l’O- pen Access o la open scholarship che hanno portato l’esperto veterano di elearning Tony Bates (2014) a disperare: «Non so come esprimere adeguatamente la battaglia per l’open quanto sono incazzato con i MOOC – non per il con- cetto in sé, ma per tutta l’arroganza e il nonsense con cui si è parlato e scritto di loro. A livello personale è come mandare in fumo 45 anni di lavoro». Come mai? Che cos’è dei MOOC a provocare disperazione ed eccitazione in egual misura? Questo sarà il tema dei prossimi due capitoli, che si concentreranno pri- ma di tutto sui MOOC e poi sull’interesse che susci- tano nei media nel capitolo 6. I MOOC si presentano come un microcosmo dei problemi della open educa- tion, perché è con i corsi open che sono stati portati più nitidamente in evidenza. La rapida crescita dei MOOC può essere dimostrata paragonando l’interesse di internet nei loro confronti con quello delle OER. Un semplice strumento come Google Trends mostra infatti come l’interesse per i MOOC sia cresciuto rispetto a quello per le OER (Figura 4). Mentre le OER hanno avuto una crescita stabile dal 2009, che indica un aumento di visibilità, i MOOC sembrano arrivare dal nulla nel tardo 2012 e rapida- mente superare le OER. Questo schema rappresenta il concetto espresso alla fine del capitolo precedente riguardo all’interesse improvviso dei media nei con- fronti dei MOOC. Tuttavia, guardando in prospet- tiva, possiamo anche misurare i MOOC rispetto ad un tema che ha una più ampia visibilità pubblica. Zuckerman (2012) per scherzare suggerisce di usare la celebrità americana Kim Kardashian come misura dell’attenzione di internet. La Figura 5 mostra que- sto paragone, e dato che Google Trends normalizza la scala Y così che possa mostrare l’interesse relativo invece che il numero assoluto di ricerche, il risultato 124 i mooc è che in questo schema i MOOC non sono nemmeno considerati. Ci sono due aspetti interessanti dei MOOC dal pun- to di vista della battaglia per l’open. Il primo è ciò che sono, le opportunità e le minacce che pongono e il tipo di openness che permettono. Il secondo è l’interesse mediatico nei loro confronti e come mai trovano ri- sonanza in un certo tipo di narrazione. Questo capi- tolo tratterà il primo di questi aspetti, analizzando la storia, i benefici, la commercializzazione e la didattica dei MOOC. Il prossimo capitolo esaminerà il secondo problema, quello della narrazione, nel dettaglio. 125 la battaglia per l’open Il contesto dei MOOC I MOOC sono un argomento del quale un certo numero di persone può affermare di essere l’artefi- ce iniziale. Cosa viene considerato MOOC è aperto ad interpretazione. Diverse persone avevano già ri- lasciato contenuti in precedenza, sia come parte del movimento OER sia in modo indipendente, e poteva essere anche nella forma di un intero corso. C’è stato tuttavia un crescente interesse sui corsi open da parte di persone associabili al movimento della open edu- 126 i mooc cation. David Wiley ad esempio ha gestito un corso in campus nel 2007 e lo ha messo online permettendo a tutti di parteciparvi, e la stessa cosa ha fatto Alec Couros facendo un corso “a confini aperti”. Il titolo di fondatore è tuttavia attribuito alla Connectivism and Connective Knowledge (CCK08), gestita da George Siemens e Stephen Downes, nel 2008: è stato pro- prio un commento su questo corso che ha dato origi- ne al termine MOOC, attribuito sia a Dave Cormier che a Bryan Alexander. Ci sono nomi familiari in questa lista di primi MOOC provider, che possono essere visti come una logica estensione del movimento della open educa- tion. Ciò che ha caratterizzato i primi MOOC è sta- to un interesse per le possibilità che offriva l’essere open e in rete. La materia dei primi corsi era legata alle modalità di presentazione, quindi intorno a temi come la open education, l’identità digitale o la didat- tica in rete. Come per i primi corsi di elearning, che spesso trattavano semplicemente il tema dell’elear- ning, queste prime sperimentazioni si concentrava- no su argomenti in cui il mezzo era il messaggio, ma proprio come per l’elearning poi la cosa si è estesa a comprendere tutti gli argomenti. Un’altra caratteristica di questi primi MOOC è che erano associati ad individui più che a istituzioni. Erano visti come i corsi di George e Stephen invece che corsi di Standford o del MIT, e questo significa- va che rimanevano piuttosto sperimentali in termini di tecnologia, sia per necessità sia per progettazione. Usavano una combinazione di tecnologie open come WordPress e Twitter, alcuni hosting istituzionali come Moodle e anche alcuni strumenti autoideati come il gRSShopper di Stephen Downes. Imparare 127 la battaglia per l’open a usare questi strumenti e a fare connessioni attra- verso il mondo di internet era visto come l’obiettivo principale. Poi nel 2011 i MOOC hanno preso una strada mol- to diversa con Sebastian Thrun, che lanciò il corso Artificial Intelligence di Stanford, con più di 120.000 iscritti. Il corso attirò molta attenzione da parte dei media e degli investitori: con il costo crescente dell’i- struzione formale l’idea di poter seguire corsi delle migliori università gratuitamente pareva irresistibi- le. Harvard e il MIT crearono edX, Coursera venne lanciata da Daphne Koller e Andrew Ng con venture capital e Thrun fondò Udacity. L’anno 2012 è stato chiamato dal New York Times (Pappano 2012) “l’anno dei MOOC” dato che la mag- gior parte delle più grandi università americane si sono iscritte a uno o all’altro dei maggiori fornito- ri, o hanno lanciato corsi propri. La MOOC-mania non rimase confinata solo al Nord America: nel Regno Unito la OU lanciò FutureLearn nel 2013; in Germania ci fu iVersity; e in Australia Open2Study. Coursera è il più noto provider di MOOC, con più di 500 corsi provenienti da 107 università, e più di 5 milioni di studenti iscritti (Protalinski 2013). Il ritmo di diffusione, promozione e sviluppo sembrava moz- zafiato se paragonato alla maggior parte dei progetti formativi. Questi nuovi MOOC erano molti diversi dai primi esplorati dal movimento open education, dato che tendevano ad essere istituzionali, basati su piatta- forme private e guidati da una forte didattica istrut- tivista. Mentre i MOOC iniziali avevano sottolineato l’importanza del networking, molti dei nuovi MOOC si concentravano su video tutorial e valutazioni auto- 128 i mooc matiche. La distinzione fatta fu allora tra cMOOC per i primi, di tipo connettivista, e xMOOC per i modelli didattici successivi (Siemens 2012). Prima di esaminare l’impatto di questo aspetto commerciale sulla natura dell’openness nei MOOC, vale la pena di considerare alcuni aspetti positivi del- la rapida crescita di visibilità della open education e dell’elearning in generale. Per molti tecnici esperti dell’istruzione che si erano adoperati per anni nel coinvolgere membri dell’università o senior manager in aspetti diversi della open education, i MOOC fu- rono un modo per avere attenzione e finanziamenti. Come afferma Siemens (2014) «se l’istruzione era il grunge, i MOOC erano i suoi Nirvana», l’atto di svolta che ha attirato l’attenzione. Potrebbe essere sbagliato far passare un movimento di istruzione globale come un movimento radicale, quale fu il grunge rock, ma è certo che i MOOC abbiano accelerato l’interesse nei confronti della open education. Questo incremento di visibilità può essere allo stes- so tempo una benedizione e una maledizione, in par- ticolare quando segue un ritorno dell’attenzione nei confronti della rivoluzione nell’istruzione superiore. Ma anche mettendo da parte i possibili dubbi benefi- ci dell’essere diventato all’improvviso il bambino più famoso della classe, i MOOC sono importanti perché sollevano una serie di problemi per gli docenti, e – fattore cruciale per il tema di questo libro – questi problemi nascono come risultato diretto della natura open dei MOOC. Nel prossimo paragrafo tratteremo tre di questi problemi. Non sono i soli sollevati dai MOOC, nè si tratta di un elenco esaustivo – la proget- tazione dei corsi e la pedagogia potrebbero costituire un libro a parte. L’intenzione qui è piuttosto quella di 129 la battaglia per l’open mostrare come la natura open dei MOOC porti a do- mande fondamentali sulla comune pratica formativa. I MOOC e la qualità Il primo problema è quello della qualità e del modo in cui viene misurata. L’istruzione superiore formale ha sviluppato una serie di parametri di qualità basati su una relazione specifica tra chi fornisce l’istruzione e il discente. Questa relazione è fondamentalmente alterata in un MOOC, quindi questi parametri non sono applicabili. Consideriamo perché si misura la qualità: soprat- tutto è per verificare che obiettivi e intenzioni siano stati raggiunti. L’obiettivo dell’istituzione potrebbe essere l’avere un numero sufficiente di studenti, che questi studenti rimangano e che passino il corso, e che la reputazione dell’istituzione sia confermata. Il docente che gestisce il corso può avere obiettivi simi- li, insieme a quelli legati ad un interesse professiona- le nell’esplorare le possibilità offerte dai MOOC. Lo studente invece ha come obiettivo quello di imparare ciò che si è prefissato, passare il corso, godere dell’e- sperienza e ottenere competenze utili. Per questo motivo sviluppiamo parametri di qualità e procedu- re che monitorino queste intenzioni. Possono esse- re la percentuale degli studenti che hanno comple- tato il percorso, i punteggi di gradimento attribuiti dagli studenti, le valutazioni esterne sui contenuti del corso, il confronto con benchmark esterni, etc. In un MOOC molte di queste intenzioni sono alte- rate, radicalmente o solo in parte. Al momento non sono chiare le intenzioni delle istituzioni in relazio- 130 i mooc ne ai MOOC – attrarre più studenti formali, fornire un bene pubblico, fare soldi? In questa fase iniziale potrebbe essere una miscela confusa di tutti questi, combinata con la necessità di apparire come impe- gnati a fare qualcosa. Per i docenti la motivazione potrebbe essere quella di fare qualche esperimento con il curriculum o con l’istruzione, il miglioramen- to della propria reputazione o una crescita personale. Una differenza più interessante emerge se si con- siderano le intenzioni dello studente. Mentre alcuni degli obiettivi possono rimanere uguali, per esempio il fatto che possa essere d’aiuto nell’avanzamento di carriera, altri sono esagerati o assenti. Il bisogno di passare il corso, ad esempio, è drasticamente ridotto perché il passaggio ai corsi successivi non è dipenden- te da esso; e, cosa più importante, non c’è un impegno finanziario e l’interesse personale ad apprendere è in primo in piano. Nei corsi convenzionali ci sono diversi tipi di studenti, ma nei MOOC la presenza di quelli che vengono definiti “studenti per piacere” è più alta del normale. Sono quasi tutti studenti per piacere – do- potutto non lo devono fare, è qualcosa che sta nell’am- bito delle attività di svago. Nei MOOC esiste una classe nuova, completamente differente, di studenti che raramente si trovano nell’istruzione formale, che possiamo chiamare “drive-by learners”, letteralmente “studenti di passaggio” (dopo la definizione di Groom del 2011 “drive-by assignments”). Questi sono studen- ti che si iscrivono perché possono. Non costa nulla iscriversi, possono dare un’occhiata, vedere se sono interessati a qualcosa e passare oltre. Possono uscire ed entrare dal corso, prendere i pezzi che trovano in- teressanti, o possono anche non entrarci per niente. Nell’istruzione formale l’impegno emotivo ed econo- 131 la battaglia per l’open mico è molto maggiore e gli “studenti di passaggio” sono molto rari. Kizilcec, Piech and Schneider (2013) hanno usato la web analysis per distinguere quattro tipi di studenti MOOC: quelli che li completano, gli uditori, quelli che li abbandonano e quelli che li prova- no. Anche se un paragone tra queste quattro tipologie e gli studenti formali non è stato messo a punto, si potrebbe supporre che l’impegno necessario per con- tinuare nell’istruzione formale riduca la possibilità di trovare studenti che provano o uditori, ma che ci sia maggiore enfasi su quelli che completano. Se prendiamo in considerazione questi nuovi tipi di studenti e le loro intenzioni, allora i parametri di quali- tà esistenti non li tracciano in modo soddisfacente. Per esempio solo una minima percentuale di loro vede il completamento del corso come obiettivo principale. E la progressione ad altri corsi non è ancora una metrica in un mondo pick-and-choose, anche se vedremo sicu- ramente pressioni crescenti per fare in modo che an- che gli studenti dei MOOC rimangano fidelizzati a un particolare marchio di MOOC provider, come si fa per i fornitori di computer o di cellulari. Con un bacino così ampio di studenti, i MOOC si trovano così in un confronto difficile con l’istruzione formale. Per usare la frase di Weinberger (2007), l’istruzione formale “fil- tra in corso d’opera”, mentre i MOOC “filtrano in usci- ta”. I parametri di qualità sono dunque molto diversi. I tassi di gradimento degli studenti per un sistema che è completamente aperto e filtra in uscita sono difficili da paragonare in modo favorevole con un sistema molto diverso in cui c’è già stato un filtraggio. Filtrare in usci- ta e operare in metodologia open comunque permet- te di applicare nuovi tipi di parametri di qualità, che possono essere misurazioni di tipo “altmetrics” (quale 132 i mooc tipo di “buzz” crea, qual è la reazione pubblica dei par- tecipanti) o di tipo analitico (quante persone ci ritorna- no, qual è il tempo di permanenza, la bounce rate etc). Ma il paragone deve essere fatto con altri MOOC non con l’istruzione formale. La qualità, e cosa misura, è quindi solo un esempio di pratiche consolidate che l’attenzione per i MOOC dovrebbe farci riconsiderare. I MOOC e i costi Un secondo problema che i MOOC sollevano nel paragone con l’istruzione formale è che portano ad una necessaria valutazione dei costi associati all’inse- gnamento. Le stime di quanto ci voglia per produrre un MOOC variano, con Udacity che stanzia budget di 200.000$, EdX di 250.000$ (DeJong 2013) e l’Univer- sità del North Carolina che stima 150.000$ per il loro MOOC Coursera (Goldstein 2013). L’idea è che una volta creati possano essere lanciati a costo zero, anche se questo dipenderà da quanto strettamente coinvolta sarà la leadership accademica in ogni presentazione. Ovviamente se non fai pagare le persone per seguire un corso, allora i costi di presentazione devono essere bassi per farne un modello sostenibile. Come abbiamo visto per le OER ci sono diversi modelli di sostenibilità, e fon- di di partenza sono spesso richiesti, ma alla fine questi approcci hanno bisogno di reggersi in piedi da soli. Il costo dell’elearning in generale (non i MOOC) è stato analizzato da un certo numero di ricercatori (ad esempio Bates 1995 e Weller 2004). I costi possono dividersi in produzione, cioè quelli associati alla cre- azione di materiale del corso o al reperimento delle risorse, all’acquisizione dei diritti etc.; e costi di pre- 133 la battaglia per l’open sentazione, cioè quelli associati al diffusione del corso. Generalmente i costi di produzione sono fissi, special- mente nell’elearning, perciò non variano con il nume- ro di studenti; mentre quelli di presentazione sono variabili, dunque crescono con il numero di studenti. La differenza chiave per i MOOC è che, per raggiunge- re la scala che desiderano rimanendo gratuiti, questo modello non è sostenibile. I costi di presentazione per i MOOC devono essere vicini allo zero. Il modello base di MOOC è quello dell’apprendi- mento non supportato: nei cMOOC questo supporto è sostituito da un network di peer, e negli xMOOC da un feedback automatico. Alla Open University il rappor- to tra produzione di corsi e costi di presentazione per cinque presentazioni, che riguardano in media tutte le discipline, sono stimati a circa 1:3; il che significa che i costi di presentazione sono l’elemento più caro, una volta che i costi di produzione iniziale sono stati stan- ziati. Questo è in gran parte costituito da retribuzioni versate a tutor part-time per supportare gli studenti, ma anche da altri servizi generici e specifici di sup- porto agli studenti, ad esempio il sostegno ad allievi disabili, il pastoral support8, i costi di help desk, i co- sti legati all’amministrazione di centri regionali... Ciò dimostra che il costo di gran lunga maggiore è quello del tutoraggio: pagare persone per aiutare gli studenti è la vera spesa dell’istruzione. Per fare in modo che i MOOC siano sostenibili quindi bisogna rimuovere la maggior parte di questi costi di presentazione. La domanda che i MOOC portano l’istruzione superiore a farsi è: quale valore ha questo insieme di costi per gli studenti? Molti dei servizi che rappresentano sono la 8 [Nota del traduttore] Si riferisce a servizi di assistenza allo stu- dente come orientamento e counselling. 134 i mooc chiave di un successo a lungo termine per gli studen- ti, tuttavia la loro necessità può non essere uniforme- mente distribuita. Alcuni studenti di rado usufruisco- no di questi servizi, non hanno bisogno di tutoraggio e se la cavano molto bene a studiare da soli. Altri invece hanno bisogno di molto supporto per varie ragioni e probabilmente ottengono di più da quanto si avrebbe da un’equa condivisione di questi servizi (cioè di più di quanto hanno pagato). E la maggior parte sta nel mezzo: alcune volte usufruiscono dei servizi altre no, a seconda delle circostanze. Per l’istruzione da remoto in particolare, il primo gruppo, cioè gli studenti sicuri di sé e indipenden- ti probabilmente si troveranno bene con i MOOC. Rappresentano quel 10% circa che completa i MOOC. Poi ci sono alcuni per cui la quantità di supporto che li potrebbe aiutare non è mai abbastanza, o perché non sono fatti per lo studio o perché è il momento sbagliato. Ma seduto nel mezzo c’è un cospicuo grup- po che ha bisogno di vari livelli di supporto per “so- pravvivere” ad un lungo corso di studi. Ciò non significa necessariamente che le università non dovrebbero pensare a modi per ridurre il costo di presentazione. È il dilemma delle università – molti studenti potrebbero pensare che non hanno bisogno di servizi, ma questi sono in realtà essenziali per un successo a lungo termine. È come lo universal credit, come la pensione statale. Alcuni ne hanno più biso- gno di altri, ma se si rimuove il principio che tutti li devono pagare allora diventano un costo proibitivo per quelli che ne hanno bisogno. Quindi la domanda che i MOOC portano università e studenti a farsi è: quale valore diamo al supporto? È un’importante do- manda per la direzione futura dell’istruzione. 135 la battaglia per l’open I MOOC e il design dei corsi Il terzo ed ultimo problema che tratteremo riguar- da il course design, la progettazione del corso. Come già detto nel capitolo 1, l’open crea una serie di oppor- tunità diverse per l’istruzione. Ci sono molte possibi- lità e ragioni differenti per voler essere open, e come citato prima l’open education potrebbe costituire un libro a sé. Questo paragrafo si concentrerà su un solo aspetto, per dimostrare di nuovo come la natura open dei MOOC sollevi problematiche differenti che han- no poi un impatto sulla prassi didattica standard. Uno dei problemi più volte citati riguardo ai MOOC è il loro basso tasso di completamento. Alcuni però sostengono che parlare di tasso di completamen- to dei MOOC significa non capirne l’uso. Downes ha commentato: «Nessuno si è mai lamentato che i giornali avessero un basso tasso di completamento»; gli studenti prendono dai MOOC quello che a loro interessa, come i lettori dei giornali fanno con i quo- tidiani. Altri affermano che i MOOC non possono realmente rispondere alla loro vocazione rivoluzio- naria quando solo il 10% li completa (Lewin 2013). Jordan e Weller (2013a) hanno tracciato i tassi di com- pletamento prendendo varie fonti di dati disponibili pubblicamente. La media di tasso di completamento (e ci sono vari modi di definire completamento) era il 12,6%. Uno studio della University of Pennsylvania ha trovato che i tassi di completamento fossero più bassi, intorno al 4% (Perna e altri 2013). La Figura 6 traccia i tassi di abbandono degli studenti attivi, cioè quelli che sono entrati nel corso e hanno fatto qualcosa come guardare un video, a seconda delle diverse discipline. Lo schema nella figura 6 è molto coerente per tutte le 136 i mooc discipline. Dato questo comportamento piuttosto soli- do, ci sono due risposte per il design dei corsi. Design per il mantenimento La prima risposta è dire che il completamento è un metodo di misura opportuno. Ci possono essere corsi in cui è auspicabile che il maggior numero di perso- ne possibile li porti a termine, per esempio un corso di recupero in matematica richiederà agli studenti di 137 la battaglia per l’open completare la maggior parte degli argomenti. Il pro- getto Bridge2Success ha usato un approccio simile a quello dei MOOC per aiutare gli studenti con la ma- tematica in modo che potessero ottenere un posto in un programma per il collocamento. In questo caso il completamento era fondamentale (Pit e altri 2013). Il course design deve risolvere il problema del tasso di abbandono e ci potrebbero essere molti modi per farlo: aggiungere più feedback, usare premi per mo- tivare le persone, creare strutture di supporto, aiuta- re con gruppi di studio face-to-face, suddividere corsi lunghi in tranches più brevi, etc. Design per la selezione Il secondo approccio di course design è decidere che il completamento non è un metodo di misura impor- tante. Colui che progetta il corso allora accetta i tassi di abbandono come mostrati nella figura 7 e progetta l’esperienza con questo in mente. In questo approc- cio il progettista si può allontanare dal modello lineare di corso per permettere alle persone di essere coin- volte nella selezione tipo “quotidiano” di cui parlava Downes. Un corso potrebbe essere strutturato intorno a macro tematiche ad esempio, e ognuno intorno ad at- tività per lo più indipendenti, in questo caso il tasso di completamento non è molto importante, dal momen- to che gli studenti prendono ciò che a loro interessa. Per inciso, è probabile che i tassi di completamento di un MOOC siano fatti in modo che mostrino un risultato basso se paragonati all’istruzione formale per lo più perché il modo in cui si ci si può iscrivere è vario. Nell’istruzione formale ci sono molti modi di definire chi si è iscritto ad un corso, ma solitamen- 138 i mooc te si considera un periodo di riflessione: gli studenti non si reputano iscritti se abbandonano nelle prime due settimane o non si presentano. Prendendo come dati di iscrizione ai MOOC il numero di quelli che si sono iscritti anche se non li hanno mai seguiti darà sempre cifre negative. Un risultato migliore potrebbe essere considerare il numero di studenti attivi dopo una settimana, che è una cifra di base che mostra gli studenti che hanno di fatto iniziato il corso. 139 la battaglia per l’open Un altro grafico elaborato da Jordan e Weller (2013b) ha mostrato il numero medio di studenti attivi per settimana (Figura 7), partendo dai dati delle iscrizio- ni iniziali. Alla fine della prima settimana c’erano cir- ca 55% di studenti che mostravano di essere ancora attivi dal punto di iscrizione iniziale. Molti di quelli che si sono iscritti non entreranno nel corso nem- meno una volta, quindi è fuorviante dire che hanno abbandonato. Se questo 55% è preso come statistica reale di iscrizione così come cifra iniziale, allora il tasso medio di completamento sale a circa il 23%. Con studenti “open entry” in un corso non suppor- tato, questa cifra potrebbe non essere così catastro- fica come i numeri spesso riportano. C’è un rovescio della medaglia in questo modo di ridefinire i tassi di completamento, cioè che riduce drasticamente gli impressionanti valori di iscrizione usati per giustifi- care gli investimenti nei MOOC. Ciò che questo esempio e i due precedenti dimo- strano è che ci sono questioni benefiche, o almeno significative, sollevate dai MOOC riguardo all’istru- zione formale. È uno dei valori aggiunti dell’open- ness – ci porta a riflettere sui presupposti della prassi standard che possono essere migliorati o cambiati. Il modo in cui gli insegnanti progettano, calcolano i costi e valutano la qualità di tutti i corsi, non solo di quelli open, viene alterato dalle applicazioni digitali e in rete, ma è l’aggiunta del catalizzatore dell’open- ness che potenzia veramente i cambiamenti e le pos- sibilità. Ed è su questo impatto positivo dei MOOC che voglio concentrarmi prima di esaminarne gli svantaggi. Il prossimo paragrafo analizzerà come i MOOC si possono relazionare all’istruzione superio- re e giocare un ruolo complementare. 140 i mooc MOOC come complemento all’istruzione formale Tutto il clamore sui MOOC li ha messi in compe- tizione con l’istruzione formale e se questo schema antitetico può avere senso in termini di narrazione mediatica, come vedremo nel prossimo capitolo, esso minimizza sia l’effettivo impatto dei MOOC sia l’a- dattabilità del settore istruzione. Una prospettiva al- ternativa è considerare i MOOC come simili alle OER e complementari all’istruzione formale. Di seguito cinque delle possibili funzioni dei MOOC: • Rendere open una parte dei corsi – Un corso online (o misto) potrebbe essere strutturato così da fare in modo che una parte di esso funzioni da MOOC auto- nomo. Questo permetterebbe agli studenti di vedere se è il tipo di corso che vogliono seguire, di fare col- legamenti ed esperienze studiando. Si è trovato che questo tipo di prova è molto importante nel caso delle OER (es. Perryman, Law and Law 2013), che ha di- versi benefici sia per l’istituzione sia per lo studente. In primo luogo funziona come finestra promozionale che incrementa il reclutamento di studenti, in secon- do luogo può far aumentare il tasso di mantenimento degli studenti, dato che quelli che fanno fatica lo pos- sono capire gratuitamente e decidere o di prendere una strada differente o di studiare ad un altro livello o di procurarsi materiale propedeutico. In terzo luogo può ampliare il bacino di partecipazione, raggiungen- do un pubblico che l’istituzione faceva fatica a rag- giungere prima. Comunque, deve anche essere detto che senza supporto l’esperienza può risultare negativa per alcuni studenti e tenerli lontani dallo studio. • Corsi dai confini aperti – Come abbiamo già visto in precedenza, alcuni corsi che hanno un’utenza di base in un campus universitario possono essere 141 la battaglia per l’open messi open per tutti. Il corso di storytelling digitale DS106 e il corso di fotografia Phonar rappresen- tano dei buoni esempi. Oltre ai vantaggi di cui si è parlato sopra, ci sono particolari benefici in aree tematiche specifiche. La fotografia ad esempio è un’area in cui l’esposizione ad un pubblico vasto, che includa professionisti e amatori con esperien- za, porta vantaggi. Ma per tutti gli studenti c’è un beneficio nello sviluppare un network di colleghi al di là del loro ristretto gruppo di studio. • La collaborazione in ambito MOOC – Le istituzioni potrebbero collaborare sui MOOC che sono utili per una buona parte dei loro studenti. Qui entra in gioco la stessa logica che ha supportato i learning object: per- ché insegnare lo stesso argomento in posti diversi se si può creare un MOOC di buona qualità per tutti gli studenti, riconosciuto da tutte le istituzioni coinvolte? • Il riconoscimento dei MOOC – Attraverso un rico- noscimento ufficiale di certi tipi di MOOC, è possi- bile che alcune istituzioni riducano alcuni dei corsi che offrono. Per esempio un allievo potrebbe dimo- strare che ha completato con successo un certo nu- mero di MOOC per cui può accedere ad un corso di laurea al secondo anno e completarlo in due anni. Per gli studenti questo significa una riduzione di costi di circa un terzo, cosa che potrebbe rendere gli studi superiori più attraenti. In realtà i campus universitari vendono quella che viene definita la “campus experience” senza che essa sia proibitiva in termini di costi. Per questo motivo ci potrebbero essere riserve sullo sviluppare capacità di più alto livello, universitarie, con questo approccio; ma è possibile che alcune istituzioni scelgano di farlo co- munque per differenziarsi da altre. 142 i mooc • Sperimentazione e sviluppo del percorso di studi – I corsi formali online sono un investimento crescente, il che significa che l’approvazione del corso stesso di- venta più rigorosa. Le aspettative poste su un corso formale sono invece ridotte per un MOOC (anche se non scompaiono), cosa che permette la sperimenta- zione. E dato che i MOOC si rifanno ad un pubblico globale, non compatibile con il campus, potrebbe ve- nire a crearsi un gruppo pagante per una comunità globale di studenti non formali. Il risultato è che la sperimentazione nei percorsi di studi diventa meno rischiosa. Significa anche che le istituzioni possono offrire un percorso di studi più ampio, unendo la propria offerta con un riconoscimento dei MOOC di altri. Per esempio “idro-ingegneristica e russo” posso- no essere offerti da un’università che si occupa di ele- menti di ingegneria, mentre il russo è rilasciato da un MOOC accreditato e supportato dall’università ospite. Questi possibili scenari mostrano come i MOOC possono beneficiare dell’istruzione formale e opera- re in parallelo in un modello sostenibile. Purtroppo molta della recente offerta di MOOC non è concen- trata su queste possibilità, e invece sfrutta al massi- mo l’idea dei MOOC come sostituto delle università. Questo in parte è una funzione della natura commer- ciale di molti dei nuovi MOOC, ed è l’argomento di cui parleremo nel prossimo paragrafo. La commercializzazione dei MOOC Non appena il MOOC di Sabastian Thrun ottenne l’attenzione dei media, furono istituiti un numero di provider commerciali con fondi venture capital. Il più 143 la battaglia per l’open importante di questi era Udacity, dello stesso Thrun, insieme ad un’altra startup con sede a Stanford, Coursera, guidata da Daphne Koller e Andrew Ng. Dopo un investimento iniziale di 22 milioni di dolla- ri, Coursera guadagnò ulteriori 43 milioni di dollari nel 2013 (Kolowich 2013a). Il modello di business dei providers di MOOC non è sempre chiaro. Coursera ha dichiarato di aver guadagnato 1 milione di dollari di introiti vendendo certificati attestanti il completa- mento, che costano dai 30$ ai 100$ (Heussner 2013). Hanno anche annunciato di avere un servizio per la ricerca di lavoro, Careers Service, in cui i datori di lavoro pagano una quota per essere messi in contat- to con i migliori studenti dei MOOC (Young 2012). Questi elementi di headhunting e certificazione sono stati combinati creando un modello “paid for Signature Track”, in cui gli studenti pagano una quo- ta per avere un’identità verificabile, documentazione e certificazione (Coursera 2013a). Nel maggio 2013 Coursera ha anche annunciato che avrebbe collaborato con dieci campus universita- ri per offrire alcuni MOOC campus based (Coursera 2013b) in cui gli studenti del campus potevano segui- re un MOOC con supporto locale. Ciò li posizionava come un provider di corsi in elearning, cosa che se- condo quanto suggerito da Mike Caulfield (2013) era l’intenzione chiave fin dall’inizio. Nel frattempo Sebastian Thrun annunciò che Udacity era vicino a trovare la “formula magica” per il settore istruzione (Carr 2013). Poi, in un’intervista nel novembre 2013, sulla base dei risultati dei tassi di completamento descritti prima, annunciò invece che Udacity aveva un “pessimo prodotto” e che si stavano riposizionando per fornire una formazione aziendale 144 i mooc (Chafkin 2013). Questo improvviso cambio di rotta provocò un considerevole numero di commenti di scherno, vista l’enfasi delle dichiarazioni precedenti, con Siemens (2013) che forse li riassume nel modo più sintetico: «Non cadete in errore – questo è un fal- limento di Udacity e di Sebastian Thrun, non è un fallimento della open education, dell’apprendimento a scala, dell’online learning o dei MOOC. Thrun ha legato il suo destino troppo presto ai fondi venture capital. Come risultato, Udacity è ora guidata dalla ricerca di entrate, non da innovazione». Ed è proprio l’ultimo punto di Siemens che vale la pena di seguire nel contesto dei MOOC – l’influenza dei fondi venture capital. Non dovremmo stupirci del fatto che Coursera ha provato una serie di modelli di business, dato che ciò costituisce un approccio comu- ne per le startup di internet. Suggerisce però che loro non sono completamente certi di quale sia il ruolo dei MOOC. Koller (2012) ha promosso la democratizzazio- ne dell’apprendimento che i MOOC e Coursera offrono come un bene sociale, e i dati sono impressionanti, con oltre 17 milioni di iscrizioni a settembre 2013 (Coursera 2013c) – anche se questo numero dovrebbe essere preso con cautela relativamente a che cosa costituisca un’iscri- zione, come citato prima. Per fare un paragone, ci sono solo 2.3 milioni di studenti iscritti all’istruzione superio- re nell’intero Regno Unito (HESA 2013). Può sembra- re fuori luogo quindi criticare Coursera e altri provider di MOOC per aver garantito l’accesso ad un’istruzione gratuita. Questo paragrafo non tratterà di temi come la metodologia didattica, che alcuni hanno messo in evi- denza come critica nei confronti dei MOOC. Anche se alcune di queste accuse possono essere valide, infatti, tradiscono spesso o uno snobismo sull’online learning 145 la battaglia per l’open o una sovrastima della varietà e del contatto face-to-face nell’esperienza degli studenti. Il focus qui è sull’aspetto open dei MOOC. Anche se primi risultati (Kolowich 2013b) suggeriscono che gli allievi di successo sono tendenzialmente studen- ti esperti già laureati, potrebbe anche essere che con il tempo e acquisita una familiarità crescente con i MOOC, Koller possa avere ragione nella sua visione circa la democratizzazione dell’apprendimento. È co- munque poco probabile che un obiettivo così altruisti- co sia la motivazione dei venture capitalist che hanno investito 85 milioni di dollari in Coursera. Per prova- re a recuperare questi costi le aziende che producono MOOC hanno infatti modificato i loro modelli, e si sono allontanate da un modello puramente open: i loro contenuti non sono coperti da licenze open, quindi non posso essere riutilizzati; le iscrizioni sono spesso limitate a determinati periodi, quindi non si può avere accesso al contenuto senza iscriversi; oltretutto molti provider MOOC limitano la cerchia delle università partner a una elite di istituzioni. Il modello Signature Track di Coursera può essere conveniente se para- gonato all’istruzione formale, ma non è un modello open come non lo sono il modello blended learning (misto) e il modello campus based. La trasformazione di Udacity in una realtà corporate del settore elearning dimostra quanto velocemente si possa verificare que- sto spostamento da un provider globale di open educa- tion se non è fondato sui principi dell’openness. C’è stato un precedente per il cambiamento di Udacity nel FlatWorldKnowledge. FlatWorld fu fondato come un editore di libri di testo Open Access che permetteva ai docenti di modificare la versione gratuita online e vendere la copia fisica per un prezzo fissato. Nel 2012 146 i mooc annunciarono che rilasciavano libri di testo ad acces- so gratuito (Howard 2012), anche se rimanevano una soluzione conveniente. La ragione che stava dietro era che il loro modello di business semplicemente non generava un introito sufficiente. I libri di testo a buon mercato sono i benvenuti, ma è molto diverso dall’a- vere libri di testo open. Come suggerisce Siemens, la stretta connessione con le fonti di guadagno dominerà le preoccupazioni delle startup, e l’openness è di solito la prima vittima quando questo accade. Dati i costi necessari a creare un MOOC, e il ritor- no che le università cominceranno a chiedere per l’investimento nel loro staff, è in dubbio se i MOOC possano rappresentare davvero un modello di busi- ness sostenibile, che funziona in modo autonomo. Come per le OER, essi potrebbero essere sostenibili forse come aggiunta alla pratica universitaria esisten- te o per agenzie nazionali, enti no profit ed organi- smi professionali che hanno interesse a coinvolge- re studenti. A meno che siano basati sull’openness, comunque, è poco probabile che questo rimanga un principio centrale della loro identità. Potrebbe certo accadere che i provider MOOC si tra- sformino in alternative di istruzione a basso costo, of- frendo una combinazione di corsi non supportati ab- bastanza sofisticati e con valutazione automatica. Ciò potrebbe avere un profondo impatto sull’accesso all’i- struzione e alla stessa istruzione superiore, ma potreb- be costituire una proposta differente rispetto al modello originale “open as in free”, e avrebbe più tratti in comu- ne con il modello open entry dell’istruzione da remoto rappresentato dalle università open. È in forse quindi se le università “elitarie” continueranno a sovvenzionare un provider a basso costo attraverso la fornitura di corsi, una volta che l’aspetto open venisse rimosso. 147 la battaglia per l’open Conclusioni I MOOC non sono spuntati fuori in una notte dal nulla, anche se si potrebbe perdonare chi la pensa così basandosi sulla promozione che ne hanno fat- to. La Figura 8 di Yuan e Powell (2013) fornisce una chiara indicazione delle influenze che hanno contri- buito ai MOOC. Mentre alcuni provider di MOOC, come EdX finanziato da Harvard e dal MIT, si posso- no considerare una prosecuzione delle OER, altri si sono sviluppati su linee commerciali. 148 i mooc Per gli studenti dei MOOC queste distinzioni ide- ologiche non hanno granchè di impatto – un MOOC Coursera non sembra differire radicalmente da uno EdX. Come abbiamo visto però possono avere conse- guenze a lungo termine sulle direzioni che i MOOC prendono. I primi MOOC erano per lo più sperimentali, chia- ramente disegnati per sfruttare le possibilità che of- friva l’essere open e in rete. L’openness era quindi una componente chiave nel loro design. Non appena i MOOC furono associati di più alle istituzioni, ac- quisirono quello che possiamo definire un “limite di brand”. Se i MOOC vengono visti come una grande vetrina globale, allora la loro identità si avvicina più a quella della diffusione che a quella di un fare rete, con una qualità di produzione di alto livello. Ogni fallimento dei MOOC porta una pubblicità molto negativa per l’istituzione, come l’esempio di- mostrato dalla Georgia Tech Coursera, quando offrì Fundamentals of Online Education (Kolowich 2013c). Questo corso mostrò di avere problemi con studen- ti che usavano Google Docs per registrarsi e dovette essere sospeso, soprattutto per la portata degli utenti che si iscrivevano. Questo passaggio da sperimenta- zione accettabile a parte integrante della politica di comunicazione dell’istituzione può avere vantaggi in termini di sostenibilità, in quanto il costo dei MOOC può essere valutato in relazione ai benefici di mercato che ottengono, che è un modello comprensibile per le università. Ma può avere anche alcuni aspetti negativi: • I MOOC diventano proibitivi in termini di costi – Un buon MOOC richiede una produzione così esclusiva che non è economicamente fattibile visto il basso ritorno. 149 la battaglia per l’open • Solo istituzioni elitarie possono offrire MOOC – Data la spesa, solo quelle istituzioni che hanno i soldi o le capacità di produrre contenuti con ottima qualità di trasmissione potranno farli. • I MOOC tendono a diventare didatticamente con- servatori – parte del problema con la Georgia Tech è che stava sperimentando un nuovo approccio, e se il costo del fallimento è così elevato è meglio non tentare nulla di rischioso o innovativo. • La paura del fallimento dei MOOC diventa un osta- colo all’adozione – Un fallimento pubblico può danneggiare la reputazione sia di un individuo sia di una istituzione, perciò molti considereranno troppo grande il rischio. In relativamente poco tempo i MOOC sarebbero passati dall’essere un mezzo per permettere agli in- segnanti di sperimentare con la tecnologia e la didat- tica ad una forma diversa di diffusione controllata da pochi. Questa perdita di spirito sperimentale può anche sorgere a causa di alcuni MOOC provider dominanti. Invece che scoprire nuovi modelli di open education, lanciare un corso su piattaforme di Coursera (o EdX o FutureLearn) viene visto come l’unico modo per gestire un MOOC. I provider commerciali non ama- no la differenziazione del mercato: vogliono essere la Microsoft o la Google dei MOOC, e dato che questo porta al massimo del guadagno di sicuro diventare il fornitore principale può essere l’unico modo per au- mentare i ricavi. All’inizio del capitolo 1 ho discusso il fatto che le tensioni nella open education si posso- no considerare una guerra, dato il valore reale asso- ciato alla vittoria: una perdita nella sperimentazione 150 i mooc e nel dominio del mercato per i corsi open potrebbe essere un esempio di queste conseguenze. La perdita di controllo percepita sulla piattafor- ma dei corsi open ha portato all’iniziativa “Reclaim Open” fatta dal MIT insieme a UC Irvine. La piatta- forma Reclaim Open (2013) lamenta il fatto che «re- centi iniziative di alto profilo nell’online learning per l’istruzione superiore sembrano replicare un model- lo tradizionale lecture-based o campus based, inve- ce che accogliere la natura connessa peer-to-peer del web». Il sito promette che «Reclaim Open Learning invece interviene in questo dibattito supportando e mostrando un’innovazione che mette insieme il me- glio dell’apprendimento open, online e in rete nelle lande desolate di internet». Può essere visto come un contro-movimento rispetto al dominio crescente di certi modelli di MOOC, che le loro piattaforme tec- nologiche vengono ad incarnare. L’iniziativa Reclaim Open vede la partecipazione a diverse forme di tec- nologia come una strada attraverso la quale gli inse- gnanti possano appropriarsi del significato di essere open. Che si sostenga l’approccio di Reclaim Open o no, la loro esistenza è indicativa dello stadio in cui siamo nella battaglia per l’open e suggerisce come la proprietà del termine sia volatile, o sia sfuggita via. Non si vedono movimenti di “reclaim exams” (rela- tivi cioè agli esami) o di “reclaim libraries” (relativi cioè alle biblioteche). Se l’analisi fatta alla fine dell’ultimo capitolo sulle OER rispetto ai principi open dal capitolo 2 si ripete anche per i MOOC, rivela alcune delle ragioni di que- sto disagio di fondo: • Libertà di riutilizzo – I contenuti dei MOOC non sono di solito coperti da licenze open, quindi non 151 la battaglia per l’open possono essere riutilizzati in contesti differenti (al- cuni provider hanno iniziato ad usare le licenze CC ora). • Open Access – I MOOC sono aperti alle iscrizioni per tutti. • Gratuità – questo è stato il focus principale dei MOOC. • Facilità di utilizzo – le piattaforme MOOC hanno sviluppato interfacce facili da usare, anche se come sopra indicato i tassi di completamento per questo tipo di apprendimento sono bassi. • Contenuto digitale, in rete – anche se i MOOC sono ovviamente online e digitali, non sono spesso com- pletamente in rete, in quanto possono esistere an- che su una piattaforma chiusa. • Approcci sociali, community based – alcuni MOOC si basano su un approccio molto comunitario, mentre altri sono più “istruttivisti” e focalizzati sull’individuo. • Argomentazioni etiche per l’openness – la demo- cratizzazione dell’apprendimento è stata portata come argomento etico per i MOOC, ma non molto l’openness in sé. • L’openness come modello efficiente – a parte per alcuni cMOOC, i MOOC non sono sviluppati di solito con approccio open; tendono invece ad esse- re sviluppati come prodotti privati all’interno delle università. Questo non è per ridurre l’impatto che aziende come Udacity e Coursera hanno avuto: esse hanno alzato considerevolmente il profilo dell’elearning e della open education e sono state innovative sul fron- te tecnologico ad un ritmo molto maggiore di quanto 152 i mooc le università potessero fare. La presenza di interessi commerciali nel campo può creare una competizione sana, innovazione e una diversità di prospettive. Per gli studenti che stanno seguendo corsi gratuiti le ri- serve che università e accademici hanno riguardo ai MOOC possono apparire inevitabili come il fatto che ai tacchini non piace il Natale. Comunque, andrebbe a discapito degli studenti nel lungo periodo se una piattaforma MOOC diventasse dominante o se, dopo aver sconvolto molte delle basi dell’istruzione supe- riore i MOOC iniziassero a fare pagare per i corsi. Parte della riluttanza (o anche del risentimento) ri- guardo ai MOOC si è concentrata meno sul concetto reale o sui fornitori, e piuttosto è stata una reazione all’iperbole e al turbinio mediatico che li ha accom- pagnati. È importante dunque separare questi due aspetti nel momento in cui si verifica l’inevitabile contraccolpo. Questo avviene in risposta alla promes- sa esagerata fatta per i MOOC piuttosto che alla realtà più sfumata che possono offrire. Analizzare la natura di questa narrazione rivelerà molto sulla battaglia per l’open, e questo è il tema del prossimo capitolo. 153 CAPITOLO 6 L’istruzione malata e la narrazione della Silicon Valley Le rivoluzioni sono stroncate sul nasce- re, o trionfano troppo rapidamente. La passione si esaurisce troppo in fretta. Henry Miller Introduzione Nel precedente capitolo viene tracciata l’ascesa dei MOOC e sono esplorate le possibili opportunità e dubbi su di essi. A differenza di quasi tutti gli altri sviluppi nel settore dell’istruzione, i MOOC hanno catalizzato un considerevole interesse mediatico e in questo capitolo ne esamineremo le ragioni di fondo. Nel capitolo 1 ho discusso di come la battaglia per l’open fosse in parte una battaglia per la narrazione, un tema che verrà esplorato nel prossimo capitolo. Sebbene gran parte di questo capitolo si concentrerà sui MOOC, dato che forniscono l’esempio più im- mediato della combinazione tra istruzione, media e tecnologia, può in realtà valere per ogni sviluppo dell’istruzione ed è particolarmente rilevante per la open education. la battaglia per l’open Giusto per avere un’idea dell’interesse mediatico e della presa di posizione riguardo ai MOOC, qui di seguito un esempio di titoli apparsi dal 2012 al 2013: 1. La rivoluzione dei MOOC: come fare un MBA gra- tis (Schmitt 2013) 2. Una rivoluzione investe le università (Friedman 2013) 3. I MOOC cambieranno radicalmente l’istruzione superiore? (Booker 2013) 4. Come Coursera, un servizio di formazione online gratuita, ci istruirà tutti (Kamenetz 2012) 5. Quello che i MOOC uccideranno davvero è la ricer- ca universitaria (Worstall 2013) 6. Accettate i MOOC o il declino, avverte v-c (Parr 2013) 7. I MOOC: un fine più alto di quanto sembri? (Blackenhorn 2012) 8. Corsi di istruzione superiore con iscrizioni di mas- sa: inizia una rivoluzione (Idea 2012) Mentre scrivo, nei primi mesi del 2014, questi tito- li sembrano già datati. Provate a sostituire OER con MOOC in ciascuno di essi e anche se si possono fare dichiarazioni simili, è ovvio che pezzi così iperbolici non sarebbero stati scritti per le OER. Spesso gli arti- coli erano poco più che pubblicità per le compagnie di MOOC coinvolte, con nessuna valutazione critica delle affermazioni. Dalla prospettiva della open edu- cation, la domanda è perché una branca della open education dovrebbe portare così tanta eccitazione e un’altra no? 156 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley L’istruzione è malata Sono tentato di affermare che la ragione per cui i MOOC hanno attirato così tanta attenzione – e così poca valutazione critica – è che si sono inseriti con cura in un’ampia gamma di narrazioni in modo di- verso da ogni altra forma di open education. E ci sono due aspetti che riguardano questa narrazione: il primo è la definizione del problema “l’istruzione è malata”, e il secondo è la narrazione dominante della Silicon valley per dare soluzioni. “L’istruzione è malata” è diventato un punto di partenza così unanimemente accettato che spesso è dato come inconfutabile. Andrew D’Souza, il diret- tore operativo di una società di startup di tecnologie didattiche dichiara con disperazione: «Lo spazio di- dattico è enorme, e decisamente malato» (Tauber 2013); Sebastian Thrun come prevedibile dichiarò «L’istruzione è malata. Affrontatelo. È così mala- ta, da così tanti punti di vista, che richiederebbe un po’ della magia della Silicon Valley» (Wolfson 2013). Un’influente relazione dell’Institute for Public Policy Research intitolata “Sta arrivando una valanga” di- chiarava: «I modelli di istruzione superiore che han- no marciato trionfalmente attraverso il globo nella seconda metà del XX secolo sono corrotti» (Barber, Donnelly & Rizv 2013); anche analisti accorti come Clay Shirky sono propensi a dirlo con un pezzo intito- lato “Your Massively Open Offline College Is Broken” (Shirky 2013). Prima di prendere in considerazione una risposta al problema dell’istruzione malata, ci sono due do- mande da farsi. La prima è cosa si intende per siste- ma malato? Le seconda è perché lo si dice con così 157 la battaglia per l’open tanta convinzione e così spesso? Per rispondere alla prima domanda vediamo che cosa o come l’istruzio- ne sia compromessa, cosa che è di rado approfondita. Si tratta semplicemente di dichiarare una posizione di partenza dalla quale segue tutto il resto, un “sine qua non” della rivoluzione educational. Proviamo ad assumere che ci sia una convinzione genuina da parte di chi lo propone: è ragionevole chiedersi allora in quali modi l’istruzione potrebbe essere malata. In tempi diversi potrebbe essere collegato alla mancanza di creatività, nell’istruzione K-12 ad esempio, o ai tas- si di assenze ingiustificate o più spesso al modello di finanziamento dell’istruzione superiore, di solito tut- to visto da una prospettiva USA. Può essere certo che ci sia una creatività insufficiente nell’istruzione K-12, ma una parte di ciò è un risultato di scala. Qualsiasi alternativa avrebbe bisogno di operare su un sistema a scala nazionale e includere così tutte le tipologie di studenti. Spesso si sentono proteste sul fatto che la scuola sia rimasta invariata per centinaia di anni o che sia un sistema disegnato per l’età industriale; Sal Khan ad esempio in un’intervista con Forbes sostie- ne che l’istruzione è diventata statica negli ultimi 120 anni (Khan e Noer 2011). Queste affermazioni spes- so sottostimano però ampiamente il cambiamento nella didattica scolastica verso un modo di lavorare più a progetto o di gruppo. Come dichiara Watters (2012), «Passare con un balzo dal 1892 al 2000 – dal “Comitato dei Dieci” alla Khan Academy – significa ignorare il lavoro fatto da molti docenti e tecnologi per pensare a come computer e reti modificheranno il modo di insegnare e di apprendere.» Ci sono sicu- ramente grandi opportunità per cambiare il modo di fare lezione, per coinvolgere i bambini e in particola- 158 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley re per sfruttare al meglio le nuove tecnologie, e non si dovrebbero sottostimare gli ostacoli nell’ottenere ciascuno di questi risultati; ma difficilmente tutto ciò giustificherebbe l’etichetta di malato. Una prova che viene alcune volte portata a suppor- to dell’argomentazione sull’istruzione malata è che le assenze ingiustificate sono sempre alte (Paula 2013); perciò la scuola non funziona; perciò si richiede una soluzione radicale. Il modo in cui il tasso di assenza ingiustificata viene calcolato però varia considerevol- mente e ciascuna assenza non autorizzata, come quel- la di un bambino che va in vacanza con i suoi genitori, viene considerato un marinare la scuola. Quindi pri- ma di usare l’assenteismo come giustificazione del fat- to che l’istruzione è essenzialmente malata, è necessa- rio farsi domande come: ogni cambiamento è ora un dato statistico statistico o sta nell’ambito delle normali variazioni? I confronti storici sono validi (ad esempio a parità di provvedimenti)? Può un aumento di tassi di assenteismo essere spiegato con un aumento della po- polazione o della partecipazione scolastica (ad esem- pio se si lavora sodo per fare in modo che alcuni grup- pi siano regolarmente iscritti a scuola in primo luogo, si avrà un maggiore assenteismo?) È un aumento di studenti che marinano la scuola o piuttosto lo stesso numero di allievi che marinano la scuola lo fanno per più tempo? (ad esempio uno studio ha dimostrato che il 7% degli studenti rappresentava un terzo di tutti i numeri relativi all’assenteismo [Metro 2008]). Questo non vuole dire che l’assenteismo non sia un problema serio certo, ma è un esempio di come fare dichiarazioni radicali su un intero sistema scolastico possa portare a non focalizzarsi sulle vere problema- tiche, cosa che sarebbe più efficace. È anche impor- 159 la battaglia per l’open tante notare come l’assenteismo o i problemi a scuola siano spesso il risultato di più ampi problemi della società come droga, crimine, povertà, rottura dei le- gami familiari... Vedere la scuola come un elemento isolato in questo sistema non centra il punto. Questo ci porta al tema dei finanziamenti, che sono il candidato più comune per dire che l’istruzione è ma- lata – e cioè che non è economicamente sostenibile. La spesa per l’istruzione è cresciuta, mentre il ritorno che i laureati hanno in termini di aumento salariale è di- minuito, questo è certo. In breve, l’istruzione superio- re non ha più una buona redditività di investimento da un punto di vista puramente monetario. Ovviamente questo vale per i paesi in cui gli studenti devono paga- re per la loro istruzione (come negli USA o nel Regno Unito); altri paesi come la Germania offrono un acces- so gratuito all’istruzione superiore. La colpa di questi costi crescenti viene spesso attribuita alle università, ma esse stanno semplicemente rispondendo alla do- manda di mercato. Se gli studenti (o i loro genitori) vogliono avere accesso a strutture migliori, con più servizi come la palestra, i caffè e le residenze univer- sitarie, allora le università per competere devono met- terli. Nel proporre i MOOC come soluzione a questi problemi finanziari, la maggior parte di chi commen- ta si dimentica di valutare le richieste che dovrebbero essere poste sui MOOC se passasse da una posizio- ne secondaria e supplementare nell’istruzione ad una primaria e centrale. Per esempio quando Shirky (2012) promuove i MOOC come l’equivalente dell’MP3 o di YouTube sottostima l’aspettativa che verrebbe posta su di essi e insolitamente si sbaglia sull’analogia. Gli MP3 pos- sono rimpiazzare il vinile o i CD completamente. I 160 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley MOOC gratuiti non possono sostituirsi al sistema dell’istruzione superiore proprio perché una gran parte dei costi ha poco a che fare con l’elemento di- dattico in sé. Seguire un MOOC per interesse è una cosa, ma quando le carriere professionali dipendono da esso allora ci sono aspettative differenti, che al mo- mento non sono disponibili. Se i MOOC dovessero rimpiazzare l’intera istruzione superiore, dovrebbero infatti trovare un modo per realizzare quanto segue: • Gestire gli appelli degli studenti • Avere a che fare con una vasta gamma di studenti con abilità diverse • Assicurare un controllo di qualità sul contenuto • Sviluppare metodi di valutazione e procedure che possano essere giustificati • Assicurare la solidità del servizio • Assicurare l’affidabilità e l’attendibilità dell’accreditamento • Conformarsi a numerose regolamentazioni su pro- blemi come quello dell’accessibilità • Garantire una fornitura di produzione di corsi di alta qualità • Provvedere alla pastoral care1 Tutti questi requisiti hanno implicazioni economi- che che vanno oltre l’attuale focus sul contenuto (che è sostenuto dalle molte università che i MOOC dovreb- bero rimpiazzare). Inevitabilmente, i MOOC come forma di istruzione universitaria generale inizierebbe- ro a costare sempre di più. Potrebbero essere meno cari del modello esistente, che sarebbe cosa notevole, ma presto cesserebbero di essere gratuiti o aperti. 1 [Nota del traduttore] Si riferisce a servizi di assistenza allo stu- dente come orientamento e counselling. 161 la battaglia per l’open Non è comunque l’obiettivo di questo libro esplora- re i vari modelli di finanziamento per l’istruzione su- periore, ma l’argomento “l’istruzione è malata” rara- mente è posto come “i finanziamenti per l’istruzione sono malati”, e se il dibattito che la società ha bisogno di portare avanti è su come finanziare l’istruzione su- periore, allora dovremmo concentrarci su quello in- vece che indugiare su argomentazioni surrogate cir- ca il cattivo stato dell’istruzione e modelli alternativi. L’argomentazione è troppo semplicistica e forse solo pigra: come nel caso dell’assenteismo, ci sono una serie di fattori che sarebbe opportuno valutare per trovare un’effettiva soluzione. Ma c’è anche un’in- tenzione più manipolativa che riguarda il linguaggio del cambiamento e come questo dia forma alle nostre risposte. Se qualcosa è stato dichiarato rotto o malato, allora la risposta giusta è aggiustarlo. La ricerca di- venta quindi quella di una soluzione, e molto spesso quelle stesse persone che stanno appurando che l’i- struzione è malata sono anche quelli che beneficiano nel procurare una soluzione alternativa. Per esempio gli autori del report della “Valanga” nel Regno Unito lavorano tutti per Pearson, editore di libri di pedago- gia e fornitore di software scolastici. Sia D’Souza che Thrun, che ho citato prima, sono stati amministratori delegati di compagnie che cercano di offrire una so- luzione al problema dell’istruzione malata. C’è anche una startup educational (degreed.com) che ha porta- to avanti una campagna con lo slogan “L’istruzione è malata. Qualcuno deve fare qualcosa”. Questo qual- cosa lo facevano loro, naturalmente. Caulifield (2012) evidenzia la differenza tra una retorica dell’opportunità e una della crisi. Questa differenza di linguaggio è molto significativa per in- 162 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley quadrare la nostra risposta. Thibodeau e Boroditsky scoprirono che le metafore usate per definire un problema influenzavano la soluzione che i soggetti proponevano, quindi se il crimine è formulato in ter- mini di metafora come un virus o come una bestia, questo determina come le persone pensano debba essere affrontato. Una retorica dell’opportunità po- trebbe suggerire di incoraggiare quelli che già lavo- rano nel settore ad approfittare delle opportunità e a lavorare con altri. Una retorica della crisi suggerisce che non ci si debba fidare di quelli che sono in carica e che si richieda ad agenti esterni di mettere in moto cambiamenti radicali. L’istruzione è malata, dunque è necessaria una cura, e i MOOC forniscono la radicale soluzione ri- chiesta, questa era la logica sottostante di molti degli articoli riguardanti i primi MOOC. È facile intuire perché i MOOC siano proposti come la soluzione al nebuloso problema dell’istruzione corrotta – sono gratuiti, online e infinitamente scalabili. Ma lo stesso si può dire anche delle OER, quindi perché i MOOC fanno appello a questa retorica di crisi in un modo in cui nessun altro movimento di open education fa? Le ragioni sono legate alla seconda narrazione do- minante con la quale simpatizzano, cioè quella della Silicon Valley. La narrazione della Silicon Valley Il modello della Silicon Valley fornisce una narra- zione così potente che è venuta presto a dominare il modo di pensare più del computing. Per esempio Staton (2014) dichiara che la laurea è destinata a mo- 163 la battaglia per l’open rire perché la Silicon Valley non assume persone che siano laureate in computer science e preferisce quelli che hanno una buona presenza a livello di communi- ty su siti di sviluppo di software. Da questo ne dedu- ce che questo modello è applicabile a tutti gli ambiti e a tutte le vocazioni. Non è necessario aggiungere che Staton è amministratore delegato di una azienda educational. Ci sono svariati elementi utili alla narrazione del- la Silicon Valley: in primo luogo, che una soluzione tecnologica è possibile ed esistente; in secondo luogo che forze esterne cambieranno e sconvolgeranno un settore esistente; in terzo luogo, che è necessaria una rivoluzione massiccia; e infine che la soluzione è for- nita dal commercio. Abbiamo visto come il meme “l’istruzione è ma- lata” soddisfi la terza condizione della narrazione della Silicon Valley. Se la si accetta come malata, allora solo una rivoluzione è sufficiente a curarla. I MOOC si appellano alla prima e seconda di queste condizioni. Essi rappresentano una soluzione deci- samente tecnologica, in particolare nell’istantanea degli xMOOC. È risaputo che Thrun abbia lavorato a Google dove sviluppò la macchina senza pilota. La promessa dell’intelligenza artificiale su sistemi di ap- prendimento adattabili e una sofisticata valutazione automatica è attraente in quanto sembra futuristica, e si allinea con la soluzione di approccio tecnologico della Silicon Valley. Anche se Thrun, Koller e Ng lavoravano tutti a Stanford, e potevano quindi essere considerati par- te dell’establishment, a Thrun in particolare è stato assegnato il ruolo di outsider dell’istruzione. Per sod- disfare questo bisogno di una terza parte che venga 164 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley in aiuto al settore, il fondatore della Khan Academy, Sal Khan è spesso stato proposto come il padrino dei MOOC (High 2013). Un altro importante aspetto che attira la Silicon Valley, gli imprenditori e i giornalisti allo stesso modo è quello della disruption. Il concetto proviene dall’influente lavoro di Clayton Christensen del 1997, The Innovator’s Dilemma, che analizzava come la tecnologia digitale in particolare potesse creare nuovi mercati che andavano a destabilizzare quelli esisten- ti. Christensen fece una distinzione tra tecnologie che sostengono e aiutano a migliorare un mercato esistente, e tecnologie dirompenti che creano nuovi mercati. La macchine fotografiche digitali possono essere viste come un elemento di rottura con il tra- dizionale mercato, mentre la memoria migliorata o alcuni elementi del digitale sono di sostegno. È un termine che è stato utilizzato molto più am- piamente del suo concetto originario, al punto che è diventato quasi privo di significato e di rado valutato criticamente. Dvorak (2004) lamenta la sua mancan- za di significato, dichiarando che «Non c’è una tecno- logia che sia dirompente, ci sono invenzioni e nuove idee, molte delle quali falliscono mentre alcune di esse hanno successo. E questo è quanto.» Rimane comunque un’ossessione insita nella narrazione del- la Silicon Valley. Come argomenta Watters (2013), la disruption è diventata qualcosa di simile ad un mito culturale nella Silicon Valley: Quando dico dunque che “innovazione dirompente” è uno dei grandi miti del mondo commerciale contem- poraneo, in particolare dell’industria tecnologica, non intendo dire che la spiegazione di Clayton Christensen sui cambiamenti di mercato e di modelli di business 165 la battaglia per l’open e tecnologia sia una bugia... il mio legare il termine “mito” con quello di “innovazione dirompente” vuole sottolineare il modo in cui questa narrazione è stata ampiamente accettata come incontestabilmente vera. Nessuno vuole solo creare uno strumento uti- le, questo strumento deve essere dirompente, deve sconvolgere un settore. L’istruzione, percepita come lenta, resistente al cambiamento e antiquata, è consi- derata sull’orlo di uno sconvolgimento. Christensen, Horn e Johnson (2008) la pensavano così quando hanno detto «uno sconvolgimento è necessario e at- teso da tempo nella nostra scuola pubblica». Perciò il report della Valanga si giustifica affermando che «tutti gli elementi chiave dell’università tradizionale sono minacciati da una valanga in arrivo. Per dirla come Christensen le università sono pronte per un impatto dirompente». Nella sua critica sull’impat- to delle OER, Kortemeyer (2013) dichiara: «le OER non hanno evidentemente sconvolto il tradizionale modello di business dell’istruzione superiore», per- ché affinché qualcosa abbia successo, conta solo la dirompenza. Possiamo ritrovare molti di questi elementi nei trattati sui MOOC. Prendiamo ad esempio il trattato di Clay Shirky “Your Massively Open Offline College Is Broken” (2013), che produsse molto interesse e fu considerato un’analisi ponderata. Nell’ambito di questa narrazione di base, Shirky ha anche il meme “l’istruzione è malata” nel titolo del suo lavoro, e più avanti lo dichiara a chiare lettere: «Ho una rispo- sta differente: la scuola è malata e tutti lo sanno». Mette poi in piedi un’ipotesi piuttosto convincente sui problemi economici legati all’istruzione supe- riore, anche se non mette in dubbio i modelli di fi- 166 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley nanziamento. Shirky cita un libro “Don’t go back to school” (Stark 2013) in cui si intervistano 100 perso- ne che hanno abbandonato la scuola e hanno avu- to successo, per la maggior parte persone che ave- vano imparato da sé ad usare le risorse di internet, un esempio di applicazione del modello della Silicon Valley. Nel suo scritto precedente “Napster, Udacity and the Academy” (Shirky 2013), paragona l’impat- to dei MOOC sull’istruzione superiore a quello de- gli MP3 sull’industria musicale. Ciò è conforme alla narrazione della Silicon Valley, poiché propone una rivoluzione e una disruption: «L’istruzione superio- re ora è stata sconvolta, il nostro MP3 adesso sono i Massive Open Online Courses (MOOC)». Egli sug- gerisce inoltre che il fornitore commerciale esterno sarà la stessa forza dell’innovazione, dichiarando che «Il nostro Napster è Udacity, la startup educational». Tutti questi elementi si ritrovano anche nel pezzo di Clark (2013) dove, riferendosi a Khan, dichiara che «ci è voluto un gestore di fondi speculativi per dare uno scossone all’istruzione poiché non aveva nessun bagaglio di istruzione superiore». Se si riconosce l’influenza di coloro che si stanno nel settore dell’i- struzione superiore, come Wiley, Downes, Siemens, questo toglie fascino alla storia. Kenohan (2013) ha fatto un’analisi semantica di undici famosi articoli MOOC. Prendendo i pezzi di Kernohan per fare un semplice conteggio di ricorren- za della parola “sconvolgimento” (o derivati), questa viene fuori 12 volte, “rivoluzione” 16 volte e “azienda” 17. Ovviamente questa è una scelta selettiva di termi- ni (“open” ad esempio comprare 48 volte, per fare un paragone), ma la presenza di questi termini indica uno schema specifico di approccio ai MOOC che si 167 la battaglia per l’open allinea in qualche modo alla narrazione della Silicon Valley. Ora possiamo capire perché i MOOC si sono rivela- ti così popolari per i giornalisti. In primo luogo sem- bra che offrano una soluzione al meme “l’istruzione è malata” che si è diffuso. In secondo luogo soddi- sfano i criteri della narrazione della Silicon Valley: hanno proposto una soluzione tecnologica, possono essere considerati il risultato di forze esterne e han- no portato un modello rivoluzionario. Quasi tutti i primi articoli sui MOOC li hanno inquadrati come dirompenti rispetto al modello standard di istruzione superiore. E furono fondati come compagnie ester- ne di istruzione superiore, creando così interesse in- torno a modelli di business e potenziali profitti che potevano sconvolgere il settore. Questo mix esaltante si è dimostrato irresistibile per molti giornalisti che trattano di tecnologia o di istruzione. Questa analisi rivela anche il perché le iniziative di open education non hanno guadagnato così tanta at- tenzione. Spesso esse cercano di integrare o comple- tare l’istruzione, rovinando il concetto di “istruzione malata”. Inoltre sono spesso portate avanti da perso- ne che lavorano all’interno dell’istruzione superiore, cosa che pregiudica la narrazione degli agenti esterni che promuovono il cambiamento su un settore che è “out of touch”. E da ultimo, sono supportate da istitu- zioni no profit, cosa che non va d’accordo con il mo- dello di nuovi e sconvolgenti mercati. Se si volesse sollevare un’obiezione riguardo alla disruption, i libri di testo open potrebbero costituire un caso convin- cente, dato che minano un business consolidato con alternative digitali e di basso costo, ma dato che pro- getti come OpenStax sono nati non per fare profit- 168 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley ti, essi non risultano in linea con la narrazione della Silicon Valley così come i MOOC. Un ulteriore aspetto della narrazione della Silicon Valley e della disruption è che richiede una mentalità “anno zero”. La storia diventa molto più convincente se si dice che qualcuno si è inventato un nuovo modo di lavorare. Dato che un’invenzione di genesi com- pletamente nuova è rara, la maggior parte dei lavori si trastulla con vecchie idee che vengono migliorate, cosa che richiede o una deliberata ignoranza sui la- vori passati o una immaginifica rielaborazione degli stessi. Ritorno al futuro, di nuovo Il 2013 ha visto un certo numero di scoperte rela- tive ai MOOC e di innovazioni che hanno riportato di sfuggita una somiglianza con la pratica didat- tica standard. Ad esempio abbiamo visto la BBC (Coughlan 2013) annunciare l’innovativa sperimen- tazione lanciata da Harvard “SPOC – a small, private online course” che trarrebbe vantaggio dai MOOC ma li posiziona in un ambiente chiuso e più sicuro per gli studenti che pagano la retta del campus. C’è voluta abbastanza immaginazione per vedere questa proposta come diversa dai corsi online che la mag- gior parte delle università ha offerto in tutto il decen- nio passato, ma chiamarla con un nuovo nome sotto il cappello dei MOOC l’ha resa in qualche modo in- novativa. Come abbiamo già visto, allo stesso modo Coursera decise che un elearning in campus avreb- be potuto costituire un mercato valido per i MOOC, quando stabilirono partnership con dieci università. 169 la battaglia per l’open Come per SPOC ci fu quindi Micro-MOOCs, che era- no dei “corsi brevi in elearning”, DOCCs (Distributed Open Collaborative Course) e SOOCs (Social Online Open Course e Small Open Online Course). Clayton Christensen sembrò arrivare alla conclu- sione che un apprendimento completamente online nei K-12 non sarebbe arrivato presto o non sarebbe stato auspicabile, e che la versione mista che mol- te scuole praticavano da anni avrebbe potuto essere vantaggiosa. Invece che vederla come una tecnologia di supporto o come un fallimento della disruption, fu chiamata “didattica ibrida”e pubblicizzata come «un concetto fondamentalmente nuovo nel mondo della disruptive innovation» (Christensen, Horn e Staker 2013). EdX dichiarò che era difficile e costoso creare corsi online di qualità (Kolowich 2012d) e Sebastian Thrun attribuì il suo cambio di direzione con Udacity alla constatazione che il mantenimento degli studenti open entry è difficile (Chafkin 2013). Nell’intervista a Khan citata prima, la maggior parte delle teorie peda- gogiche sviluppate nel corso dei passati 120 anni fu ignorata e attribuita quindi a Khan. Henry Petroski (2012) suggerisce che la società si dimentica di lezio- ni fondamentali sulla progettazione di ponti ogni 30 anni, dato che questa è la lunghezza media della car- riera di un ingegnere. Lo stesso potrebbe valere per la educational technology, eccetto il fatto che spesso è una forma di amnesia intenzionale. I docenti hanno progettato corsi a distanza su vasta scala e poi corsi online per più di 40 anni e tuttavia gran parte del movimento MOOC ha scelto di ignorare questa espe- rienza pregressa. 170 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley Una parte del rebranding sui MOOC è un inevitabi- le e vantaggioso effetto collaterale dell’interesse cre- scente nell’elearning che essi stessi hanno generato. Chiamare un corso online SPOC può sembrare stra- no, ma non è dannoso. C’è però un aspetto più ambi- guo di una parte di questa amnesia, che è relativo alla narrazione della Silicon Valley. Essa gonfia il valore dell’innovazione se può reclamare l’invenzione di un approccio completamente nuovo, e compromette an- che lo stato di coloro che operano in un’industria se il loro contributo è respinto o dimenticato, facendo in modo che il ruolo di agenti esterni sia più fattibile. Ciò non è per ipottizzare un complotto di alto li- vello generato dalla Silicon Valley, ma gli ingredienti essenziali della narrazione della Silicon Valley costi- tuiscono quella che può essere visto come una cospi- razione di percezione. Si appella ad una visione del mondo che imprenditori, giornalisti e tecnologi im- plicitamente detengono e rafforzano. Come dice Watter, «La versione della storia che of- frono la dice lunga, dato che riflette il modo in cui percepiscono il passato, il modo in cui vogliono che il resto del mondo percepisca il passato, e il modo in cui sperano che “ci si muova verso il futuro”». Conclusioni Tutto questo può non essere importante: molte di- scipline lamenteranno il fatto che la loro generale co- pertura mediatica è oltremodo semplicistica o di par- te – basti pensare alla copertura dei problemi legati al settore della salute, per esempio. Di certo può essere vista come una benedizione. Qualsiasi copertura me- 171 la battaglia per l’open diatica aiuta a rendere più probabili i finanziamenti futuri e fa in modo che i progetti interni siano più realizzabili. Essendo stato coinvolto nelle prime for- me di MOOC, so per esperienza personale che c’è stato un cambiamento nella recettività da parte dei finanziatori per attivare la ricerca nei corsi open dal momento in cui è iniziata la bolla dei MOOC. E non è nemmeno semplicemente una questione di pedanteria storica, un desiderio di assicurare ai primi pionieri MOOC il loro giusto posto nel passa- to. Se l’accuratezza storica è sempre auspicabile in- fatti, non influisce sul modo in cui le persone usano l’eredità di quella scoperta una volta che la vittoria è stata sancita. C’è di più in gioco che una semplice precisione giornalistica. Nel capitolo 1 ho parlato di una battaglia per la narrazione nella open education, e di come la narrazione avrà una forte influenza sul- la futura direzione che questa prenderà. Se i MOOC sono l’aspetto più importante della open education, allora la narrazione ad essi associata provocherà un impatto su altri aspetti. Se la narrazione dominante è quella della Silicon Valley, allora questa definirà ciò che si ritiene essere il modello più appropriato per altre forme di open education. Se si vuole creare un corso open, allora il modello per farlo e i criteri per decidere cosa si debba ottenere sono stabiliti per ser- vire i bisogni di questa weltenschauung2 dominante. Oppure se si volesse strutturare un programma per rilasciare gli output del personale a basso costo (il ge- nere di cose che esamineremo nel prossimo capito- lo), ci si potrebbe trovare a doverlo ridurre in termini di MOOC. 2 In filosofia indica la concezione del mondo e della vita. 172 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley Tutto questo non è per insinuare che il fenomeno dei MOOC non è stato importante sia per quanto riguarda il settore dell’istruzione in sé, sia in modo più significativo per gli studenti. Come ha dichiarato Siemens (2012), «Chiunque esca là fuori e insegni fornendo almeno un’opportunità di apprendimento per persone che stanno in zone del mondo in via di sviluppo, e lo fa senza costi e incrementa le loro pro- spettive, ai miei occhi porta avanti un’idea fantasti- ca». Sembra dunque triviale lamentarsi del tono della copertura mediatica quando si è di fronte a migliaia di studenti che hanno avuto esperienze positive con i MOOC, alcune di esse anche a livello di cambiare la vita. Lo scopo di questo capitolo non era quello di fare una critica ai MOOC e alle loro applicazioni (cosa di cui si è già parlato nel precedente capitolo), ma piut- tosto di usare la copertura dei MOOC per esaminare il modo in cui la open education è influenzata da nar- razioni concorrenti. Analogamente, l’obiettivo di questo capitolo non è quello di suggerire che le soluzioni commerciali del- la Silicon valley non sono utili, o innovative. Si veda anche solo all’impatto che Google ha avuto nella so- cietà in generale – e nell’istruzione in particolare – per capire quanto di successo esse possano essere. Le università hanno le loro esigenze e i loro metodi di funzionamento, ed è spesso necessario operare al di fuori di queste per creare un prodotto specifico a consumo diffuso. L’intenzione in questo capitolo era piuttosto quella di portare l’attenzione sull’importan- za della narrazione e su come essa dia forma alle per- cezioni e alla direzione da prendere. I MOOC in par- ticolare hanno visto la narrazione sull’openness su- perata da altre, più dominanti. Si può concludere che 173 la battaglia per l’open sia necessario o inevitabile per conquistare l’impatto che i MOOC hanno avuto, ma dovremmo almeno es- sere consapevoli dell’influenza di questa narrazione e se siano possibili narrazioni alternative. Una delle implicazioni negative della narrazione “l’istruzione è malata”/Silicon Valley è che neces- sariamente inquadra tutto come rivoluzionario. Ciò crea una falsa dicotomia nell’audience, che o accetta la rivoluzione e tutto quello che ne deriva, o si oppone ad essa, sperando di mantenere lo status quo. Essere diffidenti sulle motivazioni di coloro che dichiarano che l’istruzione è malata oppure farsi delle domande sulla natura di questa affermazione non vuol dire pro- clamare che non vi siano problemi nell’istruzione. E analogamente sminuire il concetto di disruption non equivale ad essere resistenti al cambiamento. Un altro aspetto negativo della narrazione basata sull’idea di rivoluzione è che necessita di dichiara- zioni iperboliche per giustificare la portata della ri- voluzione stessa, come la dichiarazione di Thrun che ci saranno solo 10 fornitori mondiali di istruzione, o che i MOOC significheranno la fine delle universi- tà, fornendo formazione globale e gratuita per tutti. Inevitabilmente queste previsioni falliscono – Thrun ha cambiato direzione con Udacity, EdX ha scoperto che collegare i datori di lavoro con gli studenti MOOC non funziona e che «gli attuali dipartimenti di HR preferiscono le lauree tradizionali ed eliminano tutti i candidati non tradizionali» (Kolowich 2013d) e che una scuola progettata per creare comunità mentre gli studenti seguivano MOOC di loro scelta ha fatto fati- ca a trattenere gli studenti (Caplan – Bricker 2013). Il contraccolpo MOOC è iniziato, con il personale di al- cune università che rifiuta di usare materiale MOOC 174 l’istruzione malata e la narrazione della silicon valley o di partecipare ai MOOC (Kolowich 2013e) e con molti commenti online dal tono critico, per esempio i “Five Myths About MOOCs” di Laurillard (2014). È da vedere se queste reazioni avrebbero potuto es- sere osservate anche se i MOOC non fossero stati so- pravvalutati, e c’è il rischio che il contraccolpo metta a rischio futuri sviluppi dei MOOC. L’openness nell’istruzione offre molte opportu- nità concrete per migliorare il settore in termini di occasioni per gli studenti, sviluppando metodologie didattiche basate sull’open practice, distribuendo ri- sorse gratuite e democratizzando l’istruzione. Molti di questi cambiamenti radicali sono stati guidati da coloro che lavorano nell’ambito dell’istruzione, ma la narrazione della Silicon Valley vuole escludere questa parte della storia. I MOOC hanno messo in evidenza come la battaglia per la narrazione delinei la direzione che un’innovazione può prendere. Oggi possono essere i MOOC, ma lo stesso percorso può ripresentarsi per ogni innovazione della open edu- cation, poiché c’è una storia potente da raccontare sull’istruzione globale, e le dimensioni del merca- to sono irresistibili per la narrazione della Silicon Valley. Riconoscere questa lotta per la narrazione e costruire alternative è quindi al centro della battaglia per l’open. Un metodo per farlo è che gli accademici utilizzino il potere di internet per condividere la loro pratica in modo aperto. Questo sarà il tema del pros- simo capitolo. 175 CAPITOLO 7 La Open Scholarship Le bande di guerriglia non dovrebbero essere considerate inferiori all’esercito che combattono solo perché hanno una minore potenza di fuoco. Che Guevara Introduzione Nei tre precedenti capitoli ci si è concentrati soprat- tutto sui progetti e sulle pratiche istituzionali. Questi movimenti su vasta scala stanno lasciando un’im- pronta profonda nel panorama della open education e sono il terreno su cui le caratteristiche chiave della battaglia per l’open si manifestano con più evidenza. Tuttavia sono anche significative le pratiche indivi- duali che tracciano il percorso e definiscono le tipi- cità all’interno di questo panorama. Questo capitolo andrà ad analizzare come singoli professori stanno adattando le loro pratiche accademiche con approcci open. Il mio libro precedente si intitolava “The Digital Scholar” (Weller 2011), ma si sarebbe anche potuto chiamare “The Open Scholar”. ‘Digital’ e ‘open’ non sono necessariamente sinonimi, certo – si possono produrre output digitali ma salvarli in un hard disk locale, pubblicarli su riviste che non sono in Open Access e scegliere di non farsi un’identità online. Si la battaglia per l’open può chiamare anche questa digital scholarship, ma l’elemento digitale qui non indica nessun cambia- mento radicale nella pratica. Nel mio libro preceden- te suggerivo che ‘digital scholar’ era un’abbreviazione per descrivere l’intersecarsi di tre elementi: digitale, online e open. Le prime due sono condizioni neces- sarie, ma è l’aspetto open che porta un cambiamento nella pratica scolastica che vale la pena di discutere. La pratica open ha un’evidente relazione con l’istru- zione superiore. Come sostengono Wiley e Green (2012): «L’istruzione è prima di tutto un’attività che riguarda il condividere. La condivisione infatti è il solo mezzo con cui essa si può realizzare». Eccetto alcuni rari casi (e sono decisamente più rari di quan- to molti accademici possano credere) di profitti com- merciali che riguardano la ricerca, condividere il più ampiamente possibile dovrebbe essere il cuore della pratica didattica. La triade digital, online e open facili- ta dunque questa condivisione, altera drasticamente la scala di risultati e rimuove ostacoli e costi associati, ma nasce dal concetto fondamentale che la condivi- sione sia un elemento centrale per l’istruzione. Veletsianos and Kimmons (2012) propongono che la open scholarship prenda tre forme: (1) Open Access e open publishing, (2) open educa- tion, che include le open educational resources e l’o- pen teaching, (3) la partecipazione in rete, concluden- do che la open scholarship è una serie di fenomeni e pratiche che riguardano l’uso scolastico delle tecno- logie digitali e in rete, sostenuto da alcuni presuppo- sti che riguardano l’openness e la democratizzazione della creazione del sapere e della disseminazione. 178 la open scholarship Ho trattato in altre parti di questo libro la maggior parte di queste pratiche, come la pubblicazione in Open Access e l’open teaching, perciò questo capito- lo si concentrerà soprattutto su tre elementi: quella che Veletsianos and Kimmons hanno chiamato la ‘partecipazione in rete’, che è un’attività individuale attraverso vari media e network; l’identità online e come essa si relaziona alla pratica accademica tradi- zionale; e nuove possibilità nella pratica della ricerca che hanno origine dalle tecniche open. Come per i precedenti capitoli, l’obiettivo non è quello di fornire un quadro generale e definitivo del- la open scholarship come argomento, ma piuttosto di concentrarsi su come l’openness sia un elemento significativo nella pratica accademica. L’argomento è meno definito di quello dei MOOC, delle OER e dell’Open Access, dato che riguarda cambiamen- ti nel comportamento accademico che sono portati dalla pratica e dalla tecnologia open. Queste tre aree (la pratica in rete, l’identità e i nuovi approcci nella ricerca) possono essere dunque considerate rappre- sentative di un particolare punto di vista sulla open scholarship, che in realtà ingloba quanto detto nei capitoli precedenti. La pratica in rete Quando scrissi The Digital Scholar nel 2010/2011 l’idea di un uso accademico dei social media e del- le nuove tecnologie fu presa con cautela. Proctor, Williams e Stewart (2010) lo riassumono dicendo: «Un uso frequente o intensivo è raro, e alcuni ri- cercatori considerano i blog, i wikis ed altre nuove 179 la battaglia per l’open forme di comunicazione come una perdita di tempo o addirittura come pericolosi». Questa attitudine a un “approccio cauto” sembra ancora prevalere, con Esposito (2013) che riporta un «interesse cauto nei confronti degli strumenti del web 2.0 a supporto di attività di ricerca». Allo stesso modo Gruzd, Staves e Wilk (2012) segnalano che molti enti di ricerca non utilizzano profili online quando si occupano della promozione, ma suggeriscono che questa situazione sta iniziando a cambiare. Ciò che è cambiato è un uso più frequente degli strumenti dei social media nella società in genera- le, per cui è più probabile che gli insegnanti abbiano un’identità su questi strumenti che mescolano pri- vato e professionale. C’è anche stata una crescita su siti accademici come Academia.edu, ResearchGate e Mendeley. Academia.edu ad esempio (2013) ha par- lato di quasi 9 milioni di utenti registrati nel 2013, e ResearchGate più di 3 milioni, anche se non è chiaro quanti di questi siano attivi. La combinazione di que- sti due fattori dimostra come sia più probabile che gli accademici abbiano qualche forma di identità online. Valetsianos (2012) individua sette modi in cui gli studenti usano Twitter: per condividere dati, risorse e media; per condividere informazioni riguardo all’in- segnamento; per chiedere assistenza e rispondere alle richieste di altri; per prendere parte a discussio- ni social; per essere coinvolti in identità digitali e in qualche modo impressionare il management; per fare rete e connettersi con altri; e per mettere in evidenza la loro partecipazione ad altri network, per esempio linkando a blog. Ciò rispecchia il lavoro di Fransman e altri (2011) alla OU, che scoprì che il 26% degli ac- cademici aveva un account Twitter, che anche se non 180 la open scholarship era la maggioranza rappresentava un dato significati- vo di utilizzo di questi strumenti rispetto all’adozione solo specialistica di qualche tempo prima. Essi infatti si usavano in una varietà di modi, ad esempio per comunicare all’interno di un team di progetto, per diffondere i risultati e le riflessioni e per veicolare do- mande relative alle ricerche. I siti specializzati di istruzione superiore come Academia.edu rappresentano per molti accademici un modo ‘sicuro’ o una strada più pertinente per farsi un’identità online. Essi infatti fanno esplicitamente riferimento alla pratica universitaria, rispetto ai so- cial media generalisti che invece molti accademici ve- dono come frivoli o irrilevanti. Come disse uno degli intervistati nella ricerca di Fransman: «Il problema è che non sono tanto sicuro di quale sia la funzio- ne di Twitter o di queste tecnologie, e nemmeno di come dovrei usarle». Altri le vedono con sospetto e timore: un partecipante dichiarò: «Non ti piacerebbe diffondere il tuo articolo di storia al mondo intero, perché finirebbe per non essere più tuo! Anche dopo che lo hai pubblicato devi fare attenzione al copyri- ght, per cui non lo puoi semplicemente appiccicare dappertutto». Nel sottolineare l’ascesa della open scholarship, quindi, bisogna avere cautela e non sopravvalutarla. Come molti altri aspetti della open education, la sto- ria della open scholarship è stata quella di un adatta- mento e di una crescita costante piuttosto che di una repentina rivoluzione. Selwyn (2010) mette in guar- dia sul fatto che c’è una forte tendenza al solipsismo da parte dei tecnici dell’istruzione sui social media e sull’openness. Le discussioni sul potenziale dei so- cial media nell’istruzione sono «autonome, autore- 181 la battaglia per l’open ferenziali e autodefinite... Generalmente si tratta di conversazioni che si svolgono tra gruppi di docenti che usano i social media – di solito che usano i so- cial media per parlare dei benefici dei social media sull’istruzione». Questo tuttavia crea un dilemma per i docenti, dato che la direzione dei social media e dell’openness sarà influenzata dalle loro stesse azioni. Come abbiamo visto per le OER, è necessario passare da una fase ca- ratterizzata da credenze per costruire il contesto nel quale può essere misurato l’impatto. L’osservazione empirica di quanto è successo costituisce infatti un approccio fondamentale per il ricercatore obiettivo quando esamina gli effetti sulla società nel suo in- sieme, ma in termini di formazione di un proprio dominio è un approccio eccessivamente passivo che potrebbe autorealizzarsi o fallire a seconda della pro- spettiva di chi lo guarda. Presenta anche il contesto attuale come neutrale, e ciò non può essere vero. La presenza di molte prassi istituzionali può scoraggia- re la open scholarship. Per esempio, Cheverie e altri (2009) trovarono una correlazione tra l’assegnazione della cattedra e l’opinione che «il passaparola a colle- ghi più giovani disincentivava la scholarship digitale nel processo di assunzione, assegnazione della catte- dra e promozione». La open scholarship è unica tra gli interessi degli accademici perché è un’area ancora indefinita che riguarda sia il sapere sia le sue defini- zioni. Ciò indica che c’è una tensione tra il contesto nel quale gli accademici operano e il potenziale della open scholarship. E questo ci permette di collegarci all’identità accademica. 182 la open scholarship Lo studente open e l’identità La open scholarship crea nuove opportunità e nuo- ve tensioni tra individui, e un modo per analizzarli è prendere in considerazione il concetto di identità ac- cademica. In questo paragrafo si analizzeranno le te- orie generali dell’identità, e dell’identità accademica in particolare. Esamineremo poi come la open scho- larship impatti su queste nozioni relative all’identità, e anche quale sia la relazione con le forme tradiziona- li di identità accademica. Un lavoro pionieristico sull’identità è quello di Mead (1934) che osservava come il concetto di sé fos- se pienamente sviluppato quando i comportamenti e i valori della comunità erano integrati. Un compo- nente forte della costruzione dell’identità è infatti il grado in cui o assorbiamo i valori della comunità in cui ci troviamo, o troviamo una comunità con i cui valori ci sentiamo a nostro agio, in breve una “società che si autoriflette”. La forza di queste identità si rive- la in comportamenti tangibili – l’importanza data a identità religiose ad esempio è in correlazione con il tempo speso in attività religiose (Stryker e Serpe 1982). Questa visione sociale è ripresa da Snow (2001) che diceva che l’identità è per gran parte una costruzione sociale, e allo stesso modo dell’apparte- nenza comprende un senso di diversità da altre co- munità. In questa definizione l’identità viene vista come un sentimento condiviso di “unicità” legata al sé o al noi e ancorata a caratteristiche ed esperienze condivise in contrasto con uno o più gruppi di “al- tri”. Guardando all’identità nazionale Canetti (1962) appurò che i “crowd symbols” sono molto significa- tivi nella costruzione di questi valori condivisi. Disse 183 la battaglia per l’open ad esempio che per l’Inghilterra il mare è un crowd symbol, mentre per i francesi è la Rivoluzione. Questi crowd symbols secondo lui sono stati più significativi della storia o del territorio e rappresentarono icone comuni e comprese che possono supportare il senso di appartenenza ad una nazione. Riguardo all’identità accademica, Henkel (2005) individua un numero di caratteristiche significative, l’autonomia in primis, sottolineando che «l’autono- mia risulta essere importante in quanto integralmen- te connessa all’identità accademica». I cambiamenti nella struttura dell’istruzione superiore hanno fatto in modo infatti che l’appartenenza di un individuo ad un dipartimento non sia più così centrale per l’i- dentità come lo era un tempo. Henkel ritiene infatti che «il dipartimento è oggi solo uno, e non necessa- riamente il più sicuro o importante, focus dell’attivi- tà accademica e dell’identificazione». Becher (1989) sottolinea l’importanza delle discipline nell’identità accademica, sostenendo che il mondo universitario può essere considerato come formato da tribù distin- te, con il loro territorio stabilito attraverso regole e convenzioni significative quanto il dominio della conoscenza stessa. Tornando agli aspetti della open scholarship, i blog probabilmente rappresentano la forma di identità più consolidata. Ewin (2005) usa il termine postmoderno “multiphrenic” per descrivere le molteplici identità che gli autori mostrano, tra cui forse una per la loro disciplina, una per la loro perso- na fisica nel campus e una per la loro persona online. Non si può dunque pensare che siano identità “vere”: essi infatti proiettano aspetti diversi della loro indivi- dualità che sono relativi alle norme sociali di quello specifico contesto. Dennen (2009) osserva che alla 184 la open scholarship base della nascita di un blog c’è una decisione da parte degli accademici riguardo alla loro identità: che tono dovrà avere il blog? Che tematiche dovrà trattare? Quanto della vita personale dell’autore dovrà essere rivelato? Dennen suggerisce che come nei campus esistono una serie di norme sociali, allo stesso modo esistono online, e l’autore deve risponderne. Queste norme identitarie si diffondono attraverso il mondo altamente connesso della blogosfera «sulla base della circolazione virale di azioni individuali sui blog». Queste nuove identità possono entrare in conflitto con quelle tradizionali, come sostiene Costa (2013), che dichiara: «è più probabile che le istituzioni che si occupano di istruzione superiore supportino for- me convenzionali di pubblicazione piuttosto che ap- procci innovativi alla comunicazione della ricerca». E va avanti suggerendo che, anche se le università non si oppongono al cambiamento, la loro identità è profondamente legata a certe tradizioni, che sono rinforzate attraverso «strategie che spingono gli indi- vidui a comportarsi secondo le regole» e attraverso la creazione di certe forme di mito. Mettendo insieme questi elementi possiamo ri- cavare un’immagine dell’open scholar e di come la sua identità si relazioni alla pratica. La nozione di crowd symbol presa dall’identità nazionale equivale ai principi cardine del credo disciplinare, che siano essi documenti simbolo o metodi. Come membro di una disciplina accademica anche questi crowd symbol aiutano a definire l’identità. E tuttavia, come sostiene Denner, il bloggare, e per estensione altre forme di identità online, hanno le loro proprie regole sociali, che possono essere viste come un gruppo di crowd symbol in competizione. L’identità online poi 185 la battaglia per l’open può anche aprire strada al ristabilirsi di valori accade- mici fondamentali come quello dell’autonomia. Gli open scholar sono dunque in una posizione piuttosto schizofrenica: possono stare in due domini differen- ti, con valori che sono in competizione tra di loro. Per esempio, la comunità open scholarship crea un precedente riguardo all’immediatezza, condividendo brevi stralci di risultati e lavorando sulle idee in un contesto open. La comunità disciplinare tradizionale invece ritiene che abbiano più valore risultati estesi e che sia importante non rilasciarli fino ad uno stadio avanzato del processo di ricerca. Per gli open scholar questa intersezione di norme sociali a volte in com- petizione può creare tensione. Per analogia possiamo vedere gli open scholar come quei gruppi che all’interno di una nazione conserva- no una loro forte identità locale, che può trovarsi però in contrasto con la loro identità nazionale. Si può os- servare con i montanari, che hanno molta affinità con altre comunità montane ma che si sentono an- che parte di una stessa nazione. Prendendo in esame gli abitanti delle Alpi Svizzere, Debarbieux e Rudaz (2008) scoprirono che «le popolazioni di montagna, al di là delle loro differenze culturali, religiose o poli- tiche, si sentono in tutto il mondo come appartenen- ti ad uno stesso gruppo» e che «un montanaro del cantone Valais ha più in comune con un montanaro agricoltore del Nepal che con qualcuno che vive nella pianura svizzera». Gli abitanti delle Alpi hanno una doppia identità che attraversa vari confini, per cui c’è una forte comunità alpina che trascende l’identità nazionale, ma che a volte fa prevalere la sua identi- tà nazionale. Per esempio quando hanno a che fare con il clima sono alpini, mentre quando si tratta di 186 la open scholarship tifare una squadra di calcio allora ritornano alla loro identità nazionale e sono di nuovo francesi, italiani o svizzeri. Molti di noi hanno queste molteplici identi- tà, ma è meno complicato per chi vive in città. Mentre ci si può classificare come londinese o britannico – l’identità urbana opera ad un livello diverso da quella nazionale – per gli alpini queste identità possono in- trecciarsi e sovrapporsi. Gli open scholar si trovano ad essere in una posi- zione simile, dovendo rimanere fedeli alla loro di- sciplina ma allo stesso tempo lavorando all’interno di norme sociali nella open community. Guardando alle norme delle due comunità, è possibile identifi- care le tensioni e determinare i vantaggi di ciascuna nel realizzare le funzioni accademiche. Riguardo alla battaglia per l’open, l’identità accademica può essere vista come un fattore influente in tutti i movimenti di maggiore estensione. Ad esempio la pubblicazione in Open Access riguarda il modo in cui un ricercato- re ha condiviso il suo lavoro, e molti considerano un elenco di pubblicazioni come un elemento centrale dell’identità accademica. Allo stesso modo l’uso e la condivisione di contenuto didattico attraverso le OER e i MOOC è fondamentale per l’identità dei docen- ti. Comprendere dunque come l’openness riguardi l’identità e come sia stata modificata dalla pratica online può sembrare un concetto interessante ma periferico, invece determinerà l’aspetto della open education. Nel prossimo paragrafo lo esamineremo più in dettaglio, vedendo come la open scholarship può influenzare una pratica in particolare. 187 la battaglia per l’open L’arte della Guerrilla Research Siamo abituati in università a considerare la ri- cerca come costituita dalle seguenti componenti: è spesso finanziata da fondi esterni e produce risulta- ti tradizionali come un articolo su rivista o un libro. Pensiamo quindi alla ricerca come a qualcosa che ha una “dimensione” misurabile. Una delle implicazio- ni della open scholarship invece è che crea modi di- versi di vedere la ricerca. L’atteggiamento dominan- te su come si fa ricerca si è venuto a formare prima dell’arrivo delle tecnologie digitali, in rete e open, e in parte è sicuramente ancora valido, ma ci sono mol- teplici possibilità che ci sono precluse se rimaniamo attaccati a questo modo di vedere le cose. Uno di questi aspetti è l’approccio “Fallo da te” op- pure “Fallo ora”. Per esempio, fondare una rivista un tempo era un compito faticoso, che aveva bisogno di contrattazioni con l’editore e di un modello di busi- ness sufficientemente sostenibile. Per alcune aree però, come per le riviste interdisciplinari, il bacino di mercato poteva essere troppo piccolo per valerne la pena. Lo sviluppo di software per creare riviste open online come OJS e Google Annotum rimuove molte di queste complicazioni: si può fondare una rivista in un pomeriggio. Io stesso l’ho sperimentato creando il Meta EdTech Journal (Weller 2011), che ripubblicava articoli di giornali Open Access che ave- vo selezionato da altre riviste (in realtà più un espe- rimento per valutare le possibilità che una rivista seria). Una rivista di questo tipo può contenere con- tributi originali, avere formati sperimentali o creare un periodico interdisciplinare che ripubblica articoli 188 la open scholarship esistenti con un commento. Non è necessario nessun permesso per crearlo e può operare a basso costo. Naturalmente si potrebbe ribattere che la presenza di un editore dia validazione al lavoro, ma se l’indi- viduo (o il team) ha sufficienti identità in rete allora si crea da solo la sua propria forma di validazione. Un altro tipo di ricerca potrebbe essere quello di cre- are una app: per esempio, quando un team alla OU creò alcune app Facebook per gli studenti (Weller 2007), il loro presupposto di lavoro era che avrebbero agito come se fossero gruppi esterni e senza accesso privilegiato alle informazioni. Sebbene richiedesse lo sviluppo specializzato di un software da parte di un membro del team nel tempo libero, le app furono prodotte a costo zero e senza nessuna richiesta di au- torizzazione. Costruire app può essere poi un mezzo legittimo per raccogliere dati. Un terzo esempio è costituito dall’interrogare gli open data. Il blog di Tony Hirst fa molti esempi su come estrapolare dati da siti governativi o da social media come Twitter per verificare delle ipotesi. Ha indagato per esempio quanto sono influenti i dati di spesa sulle decisioni delle amministrazioni loca- li (Hirst 2013), o chi twittava su un programma del- la BBC e come era connesso (Hirst 2012). Un altro approccio è usare la testi pubblici come fonte: per esempio i travel blog si sono dimostrati un filone ricco di dati per la ricerca, producendo articoli sull’i- dentità (Kane 2012), sul marketing (Schmallegger and Carson 2008) e sulla metodologia (Banyai and Glover 2012). Vorrei sottolineare il fatto che nessuno di questi esempi vuole sostituire gli approcci tradizionali alla ricerca; non sono un miglioramento ma un’aggiunta, 189 la battaglia per l’open spesso sono anche complementari. Un pezzo preli- minare di ricerca individuale e a basso costo può for- mare la base per competere per fondi destinati ad un lavoro più significativo. Ciò che è comune a tutti que- sti, e sicuramente a molti altri approcci della open education come i primi MOOC, è che non richiedono autorizzazioni eccetto alcune relative alla tempistica. Nella sua critica al film “The social network” il fon- datore di Creative Commons Larry Lessing (2010) ha messo in evidenza il fatto che è stata proprio questa rimozione di barriere la parte significativa della storia di Facebook: «Ciò che è importante qui è che alla tro- vata geniale di Zuckerberg potrebbero aderire mezzo miliardo di persone in sei anni dal suo lancio senza (e qui c’è la critica) aver chiesto il permesso a nessu- no. La vera storia non è quella dell’invenzione, è la piattaforma che rende l’invenzione interessante». La stessa libertà riguarda la pratica scolastica, inclu- so come facciamo ricerca, come diffondiamo i risul- tati e come insegniamo. Questo approccio “just do it” può prendere in prestito un termine dal software development: “guerrilla research”. Unger e Warfel (2011) si sono detti a favore di questa definizione so- stenendo che «i metodi della Guerrilla research sono metodi più veloci, più economici e che producono ri- sultati sufficienti da generare decisioni strategiche». La guerrilla research ha le seguenti caratteristiche: • può essere portata avanti da uno o due ricercatori e non richiede un team • si affida a dati, informazioni e strumenti open esistenti • è piuttosto veloce da capire • è spesso diffusa tramite blog e social media • non richiede permessi 190 la open scholarship Come già detto in precedenza, la guerrilla research non ha bisogno di essere in competizione con la ri- cerca formale e finanziata. Anzi è un buon modo per iniziarla: se un ricercatore ha bisogno di dimostrare ad un finanziatore che vale la pena di investire in un progetto, allora può essere utile mostrare qualche in- teressante risultato preliminare, così come lo può es- sere la capacità di mostrare attraverso analisi grafiche che i blog e i tweet sui suoi risultati iniziali hanno generato un certo livello di interesse. Parte dello spreco nella pratica corrente spesso non viene notato, dato che è una pratica accettata alla quale gli accademici hanno ormai fatto l’abitudi- ne. Alcuni ricercatori ad esempio possono spendere parecchio del loro tempo, anche mesi, a sviluppare candidature da sottoporre a finanziatori. Stevenson (2013) ha calcolato una media di tre mesi a proposta, ma il Research Council del Regno Unito ha ritenuto che dodici giorni per una proposta convenzionale era la media (RCUK 2006). Il tasso di successo di queste candidature è in calo, dato che sta diventando sem- pre più competitivo: per esempio la ESRC ha stimato che solo il 17% delle proposte nel 2009-10 ha avuto successo (ESRC 2010). Se poi una proposta non ha successo, alcune volte viene modificata e mandata al- trove, ma più spesso è semplicemente abbandonata e il ricercatore va avanti a farne altre. Il che significa un sacco di tempo e di conoscenza andati perduti. Il re- port di RCUK del 2006 stima che 196 milioni di ster- line sono state spese in domande indirizzate agli otto comitati britannici di ricerca, la maggior parte delle quali era in sostanza tempo di staff già impiegato. Il numero delle domande cresce ogni anno – ci sono state 2.800 proposte inviate a ESRC nel 2009-10, con 191 la battaglia per l’open un incremento del 33% rispetto al 2005-6, quindi probabilmente questa cifra è cresciuta in modo signi- ficativo. Alcune di queste 2.800 proposte erano borse di studio, che hanno un maggiore tasso di successo, ma anche prendendo come dato ottimistico 800 pro- poste accettate per farle diventare borse di ricerca, comunque ne restano 2.000 che non hanno avuto successo. Se prendiamo dunque il dato di dodici gior- ni per candidatura che è stato portato dal RCUK, ciò equivale a 65 anni di tentativi, e questo è solo uno dei molti grandi centri di ricerca in UK e in Europa ai quali i ricercatori mandano proposte. Ovviamente questo è solo un dato indicativo, e nel calcolo ci sono molte supposizioni discutibili, ma comunque la na- tura della ricerca così come è attualmente concepita prevede un sacco di sprechi. Ciò non vuole suggerire che il processo di peer review non sia valido, ma che la mancata capitalizzazione delle proposte rifiutate rappresenta un sostanziale spreco di risorse. Come per l’open source software e per gli approcci open all’insegnamento, anche gli approcci open alla ricer- ca possono suggerire una metodologia più efficiente. Molte di queste candidature costituiscono una ri- cerca valida e potrebbero essere rifiutate solo perché non soddisfano le specifiche tecniche relative al for- mato della proposta. La guerrilla research può essere un modo per realizzarne alcune, anche se in certe aree, in particolare nell’ambito della ricerca scienti- fica, non è possibile. Un approccio più open allo svi- luppo della ricerca comunque ridurrebbe lo spreco generale. La natura competitiva delle candidature però spesso preclude la condivisione pubblica delle proposte, specialmente nella fase di sviluppo, e come 192 la open scholarship tale rappresenta una di quelle aree di tensione tra la open scholarship e la prassi tradizionale. Conclusioni La open scholarship può costituire un libro a sé e ci sono molti aspetti che qui non sono stati trattati. La citizen science è una di queste aree, in cui gli ac- cademici stanno sviluppando piattaforme e in cui gli approcci per coinvolgere un pubblico più ampio han- no avuto grande successo. Per esempio un progetto come iSpot che permette agli utenti di fotografare specie diverse e chiederne l’identificazione può esse- re usato per calcolare la distribuzione geografica di certe specie. Gli open data, i cambiamenti portati al sistema di peer review per farlo diventare di post-re- view, il fondare comunità online – tutte queste sono aree fertili della open scholarship. Il focus qui è sta- to quello di dimostrare un particolare aspetto, quello della ricerca, e di come esso sia influenzato dalla pra- tica open, ma lo stesso si può applicare all’insegna- mento o al public engagement o ad altre forme di attività didattica. La open scholarship comunque non è esente da pro- blemi. Anche se la privacy è diversa – perché la open scholarship riguarda la scelta di condivisione di alcuni aspetti e la privacy riguarda piuttosto l’invasione non autorizzata in quegli elementi che si decide di non ren- dere pubblici – molti sono a disagio con qualsiasi for- ma di presenza online. Può essere che avere una tale identità sia ora parte integrante dell’essere uno studio- so, quindi c’è un elemento di costrizione che sottende un po’ al proselitismo sulla open scholarship. Questo 193 la battaglia per l’open è particolarmente vero nel caso degli allievi, alcuni dei quali possono avere legittimi motivi per non volersi fare un’identità nell’open (per esempio se sono stati vittime di cyberstalking). L’apprendimento infatti è in- trinsecamente un processo scomodo, in cui un allievo passa dalla posizione di (relativa) ignoranza ad una di (relative) competenze. Implicito in questo processo è l’esposizione di alcuni a questa ignoranza. Perfino uno dei grandi sostenitori dell’open teaching, George Siemens (2014), ricorda che non ci dovremmo dimen- ticare mai della vulnerabilità dell’imparare. Perciò un ambiente chiuso e protetto come una piattaforma di apprendimento istituzionale può certo fornire l’am- biente ideale per molti studenti. Fa comunque parte del compito dell’istruzione equi- paggiare gli allievi con gli strumenti e la conoscenza di cui hanno bisogno e sempre più questa conoscenza ri- guarda lo sviluppo di un’alfabetizzazione digitale. Non è il tema di questo libro, ma agire in maniera sicura ed efficiente all’interno dell’open e costruirsi un’adegua- ta identità online può essere un elemento fondamen- tale. Per esempio Jim Groom ha fondato il progetto Domain of One’s Own appena uscito dalla University of Maryland Washington (Udell 2012). Questo proget- to offre agli studenti uno spazio web con un loro do- minio. Oltre ad aggiornare il loro blog su WordPress, gli studenti possono installare altri software e «rita- gliarsi uno spazio web che gestiscono e controllano». Possono assumerne la proprietà una volta che si sono laureati. Groom ritiene che questo livello di controllo, legato agli individui e non alle istituzioni, sia essenzia- le per crearsi un’identità online. È anche necessario essere prudenti sugli inconve- nienti dell’operare nell’open: ci sono molte storie di 194 la open scholarship persone che sono state licenziate per aver postato o condiviso tweet in modo imprudente, e gli accademici non dovrebbero sentirsi immuni da questo. Forse di maggiore preoccupazione è il modo in cui altri potreb- bero abusare del dibattito open per dare contro agli insegnanti. Molti blogger del settore educational co- minciano a bloggare proprio perché questo permette loro di commentare su temi politici o sullo stato dell’i- struzione superiore. Il blogger britannico che usa lo pseudonimo di Plashing Vole spesso critica il governo britannico ed è stato minacciato da un quotidiano na- zionale con una storia che avrebbe potuto rovinargli la carriera (Plashing Vole 2013). La storia non uscì mai ma la stessa minaccia è sufficiente a fare temere molti accademici di operare con approccio open. La battaglia per l’open in termini di open scholar- ship è dunque meno definita che in altri aspetti della open education, forse perché è un’area meno definita di per sé. È meno una battaglia contro forze esterne che ne usurpano la pratica, e più una lotta interna, tra pratiche esistenti e opportunità disponibili. Il rapporto con il commerciale è meno teso in questo ambito, gli accademici useranno siti commerciali come Twitter, Researchgate, Slideshare etc per tutto il tempo in cui li riterranno utili. Le funzioni che sostengono fanno parte di un miscuglio più ampio dell’identità dell’open scholar, quindi nessuno di essi è fondamentale come la pubblicazione o l’insegnamento, dove gli interessi commerciali hanno creato molta tensione. La discussione sull’identità dell’open scholar rive- la che c’è tensione all’interno della stessa istruzio- ne, e ciò è più significativo. Tanto più le università aumentano la loro consapevolezza del valore della open scholarship per la reputazione del loro stesso 195 la battaglia per l’open brand, quanto più creano linee guida su come opera- re. Generalmente queste sono utili e mirano ad aiu- tare l’open scholar, ma dato che la maggior parte del mondo si muove online, il possibile danno portato dalle “tempeste di Twitter” che vediamo da altre parti aumenta. E ciò può creare frizioni tra l’open scholar e l’istituzione. La ragione per cui molti studiosi ope- rano nell’ambito dell’open è per la libertà che offre: questa libertà che è forse la caratteristica chiave della open scholarship, come abbiamo visto per il potenzia- le della guerrilla research. Come per i primi MOOC, per le pubblicazioni in Open Access e per l’uso delle OER, l’open scholarship permette sperimentazione e autonomia, e questa può essere la direzione che la battaglia prende in quest’area. Abbiamo dunque parlato delle quattro aree princi- pali dell’open education che questo libro tratta: l’O- pen Access, le open educational resources, i MOOC e la open scholarship. Per ciascuno di questi casi si può portare un esempio che dimostri il successo dell’ap- proccio open e il suo spostarsi sempre più nel main- stream della pratica didattica. Contemporaneamente, in ciascuna di queste aree sorgono problemi che sono principalmente correlati alle nuove sfide dell’o- penness. L’argomentazione centrale di questo libro, e cioè che l’openness ha avuto successo ma che sta affrontando oggi una battaglia per la sua direzione futura, è evidente in ciascuno dei quattro temi, ma l’esatta natura del successo e delle tensioni varia per ciascuno di loro. Dopo aver dimostrato la natura della battaglia per l’openness in queste aree specifiche, gli ultimi tre capitoli. 196 CAPITOLO 8 L’openness messa a nudo Tutto è pubblicato online di questi tem- pi, come se non fossimo che una nota a piè di pagina di qualcosa che un tempo era così reale da avere un suo nome. Margaret Atwood Introduzione Spiegando il modo in cui l’openness ha avuto suc- cesso, questo libro l’ha presentata come un approccio decisamente vantaggioso. Pur avendo molti benefici essa però porta con sé anche problemi e complicazio- ni. Una delle conseguenze dell’evoluzione della open education portata avanti in modo controverso, con l’interferenza di interessi commerciali come quelli di editori che o fanno ostruzionismo oppure provano ad appropriarsene, è che i suoi sostenitori sono spinti ad ignorare ogni possibile problema per paura che l’intero approccio sia screditato. È un po’ come per gli scienziati che si occupano di cambiamento clima- tico, che difficilmente danno voce a dubbi su specifici dati o interpretazioni per paura che ogni perplessità possa essere usata per compromettere l’intero mes- saggio. È l’ennesima conseguenza della battaglia per l’openness. Come per il mito della disruption che ab- biamo visto nel capitolo 6, essa spinge le persone ver- so estremi diametralmente opposti, ed è il motivo per la battaglia per l’open cui in questo capitolo andremo ad esplorarne anche alcune critiche. Pur condividendo l’idea di un bene intellettuale aperto e comune, James Boyle (2008) sottolinea ad esempio che «non è vero che l’openness va sempre bene. Piuttosto abbiamo bisogno di un equilibrio tra ciò che deve essere aperto e chiuso, tra la proprietà e la gratuità, e sistematicamente – con tutta probabilità – otteniamo un equilibro sbagliato». Alla stesso modo Dave Cormier (2009), che coniò il termine MOOC e che è un sostenitore della open practice, mette in guardia: «L’openness non è una panacea. Non si metterà ad insegnare all’improvviso agli studenti né a diffondere una ‘buona istruzione’, e non è nemmeno esente dal portarsi dietro un suo ba- gaglio culturale». Sia Boyle che Cormier hanno sicu- ramente ragione, tuttavia queste critiche sono ancora ignorate nella battaglia per l’openness. Il pericolo di non affrontare alcune delle criticità è che saranno usate per screditare l’intero approccio. La politica dell’openness Nel capitolo 2 ho intenzionalmente evitato defini- zioni sulla open education per concedere un certo grado di variabilità nella pratica. Mentre alcune aree come le OER hanno una definizione molto chiara, altre come la open scholarship stanno ad indicare un approccio generale e un insieme di idee. Trovare una sola definizione escluderebbe alcuni elementi della storia della open education che sono interessanti, e da qui la mia decisione di optare per un insieme di principi che si stanno fondendo insieme. Questo ap- proccio però rende in qualche modo la terminologia 198 l’openness messa a nudo più vaga e ne impoverisce il significato, rendendolo vulnerabile e soggetto ad abusi. Nella sua interessante critica all’editore open sour- ce Tim O’Reilly, Morozov (2013) mette in luce come questa genericità del termine sia stata deliberatamen- te costruita da O’Reilly per fare una buona operazio- ne di public relation: Poche altre parole in inglese contengono così tanta ambiguità e seduzione come il termine “open”. E dopo i pomposi interventi di O’Reilly – «L’open permette la sperimentazione. L’open promuove la competizio- ne. L’open vince» proclamò una volta in un saggio – il suo fascino non ha fatto che crescere. Approfittando dell’ambiguità del termine quindi, O’Reilly e i suoi collaboratori hanno messo in relazione l’“openness” del software open source con l’“openness” dell’im- prenditorialità accademica, dei mercati e della libertà di espressione. “Open” pertanto potrebbe, di fatto, si- gnificare di tutto. Per Morozov la co-opzione di uso del termine ha consentito a O’Reilly di spostarlo su un piano econo- mico, che il mercato trovava più appetibile, permetten- do a lui e a molti altri dell’ambiente del software di «sembrare politici portando avanti un’agenda che con la politica aveva poco a che fare». Come abbiamo visto nel capitolo 1, l’openwashing implica che proclamare di avere credenziali open abbia un valore di mercato, e in questo caso l’ambiguità del termine lo facilita. Nel capitolo 2 ho presentato una breve storia dell’o- penness nel campo dell’istruzione, ma anche questo ha implicazioni politiche. Descrizioni di questo genere sulla open education hanno di solito uno o due punti di partenza. La prima opzione è prendere come inizio 199 la battaglia per l’open la fondazione della Open University. Lane (2009) af- ferma «Si può ritenere che il dibattito sul ruolo dell’o- penness nell’istruzione superiore sia iniziato sul serio con la nascita della United Kingdom Open University (UKOU) nel 1969». In alternativa, il secondo punto di partenza è quello del movimento open source, che è quello che scelgono Wiley e Gurell (2009) quando ammettono «le storie sono complicate da scrivere, per molte ragioni. Una di queste è la difficoltà a decidere da dove iniziare – perché non c’è mai un vero punto di partenza per un racconto fatto di persone, eventi e idee che si intrecciano». La scelta di un punto di par- tenza influirà dunque sul tipo di interpretazione di open education che viene portata avanti: quello della OU potrebbe suggerire un approccio universitario e studentesco, mentre il secondo potrebbe indicare una prospettiva più tecnologica e definita dalle licenze. Peter e Diemann (2013) propongono una prospettiva storica di più ampio raggio, mettendo in luce aspetti della open education risalenti addirittura al Medioevo, quando furono fondate università che «contenevano in sé l’idea dell’openness, seppur incompleta. Quel perio- do valorizza l’open come elemento guida, che si regge su una curiosità crescente e su un’accresciuta consa- pevolezza delle opportunità didattiche». Si può trovare traccia della open education nel XVII secolo con le caf- fetterie e poi ancora nella rivoluzione industriale con scuole e gruppi di lavoro. Una panoramica di questa interpretazione storica più ampia dell’openness si può vedere rappresentata nella Figura 9. Questa prospetti- va porta con sé alcune lezioni illuminanti per il dibat- tito corrente. L’autore infatti conclude che «le forme antiche di openness ci mettono in guardia sull’ipote- si che alcune particolari conformazioni prevarranno, 200 l’openness messa a nudo o che alcuni aspetti sociali si debbano considerare by default auspicabili… Dopo un periodo di movimenti open molte volte ci sono stati lievi ma importanti spo- stamenti dall’openness “pura” verso forme di open- ness “presunta”, cioè alcuni aspetti di essa sono stati modificati per offrire più controllo ai produttori e ad altri stakeholder.» 201 la battaglia per l’open Ciò mostra come l’openness sia sempre stata per- cepita come problematica e come una delle sue principali difficoltà sia andare contro il bisogno di controllo individuale e, cosa più significativa, contro quello delle organizzazioni, e dove c’è un bisogno di controllo c’è sicuramente un aspetto politico. Peters e Britez (2008) sono categorici su questo tema nel loro libro sulla open education, che si apre con la dichia- razione: «La open education implica un impegno per l’openness ed è quindi inevitabilmente un progetto politico e sociale». Si può ribattere – e la open source community lo fa – che l’openness è semplicemente il modo più efficiente di operare, e c’è qualcosa di vero in questo se prendiamo ad esempio il dibattito per i learning objects e per le OER. Ma anche se le cose stanno così, la politica è coinvolta, che sia per un insieme di convinzioni che include concetti come democrazia, altruismo, condivisione o una più gene- rale prospettiva liberal, o più direttamente per un lob- bismo politico, per esempio per introdurre i libri di testo open in un paese o in una regione. La dimensione politica dell’openness è forse rap- presentata al meglio dalla storia di Aaron Schwartz. Giovane programmatore e attivista online, Schwartz scaricò 19 milioni di articoli accademici dal databa- se JSTOR mentra era al MIT, per renderli pubblici. Fu incriminato e accusato di frode informatica e di violazione del Computer Fraud and Abuse Act, che poteva portare ad una sanzione di 1 milione di dollari e a 35 anni di reclusione. Shwartz si suicidò nel gen- naio 2013. Il caso resta complicato poiché Schwartz non distribuì gli articoli e non fu pertanto accusato sulla base delle leggi sul copyright, ma la severità del- la possibile pena (anche se non si sa se sarebbe mai 202 l’openness messa a nudo stata messa in pratica) rinforza la teoria che ci sono argomenti di reale valore contestati nella battaglia per l’openness. Per alcuni Schwartz è un eroe, per al- tri fu imprudente (Aaronovitch 2013). Probabilmente nessuna di queste opinioni è giustificata, ma quel- lo che questa storia triste evidenzia è una parte dei problemi che sorgono quando la cultura open si scontra con le pratiche tradizionali. Il rapporto tra l’individuo e la sua istituzione (alcuni criticarono il MIT per non aver protetto Schwartz), l’adeguatez- za del diritto nell’affrontare simili casi e la possibi- lità di distribuire facilmente una grande quantità di materiale coperto dal copyright sono tutti problemi che si ripresenteranno. Il gesto di Schwartz può so- lamente essere interpretato come politico e come direttamente connesso al problema dell’openness. Ci sono poi state esplicite critiche politiche ad alcuni aspetti della open education. Per esempio i MOOC sono stati visti come sistemi di sfruttamento del lavo- ro accademico (Zevin 2012) e come portatori di un’a- genda neoliberale (Hall 2013). La stessa narrazione della Silicon Valley può essere vista come una forma di capitalismo neoliberista, quindi non ci si dovrebbe sorprendere che i MOOC siano interpretati secondo la stessa prospettiva. Per altri invece il movimento della open education non è sufficientemente radica- le nel suo ripensamento del ruolo delle università. Winn (2012) si chiede: «Si sta usando la open edu- cation per compensare il declino dello stato sociale? La promozione governativa delle OER è un modo per affrontare la scarsità di risorse all’interno di un siste- ma di istruzione superiore in espansione?». Winn e altri sono a favore di un’interpretazione più sociale dell’openness, che attinge ad alcuni dei trend storici 203 la battaglia per l’open citati prima, come pure dalle solide basi etiche del free software movement di Stallman. In questa inter- pretazione la open education tende ad una università collaborativa, quindi «una libera associazione di per- sone che si mettono insieme per produrre collettiva- mente conoscenza. Ed è anche un progetto politico» (Winn 2013). Per volendo ignorare questi aspetti esplicitamente politici della open education, c’è un’involontaria (o forse intenzionale) forma di imperialismo culturale associato all’esportare il suo credo, che è strettamente conforme alle open educational resources. Cormier (2009) allude al fatto che le OER possono essere vi- ste come un mezzo per esportare un modello educa- tivo. Il potere di un brand istituzionale globale come il MIT, combinato con la gratuità, rende difficile la competizione a provider locali, sia in termini di costi che di influenza. Come sostiene Cormier, «i profes- sori locali, mettendo a confronto il valore relativo del loro curriculum con il potere standardizzante di una grande università, come possono essere in grado di proporre le loro idee?». Come per molte delle criti- che in questo capitolo, ci sono argomentazioni con- tro e modi per mitigare il problema, come attraverso progetti locali, quindi avercela con la open education non è ragionevole. Si deve comunque tenere presen- te che una dimensione politica esiste e che possono esserci alternative. Problemi legati all’openness Il paragrafo precedente si è occupato di riserve fi- losofiche o politiche relative alla open education, in 204 l’openness messa a nudo questo invece si tratteranno problemi più specifici associati all’approccio open. Non sarà una lista esau- stiva ma piuttosto rappresentativa, nell’intento di mettere in evidenza alcune delle complicazioni che sorgono come conseguenza diretta dell’openness. Una delle difficoltà più preoccupanti associate alla open education è che non raggiunge il target deside- rato, o quello che dice di raggiungere. Come abbiamo visto molta della retorica associata sia alle OER che ai MOOC sottolinea la natura democratizzante degli approcci open, ma mentre si usano spesso aneddoti a sostegno di questa affermazione, l’evidenza poi non la supporta. Sembra esserci infatti un chiaro trend secondo cui la maggior parte degli utenti della open education sono studenti già esperti. Per esempio un sondaggio su utenti dell’archivio OER OpenLearn della OU dimostrò che questo è spesso utilizzato da alunni formali e informali istruiti, qualificati e spes- so già impiegati: il 26% degli intervistati indicava di avere qualifiche universitarie e un ulteriore 20% diceva di possedere qualifiche di specializzazione post laurea (Perryman, Law & Law 2013). Allo stesso modo l’OpenCourseWare Consortium fece un son- daggio tra i suoi utenti e scoprì che quasi la metà era- no studenti attualmente in formazione secondaria o universitaria, il 22% professionisti che già lavora- vano e l’8% insegnanti o membri di facoltà (OCWC 2013). I MOOC rivelano una simile demografia, con uno studio fatto dalla Edinburgh University su uten- ti dei sei MOOC basati su Coursera che mostra un 70% di partecipanti con titolo universitario o supe- riore (Edinburgh MOOC group 2013). Christensen et al. (2013) scoprì anche che prendendo in esame 32 205 la battaglia per l’open MOOC il trend di tipologia di studenti era maschio, giovane, bianco, istruito e impiegato. Lane (2012) sostiene che non è ancora possibile mi- surare come le OER stiano effettivamente allargando la partecipazione sia formale che informale all’istru- zione superiore, ma suggerisce che la maggior parte di esse sono perlopiù fatte per allievi che hanno espe- rienza. Bossu, Bull and Brown (2012) segnalano che nel contesto australiano coloro che hanno più biso- gno di accesso all’istruzione superiore hanno gene- ralmente scarso accesso alla tecnologia, e quindi alle OER. Liyanagunawardena, Williams e Adams (2013) esprimono simili preoccupazioni sul potenziale dei MOOC di democratizzare l’istruzione nei paesi in via di sviluppo, facendo riferimento all’accesso alle tec- nologie, alla lingua e all’alfabetizzazione informatica come barriere che possono avere come conseguenza la limitazione di uso all’ambito di paesi sviluppati e privilegiati. Di certo questo, assieme alle accuse mosse ai pro- duttori di MOOC di concentrarsi solo sulla ricerca di università elitarie (Rivard 2013), va a minare la pre- tesa di democratizzazione. Non solo quindi la open education potrebbe non raggiungere una parte dei gruppi target che si prefigge di raggiungere, ma po- trebbe esacerbare la situazione: se uno studio indi- pendente portato avanti con MOOC e OER diventa infatti una componente riconosciuta e attraente del curriculum, allora l’accesso a questi strumenti ironi- camente va ad aumentare il divario digitale con que- gli studenti esperti che sono in grado di sfruttarne i benefici. Due fattori sono in grado di mitigare questo scena- rio. Il primo è che questi risultati iniziali rappresen- 206 l’openness messa a nudo tano gradi preliminari di una “curva di adozione”: si può prevedere infatti che gli allievi esperti con alti livelli di connettività siano tra le prime “tribù” di un nuovo sviluppo. Man mano che questi strumenti ven- gono accolti come parte di una pratica mainstream, allora ci possiamo aspettare che prendano piede nel- la società nel suo insieme, come Facebook è passato dall’essere un sito usato solo da una elite tecnologica a diventare uno strumento di massa. Il secondo fat- tore è che progetti globali stanno prendendo molto dall’etica open e la stanno applicando a contesti loca- li. Per esempio il progetto TESSA ha sviluppato OER a supporto della formazione di insegnanti nell’Africa Sub Sahariana, con contributi locali che hanno svi- luppato il materiale. Il progetto LatIN sviluppa libri di testo per l’America Latina usando professori ed autori locali, risolvendo quindi sia il problema dei costi che quello della pertinenza. Allo stesso modo Siyavula in Sud Africa ha creato libri di testo open su temi chiave che sono distribuiti in tutte le scuole a livello nazionale. Ci sono progetti OER nella mag- gior parte dei grandi paesi, dato che il modello open è visto come un modo per risolvere specifici bisogni locali. Parte della risposta ai dubbi è quindi il fatto che si tratta di un quadro in via di sviluppo e che è ir- realistico aspettarsi soluzioni immediate a problemi di accesso che hanno colpito l’istruzione tradizionale per lungo tempo. Il movimento della open education si sta adattando e modificando per incontrare la do- manda dei contesti locali. E tuttavia il profilo degli studenti rimane un problema, e l’esperienza delle università open negli ultimi 40 anni dimostra come l’apprendimento ad accesso aperto richieda un gran- 207 la battaglia per l’open de supporto. La filosofia di alcuni progetti di open education “costruisci e poi verranno” probabilmente non è sufficiente a superare le barriere alla partecipa- zione, e ciò sottolinea l’importanza di mantenere una diversità di interpretazioni dell’openness e di evitare la definizione semplicistica open = free, dato che l’o- pen entry nell’apprendimento può richiedere diversi modelli di supporto. Un aspetto correlato è il tasso relativamente basso di riutilizzo e di modifica del contenuto open. Molto è stato detto nei 4R di Riutilizzo di cui si è parlato nel capitolo 2, in realtà solo il primo di essi (il diritto di riutilizzo) è ampiamente implementato. Gli altri, la modifica, il remix e la ridistribuzione rimangono di minore interesse. Per esempio il team di OpenLearn scoprì che il reversioning era raro e che gli utenti tendevano a prendere e a presentare unità in blocco. Constatarono inoltre che si evitava di usare il mate- riale per altri scopi per non imbattersi nei seguenti quattro ostacoli (McAndrew et al. 2009): 1. non era specifico compito di nessuno remixare e riutilizzare; 2. il contenuto fornito sul sito era di alta qualità e questo disincentivava la modifica; 3. c’erano pochi esempi che mostravano il metodo e il valore del remixing; 4. l’uso di formati poco conosciuti (come XML) ren- deva gli utenti insicuri su come procedere. Ciò suggerisce un insieme di problemi culturali, come la mancanza di ruoli definiti, insieme a proble- mi tecnici hanno fatto da barriera alla riconversione. Come nel flipped learning network citato nel capitolo 4, in cui si diceva che c’è stato un divario tra insegnan- 208 l’openness messa a nudo ti che usavano materiali di altri e quelli che poi con- dividevano i propri (De Los Arcos 2014). Tuttavia, il quadro potrebbe cambiare. Le statistiche di OpenStax (da gennaio 2014) mostrano 361 versioni dei loro libri di testo prese da un totale di 1.116 (OpenStax 2014). Alcuni di questi sono adattamenti diversi dello stesso modulo, per cui alcuni moduli sono più reimpiegati di altri, ma ciò indica un alto grado di adattabilità al riutilizzo rispetto a quanto abbiamo visto nella mag- gior parte dei progetti OER. Può darsi che il contesto conosciuto delle OER in questo caso, un libro di testo piuttosto che un’unità di elearning, permetta di supe- rare alcune barriere culturali e pratiche. E la fornitura di facili strumenti per l’adattamento è anch’esso un fattore. Tutto questo può non essere significativo: ci sarà sempre più riutilizzo piuttosto che adattamento, dato che il primo è più semplice. Così come su YouTube ci sono più consumatori di video che produttori di video, allo stesso modo creare e condividere conte- nuti implica un maggiore impegno. Eppure perché molte delle pratiche di open education si sviluppino occorre che ci sia un certo grado di creazione comu- nitaria. Ho fatto in precedenza la distinzione (Weller 2012) tra OER grandi (ad esempio istituzionali) e piccole (ad esempio individuali), ma lo stesso si può dire della open scholarship, delle pubblicazioni in Open Access e dei MOOC. In parte si tratta di un argomento a favore della sostenibilità: questi approc- ci lavorano bene sul lungo periodo, quando non de- vono fare affidamento su grandi progetti finanziati a livello centrale per la consegna, e diventano invece un sottoprodotto della pratica quotidiana. Ed è anche un’argomentazione a favore della proprietà, che si re- 209 la battaglia per l’open laziona più nello specifico alla battaglia per l’open. Se si sviluppano soltanto MOOC con produzioni di fa- scia alta, con insegnanti universitari superstar, o se le OER sono solo rilasciate da grandi progetti di istitu- zioni elitarie e sono accettati all’ingrosso, allora l’uni- versità non fa propri nè i problemi né le opportunità che esse offrono. Rimangono una pratica imposta al settore educational da altri, piuttosto che appartenen- ti al settore stesso. Un ulteriore problema della open education è un’implementazione troppo zelante. Come discusso prima, la open education è senza dubbio un movi- mento politico, e come tale ci sono nel mezzo anche estremisti. Sono spesso mossi da buone intenzioni e prendono una posizione sull’openness che non la- scia spazio a nessuna reinterpretazione del termine, come abbiamo visto invece nel caso dell’openwashing. Eppure, come per il movimento open source, si può arrivare a forme di “Stalinismo dell’openness” in cui si è fatti fuori per non essere abbastanza open. E alla fine questo allontana molti professori accademici, che non vogliono essere forzati con la paura o con il bullismo a praticare l’openness. Essa può diventare dunque in fretta un bastone con il quale percuotere, e il pericolo di un atteggiamento mentale di questo tipo è che essa si riduca ad una checklist. Forse uno degli aspetti più eccitanti della pratica open è la sua apertura alla sperimentazione e alla diversità e sareb- be davvero una falsa vittoria sostituire un monopolio di comportamento con uno nuovo. L’openness e l’accesso ad una rete globale porta con sé un nuovo tipo di considerazioni morali. Può essere usata per giustificare un comportamento. Per esempio, è accettabile trasmettere una frase o 210 l’openness messa a nudo un video di qualcuno che dice qualcosa di offensi- vo a sua insaputa? La pretesa di apertura giustifica la pubblica critica di un professore? Molti di questi temi vanno oltre l’area dell’istruzione, dato che la società si sforza di capire cosa significa per ognu- no avere accesso ad un network globale, quando le conseguenze delle proprie azioni vengono forte- mente amplificate, come il caso di Aaron Schwartz ci rammenta. La “Twitter storm” (cioè la tempesta su Twitter), dove un misfatto iniziale ottiene l’atten- zione globale e attrae una folla infuriata, è ormai un fatto comune. Spesso l’azione originaria è veramente offensiva, come la storia di Justine Sacco che postò uno scherzo razzista prima di andare in SudAfrica e si trovò per questo senza lavoro mentre era in aereo. Ma anche se quello che aveva postato era indubbia- mente volgare, Wadhwa (2013) sostiene: «In nessun momento della storia è stato così facile distruggere la tua vita in pochi secondi». E se l’imprudenza di Sacco poteva essere decisamente di cattivo gusto, ci sono altri casi di misunderstanding come il caso di una adolescente che per scherzo la notte dello scor- so capodanno disse che il mondo aveva 2.014 anni e per questo fu minacciata di morte da persone che non ne apprezzarono l’ironia (Zimmerman 2014). Inoltre se le offese morali su Twitter di Sacco ed al- tri sono basate su messaggi sgradevoli, spesso non sono più offensive di certi tipi di conversazione che si ascoltano in un qualsiasi luogo pubblico. Non si avrà certo la vita rovinata per dire cose di questo tipo su un treno o in un bar, ma se un’emittente televisiva le dice allora ci sentiremmo offesi. Ciò potrebbe evidenziare la differenza che stiamo incontrando tra le nostre co- municazioni e le nostre reazioni – applichiamo una 211 la battaglia per l’open moralità da broadcast alla comunicazione personale. Ci sono chiari consigli per il comportamento online, come ad esempio “considera che tutto ciò che dici online è automaticamente trasmesso al mondo”, ma qualsiasi espressione umoristica o qualsiasi opinione può generare una Twitter storm se interpretata male. La natura globale e incontrollabile di questi eventi mette il rapporto tra l’individuo accademico e la sua istituzione sotto un nuovo tipo di pressione. In modo analogo, per gli accademici che lavorano in aree te- matiche potenzialmente sensibili, come la politica del Medioriente, i cambiamenti climatici o la psicolo- gia evolutiva, la pressione ad essere open o ad aprire un’identità online può renderli soggetti a particolari gruppi con interessi forti. Un ulteriore fattore da considerare in relazione all’opennes è quello dei costi. Spesso gli individui sovrastimano il tempo necessario ad interagire con strumenti come i blog o i social network. Se aprire un’identità online prende tempo, c’è un periodo di investimento da cui si trae beneficio una volta che l’identità è stata aperta. I network online poi agiscono come efficaci filtri di informazioni, che rispondono a specifiche richieste, ricercano categorie per progetti formali e modi per divulgarli, facendone una pratica time-saving. Tuttavia, alcuni costi dell’openness pos- sono essere sottostimati. Un esempio è quello degli open data. Può sembrare abbastanza banale rilascia- re dati per un particolare progetto – che sia attraverso il sito stesso del progetto, in allegato ad una pubbli- cazione pertinente o in un archivio centrale. È il caso di molti progetti come quelli delle scienze esatte – la condivisione pubblica di dati presi da una raccolta di campioni geologici, ad esempio. Ma non appena c’è 212 l’openness messa a nudo un coinvolgimento del fattore umano nei dati, allo- ra la condivisione diventa più complicata: se infatti è facile rendere i dati anonimi, succede che non sia così difficile “deanonimizzarli”. Per rendere accessi- bili i dati relativi alle persone infatti, sia che si tratti di sondaggi, registrazioni di dati o interviste, i ricer- catori hanno bisogno o del consenso per diffonder- li così come sono (ad esempio una video intervista) oppure devono renderli anonimi. Questo significa la rimozione di elementi di identificazione come il nome o la matricola nel caso dello studente. Tuttavia altre informazioni necessarie perché i dati siano uti- li ai ricercatori sono sufficienti per permettere una reidentificazione. Negli USA ad esempio la data di nascita, il genere e il CAP sono unici per una percen- tuale che va dal 61% (Golle 2006) all’87% (Sweeney 2000). Quindi per rilasciare questi dati è necessario uno sforzo considerevole per renderli davvero ano- nimi, e per fare ciò la qualità delle informazioni po- trebbe risentirne e rendere l’intero processo inutile. Ohm (2009) conclude: «I dati possono essere o utili o anonimi, mai entrambe le cose». Questi esempi sono utili a comprendere come l’o- penness porti con sé anche un insieme di problemi. Una reazione a questo tipo di sfide spesso è quella di ritrarsi, ma ciò significa lasciare il controllo in mano ad altri; e per il settore dell’istruzione e per gli ac- cademici significa essere esclusi dalla società in cui vivono. Istituire il tipo di identità online credibile di cui si è discusso nel capitolo precedente è una strada, ma richiede la comprensione e il supporto delle isti- tuzioni che si relazionano con questi individui. 213 la battaglia per l’open Conclusioni Insieme a questi temi, i precedenti capitoli di que- sto libro hanno sollevato altri problemi legati all’ap- proccio open, che includono: 1. La Gold road per le pubblicazioni in Open Access che porta a opportunità di pubblicazione non eque. 2. La costrizione di studenti ad assumere comporta- menti open con i quali potrebbero essere a disagio. 3. I bassi tassi di completamento dei MOOC. 4. Un percorso che consente una maggiore commer- cializzazione dell’istruzione. 5. La sostenibilità a lungo termine dei progetti OER. Ciascuna delle questioni sollevate in questa pano- ramica nasce dalla natura open della pratica, in più ci saranno altre questioni correlate che incidono sulla open education, come i costi associati all’istruzione superiore. Ciò evidenzia il fatto che la open educa- tion se da una parte offre soluzioni ad alcuni proble- mi, dall’altra porta una nuova serie di preoccupazioni che devono essere affrontate. La gravità e l’impatto di questi problemi non è ancora chiaro: alcuni di essi possono essere attribuiti al fatto che è un settore relativamente nuovo, e i cambiamenti nella pratica hanno bisogno di tempo per affermarsi. La consape- volezza in merito alle risorse online è cresciuta molto nell’ultimo decennio, anche se spesso confinata a siti più popolari come YouTube, iTunes U, e i TED talks, ed è probabile che questo trend continui nel prossi- mo decennio e che il riutilizzo di contenuti diventi una pratica accettata. Allo stesso modo la consape- volezza dei diritti e il desiderio di rimescolare i con- tenuti crescerà, semplicemente come conseguenza 214 l’openness messa a nudo dell’accresciuta consapevolezza nella società. L’uso dei social media e l’azione ormai quotidiana di condi- videre foto e video dimostra che è una pratica molto più comune di quanto non lo fosse cinque anni fa. Anche la consapevolezza istituzionale delle pra- tiche open è cresciuta vertiginosamente, e qui bi- sogna dare un po’ di merito al ruolo che i MOOC hanno giocato. I MOOC hanno alzato moltissi- mo il livello dell’attenzione sulla pratica open, che porta sempre con sé risultati negativi e positivi. Questo capitolo spiega che non dovremmo conside- rare l’openness come una semplice checklist; piutto- sto, consentendo una definizione più ampia, cresco- no le possibilità di un uso scorretto, sia per ragioni commerciali, come l’openwashing, sia per giustifica- re un comportamento dubbio. Un modo per pensare la pratica della open education è ciò che Kelty (2008) chiama “recursive public”, cioè un «pubblico costitu- ito dalla preoccupazione condivisa a mantenere gli strumenti di aggregazione con i quali sono diventati un pubblico». Questo concetto è stato utilizzato per esaminare il modo in cui gli hacker del software li- bero collaborano e si comportano in una comunità altamente funzionale, senza la necessità di un chia- ro manifesto o di una costituzione. Kelty ritiene che essi operino in un dominio pubblico e che nel men- tre questo modifichi il loro stesso comportamento, quindi si sviluppa una definizione in fieri di cosa significhi essere hacker. I valori chiave li tengono in- sieme, ma allo stesso tempo essi stanno creando il contesto nel quale operano. Come suggerisce Winn (2013), questo concetto può essere applicato anche alla open education, che è allo stesso tempo “dentro e contro” un particolare contesto. Come abbiamo visto 215 la battaglia per l’open nel precedente capitolo sull’identità, gli open scholar si possono definire sia entro i confini della loro disci- plina e istituzione, ma anche in contrasto con molte di quelle pratiche. E non deve essere un “contro” con- flittuale, piuttosto un modo per mettere in eviden- za contrasti rilevanti. L’editoria Open Access non è contro le pubblicazioni, dopo tutto, ma si definisce evidenziando sostanziali elementi di differenza. Questa idea di definire la pratica open come qual- cosa che è allo stesso tempo dentro e contro l’attuale pratica educativa fa sorgere molta della tensione di cui si è parlato nei precedenti capitoli. Nel prossimo capitolo parleremo di un metodo per inquadrare que- ste tensioni e per considerare le capacità individuali perché hanno una minore potenza di fuoco. 216 CAPITOLO 9 Open education e resilienza Nessuno è così in ansia come quelli che guardano e aspettano. Charles Dickens Introduzione Nei precedenti capitoli si è parlato della vittoria dell’approccio open e degli ambiti in cui ad oggi si gioca la battaglia per l’open. Nel capitolo 6 si è argo- mentato che la battaglia per la narrazione ha gioca- to un ruolo significativo nell’ambito più ampio della disputa e che è stata spesso dominata da richieste semplicistiche di rivoluzione e disruption. In questo capitolo si propone uno schema che permetta di ana- lizzare queste tensioni e un altro che offra una narra- zione alternativa per interpretare i cambiamenti che l’openness porta al settore dell’istruzione. Il capitolo 6 ha messo in evidenza quello che per molti membri del movimento open education è un paradosso: come enfatizzare le possibilità e le potenzialità che l’open- ness porta al settore dell’istruzione senza ricorrere alle richieste di un totale rovesciamento del sistema educativo stesso, che molti di coloro che usano l’eti- chetta “open” invece ritengono necessario. La presa di posizione “l’istruzione è malata” vuole che esista un cambiamento solo a patto di fare una rivoluzione, la battaglia per l’open e forza le persone a prendere posizioni estreme, che siano pro o contro. Offrendo una narrazione alternativa questo capito- lo vuole dimostrare come l’approccio rivoluzionario non sia l’unico modo di considerare il cambiamento nell’istruzione superiore. Il quadro suggerito qui è quello della resilienza, ma la sua funzione è pura- mente illustrativa e serve a dimostrare che sono pos- sibili narrazioni e concettualizzazioni alternative. La resilienza offre uno strumento per considerare sia il contesto attuale che le aree che un individuo o un’isti- tuzione devono toccare per far fronte alla sfida della open education. Si tratta di un adattamento della no- zione di resilienza usata in ecologia e l’ho proposto come possibile modello alla fine del libro The Digital Scholar (2011). Questo capitolo estende quel lavoro, e oltre all’approccio pratico per valutare l’impatto di particolari strategie di open education, propone l’uso della resilienza per una narrazione che considera i cambiamenti dal sistema educativo nel suo insieme. Resilienza Il concetto di resilienza è stato applicato a molti do- mini, ma trova le sue radici nello studio di Holling (1973) sulla stabilità dei sistemi ecologici. La defini- zione usata era «una misura della persistenza dei si- stemi e della loro capacità di assorbire cambiamento e disturbo pur mantenendo la stessa relazione tra popolazioni o variabili di stato». La resilienza è stata considerata favorevolmente come un modo per esa- minare il cambiamento climatico. Hopkins (2009) l’ha definita come «la capacità di un sistema di assor- 218 open education e resilienza bire disturbo e riorganizzarsi in corso di cambiamen- to in modo da mantenere essenzialmente la stessa funzione, struttura, identità e feedback». Walker e al. (2004) propongono quattro forme di resilienza, che vanno a formare la base dell’approccio usato in questo capitolo: 1. Latitudine: il limite massimo nel quale un sistema può essere cambiato prima di perdere la sua capa- cità di recupero. 2. Resistenza: la facilità o difficoltà a cambiare un si- stema: quanto cioè esso è resistente all’essere mo- dificato. 3. Precarietà: quanto l’attuale stato del sistema è vici- no al limite o alla “soglia”. 4. Panarchia: le influenze di forze esterne a livelli in- feriori e superiori. Per esempio politiche esterne oppressive, invasioni, spostamenti di mercato o cambiamenti climatici globali possono scatenare sorprese locali e spostamenti di sistema. Utilizzando questi fattori la resilienza fornisce ot- timi strumenti per considerare la risposta di allievi e istituzioni al potenziale impatto della open educa- tion. L’enfasi in questa analisi è nella salvaguardia della funzione, non solo nella “resistenza” al cam- biamento. Taleb (2012) ha sostenuto che la prospet- tiva dovrebbe andare oltre la resilienza e considerare l’anti-fragilità, dicendo che «L’antifragile va oltre il resistente o il robusto. Il resiliente resiste agli shock e rimane lo stesso; l’antifragile migliora sempre di più». Questo accomuna resilienza con resistenza. Di certo una forte resistenza non va sempre a beneficio di un ecosistema, come osserva Holling: per esempio alcune popolazioni di insetti fluttuano all’impazzata 219 la battaglia per l’open a seconda dei diversi fattori ambientali, ma si dimo- strano resilienti nel tempo. La resilienza richiede dunque adattamento ed evoluzione a nuove condi- zioni ambientali, ma mantiene l’identità. Negli eco- sistemi ciò significa che la specie persiste, sebbene si possa adattare, e in termini organizzativi significa che rimangono le funzioni chiave anche se possono essere realizzate in modi nuovi (e secondo il punto di vista di Taleb, migliori). Sotto il profilo della pratica della open education, la resilienza si riferisce alla capacità di utilizzare l’ap- proccio open dove auspicabile, mantenendo però la funzione e l’identità di fondo che le pratiche esistenti rappresentano, se sono ancora ritenute necessarie. Le pratiche in sé non sono centrali per il sapere: piut- tosto esse sono i metodi attraverso i quali si realizza- no delle funzioni chiave, e questi metodi possono e dovrebbero cambiare. Ad esempio il processo di peer review nella pubblicazione accademica è un modo per garantire qualità, obiettività e affidabilità. Ma po- trebbe non essere il solo o il migliore modo per otte- nerle, come abbiamo visto, e la open education può facilitare la realizzazione di altre forme. Una prospet- tiva di resilienza cerca di garantire la protezione di queste funzioni fondamentali e non solo di resistere a livello di metodo. Anche se la resilienza può essere considerata da un punto di vista individuale, essa vede forse la sua migliore applicazione a livello istituzionale, che può essere visto come un ecosistema complesso di per sé, comprensivo di un certo numero di individui, com- 220 open education e resilienza portamenti e compiti. L’approccio resiliente sarà ora esaminato in un caso di studio alla Open University. In questo approccio si prenderanno in considera- zione i quattro aspetti di resilienza di Walker e sarà assegnato a ciascuno di essi un punteggio, che serva a dare una misura indicativa della resilienza com- plessiva. A ciascun fattore si assegna un numero che va da 1 a 10 (1=bassa resilienza, 10=alta resilienza). Un punteggio superiore a 35 indica che probabilmen- te non si tratta di una sfida particolarmente nuova (o che l’istituzione si è già incredibilmente ben adatta- ta), e un punteggio inferiore a 15 dimostra che l’isti- tuzione è minacciata da questa sfida, alla quale non si è adattata. La Open University e i MOOC Per dimostrare l’utilità del modello di resilienza esamineremo uno dei principali sviluppi che abbia- mo visto nei capitoli precedenti – e cioè i MOOC. Si considererà il loro impatto per la britannica Open University per farne un esempio illustrativo. Come abbiamo visto ci sono stati un clamore e un’aspettativa eccessivi riguardo ai MOOC, ma essi rappresentano comunque un buon esempio per un’analisi in termini di resilienza, per una serie di ragioni. In primo luogo sono una pratica nuova che potrebbe essere stata praticamente realizzata solo in un contesto digitale, in rete e open. Come abbiamo osservato più in dettaglio nella storia della open edu- cation nel capitolo precedente, ci sono stati vari ten- tativi di free e open education ma limitati da vincoli fisici e geografici – solo in questo modo così tante 221 la battaglia per l’open persone potevano frequentare una sala conferenze, e del resto i formati di corrispondenza mancavano di una varietà interattiva e intermediata e di appeal. Al contrario gli open online courses sono disponibili per tutti con la sola connessione internet e, a parte alcune restrizioni di server, non fa nessuna differen- za se si iscrivono più o meno studenti. La seconda ragione per cui rappresentano un buon caso di studio è che costituiscono allo stesso tempo una minaccia e un’opportunità per la pratica educativa standard, al- meno agli occhi di molti partecipanti. Non sono dun- que un interesse di nicchia, limitato ad una specifi- ca disciplina, cultura o regione geografica. In terzo luogo sono presenti in numero crescente e se alcuni possono fare previsioni (positive o negative) sul loro sviluppo futuro, ad oggi ci sono numeri ed interessi sufficienti a prenderli in esame. Non sono basati su un possibile modello di cosa può o potrebbe succe- dere, ma su un modello funzionale di cosa sta già succedendo. Daniel (2013) suggerisce che, anche se abbiamo visto altre iniziative sparire, è probabile che i MOOC resistano e che «avranno un impatto impor- tante in due modi: nel migliorare l’insegnamento e nell’incoraggiare le istituzioni a sviluppare missioni diverse». Rappresentano pertanto un caso di studio ideale per la resilienza. Per la Open University i MOOC rappresentano in- sieme una sfida e un’opportunità. Come istituzione basata puramente sull’istruzione a distanza probabil- mente essa è più vulnerabile alla loro minaccia: se gli studenti possono imparare gratuitamente allora perché dovrebbero pagare per ottenere un’istruzione campus-based? 222 open education e resilienza Nel dicembre 2012 la OU annunciò il lancio di FutureLearn, una società autonoma finanziata dalla OU in consorzio con una serie di università inglesi e nata per fornire i MOOC su una piattaforma globale. Questo è un esempio significativo di investimento in termini di risorse, finanze e marchio nei MOOC, che sottolinea il loro allineamento con le funzioni centra- li della OU. Prendere le quattro prospettive di resilienza offre un mezzo e una lente sia per misurare questo rischio che per sottolineare le potenziali linee di azione. Libertà d’azione La OU sviluppò un modello di distance learning basato principalmente su unità stampate a cui era- no allegati supporti mediatici (programmi televisivi, audiocassette o DVD), con l’appoggio di un tutor o di un associate lecturer. Si tratta del modello Supported Open Learning (SOL), che Jones e al. (2009) dicono essere basato su tre fattori chiave: 1. Distance/Open Learning a. Apprendere “secondo i tuoi tempi” b. Leggere, intraprendere una serie di attività e compiti c. Possibilità ma non costrizione a lavorare con altri 2. Risorse a. Materiali stampati per il corso, libri di testo pre- scelti, audio e videocassette, materiali su CD/ DVD, home experiment, siti del corso e pro- 223 la battaglia per l’open grammi (in precedenza trasmessi su program- mi TV) 3. Supporto sistematico a. Un tutor del corso, una rete regionale di centri, supporto tecnico e per studenti da parte della bi- blioteca centrale. b. Tutorial creati a livello regionale, centri di for- mazione e online (ad esempio scuole di lingua o corsi estivi). L’avvento dell’elearning alla fine degli anni ‘90 ha visto un adattamento di questo modello, ma non un cambiamento radicale. Bell e Lane (1998) descrivono come l’implementazione di ICT nell’attuale model- lo di distance learning possa essere visto come una combinazione tra i punti di forza del campus tradi- zionale e i modelli a distanza. La OU ha introdotto gli home computer nel 1988 e implementato corsi in elearning su larga scala nel 1999 (Weller &Robinson, 2002). Ciò dimostra che il suo modello core SOL non era così rigido da non essere adattabile e che era sufficientemente resistente da sopravvivere ai nuovi esempi di implementazione. La OU quindi ha un adeguato livello di libertà d’azione, dato che possie- de una storia di adattamento dei suoi modelli per far fronte a nuove tecnologie e pratiche. Con i MOOC il grado di libertà d’azione richiesto è ancora incerto. Il modello MOOC attuale non è sup- portato (o principalmente peer supported) ed è gra- tuito per gli studenti. Ciò sottolinea un conflitto con SOL, il modello core della OU, che prevede un sup- porto di tutoraggio umano come elemento centrale e che inevitabilmente comporta dei costi. Come è stato 224 open education e resilienza dimostrato nel capitolo 5, il costo di questo supporto è l’elemento più significativo nella vita di un corso. Kop (2011) nota che gli studenti di un MOOC: devono avere destrezza e competenza nell’usare stru- menti differenti per portare avanti interazioni efficaci. Ci va tempo perché le persone si sentano competenti e a proprio agio ad apprendere in modo autonomo, e anche leggere e scrivere può essere critico… che sono i prerequisiti per un apprendimento attivo in un am- biente di studio in continuo cambiamento e comples- so senza la presenza di una guida troppo organizzata da parte dei facilitatori. Per molti degli studenti con cui tradizionalmente la OU interagisce lo sviluppo di queste alfabetizza- zioni attraverso il modello supportato è una funzione chiave del processo educativo. Per di più coloro che sono messi alla prova sui loro progressi o sulle loro capacità nel conseguimento di competenze possono contare su una varietà di sostegni e servizi di sup- porto alla OU. Con i MOOC le opzioni sono in larga misura limitate al ritiro dal corso o alla ricerca di un supporto da parte di colleghi. Resistenza La OU è una grande istituzione, con più di 250.000 studenti e 11.000 impiegati. Come tale, le è stato ri- chiesto di sviluppare processi ben definiti per essere pronti ad evoluzioni in scala, per esempio nel gestire i compiti, nell’assegnare tutor e nel supporto agli stu- denti. Inevitabilmente, sistemi in larga scala si adat- tano più difficilmente di quelli in piccola scala, come 225 la battaglia per l’open le aziende grandi sono meno adattabili delle piccole, che sono più agili. La OU ha pertanto sviluppato un modello produttivo che inizialmente si concentrava sui prodotti stampati ma che continua ad adeguar- si alle diverse esigenze di costo dell’elearning (Bates 1995). Cambiare questi sistemi è possibile ma richiede pianificazione strategica e leadership, e non si fa alla svelta. Il successo dipende dal grado di adattabilità ri- chiesto. I MOOC sembrano aver bisogno di molti dei sistemi già esistenti: per esempio l’infrastruttura IT per fare fronte a grandi numeri, dei contenuti elear- ning che siano progettati per studiare in modo indi- pendente, metodi per una valutazione informale… Il lavoro fatto in precedenza per le OER su OpenLearn nello specifico, e l’elearning in generale, gettano le basi per far sì che i MOOC siano tecnicamente fattibili. Le questioni più ampie – come garantire che gli studenti abbiano una buona esperienza di appren- dimento laddove non c’è un tutor presente e imple- mentare metodi di valutazione informale (come i badge di Mozilla) e capire come questi si possano re- lazionare ad accreditamenti ufficiali, sollevando pro- blemi per un’istituzione di grandi dimensioni con un marchio globale – sono più complicate. In termini di resistenza allora la OU è ben posizionata, perché ha una struttura adattabile, ma è sensibile in quanto ha probabilmente maggiori possibilità di danneggiare il proprio marchio rispetto a un’istituzione più piccola. La considerazione di questo fattore rivela più chiaramente la soluzione della OU ai MOOC in FutureLearn. La OU ha le infrastrutture di sistema richieste per supportare MOOC di alta qualità su lar- ga scala, ma non l’approccio snello richiesto da ver- 226 open education e resilienza sioni più sperimentali. Una soluzione che permet- ta di fare incontrare questi punti di forza combina elementi che comprendono sia le competenze che le dimensioni dell’organizzazione esistente con l’agilità richiesta di una piccola startup. FutureLearn pertan- to rappresenta un modello che più convenientemen- te gioca sui punti di forza della OU e prende in poca considerazione la resistenza. Precarietà Con 246.626 studenti iscritti e 252 milioni di ster- line di riserve finanziarie (Open University 2012) la OU non è in una condizione immediatamente pre- caria, anche se entrambi questi dati potrebbero esse- re influenzati negativamente dai cambiamenti nella struttura delle tasse studentesche, come dimostrato di seguito. I MOOC sono arrivati in un periodo di grande scompiglio nel sistema dell’istruzione supe- riore del Regno Unito, con l’introduzione di tasse per gli studenti. E di questi si parlerà più in dettaglio nel prossimo paragrafo sul tema della panarchia, dato che si tratta di una forza esterna. Si è reso necessario un cambiamento su larga scala nel modello usato dalla OU, sia in termini di fondi che di rilascio dei corsi. Le tasse degli studenti sono associate al rilascio di una qualifica e non a moduli individuali e richiedono uno spostamento nella gra- nularità dell’operazione verso un livello superiore. Ciò ha richiesto i cambiamenti in larga scala e siste- mici menzionati prima, che sono certo possibili ma che necessitano di tempo, spesso sono motivanti a livello personale e portano un esaurimento delle ri- 227 la battaglia per l’open sorse. Probabilmente quindi questa influenza ester- na ha forzato dei cambiamenti che hanno significato minore attenzione e minori risorse da investire nella sperimentazione dei MOOC di quanto era stato pos- sibile negli anni precedenti. Un’improvvisa e grande defezione di studenti da- gli studi formali ai MOOC porterebbe una situazio- ne precaria alla OU, ma non sembra ora essere un pericolo imminente. Oltretutto si potrebbe dire che i MOOC e l’istruzione formale sono complementa- ri, dato che i MOOC portano ad un coinvolgimento a basso rischio per gli studenti, una parte del quale è realizzato con l’istruzione formale. La OU ha por- tato avanti una serie di studi strategici (ad esempio Sharples e al. 2012) secondo una prospettiva didat- tica, tecnica e commerciale, che suggeriscono che la precarietà non è un fattore attualmente rilevante, anche se c’è una possibilità che nel futuro i MOOC abbiano un impatto sul core business. FutureLearn può dunque essere visto come un chiaro tentativo di ridurre le minacce di precarietà fornendo una solu- zione strategica e politica ai MOOC. Panarchia L’influenza di forze esterne è particolarmente im- portante in questo periodo di crisi finanziaria globa- le, di crisi europea e di cambiamenti nel modello di finanziamento dell’istruzione superiore nel Regno Unito. Tutti questi fattori possono portare ad una di- minuzione del numero di studenti che entrano e re- stano nei programmi di istruzione superiore, e pro- babilmente sono anche fattori responsabili di gran 228 open education e resilienza parte dell’interesse nei MOOC, dal momento che i corsi open sono proposti come soluzione al proble- ma di un’istruzione superiore costosa (ad esempio Kamenetz 2010). Come si è detto, i cambiamenti nella struttura dei finanziamenti hanno richiesto mutamenti istituzio- nali su larga scala alla OU, insieme alla necessità di aumentare le tasse universitarie per compensare la perdita di fondi statali. Ciò può portare ad una di- versa demografia degli studenti (per esempio ad una diminuzione di coloro che studiano per piacere, ma all’aumento di studenti full time che invece vedo- no nella OU un’opzione più abbordabile rispetto al campus), anche se è troppo presto per valutare questi impatti. I MOOC entrano perciò nel mercato in tempi di grande incertezza, quando gli effetti della panarchia sono importanti per la OU (e per tutte le altre uni- versità inglesi), forse anche il motivo per cui le uni- versità in Regno Unito hanno dato una risposta più cauta (Fazackerley 2012) rispetto a quelle del Nord America. Questa analisi può essere riassunta in un punteg- gio soggettivo da 1 (debole resilienza) a 10 (forte ca- pacità di recupero) per ciascun dei quattro fattori. Un punteggio pari o inferiore a 20 indicherà una gene- rale suscettibilità a questo particolare fattore digitale, ma metterà anche in evidenza aree di debolezza indi- viduale. Di seguito il punteggio relativo alla OU. Il punteggio di 29 indica che i MOOC rappresenta- no una sfida per la OU, ma che sta allo stesso tempo sviluppando pratiche resilienti. 229 la battaglia per l’open Fattori di resilienza Punteggio Commenti In riferimento alla capacità e alla storia Latitudine 8 di adattamento al cambiamento ecolo- gico Grandi istituzioni e sistemi stabili e Resistenza 8 alta soglia del rischio, soluzioni rivolte alle forze Non immediata, ma sopraggiunge nei periodi di cambiamento e ha una Precarietà 7 rilevanza diretta sul modello di Open University Le materie da considerare come desta- Panarchia 6 bilizzanti nei settori ad elevata educa- zione nel Regno unito Un’area di preoccupazione, ma le risor- se e la pratica consentono di adattarsi. La sfida con un sistema a larga scala e Totale 29 l’impatto con i cambiamenti in settori del Regno unito sono priorità per rin- forzare la resilienza Tabella 1. fattori di resilienza per i MOOC secondo la UK Open University Cicli di adattamento Walker e Salt (2006) applicano la filosofia della resi- lienza a scenari economici oltre che a quelli ecologici, ad esempio per valutare le mutevoli fortune di un’im- presa edile o la natura di una città nel tempo. Nel loro modello è cruciale il “ciclo di adattamento”, che Gunderson e Holling (2002) hanno osservato anche rispetto ai cicli ecologici. L’adaptive cycle ha quattro fasi principali: rapida crescita, conservazione, rilascio e riorganizzazione, come illustrato nella Figura 10. La crescita rapida si riferisce all’iniziale espansione (di un business o di una popolazione), la conserva- 230 open education e resilienza zione è il mantenimento di una condizione stabi- le, il rilascio è un periodo di “distruzione creativa”, quando si entra in una nuova fase, e la riorganizza- zione è quando si ristabilisce una nuova condizione. L’adaptive cycle [ripreso e rimaneggiato da Walker & Salt 2006] Per Walker e Salt, un sistema può avere diversi sta- ti di stabilità, separati da soglie. Quando un sistema supera una certa soglia, allora entra in uno stato dif- ferente. La resilienza dunque può essere vista come la distanza tra due soglie. Prendendo il nostro esem- pio di prima, un modo per interpretare l’ansietà e il clamore relativo ai MOOC è che essi sono presentati come il fattore che può spingere le università verso un nuovo stato (uno quando cessano di esistere in alcuni scenari, o quando alterano radicalmente il loro modello di business). In questa interpretazione si po- trebbe osservare che le università hanno mantenuto con successo la loro fase di conservazione nel corso degli ultimi 200 anni. Walker e Salt sostengono che la fine di questa fase di conservazione sia inevitabile e che «più a lungo durerà la fase di conservazione minore sarà lo shock necessario per terminarla». 231 la battaglia per l’open La rapida crescita e la conservazione rappresenta- no il “fore loop” nel ciclo di adattamento, quando un sistema sta maturando ma è inevitabilmente seguito da una fase di rilascio e riorganizzazione. Potrebbe dunque essere la open education il “piccolo shock” richiesto per fare in modo che le università passino alla fase di rilascio? Come suggeriscono, è importante guardare oltre le dimensioni e non ad un livello di granularità, quin- di forse l’università o l’istruzione non sono il livel- lo giusto su cui focalizzarsi. L’istruzione superiore è un’offerta complessa e sfaccettata, che comprende insegnamento, ricerca e funzione sociale: piuttosto che interpretarla come un sistema unico sarebbe in- vece meglio vederla come una combinazione di si- stemi più piccoli e interconnessi. Da questo punto di vista l’openness potrebbe certo giocare il ruolo di rilascio e riorganizzazione di un particolare elemento all’interno dell’università o del sistema nel suo com- plesso. Ad esempio, la pubblicazione è un elemen- to che riguarda l’intero sistema accademico, e qui si può vedere come l’Open Access spinga la struttura esistente verso una modalità di rilascio. Si tratta di un periodo in cui si sviluppano nuovi modelli, le aziende esistenti e i ruoli sono modificati, e si entra in una fase di riorganizzazione. Ne emerge un meccanismo di pubblicazione accademica molto diverso. La battaglia per l’open può essere dunque vista come il cambiamento necessario che avviene duran- te il “back loop”. Nel capitolo 2 si diceva che è una questione di quale tipo di openness si voleva, piut- tosto che semplicemente parlare di open vs closed. Un’opzione è vederla come una serie di più piccole transizioni di resilienza, dove il tema comune è un 232 open education e resilienza approccio open che provoca il cambiamento. Ma il sistema nel suo insieme (quello dell’istruzione) po- trebbe essere ancora resiliente, nello stesso modo in cui possono verificarsi alcuni piccoli incendi bo- schivi, ma a livello nazionale il sistema delle foreste conserva la sua resilienza. Questo cambiamento di granularità ci consente di osservare i cambiamenti significativi che la open education crea senza ricorre- re alla “rivoluzione” o alla “disruption” richieste dalla mentalità vista nel capitolo 7. Livelli di coinvolgimento delle OER Per mostrare come questo approccio offra una nar- razione alternativa sulla open education, proviamo a considerare le OER e i diversi livelli di coinvolgi- mento che la gente ha con essi. La open education in generale, e le OER in particolare, formano una base dalla quale traggono beneficio molte altre pratiche, tuttavia spesso coloro che si muovono all’interno di quelle aree non conoscono in modo chiaro le OER. È probabile che questi secondi e terzi livelli di consa- pevolezza rappresentino un’audience di gran lunga più grande che il primo livello, quello degli OER- consapevoli. Possiamo dunque paragonare le dimen- sioni di queste audiences a un metaforico iceberg, che cresce in dimensioni man mano che procediamo in zone meno visibili. Ci sono dunque tre possibili aree di utilizzo delle OER: • Uso primario delle OER – Questo gruppo è quello definito “OER-consapevole”, cioè in generale hanno idea di cosa significhi il termine: sono coinvolti in problemi legati alla open education, sono consape- 233 la battaglia per l’open voli della licenze open e spesso sono promotori del- le OER. Questo gruppo è stato spesso destinatario di finanziamenti, conferenze e ricerche relative alle OER, con l’obiettivo di farle crescere. Un esempio potrebbe essere quello di un insegnante di college che adotta e contribuisce a libri di testo open. • Uso secondario delle OER – Questo gruppo può avere una conoscenza minima delle OER o delle li- cenze open, ma ha un approccio più pragmatico ad esse. Le OER sono di interesse secondario rispetto ai loro impegni principali, come ad esempio inse- gnare. Le OER (e l’openness in generale) possono essere visti come il substrato che permette ad alcu- ne delle loro pratiche di svilupparsi, ma loro non sono interessati o consapevoli della open education come tema a sé, piuttosto danno priorità alla loro area di pertinenza; e le OER sono interessanti nella misura in cui facilitano l’innovazione o l’efficien- za di essa. Un esempio di questo gruppo può es- sere un insegnante di “flipped learning” che usa la Khan academy, i TED talks e alcune OER nelle sue lezioni. • Uso terziario delle OER – Questo gruppo userà le OER all’interno di un mix di altri media, spesso non differenziandoli. La conoscenza delle licen- ze open è minima e non prioritaria. Le OER sono un’opzione “nice to have” ma non fondamentale, e gli utenti spesso sono consumatori piuttosti che creatori. Un esempio potrebbe essere quello di uno studente iscritto ad una università che usa i mate- riali di iTunes U come supplementari al materiale condiviso a lezione. 234 open education e resilienza David Wiley (2009) ha parlato di Dark Reuse – quando il riutilizzo avviene in luoghi che non possia- mo osservare (come avviene per la materia oscura), o semplicemente non sta accadendo molto. Egli pone la questione della sfida delle OER in questi termini: Se il nostro obiettivo è quello di catalizzare e facilitare una quantità significativa di riutilizzo e adattamento di materiali sembra che in questo stiamo fallendo. [...] Se il nostro scopo è quello di creare siti web incredibil- mente popolari caricati di contenuti gratuiti e visitati da milioni di persone ogni mese che riconoscono il valore del contenuto ma non lo adattano mai né lo re- mixano, allora ce la stiamo cavando abbastanza bene. Considerando questi tre livelli di coinvolgimento è possibile vedere come entrambi gli obiettivi di Wiley siano realizzabili. L’obiettivo principale delle iniziati- ve OER è stato spesso l’utilizzo da parte del gruppo primario. Qui le OER sono create e si fa in modo di promuoverle. Per esempio Wild (2012) suggerisce tre livelli di coinvolgimento per lo staff di HE, che passa da un utilizzo delle OER sporadico a uno strategico e a uno integrato. L’assunzione implicita è che si do- vrebbe incoraggiare la progressione lungo questi tre livelli, cioè che la strada per il successo delle OER è incrementare la popolazione del gruppo primario. E se questa è sicuramente una buona pratica (assu- mendo che si creda nei benefici delle OER), può non essere il solo approccio possibile. Un altro modo può essere quello di aumentare la penetrazione delle OER nei livelli secondario e terziario. In questi gruppi la co- noscenza dei repository disponibili è molto bassa se paragonata a risorse come la Khan Academy o TED. Il modo per aumentarne la diffusione consiste dun- 235 la battaglia per l’open que nell’incrementare la visibilità, l’ottimizzazione del motore di ricerca e la convenienza delle risorse in sé, senza per forza avere una conoscenza della open edu- cation. Questo si può fare creando un brand affidabile che faccia concorrenza a risorse come TED. Applicando il modello di resilienza a questo mo- dello di utilizzo delle OER si può ipotizzare di esse- re passati attraverso una fase di rapido sviluppo per quanto riguarda l’uso primario di OER, e che ora si è entrati nello stato conservativo. Ci sono infatti una comunità e un approccio stabili. Per fare in modo però che le OER raggiungano gli utilizzatori seconda- ri, c’è bisogno di entrare in una nuova fase di rilascio, e questo di solito si ottiene attraverso un periodo di distruzione creativa. Si potrebbe sostenere che l’im- patto dei MOOC sulla comunità delle OER sia questa forza necessaria che li spinga verso un nuovo stato, e che un cambiamento nei finanziamenti e nella di- rezione sia utile a creare un passaggio di questo tipo. La prospettiva utile che ciò offre è che non si trat- ta di un ribaltamento del precedente approccio e di un cambiamento radicale, ma piuttosto di passare da uno stato a un altro. Questa visione permette una maggiore continuità tra gli sviluppi nel settore dell’i- struzione rispetto a quanto permetta la narrazione della Silicon Valley. Conclusioni Il modello di resilienza in ecologia offre uno sche- ma per osservare quanto un sistema sia capace di assorbire i cambiamenti. Pertanto fornisce uno stru- mento utile anche per analizzare l’abilità di un’istitu- 236 open education e resilienza zione ad adattarsi all’interno di un ambiente alterato, pur mantenendo la sua funzionalità di base. Tuttavia non è esente da critiche o privo di difficoltà. Si do- vrebbe sempre essere cauti quando un’analogia con il mondo naturale si può applicare a costrutti socio- logici come l’istruzione. Come la disruption, potreb- be infatti essere inteso anche come avanzamento di un’agenda neoliberale, e si potrebbe certo contestare la conclusione di Walker e Salt che la fine dello stato conservativo è sempre inevitabile. Però serve per tre ragioni nel contesto della battaglia per l’open. In pri- mo luogo fornisce uno schema per analizzare qualsi- asi impatto, come per l’esempio quello dei MOOC vi- sto prima; in secondo luogo offre un mezzo per con- siderare aree di impatto individuale all’interno di un sistema più ampio; e da ultimo suggerisce che sono possibili altre narrazioni oltre a quella dominante della Silicon Valley. Riguardo alla prima di queste funzioni, il modello si può usare come strumento di analisi qualitativa per evidenziare motivi di preoccupazione e per aiutare a stilare le priorità. Il metodo di assegnazione di un pun- teggio spiegato in questo capitolo è un modo per ot- tenerlo, ma senza immaginare punteggi corretti, solo soggettivi. La metodologia è stata portata avanti con un gruppo più ampio di otto partecipanti alla OU. I punteggi sono stati da 23 a 32, ma c’è stato un consen- so generale sui problemi più rilevanti e sulle risposte. Applicando il metodo alla stessa sfida formativa (i MOOC) in una università diversa questo probabil- mente rivelerà differenze in aspetti come la prepa- razione, i contesti nazionali, le demografiche degli studenti etc. Analisi di una diversa sfida della open education, come la pubblicazione in Open Access, 237 la battaglia per l’open nella stessa università metterebbe in evidenza fattori come il grado di impatto, la maturità del cambiamen- to, l’area di impatto etc. Come schema per analizzare l’impatto di un parti- colare cambiamento provocato da una nuova tecnolo- gia, tuttavia, la metafora fornisce un mezzo per iden- tificare i punti di forza e di debolezza e per articolare risposte. Fornisce anche un quadro per analizzare come i diversi aspetti dell’openness siano connessi in una parte di un intero più grande pur mantenen- do l’integrità dello stesso. Come sostengono Walker e Salt «Ci sono molte più probabilità di passare la soglia di un nuovo sistema se non si sa della sua esi- stenza». Quindi valutare l’impatto della open educa- tion può essere il modo migliore per mantenere la resilienza. 238 CAPITOLO 10 Il futuro dell’Open Nella batteria di Keith Moon non c’è un time-out perché non c’è un time-in. È tutto roba divertente. James Wood Introduzione In questo capitolo conclusivo rivedrò alcuni dei temi del libro e proverò a spiegare perché l’open- ness conta davvero per il futuro dell’istruzione. Darò anche qualche suggerimento per esamina- re la open education nel breve e medio periodo. Nel capitolo 1 ho affermato che l’openness ha vinto sotto molti punti di vista, tesi che è stata rinforzata considerando il successo delle pubblicazioni in Open Access, delle OER, dei MOOC e della open scholar- ship. Tuttavia, a molti che lavorano nell’ambito dell’i- struzione superiore questa sembra un’affermazione piuttosto esagerata. Alcuni di essi infatti lavorano in contesti nei quali la open scholarship non solo non è riconosciuta ma è anche attivamente scoraggiata, dove il solo menzionare le OER incontra sguardi va- cui e dove ogni cambiamento proposto per sfruttare le opportunità offerte dalla open education è osteg- giato. Ogni riferimento alla vittoria dell’openness sembra dunque un vagheggiamento di pochi privi- la battaglia per l’open legiati che operano all’interno della bolla della open education. Concordo con questa opinione, e prima di proce- dere vale la pena di rivisitare le mie affermazioni e in qualche modo di chiarirle. Nel corso di questo li- bro ho portato molti esempi che credo dimostrino il successo dell’approccio open: gli obblighi sull’Open Access; il numero di studenti e di media interessa- ti ai MOOC; l’impatto e la sostenibilità dei libri di testo open e la natura mutevole di fondamentali pratiche scolastiche come risultato dell’approccio open. Suggerire che l’openness ha avuto successo non significa affermare che ha raggiunto la satura- zione o il 100% di adozione. Piuttosto, tutti questi successi separati indicano un fenomeno più ampio – il momento in cui l’openness è passata dall’essere di interesse periferico e specialistico a conquistare un approccio mainstream. Per usare un termine spesso usato (e forse privo di significato) è ad un “punto di svolta”. Da questo momento l’applicazione dell’ap- proccio open a tutti gli aspetti della pratica dell’i- struzione superiore è al tempo stesso legittima e in qualche modo inevitabile. Ciò non vuol dire che sarà sempre adottata, allo stesso modo in cui l’approc- cio open source al software non è sempre seguito, ma significa che è un metodo sempre più pervasi- vo. La velocità di assorbimento sarà influenzata da una serie di fattori, come le culture disciplinari, i programmi nazionali, le politiche, i finanziamenti, la presenza di sostenitori e gli immediati benefici. La vittoria della open education, quindi, consiste nel fatto che ora è un serio contendente, proposto non solo dai suoi devoti accoliti ma anche da altri come metodo per qualsiasi iniziativa di istruzione supe- 240 il futuro dell’open riore, che sia ricerca, insegnamento o public engage- ment. È proprio questa transizione ad essere oggetto del libro, poiché legate ad essa ci sono opportunità e sfide, proprio come una piccola startup deve af- frontare tutta una serie di problemi nel momento in cui cresce e diventa una grande multinazionale. In questa transizione ci sono parecchie insidie – l’intera impresa può fallire, può essere conquistata da altri o possono andare perduti i valori e l’identità che ne hanno caratterizzato lo stato embrionale. Open Policy Un aspetto di questa transizione è il passaggio dalla pratica informale a quella formale, e una conseguen- za di questo è l’aumento di regole relative alla pra- tica di open education. Possono essere a livello na- zionale, regionale, di finanziamento, istituzionale o di dipartimento e possono riguardare diversi aspetti della pratica, come la pubblicazione in Open Access, il rilascio di open data, i profili accademici online, il rilascio di materiali di open education e così via. Data quest’ampia varietà di cosa costituisca una po- licy di open education, è difficile mappare la loro diffusione. Il progetto ROARMAP alla Southampton University traccia le politiche di Open Access a livello di finanziamenti, istituzionale e sub-istituzionale, men- tre Creative Commons ospita un archivio di politiche relative alle OER (Creative Commons 2013b) e l’OER Research Hub (2014) mappa tutte queste policies. Il progetto POERUP ha analizzato in modo appro- fondito le politiche relative alle OER e messo in evi- denza la natura complessa di questo settore (Bacsich 241 la battaglia per l’open 2013). Negli USA ci sono un numero crescente di politiche statali o scolastiche, ma sono spesso rivol- te solamente alla fornitura di libri di testo open e hanno per la maggior parte il risparmio come fatto- re trainante. Questa forma di OER è meno frequen- te in Europa. Inoltre ci sono politiche che possono avere una forte influenza sulla open education ma che non sono strettamente open education policies. Ad esempio, sistemi concordati di valutazione della formazione pregressa e un riconoscimento dell’i- struzione informale aiuterebbero l’adozione di OER e MOOC senza esplicitamente essere politiche OER. Ci sono due messaggi piuttosto contrastanti che ven- gono da questo lavoro, che possono essere considera- ti rappresentativi del più ampio stato in cui si trova la open education. Quello positivo è che c’è un’evidente crescita di politiche direttamente o indirettamente le- gate alla open education. Le politiche di Open Access sono forse le più ovvie, ma sono seguite da politiche sugli open data (cioè non solo che pubblicazioni fi- nanziate con soldi pubblici devono essere messe a disposizione in modalità open, ma che anche i dati sperimentali dovrebbero esserlo) e sui libri di testo open. Questo indica anche che esiste un modello di concatenazione per cui, una volta che un elemento è open, allora anche gli altri lo devono essere (lo vedre- mo meglio in seguito). Da questa prospettiva sem- bra che le politiche open possano essere la prossima importante svolta per il movimento della open edu- cation, e come tale marcheranno un punto impor- tante nel suo passaggio per diventare mainstream. Tuttavia come suggeriscono Bacsich, Farrow and Frank-Bristow (2014) è un’area ad oggi molto ete- rogenea, con diversi tipi di politiche che a livello di 242 il futuro dell’open OER mancano di una strategia forte. Spesso i proget- ti OER sono portati avanti all’interno di uno specifico lavoro universitario, e una volta che i fondi finiscono il progetto si arresta. Farrow e Frank-Bristow affer- mano che le politiche fanno parte di una formula che si trova spesso in OER di successo, e che richiede un progetto pilota, finanziamenti, un promotore e una strategia mirata alla sostenibilità e a portare un im- patto rilevante. A meno che questo modello sosteni- bile sia supportato dall’impegno diretto dell’alta diri- genza, molti progetti non portano all’adozione di una politica OER da parte dell’istituzione. Lo sviluppo di una strategia che riguarda le OER è dunque crucia- le per la durata di queste policies, ma troppo spesso non viene vista come un obiettivo specifico, perciò il progetto si esaurisce per mancanza di una direzio- ne strategica. Mentre la open education progredisce verso la fase successiva, le politiche non dovrebbero solo essere viste come il motore di questo processo, ma come l’obiettivo: l’esplicita volontà di definire una politica dovrebbe fare parte di ogni progetto di open education. La lezione del Learning Management System L’esempio della open policy fornisce un’indicazione più ampia sulla risposta che gli insegnanti devono dare all’openness se vogliono continuare ad avere successo e a soddisfare le loro necessità. Possiamo portare un esempio recente, che fa da monito per aiu- tare a capire questa direzione. Si tratta del Learning Management System (LMS), o del Virtual Learning Environment (VLE). 243 la battaglia per l’open Alla fine degli anni ’90 l’elearning era visto come un approccio originale all’istruzione. Era soggetto agli stessi entusiasmi e ansie che abbiamo visto per i MOOC. Poteva variabilmente offrire un modo eco- nomico di garantire l’accesso all’istruzione (Noam 1995), rendere superflui i docenti (Noble 1998), aprire la strada a forme innovative di insegnamen- to (Weller 2002) oppure rimuovere le barriere lega- te alla distanza (Mason 2000). Se molti nell’ambito dell’istruzione accolsero le possibilità dell’elearning, adottando metodologie didattiche innovative e usan- do una serie di media e strumenti diversi, molti altri si dimostrarono invece riluttanti. Una combinazione dei vantaggi percepiti in termini di efficienza, di fles- sibilità per gli studenti e di capacità di raggiungere nuove audiences significò per l’elearning un posto nell’agenda dei principali dirigenti delle università. I primi passi nell’adozione dell’elearning furono spes- so caratterizzati da un’economia mista di tecnologie, con dipartimenti diversi che adottavano diversi siste- mi, di solito guidati da sostenitori o da early adopter. Furono i primi anni 2000 a vedere una fase di inevi- tabile consolidamento: il mantenimento di così tanti sistemi differenti divenne problematico e per ottene- re i benefici che l’elearning prometteva si richiese un approccio univoco. Ed è allora che l’LMS divenne una soluzione diffusa, per esempio, nel Regno Unito che nel 2003 vide l’86% di enti di istruzione superiore che ne possedevano uno (Brown and Jenkins 2003). Il Learning Management System forniva una gamma di strumenti che con un sistema standardizzato per- metteva alle università di portare avanti programmi di sviluppo del personale e allo stesso tempo facili- tava l’accesso degli studenti ad una tecnologia con- 244 il futuro dell’open forme. Tutto ciò facilitò l’adozione dell’elearning e se qualcuno se ne faceva sostenitore, era visto come un avanzamento positivo. Il LMS fu la chiave per fare dell’elearning un approccio mainstream. Tuttavia ci furono un paio di sfortunati effetti col- laterali legati all’adozione su vasta scala del LMS. Il primo era che spesso le università davano in gestione a terzi la tecnologia e anche l’approccio all’elearning. Adottando sistemi commerciali come Blackboard, si potevano avere soluzioni immediate e veloci ma si perdevano competenza e controllo richiesti per innovare quest’area. Oltretutto relazioni di questo tipo non andavano sempre a beneficio di entrambi i partner, come quando Blackboard tentò di impor- re brevetti a generici requisiti di elearning come la formazione di gruppi di tutoraggio (Geist 2006). Il secondo problema era in gran parte in funzione del primo: piuttosto che essere un trampolino di lancio per la sperimentazione dell’elearning, il LMS diven- ne un punto d’arrivo. Appena i processi istituzionali entrarono in vigore crearono un sedimento sul siste- ma per cui la domanda non era più “cosa possiamo fare per l’elearning?” ma piuttosto “cosa posso fare con il LMS per soddisfare i requisiti dell’università?”. Il modello di classe online, o l’utilizzo del LMS come archivio di appunti delle lezioni, venne visto come un elearning esso stesso, e vennero interrotti altri tipi di sperimentazione. Ciò dimostra l’importanza della strategia nella realizzazione, ma anche mette in evi- denza la necessità di consentire un margine tale da permettere l’innovazione. Groom e Lamb (2014) ritengono che l’LMS sia il pri- mo responsabile della minore innovazione dell’elear- 245 la battaglia per l’open ning in università. Le loro motivazioni contro il LMS si possono riassumere in cinque punti principali: • Sistemi - Il LMS predilige una mentalità di gestione tecnologica. • Effetto Silos – L’ambiente artificialmente chiu- so e protetto del LMS non consente i benefici dell’openness. • Mancate opportunità – Gli studenti usano un siste- ma che è diverso da qualsiasi altro al di fuori dell’i- struzione e sprecano il loro tempo ad imparare ad usare il LMS. • Costi – Il LMS consuma risorse umane e finan- ziarie, per cui c’è scarsa capacità di sostenere di- versi tipi di innovazione al di fuori del sistema. Sostanzialmente il LMS diventa la risposta a tutti i problemi di elearning • Fiducia – C’è una mancanza di entusiasmo nei confronti del LMS, e per gestire il sistema sono ne- cessari tecnici dell’istruzione che potrebbero occu- parsi invece di lavori più innovativi, e questo porta ad una perdita in fiducia nella sperimentazione. Parlando del modo in cui le università spesso si ri- fiutano di fare un uso innovativo di internet nell’am- bito dell’insegnamento, Groom (2014) lo riassume dichiarando: «Per un crudele scherzo del destino l’istruzione superiore ha dato in outsourcing la più sorprendente innovazione della storia della comuni- cazione che sia nata all’interno dei suoi campus». La risonanza con la open education è molto forte: si po- trebbe sostituire MOOC commerciali con LMS nella frase precedente e resterebbe comunque vera. La sto- ria recente dimostra il potenziale pericolo che si cor- re nel permettere a terzi di determinare le modalità 246 il futuro dell’open di controllo e la direzione dell’istruzione. Le univer- sità diventano troppo velocemente i fruitori di questa soluzione invece che la forza motrice. Le sfide dell’istruzione Dopo aver analizzato le regolamentazioni come una possibile area di crescita della open education, e dopo aver parlato dell’importanza del coinvolgi- mento e del controllo sulla sua futura direzione, rivedremo ora il valore dell’approccio open per rin- forzare il concetto della sua importanza. Nel ca- pitolo 2 ho elencato alcune delle possibili ragioni per adottare un approccio open a livello individua- le. In questo paragrafo sottolineerò invece i possi- bili benefici dell’openness come soluzione ai più grandi problemi che deve affrontare l’istruzione. Un problema per le università è quello di giustificare la loro rilevanza sociale. In un’epoca digitale qual è il loro ruolo? Nel mondo di Wikipedia e di Google, perché si dovrebbe andare all’università per tre anni o più? Si possono trovare queste domande nei com- menti a qualsiasi articolo di giornale riguardo al tema. Le università sono spesso viste come torri d’avorio, indietro con i tempi e fuori dal mondo. Naturalmente questi argomenti si possono facilmente controbattere sottolineando la qualità e la profondità dell’istruzione universitaria, la capacità critiche che si sviluppano, così come la loro funzione sociale. Il problema non è che si possono confutare le affermazioni sull’irri- levanza dell’università, piuttosto il fatto che sono di- ventate opinioni comunemente accettate, a prescin- dere dalle prove. Come abbiamo visto nel capitolo 247 la battaglia per l’open sulla narrazione della Silicon Valley, una volta che i miti diventano pervasivi sono difficili da contrastare. La soluzione che qui offre la open education è quella di dimostrare in modo semplice tutti gli aspetti posi- tivi dell’istruzione superiore. Se si tratta della qualità delle risorse, allora le OER possono mostrare perché c’è una profondità dietro l’articolo di Wikipedia. Se si tratta della ricerca, allora gli articoli in Open Access danno prova del valore di uno studio approfondito che non sia finanziato da enti commerciali e dunque di parte. La open scholarship sottolinea che i professori non operano come singoli ma sono coinvolti in una comunità più ampia, e in tutto ciò che essa compor- ta. Un esempio pratico è quello della biblioteca della Oregon State University. Proprio come per la rilevan- za delle università, così anche il ruolo delle bibliote- che nell’era digitale è sotto esame. La biblioteca OSU, in collaborazione con la loro stampa universitaria, lavora insieme ai professori per creare libri di testo open (OSU 2014). L’obiettivo è principalmente quello di rispondere al problema del costo per gli studenti, ma anche di migliorare la reputazione delle universi- tà, dato che questi libri sono aperti a tutti e aumen- tano la soddisfazione degli studenti fornendo mate- riale adattabile alle varie esigenze del curriculum. Le biblioteche universitarie sono dunque perfette per adempiere a questa funzione, con i requisiti e le capa- cità necessarie, e offrono probabilmente un migliore ritorno di investimenti rispetto all’accesso a riviste che sono lette solo da piccoli gruppi di ricercatori. Tutte queste forme di openness sono relativamente facili da realizzare e mirano semplicemente ad espor- re la buona pratica all’interno delle università. In un’epoca digitale e interconnessa è controproducen- 248 il futuro dell’open te alzare barriere su una istituzione, semplicemente perché la si isola. Un tema correlato è quello dell’utilità di questa esperienza di apprendimento nel mondo che lo stu- dente incontra dopo la laurea. Ci si lamenta spesso del fatto che i laureati non hanno competenze neces- sarie per lavorare (Levy 2013). È possibile che questa affermazione sia infondata e che invece siano i datori di lavoro a non essere pronti a riconoscere la gamma di moderne competenze che i laureati possiedono. Tuttavia, se questa affermazione è valida, la pratica open fornisce di nuovo una parziale soluzione. Per riprendere una delle affermazioni di Groom e Lamb, il LMS, e quindi l’ambiente fisico delle università, è per lo più diverso da qualsiasi altro e troppo spesso le valutazioni e il programma di studi si concentrano su obiettivi artificiali o esempi innaturali. Pratica l’open consente invece agli studenti di misurarsi con il tipo di compiti e di sviluppare il tipo di competenze di cui possono avere bisogno in qualsiasi tipo di lavoro, senza ridurre l’istruzione universitaria ad un mero esercizio di formazione professionale. Per esempio aprire un’identità online o bloggare con un’ audience aperta richiede lo sviluppo di capacità comunicative che vanno al di là di un focus ristretto. La modifi- ca di articoli di Wikipedia richiede l’impegno in un processo di raccolta fonti e collaborazione. La crea- zione di video su Youtube esige creatività e capaci- tà di acquisire autonomamente competenze, e così via. Questo non è per suggerire che tutta l’istruzione universitaria debba essere portata avanti in modalità open: ci sono ancora valide ragioni dietro all’esigenza di nutrire fiducia in un ambiente più chiuso. Tuttavia tendo a credere che lo sviluppo delle competenze 249 la battaglia per l’open necessarie ad operare su internet più facilmente for- nisca a chi entra nel mondo del lavoro competenze utili, rispetto ad un modello “chiuso” di istruzione. Alla base di queste due preoccupazioni è spesso il co- sto. Visto il prezzo elevato delle lauree (indipenden- temente dal fatto che siano esse finanziate dallo stato o dal singolo studente), ci sono alternative più econo- miche? Il modello universitario rappresenta ancora il miglior rapporto qualità/prezzo? Questa promessa di un’istruzione meno costosa è stato uno dei fattori alla base dell’elearning e dei MOOC. Raramente vie- ne però confermato: il costo della produzione di corsi in elearning non è stato così basso come si pensava e, come abbiamo visto nel capitolo 5, il modello finan- ziario dei MOOC non è così stabile. Le affermazio- ni che riguardano la riduzione dei costi dovrebbero quindi essere trattate con un certo scetticismo. Ciò che la open education può fare in modo efficace è piuttosto influenzare i fattori correlati. Per esempio creare un corso che utilizza un’ampia varietà di OER di buona qualità riduce la quantità di materiali che devono essere creati ad hoc. E questo a sua volta ri- duce il tempo richiesto per creare il corso o i costi per crearne uno di qualità superiore. Come abbiamo visto nella discussione sulle OER, esse sono spesso usate dagli studenti prima di entrare in un corso di studi o mentre stanno già seguendo un corso forma- le; e questo può ridurre il numero di studenti che scelgono un tema che poi scoprono di non amare, oppure può aiutare a mantenere iscritti quelli che già lo sono. Più precisamente, i libri di testo open sono una risorsa gratuita, che permette a studenti o a scuo- le di risparmiare. I MOOC e le OER offrono a coloro che studiano per diletto l’opportunità di soddisfare 250 il futuro dell’open un loro desiderio di apprendimento a costo zero, anche se poi decidono di andare oltre con gli studi. Le tre aree del rilievo sociale, dell’idoneità universi- taria e dei costi sono tutte questioni ricorrenti per le università. L’openness non è la sola soluzione, ma è comunque una soluzione relativamente facile da adottare senza ricorrere all’approccio rivoluzionario che è spesso richiesto. Il prezzo dell’openness Nel capitolo 1 abbiamo fatto il paragone con il gre- enwashing, dimostrando come nell’openwashing l’e- tichetta “open” abbia acquisito un certo valore com- merciale e sia per questo promossa. Anche se non sono d’accordo con un approccio dogmatico all’uso del termine, è vero però che una risposta all’uso indi- scriminato dell’openness è quella di non permetter- ne un uso superficiale. Se “openness” ha un valore di mercato allora dovremmo chiedere a coloro che la usano a loro vantaggio di aderire ai principi genera- li – per esempio fare in modo che il loro contenuto sia coperto da licenze open. Un caso che si incontra spesso è quello di articoli di ricerca che parlano di open education e poi non sono pubblicati sotto licen- za open. È quantomeno singolare imbattersi in un articolo che parla dei vantaggi delle OER e poi dover pagare 40 dollari per poterlo leggere. Come abbiamo visto nel capitolo 3, c’è già un pro- gressivo cambiamento che va in direzione di un ri- lascio di articoli in Open Access, ma almeno per le ricerche che riguardano la open education (MOOC, OA, OER, open data etc) è ragionevole aspettarsi che 251 la battaglia per l’open le relative pubblicazioni lo siano. Non appena un ri- cercatore inizia ad occuparsi di quest’area infatti, si dovrebbe sentire moralmente obbligato a pubblica- re i suoi risultati in modalità open, che sia essa una Green o una Gold road. La sua ricerca infatti è stata possibile solo perché altri hanno scelto di rendere aperti i dati (anche se sono critici), quindi il ricercato- re è obbligato a fare lo stesso. L’openness è la strada che facilita questa ricerca e ha valore nel momento in cui la gente vorrà leggere l’articolo proprio perché parla di openness. Sia i ricercatori che gli editori ne traggono beneficio e non dovrebbero poter ottene- re questi benefici gratuitamente: l’Open Access è il prezzo di ammissione. Esempi simili si possono trovare per i MOOC o per altre piattaforme tecnologiche. Se si usa l’appellativo “open” , allora quantomeno si affronta una sfida che riguarda la misura di questa openness. Il virus open Un modo di vedere l’approccio open è quello di considerarlo come un virus: una volta preso tende a diffondersi sotto molte altre forme. Per esempio, nella pratica personale una volta che un accademi- co pubblica un saggio in licenza Open Access viene incentivato ad usare varie forme di social media per promuoverlo, che come abbiamo visto nel capitolo 7 possono influenzare visualizzazioni e citazioni. Allo stesso modo, sebbene la gratuità è un iniziale fattore trainante per l’adozione di libri di testo open, una vol- ta che diventa la pratica, allora la capacità di adattare il materiale alle proprie esigenze si trasforma in un 252 il futuro dell’open fattore importante per gli insegnanti. Quando inse- gnanti e istituzioni iniziano ad usare le OER nel loro materiale didattico, allora sorge la domanda sul per- ché non stiano ricambiando. Come abbiamo visto nel capitolo 4, questa pratica non è garantita è può avere una lenta assimilazione, ma l’azione del condivide- re viene legittimata dall’adozione di materiali prove- nienti da istituzioni con una buona reputazione. Non è una coincidenza che molti dei pionieri dei MOOC siano anche stati tra i primi ad adottare l’Open Access, tra i primi blogger e promotori della licenze open. La creazione di corsi open sembrava essere il logico passo successivo, dato che erano interessati alle possibilità che l’openness offriva e che avevano già visto i benefici da altre parti nella loro pratica. Ma questa diffusione dell’open virus non è affatto garan- tita: molti praticanti ne restano immuni, e per altri la pratica open resta limitata ad una funzione mol- to specifica. Non sembra tuttavia essere uno schema che si ripete in tutti gli aspetti della pratica. Ha sen- so nel contesto di questo libro, perché se siamo in un periodo di transizione in cui la pratica open sta diventando mainstream, allora (per continuare con la metafora) il numero di persone “esposte” al con- tagio dell’open virus aumenta notevolmente e diven- ta pandemico. È anche significativo perché richiede alle persone di essere agenti di azione. La divisione in comparti della pratica open in progetti specifici o il suo outsourcing a fornitori esterni crea una forma di barriera che isola i singoli insegnanti e li proteg- ge dall’esposizione. L’impatto dell’openness è perciò contenuto. Si potrebbe concludere, seguendo la me- tafora del virus, che un buon approccio alla diffusio- ne della open practise è quello di cercare dei punti di 253 la battaglia per l’open ingresso come cavalli di Troia, dove l’aspetto iniziale dell’openness possa essere seminato. Tuttavia, come per l’esempio dell’LMS, questo successo iniziale e fa- cile non dovrebbe diventarne la fine. Conclusioni In questo capitolo si sono analizzati una serie di aspetti dell’openness che hanno implicazioni sulla sua futura direzione. La regolamentazione sarà la leva attraverso cui la pratica aperta diventerà soste- nibile e mainstream. Tuttavia, la lezione del LMS di- mostra che qualsiasi approccio regolatore deve anche consentire uno spazio sufficiente per l’innovazione e la sperimentazione, che sono le strade per ottene- re i veri benefici dell’openness. L’innovazione che l’openness permette offre soluzioni ad una serie di sfide molto importanti per l’istruzione superiore. Per certi aspetti, la rivoluzione open e digitale è la causa di queste sfide, e ne è anche la soluzione. La vittoria dell’openness è evidenziata dal valore che il termi- ne “open” acquista nel marketing, e una risposta è avanzare richieste a coloro che cercano di piegare il termine per i propri scopi. Infine, si è suggerito che l’openness ha la capacità di diffusione virale attraver- so pratiche diverse una volta che è stata adottata in una di queste. Ciò che tutte queste direzioni hanno in comune è la ownership (la titolarità). In questo libro ho provato a dimostrare due argomentazioni sull’openness: che è un approccio di successo per buona parte dell’istru- zione e che si trova ora ad un punto cruciale rispetto alla sua direzione futura. Alla base del successo dell’o- 254 il futuro dell’open penness per l’istruzione c’è la sua capacità di aprirsi alla sperimentazione e all’innovazione. I MOOC, le OER, l’Open Access e la open scholarship sono sta- ti tutti il risultato di coloro che lavorando all’interno dell’istruzione superiore hanno cercato di sfruttare le possibilità che l’openness offre. L’aver vinto la prima battaglia – che è un modo efficace di agire – è essen- ziale che non si perda la seconda battaglia sulla futu- ra direzione dell’openness abdicando responsabilità e ownership. Questo non vuol dire che solo le univer- sità possono dedicarsi alla open education: ci sono molti modi differenti attraversi i quali si può approc- ciare, e sarebbe folle essere prescrittivi. 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[Last accessed 8th September 2014] 284 Accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. Una postfazione ragionata Elena Giglia, Università di Torino Il pregio del volume di Weller tradotto da Simone Aliprandi sta nell’aver sistematizzato una serie di concetti chiave nella battaglia per l’apertura della ri- cerca e della conoscenza, mostrando le opportunità legate all’approccio aperto in un quadro organico che va dalle pubblicazioni ai dati alle risorse educative al software. Non sempre condivido la visione ottimisti- ca su quanto le istanze di apertura abbiano permea- to l’ambiente della ricerca e dell’istruzione, mentre non si può non essere d’accordo sul fatto che la di- cotomia aperto/chiuso abbia aumentato il livello di complessità. Se i concetti di fondo restano validi, ciò che è cam- biato – e in modo sostanziale – è il contesto. Senza appesantire ogni pagina con note su risor- se aggiornate e nuovi documenti, questa postfazione vuole ripercorrere i principali filoni di riflessione del volume per attualizzarne spunti e prospettive. In via preliminare, occorre riportare il dibattito a una domanda di fondo: a cosa serve la ricerca scien- tifica? Se, come sostiene Elisabeth Gadd, “abbiamo accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. creato una generazione di ricercatori che pensano solo alla gloria di un articolo in riviste prestigiose e non a fare buona ricerca che cambi il mondo, allora siamo nei guai”1. La scienza deve contribuire al pro- gresso, e per questo deve essere aperta. Su questo si sofferma il documento programmatico Foundations for Open Scholarship Strategy Development2, che tratta in modo organico di tutti gli aspetti di cui parleremo più avanti, ovvero testi, dati, infrastrutture, risorse educative, per una scienza che sia accessibile, equa, inclusiva, trasparente. La visione dell’università e della formazione che emerge dal volume Open Knowledge Institutions3 è la naturale continuazione e attualizzazione del vo- lume di Weller, perché partendo dall’idea di “open by deafult” analizza la spinta all’apertura, le moda- lità di attuazione, le criticità, i possibili indicatori, e l’approccio più efficace verso una società della cono- scenza globalmente aperta e inclusiva. Già qualche anno prima, Erin McKiernan4 aveva additato la strada verso la condivisione della conoscenza nella ricerca e nella formazione per rendere gli atenei il fulcro della “società della conoscenza inclusiva” prospetta- ta dall’UNESCO. Non a caso UNESCO nel 2019 ha pubblicato le proprie Raccomandazioni sulle Risorse 1 Gadd, Elisabeth, The purpose of publications during a pande- mic and beyond, aprile 2020, https://wonkhe.com/blogs/ the-purpose-of-publications-in-a-pandemic-and-beyond/. 2 Tennant, Jonathan, et al. 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Le Nazioni Unite, in una tavola rotonda tenuta alla fine del 2019, hanno ribadito che la scienza aperta è perfettamente funzionale al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile6 e hanno sottolinea- to alcuni principi quali inclusione, equità, reciproci- tà, rispetto delle diversità, opportunità per la crescita che devono essere parte integrante del paradigma dell’apertura, in ogni ambito7. Assai significativo è che nel corso della discussione sia emersa la questio- ne dell’”ultimo miglio”: ovvero, siamo d’accordo sui principi, ma come coinvolgere maggiormente la co- munità di chi fa ricerca, ancora troppo legata a siste- mi chiusi tradizionali? 5 UNESCO, Open Educational Resources recommendations, 2019, https://en.unesco.org/themes/building-knowledge-societies/ oer/recommendation. 6 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile, https://unric.org/it/ agenda-2030/. 7 United Nations Science commons round table, novembre 2019, https://research.un.org/ld.php?content_id=51390330. 287 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. OCDE, l’Organizzazione per lo sviluppo economi- co, ha pubblicato all’inizio del 2020 un Rapporto8 in cui si riconosce l’importanza della condivisione aper- ta dei dati non solo per una ricerca più efficace ed ef- ficiente, ma anche per favorire innovazione e tecno- logia. In prospettiva futura, per completare l’ultimo capitolo del volume di Weller, il Rapporto individua sette sfide per una politica efficace di apertura, quali la necessità di trovare un bilanciamento fra i benefici della condivisione dei dati e i rischi connessi, di de- finire standard e aspetti legali, di creare competenze per far leva sul capitale umano. L’UNESCO ha lanciato nel 2020 una consultazio- ne pubblica per definire la prima bozza delle proprie Raccomandazioni sulla scienza aperta9, indicata e so- stenuta come lo strumento attraverso cui la scienza può esprimere appieno il suo potenziale e contribu- ire a dare una risposta alle sfide globali quali il cam- biamento climatico o la pandemia da coronavirus in corso. Proprio nel corso della pandemia, UNESCO, CERN e Organizzazione Mondiale della Sanità hanno diffu- so un appello congiunto per la condivisione di dati e risultati, unica via che può portare a cure efficaci in breve tempo10. 8 Enhanced Access to Publicly Funded Data for Science, Technology and Innovation, OECD, maggio 2020, https:// www.oecd-ilibrary.org/science-and-technology/enhanced-ac- cess-to-publicly-funded-data-for-science-technology-and-inno- vation_947717bc-en. 9 UNESCO recommendation on Open Science, ottobre 2020, https://en.unesco.org/news/milestone-unescos-develop- ment-global-recommendation-open-science. 10 Jojnt appeal on Open Science, ottobre 2020, https://en.unesco. org/sites/default/files/joint_appeal_for_open_sciences_fin_ en_fin.pdf. 288 una postfazione ragionata Se è vero che nei momenti di crisi l’esigenza di apertura risulta più evidente, la scienza aperta ren- de la ricerca più efficace e trasparente in ogni cam- po. Per questo da anni la Commissione Europea ha compiuto una scelta decisa adottando politiche di apertura sempre più stringenti, perché sostenere la scienza aperta significa “rendere la scienza adatta al 21° secolo”11 ed essere sicuri che la scienza sia al ser- vizio dell’innovazione e della crescita sociale. Scienza aperta significa infatti sfruttare appieno le potenziali- tà del web per poter condividere e mettere a disposi- zione di tutti (imprese, innovatori, fornitori di servi- zi, cittadini) non solo la sintesi finale sotto forma di articolo scientifico ma ogni elemento del ciclo della ricerca, dai dati ai protocolli al software ai risultati e alla loro discussione, con benefici per tutti. Il pro- cesso è lungo, occorrono scelte responsabili anche da parte dei singoli enti di ricerca, ma se è vero che ci sono rischi a essere i primi, ci sono rischi maggiori a essere gli ultimi – ovvero essere tagliati fuori. Chi volesse una sintesi ragionata sui progressi del- la scienza aperta in Europa può iniziare dall’ottimo Rapporto finale12 della Open Science Policy Platform, che identifica per ognuno degli otto pilastri (nuovo si- stema di valutazione, dati, formazione e competenze, citizen science, futuro della comunicazione scientifi- ca…) le barriere ancora esistenti e, soprattutto, sposta il focus verso gli impegni concreti per l’implemen- 11 Burgelman JC et al. Open Science, Open Data, and Open Scholarship: European Policies to Make Science Fit for the Twenty- First Century, Frontiers in Big Data, 10 December 2019, https:// doi.org/10.3389/fdata.2019.00043. 12 Progress on Open Science: Towards a Shared Research Knowledge System, OSPP, giugno 2020, https://ec.europa.eu/ research/openscience/pdf/ec_rtd_ospp-final-report.pdf. 289 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. tazione da parte di ognuno degli attori coinvolti, per arrivare nel 2030 ad avere un “sistema di conoscenza condivisa”. Il principio sotteso all’ultimo programma quadro di finanziamento della ricerca in Europa, Horizon2020, era “as open as possible, as closed as necessary”: tut- ti i dati e i risultati devono essere sempre aperti per principio, a meno che ci siano precisi e ben motivati ostacoli quali privacy o sicurezza. Il prossimo pro- gramma quadro, Horizon Europe, in avvio dal 2021, sarà ancora più “aperto” perché non solo conterrà gli stessi obblighi su testi e dati, ma sarà basato su cin- que “mission”, ovvero grandi capitoli di ricerca, che per natura sono interdisciplinari: e senza scienza aperta l’interdisciplinarietà è ardua. La Commissione Europea ha sostenuto la scienza aperta non solo come ente finanziatore della ricerca ma anche come legislatore: la Raccomandazione 790 del 201813 riconosce infatti la scienza aperta come “strategica”, elemento fondamentale per gli stati membri che vogliano assicurare innovazione aperta e ricerca responsabile. Prendendo in considerazione ogni tassello della scienza aperta, la Raccomandazione prevede che ogni stato membro e ogni ente di ri- cerca adotti politiche sull’accesso aperto ai testi e ai dati, che modifichi i criteri di valutazione di ricerca tenendo conto delle pratiche Open, che sostenga le infrastrutture di ricerca, che assicuri la formazione di nuove competenze per i ricercatori e i tecnici. Nel corso degli ultimi anni la Commissione Europea ha anche pubblicato rapporti e guide sui temi cruciali 13 Raccomandazione (UE) 2018/790 della Commissione del 25 aprile 2018 sull’accesso all’informazione scientifica e sulla sua conservazione, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/ HTML/?uri=CELEX:32018H0790. 290 una postfazione ragionata della valutazione della ricerca, delle competenze per la scienza aperta, di nuove misure di impatto, per so- stenere in modo concreto la creazione di consapevo- lezza e la diffusione di politiche aperte14. In Europa paesi quali la Francia, l’Olanda, la Finlandia, l’Austria hanno già adottato Piani Nazionali per la scienza aperta che prevedano azioni concrete e obiettivi mi- surabili per testi, dati, valutazione e formazione – su questo l’Italia è un po’ in ritardo. I dati FAIR e la European Open Science Cloud Le novità maggiori rispetto al 2013 si registrano però per i dati della ricerca. La Commissione ha fatto propri nei programmi di finanziamento della ricerca i principi FAIR (Findable, Accessible, Interoperable, Reusable – Reperibili, Accessibili, Interoperabili, Riusabili)15 che assicurano il più ampio riuso possibi- le, anche da parte delle macchine e dell’intelligenza artificiale, per i dati generati con fondi interamente o prevalentemente pubblici. A livello legislativo, la Direttiva 102416 del 2019 equipara i dati della ricer- 14 Evaluation of research careers fully acknowledging Open Science practices, 2017, https://ec.europa.eu/research/open- science/pdf/os_rewards_wgreport_final.pdf, Providing rese- archers with the competences and skills they need to practise Open Science, 2017, http://ec.europa.eu/research/openscien- ce/pdf/os_skills_wgreport_final.pdf, Open Science, Altmetric and reward, 2018, https://rio.jrc.ec.europa.eu/en/file/12319/ download?token=wDanwJls. 15 “The FAIR Guiding Principles for scientific data management and stewardship”, Nature Scientific data, 2016, https://www.na- ture.com/articles/sdata201618. 16 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazio- 291 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. ca ai dati del settore pubblico (cosiddetta public sec- tor information o PSI), che hanno quindi l’obbligo di essere aperti per favorirne il riuso, poiché i dati, a differenza di altri beni, possono essere usati con- temporaneamente da più soggetti senza perdere il proprio valore – anzi, aumentandolo grazie ai ritorni sull’intera società. Per favorire la diffusione delle pratiche di scienza aperta e di riuso dei dati, dal 2016 la Commissione Europea ha avviato con ingenti finanziamenti e un enorme sforzo organizzativo il processo verso la European Open Science Cloud, che diventerà opera- tiva a fine 2020. La European Open Science Cloud non è un cloud in senso informatico, né una infra- struttura di ricerca, ma un ambiente virtuale in cui produttori di dati, produttori di servizi e innovatori si incontreranno. La European Open Science Cloud darà accesso ai dati FAIR in modo trasparente, ren- dendo ricerca e innovazione più efficaci e fluide, evi- tando la “situazione insostenibile” di cui parlava la presidente Von der Leyen a Davos nel 2020 per cui l’85% dei dati generati con fondi pubblici non viene utilizzato17. In Italia il soggetto che ha preso in carico il coordinamento delle attività per la European Open Science Cloud è ICDI18, il consorzio delle infrastrut- ture di ricerca recentemente formatosi proprio per coordinare gli sforzi in ambito europeo. ne del settore pubblico, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/ IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32019L1024. 17 Keynote speech by President Von der Leyen at the World Economic Forum, 22 gennaio 2020, https://ec.europa.eu/ commission/presscorner/detail/en/SPEECH_20_102. 18 ICDI, Italian Computing and data Infrastructure, https://www. icdi.it/it/. 292 una postfazione ragionata Va sottolineato che la European Open Science Cloud è anche una enorme opportunità di lavoro per professionalità elevate: per rendere i dati FAIR e ge- stirli correttamente serviranno mezzo milione di data stewards, una nuova figura che deve unire a compe- tenze di dominio sui dati delle singole aree di ricerca competenze tecniche sui formati, gli standard, le li- cenze – occorrono quindi dottori di ricerca o speciali- sti della materia. Prendersi cura dei dati della propria ricerca è una questione di etica e di integrità, non solo di riuso. Per questo ogni ente finanziatore dovrebbe vincolare il 5% di ogni fondo di ricerca alla cura dei dati e alla loro “FAIRificazione”19: dati gestiti bene e resi FAIR snelliscono i tempi della ricerca, la rendo- no più fluida ed efficace. Assumere un data steward assicura quindi ottimi ritorni sull’investimento. I testi, e la lenta transizione all’accesso aperto Per quanto riguarda l’accesso aperto ai testi – arti- coli e volumi, materiale didattico – alla situazione de- lineata da Weller si sono aggiunti ulteriori elementi di complessità. Un ottimo punto di partenza è la magistrale Analisi condotta da Claudio Aspesi per il consorzio SPARC20. Nel rapporto, che prende in considerazione sia risor- se accademiche sia didattiche, che larga parte hanno nel volume di Weller, vengono delineate le strategie di acquisizione ed espansione dei principali gruppi 19 Mons, Barend, “Invest 5% of research funds in ensuring data are reusable”, Nature 578, 491 (2020). doi: https://doi.org/10.1038/ d41586-020-00505-7. 20 Aspesi, Claudio, et al., SPARC Landscape Analysis, 29 Marzo 2019, https://doi.org/10.31229/osf.io/58yhb. 293 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. editoriali, che mostrano come l’interesse precipuo non sia più solo la pubblicazione intesa in senso tra- dizionale, ma il controllo di una serie di servizi che coprono l’intero ciclo della ricerca, e dei dati utili alla valutazione e alla definizione delle strategie di ricerca dei singoli atenei. Il messaggio è chiaro: occorre in- vestire in infrastrutture aperte ed evitare di delegare a soggetti terzi commerciali la raccolta e gestione di dati che possono risultare strategici per le istituzio- ni di ricerca. Sulle infrastrutture aperte si concentra non a caso anche un’altra iniziativa, in questo caso promossa da SPARC Europe con altri partner, per l’analisi del panorama21 e il sostegno economico con- creto a infrastrutture aperte a sostegno della ricerca22. Fra i ricercatori, invece, accesso aperto e comunica- zione scientifica aperta sono ancora oggetto di disin- formazione e di preconcetti: vale la pena leggere la magistrale disamina dei dieci miti più diffusi, fra cui l’editoria predatoria, una scarsa qualità delle revisio- ni, le spese di pubblicazione…23 Si tende poi a parlare di accesso aperto solo per articoli e riviste – come accade anche nel volume di Weller – ma non dimentichiamo che nelle scienze umane e sociali la monografia di ricerca, il libro, sono ancora il canale preferenziale di comunicazione. Per questo negli ultimi anni la riflessione intorno ai libri in accesso aperto è cresciuta: sono usciti importanti 21 SPARC Europe, Scoping the Open Science Infrastructure Landscape in Europe, 2020, https://sparceurope.org/ new-sparc-europe-report-out-scoping-the-open-science-infra- structure-landscape-in-europe/. 22 SCOSS, Sustainability Coalition for Open Science Services, ht- tps://scoss.org/. 23 Tennant, Jonathan et al, Ten myths around open scholarly publi- shing, PeerJ preprint, 2019, https://peerj.com/preprints/27580/. 294 una postfazione ragionata rapporti che fotografano il panorama e tracciano una via per il futuro24, progetti sulla sostenibilità econo- mica di infrastrutture aperte per la pubblicazione25, strumenti pratici per favorire la pubblicazione26, una comunità per la discussione27, e l’infrastruttura di ri- cerca OPERAS28 sta proponendo un ecosistema che si prenda cura dell’intero ciclo della comunicazione scientifica nelle scienze umane, offrendo strumenti di ricerca, di analisi, di pubblicazione e di dissemina- zione, perché mai come nelle scienze umane e socia- li un libro è a sua volta oggetto di nuova ricerca o di un colloquio sempre aperto con la società. La pandemia ha messo in evidenza la necessità as- soluta di avere accesso immediato ai risultati e ai dati della ricerca. Gli editori commerciali sull’onda del clima di emergenza globale si sono affrettati ad apri- re – ma solo per la durata dell’emergenza – tutti gli articoli su ricerche correlate al COVID-19, rendendo ancora una volta manifesto quanto sia disfunziona- le il sistema attuale: aprire solo certi articoli e solo a tempo determinato è un’ammissione implicita che tenere chiusi gli articoli dietro abbonamento fa solo gli interessi degli editori, e non quelli della scienza. Viene da chiedersi quindi: perché aprire solo gli arti- coli sul COVID 19? Forse il cancro, o l’Alzheimer, o il cambiamento climatico, o la violenza di genere sono 24 Knowledge Exchange, Landscape study on Open Access mono- graph, 2019, https://www.knowledge-exchange.info/event/ open-access-monographs. 25 COPIM, Community-led Open Publication Infrastructures for Monographs, https://www.copim.ac.uk/. 26 Open Access book toolkit, https://oabooks-toolkit.org/. 27 Open access books network, https://hcommons.org/groups/ open-access-books-network/. 28 OPERAS, https://www.operas-eu.org/. 295 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. ricerche meno importanti? Tutta la ricerca deve esse- re aperta, anche perché “non possiamo stabilire oggi che cosa potrà essere interessante e portare a nuove scoperte domani”, come sottolinea il coordinatore di PlanS Johan Roorick29. PlanS è la novità più rilevante nel campo della co- municazione scientifica, ed è stata lanciata nel set- tembre 2018 da una coalizione di enti finanziatori della ricerca guidati da Science Europe (CoalitionS) per accelerare la transizione definitiva verso l’acces- so aperto – la S sta per speed, velocità30. Preso atto che a oltre 15 anni di distanza dalla Dichiarazione di Berlino il tasso di articoli disponibili in accesso aper- to si aggira ancora intorno al 20%, e che di questo passo serviranno ancora anni per raggiungere l’obiet- tivo fissato dal Consiglio sulla Competitività dell’U- nione europea del maggio 201631 – ovvero la totalità delle pubblicazioni finanziate pubblicate in accesso aperto – un nutrito gruppo di enti ha stabilito che tutta la ricerca finanziata con i loro fondi dovrà esse- re ad accesso aperto a partire dal 1 gennaio 2021. La prima versione di PlanS prevedeva il 1 gennaio 2020; la data è stata spostata in avanti a causa delle reazioni variegate del mondo della ricerca e degli editori in particolare. Argomenti pretestuosi si erano appuntati sulla pretesa mancanza di libertà accademica – che consiste nell’essere liberi di fare ricerca su qualsiasi argomento, non su dove pubblicare, anche perché le 29 Roorick, Johan, Open Access lessons during Covid-19: No lockdown for research results!, giugno 2020, https://www.coalition-s.org/ open-access-lessons-during-covid-19-no-lockdown-for-resear- ch-results/. 30 CoalitionS – PlanS https://www.coalition-s.org/. 31 Consiglio competitività 26 maggio 2016, https://www.consi- lium.europa.eu/it/meetings/compet/2016/05/26-27/. 296 una postfazione ragionata scelte oggi sono pesantemente influenzate dai criteri di valutazione della ricerca – o sui tempi ridotti per le modifiche tecniche richieste per essere conformi, come se peraltro non fossero state le stesse che ven- gono richieste da 15 anni. Il pilastro su cui si basa PlanS è chiaramente espresso nel Preambolo: “i ri- cercatori stanno facendo un grosso disservizio alla scienza continuando a pubblicare in riviste che sono chiuse dietro abbonamento. Ci rendiamo conto che possono essere spinti a farlo da un sistema di incen- tivi male indirizzati, che pongono troppa enfasi sugli indicatori sbagliati (ad esempio l’Impact Factor). Per questo ci impegniamo a rivedere sostanzialmente i nostri criteri di valutazione della ricerca”32. La forza di PlanS sta nei suoi dieci principi33, fra i quali spiccano la richiesta che gli autori mantengano i diritti sui propri lavori, che le spese di pubblicazione ove presenti (vengono richieste, occorre sempre sotto- linearlo, solo dal 27% delle riviste ad accesso aperto34) siano pagate dall’ente e non dal singolo, che ci sia un tetto alle spese stesse e che non siano ammesse le rivi- ste ibride, ossia quelle che generano una doppia spesa per le istituzioni perché pur restando in abbonamento offrono di aprire singoli articoli dietro pagamento. PlanS è un’iniziativa articolata, che mira ad affron- tare il tema dell’accesso aperto ai testi in modo orga- nico. In seguito al dibattito apertosi in seno alla co- munità scientifica sono state specificate le modalità con cui si può essere conformi a PlanS: pubblicando 32 Perché PlanS, https://www.coalition-s.org/why-plan-s/. 33 PlanS,iprincipi,https://www.coalition-s.org/addendum-to-the-co- alition-s- guidance- on-the-implementation- of-plan-s/ principles-and-implementation/. 34 Directory of Open Access journals, percentuale di riviste che richiedono APC sul totale, https://tinyurl.com/yyz4fxuc. 297 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. su riviste o piattaforme (lo vedremo fra poco, que- ste possono essere la vera rivoluzione) Open Access, depositando negli archivi (la consueta green road dell’autoarchiviazione ma senza embargo) o pubbli- cando in una rivista tradizionale purché sotto con- tratto trasformativo. I contratti trasformativi di cui diremo fra poco possono essere – se correttamente intesi – un’ottima leva per favorire la transizione. I due aspetti più significativi di PlanS sono due iniziative complementari: in primis la Right reten- tion strategy35, la strategia secondo la quale gli autori devono mantenere i diritti sulla loro opera, per cui gli editori verranno informati preventivamente che l’autore finanziato da CoalitionS dovrà pubblicare con una licenza CC BY e dovrà poter autoarchivia- re il proprio lavoro senza alcun periodo di embargo (tecnicamente, l’embargo è un periodo richiesto dagli editori in cui il file pur essendo depositato nel repo- sitory non risulta visibile agli utenti, e può arrivare fino a 48 mesi). Questo ci permette di sottolineare che PlanS è stato inteso fin dall’inizio per gli editori, perché modifichino più rapidamente il loro modello di business, non per gli autori. Vi è poi il Price and service transparency fra- mework36, ovvero uno schema in base al quale gli editori devono specificare per quali servizi vengo- no pagate le spese di pubblicazione (APC, Article Processing Charges) suddividendo la cifra in specifi- ci capitoli. Per PlanS, inoltre, le spese così dettagliate devono essere coerenti con il tipo di servizio offer- to. Questo è un importante passo avanti per scalfire 35 PlanS right retention strategy, https://www.coalition-s.org/ rights-retention-strategy/. 36 PlanS price and service transparency framework, https://www. coalition-s.org/price-and-service-transparency-frameworks/. 298 una postfazione ragionata quella logica del prestigio delle riviste, per cui si paga il marchio e non l’effettivo servizio. Uno dei due schemi per il dettaglio dei prezzi vie- ne dall’iniziativa FOAA, Fair Open Access Alliance37, nata qualche anno fa sulla scia della battaglia intra- presa dal comitato editoriale della rivista Lingua, in- teramente dimessosi in seguito al rifiuto dell’editore Elsevier di garantire il passaggio a una pubblicazione in accesso aperto in termini equi. I principi di FOAA prevedono che la rivista abbia una proprietà chiara e trasparente, nelle mani della comunità scientifica, che gli autori mantengano i diritti, che le spese di pubblicazione siano commisurate agli effettivi servi- zi offerti. Pagare per i servizi offerti è il concetto alla base dei cosiddetti “transformative agreements”, i contratti tra- sformativi38, che riguardano le riviste ibride degli edi- tori commerciali tradizionali, quelle che pur restando in abbonamento offrono un’opzione Open dietro pa- gamento di una somma ulteriore. Il processo verso la trasformazione è lungo e complesso: si parte dal quantificare la cifra spesa per le spese di pubblicazio- ne in accesso aperto, che al momento non sono trac- ciate dalle singole istituzioni e sono quindi fuori dalla somma già pagata per gli abbonamenti come definite nei contratti nazionali, per poi gradualmente trasferi- re la somma che si paga per gli abbonamenti verso il pagamento di servizi di pubblicazione, posto che tutti gli articoli verranno pubblicati in accesso aperto. Una volta scardinato il sistema dei “big deals” attualmente in vigore, per cui si pagano abbonamenti per pacchetti 37 FOAA, https://www.fairopenaccess.org/. 38 ESAC initiative, Transformative agreements, https://esac-initia- tive.org/about/transformative-agreements/. 299 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. di riviste indipendentemente dal loro uso, il singolo ricercatore dovrebbe essere incentivato a pubblicare sulla rivista che offre i migliori servizi editoriali, ripor- tando un minimo di competizione all’interno del mer- cato anelastico delle pubblicazioni scientifiche oggi solo governato dalla regola del prestigio, e non della domanda e dell’offerta. Va da sé che anche in questo caso, come per PlanS che il movimento OA202039 – la coalizione internazionale che coordina chi negozia contratti trasformativi – supporta in piena consonan- za, il presupposto è che cambino i criteri di valutazio- ne della ricerca, e si inizi a valutare il singolo lavoro invece della sua sede editoriale. Poiché il panorama è in rapida evoluzione, si stan- no sperimentando diversi modelli di contratti tra- sformativi, ben delineati nel recente rapporto della European University Association40. Uno di questi, il Read&Publish, è frutto del Rapporto Finch citato da Weller, che ha rivelato nel lungo periodo la sua falla- cia: pagando sia per leggere sia per pubblicare, non solo non c’è stata trasformazione perché di fatto si perpetuava il modello ibrido, ma le spese per le APC sono cresciute secondo la stessa logica aberrante del prestigio che ha portato alla spirale insostenibile dei prezzi delle riviste scientifiche negli ultimi 30 anni41. I contratti più recenti, Publish&Read, si basano in- vece sulla somma storicamente spesa per gli abbo- namenti, divisi per il numero di articoli pubblicati 39 OA2020 initiative, https://oa2020.org/. Sulla pagina si trova anche un Report sui progressi dei contratti trasformativi. 40 EUA, Read and publish contracts in the context of a dynamic scholarly publishing system, luglio 2020, https://eua.eu/re- sources/publications/932:read-publish-agreements.html. 41 JISC report Article processing charges (APCs) and subscriptions, 2016, https://www.jisc.ac.uk/reports/apcs-and-subscriptions. 300 una postfazione ragionata dagli autori di quella nazione, da cui risulta la quota per articolo. Questa a sua volta viene moltiplicata per il numero di articoli attesi, creando una situazione di rischio condiviso: se l’editore offre buoni servizi e gli articoli saranno in numero maggiore, il contratto sarà vantaggioso per le istituzioni; qualora invece gli artico- li pubblicati fossero in numero inferiore, le istituzio- ni avrebbero uno svantaggio. Va da sé che per poter negoziare su queste basi occorre avere i dati precisi a livello nazionale, e qui la realtà nelle diverse nazioni è assai variegata. I contratti Publish&Read sono un’evo- luzione positiva, ma hanno pur sempre evidenti criti- cità, perché si basano sulla somma storicamente spesa da una nazione per un editore, portando ad aberrazio- ni quali il recente contratto con l’editore Nature, che prevede una quota per articolo esorbitante42. La vera rivoluzione sarebbe stato adottare lo schema di simu- lazione proposto nel Libro bianco43 del 2015, in cui si proponeva di decidere a priori una quota per le spese di pubblicazione, senza dividere per la spesa storica: così sì si sarebbero ottenuti ingenti risparmi. Ma ci si scontra contro l’atteggiamento degli editori, che pre- tendono di essere pagati per la pubblicazione e per l’Open Access come fossero due servizi diversi – men- tre tradizionalmente gli abbonamenti hanno sempre coperto pubblicazione e lettura. 42 Van Noorden, Richard, Nature journals announce first open-ac- cess agreement, ottobre 2020, https://www.nature.com/articles/ d41586-020-02959-1. 43 Disrupting the subscription journals’ business model for the necessary large-scale transformation to open ac- cess, Max Planck Gesellschaft, 2015, http://hdl.handle. net/11858/00-001M-0000-0026-C274-7. 301 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. Il vantaggio innegabile è che i contratti trasformati- vi sono finalmente pubblici44, e non più blindati die- tro le clausole di riservatezza imposte dagli editori, per cui in Italia non sapevamo quanto pagavano per lo stesso pacchetto in Germania e viceversa. I contratti trasformativi, come dice il nome stesso, sono e devono essere temporanei, strumento ver- so un passaggio il più rapido possibile all’accesso aperto. L’orizzonte temporale è quindi due/tre anni al massimo, deve essere esplicito l’impegno verso la “trasformazione”, e deve essere previsto l’accesso aperto per tutti gli autori di quella specifica nazione. Purtroppo questo non è quanto accaduto in Italia: oltre a essere in grave ritardo rispetto ad altri paesi, non sembra che i contratti firmati finora a livello na- zionale rispecchino queste caratteristiche45. Un’altra differenza, fondamentale, fra quanto avviene nel no- stro paese e analoghe esperienze internazionali sta nella consapevolezza e nel supporto da parte della co- munità di ricerca: all’Università della California e al MIT di Boston, quando Elsevier ha chiuso l’accesso per l’intero campus della California a tutte le riviste dopo aver interrotto le trattative, la comunità è sta- ta solidale nel sostenere la posizione dei negoziatori dell’università per un bene collettivo maggiore, ovve- ro ottenere l’accesso aperto e immediato per tutti46. 44 Si veda ad esempio il contratto firmato fra l’editore Wiley e i negoziatori tedeschi del consorzio Project DEAL: https://www. projekt-deal.de/wiley-contract/. 45 Galimberti, Paola, Contratti trasformativi: a vantaggio di chi?, ROARS, 9 settembre 2020, https://www.roars.it/online/ contratti-trasformativi-a-vantaggio-di-chi/. 46 The University of California and Elsevier: An Interview with Jeff MacKie-Mason, Scholarly Kitchen, maggio 2019, https:// scholarlykitchen.sspnet.org/2019/05/06/the-university-of-ca- lifornia-and-elsevier-an-interview-with-jeff-mackie-mason/ e 302 una postfazione ragionata In Italia siamo ancora a polemiche sterili sul pagare per pubblicare, e l’accesso aperto è ancora poco co- nosciuto tra i ricercatori, se si esclude qualche sin- golo coraggioso. Del resto, in paesi quali l’Olanda, la Svezia, la Finlandia o la Francia la contrattazione trasformativa fa parte di una visione più ampia, con- tenuta nei Piani Nazionali per la scienza aperta, e ha obiettivi temporali ben precisi entro i quali l’intera produzione nazionale deve essere trasformata. Non solo: mentre negli Stati Uniti e negli altri paesi euro- pei i negoziatori hanno un mandato preciso su quali siano le richieste da ottenere (accesso aperto per tutti, riduzione o parità dei costi), in Italia ciò che viene of- ferto agli atenei per la firma è il contratto già conclu- so, senza alcuna possibilità di discutere nel merito, ovvero “per cosa” si sta pagando, né una possibilità reale di interrompere le contrattazioni47. Posizioni più decise sarebbero invece utili a scardi- nare il sistema attuale, per cui ogni anno nel mondo si pagano 7.6 miliardi di dollari in abbonamenti a ri- viste, chiudendo di fatto il contenuto per tutti quel- li che non possono sottoscrivere un abbonamento, inclusi professionisti, piccole e medie imprese, start up, innovatori… Non dimentichiamo che il contenu- to scientifico viene fornito dagli autori gratuitamente sotto forma di articolo, e altrettanto gratuitamente viene revisionato dagli esperti attraverso il sistema della peer review. MIT, guided by open access principles, ends Elsevier negotia- tions, giugno 2019 http://news.mit.edu/2020/guided-by-o- pen-access-principles-mit-ends-elsevier-negotiations-0611. 47 Pievatolo, Maria Chiara, Accordi trasformativi, un’offerta che non si può rifiutare?, AISA, luglio 2020 https://aisa.sp.unipi.it/ accordi-trasformativi-unofferta-che-non-si-puo-rifiutare/. 303 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. Lo scenario futuro è perfettamente delineato nel ci- tato Rapporto EUA, in cui vengono prese in esame con punti di forza e di debolezza quattro possibili alternative: mantenimento della situazione attuale ibrida con accesso aperto tramite deposito Green; contratti Publish&Read; accesso aperto globale su piattaforme proprietarie degli editori, accesso aperto globale su piattaforme aperte e pubbliche. L’ultima soluzione è quella auspicabile, funzionale agli inte- ressi della scienza, e di una comunità di ricerca che si riappropria della comunicazione scientifica48. Utopia? No, i primi passi si vedono già. La Commissione Europea a fine 2020 lancia Open Research Europe49, una piattaforma di pubblicazio- ne gratuita per chi scrive e per chi legge, sul model- lo del successo di analoghe piattaforme della Gates Foundation e dell’ente di finanziamento britannico Wellcome Trust50. Open Research Europe assicurerà una pubblicazione rapida e trasparente della ricer- ca sotto forma di preprint, cui viene associata la re- visione dei pari (peer review) aperta e la possibilità di commenti da parte dei ricercatori, riportando la comunicazione scientifica al suo ruolo di “grande conversazione”. I preprint, ovvero gli articoli appena terminati da- gli autori, senza che siano stati ancora revisionati dai pari, hanno giocato un ruolo importante durante la pandemia da COVID19. Fino a qualche anno fa era- 48 EUA, Read and publish contracts in the context of a dynamic scholarly publishing system, luglio 2020, https://eua.eu/re- sources/publications/932:read-publish-agreements.html. 49 Open Research Europe, ORE, https://open-research-europe. ec.europa.eu/. 50 Si veda Gates Open research https://gatesopenresearch.org/ e Wellcome Open research https://wellcomeopenresearch.org/. 304 una postfazione ragionata vamo abituati a considerarli solo il primo stadio del processo di pubblicazione, ovvero il preprint come la versione inviata alla rivista al momento della propo- sta di pubblicazione da parte degli autori. In realtà negli ultimi anni, sulla scia del più famoso arXiv, l’ar- chivio di preprint dei fisici nato nel 1991, sono nati archivi disciplinari quali biorXiv, medarXiv, psychar- Xiv, agriarXiv in cui il preprint si è affermato come canale di comunicazione a sé stante, ovvero senza che sia prevista una successiva proposta a una rivista, con innegabili vantaggi: comunicazione immediata dei risultati della ricerca, senza attendere i tempi a volte biblici (fino a due anni o più) di pubblicazio- ne sulla rivista, discussione aperta con gli esperti, e ai fini valutativi focus sul contenuto invece che sul contenitore, come dovrebbe essere una sana valu- tazione della ricerca. Nel corso della pandemia si è registrato un incremento esponenziale di pubblica- zioni di preprint, proprio grazie alla loro caratteristi- ca di mettere subito a disposizione della comunità scientifica i risultati di una ricerca51. Se non utilizzati correttamente, ovvero se non inseriti in una corretta pratica di scienza aperta (messa a disposizione dei set di dati, dei metodi, dei protocolli, di tutta la docu- mentazione atta a far comprendere l’esperimento o la ricerca) i preprint possono mostrare anche qualche limite, come appunto si è potuto riscontrare durante la pandemia52. 51 All that’s fit to preprint, editorial, Nature Biotechnology, maggio 2020, https://www.nature.com/articles/s41587-020-0536-x. 52 Borrelli, Giovanna e Sparano, Francesco, “Scienza aperta e Covid-19: che cosa non ha funzionato. Ma la condivisione è la strada giusta”, Altreconomia, settembre 2020. L’articolo è una intervista a Paola Masuzzo, autrice fra gli altri di Besancon, Lonnie et al. Open Science Saves Lives: Lessons from the 305 accesso aperto, conoscenza aperta: cosa è cambiato dal 2013. Esistono poi nuovi strumenti quali gli Open Lab Notebook, che contengono testo, dati, metodi, softwa- re attivabile, in una parola l’intero esperimento e non solo la sua estrema sintesi che può essere pubblicata in un articolo tradizionale in pdf53. O ancora una piat- taforma come Hypergraph54, che riunisce le caratte- ristiche di un lab notebook con altri servizi a valore aggiunto, corredando l’esperimento o la ricerca di tutti gli elementi che la costituiscono e la valorizzano. Il futuro di una comunicazione scientifica aperta è forse più vicino di quanto immaginiamo, purché le agenzie nazionali e le istituzioni abbiano il coraggio di virare dall’attuale sistema di valutazione della ri- cerca, che è il cardine grazie al quale l’attuale sistema disfunzionale delle riviste scientifiche e del loro pre- stigio si perpetua. Una valutazione più consapevole dovrebbe tener conto e valorizzare tutti gli elementi della ricerca e non solo la sintesi finale sotto forma di articolo, ovvero i dati, i metodi, il codice, fino alle revisioni tra pari, e dovrebbe permettere agli autori di utilizzare tutti i canali possibili (piattaforme, pre- print, notebook) per una comunicazione immediata, invece di mantenerli entro il perimetro ormai un po’ obsoleto delle riviste. Elena Giglia (dicembre 2020) COVID-19 Pandemic, preprint, ottobre 2020, https://doi. org/10.1101/2020.08.13.249847. 53 Open notebook science, Wikipedia, https://en.wikipedia.org/ wiki/Open-notebook_science. 54 Hypergraph, https://blog.libscie.org/introducing-hypergraph-beta/. 306 Nella stessa collana Titolo: Open Source, Software libero e altre libertà Sottotitolo: Un’introduzione alle libertà digitali Autore: Carlo Piana ISBN: 9788867057665 Formato: cartaceo, 157 p. Prezzo: 16 € Titolo: Didatticaduepuntozero Sottotitolo: Scenari di didattica digitale condivisa A cura di: Alberto Panzarasa ISBN: 9788867055456 Formato: cartaceo, 140 p. Prezzo: 14,00 € CITTADINANZA DIGITALE Andrea Trentini, Giovanni Biscuolo, Andrea Rossi IVISMO INIZIA DAI BIT E TECNOCIVISMO dono automatica- e essere neutrale ezza va asservito IN UN MONDO DIGITALE Titolo: Cittadinanza digitale e tecnocivismo diritti o merci? La LA CITTADINANZA INIZIA DAI BIT Sottotitolo: Nel mondo digitale la cnologia: traspa- Risponderemo a endersi conto che tostanti i processi VOLUME PRIMO peremo a questa cittadinanza inizia dai bit ecnico, delle tec- attivisti politici, gli Andrea Trentini, Giovanni Biscuolo, Andrea Rossi rs, i professionisti ici, categorie che e, politica e tec- A cura di Andrea Trentini, Giovanni irizzare la società CITTADINANZA DIGITALE E TECNOCIVISMO Biscuolo, Andrea Rossi nformatica dell’Uni- Digitale e Tecnocivi- bero e della condivi- o quanto. ISBN: 9788855261609 co di un’azienda in- uppo e supporto di ware Libero non per ca a funzionare: nel è founder&CEO di egnata per la ri-de- Formato: cartaceo, 361 p. 18 euro Prezzo: 18 € Nella stessa collana Titolo: Fare Open Access Sottotitolo: La libera diffusione del sapere scientifico nell’era digitale Autore: Simone Aliprandi ISBN: 9788867056019 Formato: cartaceo, 194 p. Prezzo: 14 € Titolo: Creative Commons: manuale operativo Sottotitolo: Una guida pratica e un’introduzione teorica al mondo CC Autore: Simone Aliprandi ISBN: 9788867051342 Formato: ePub Prezzo: 1,99 € Titolo: Il fenomeno open data Sottotitolo: Indicazioni e norme per un mondo di dati aperti Autore: Simone Aliprandi ISBN: 9788867051687 Formato: cartaceo, 112 p. Prezzo: 12 € Per questi e altri titoli visita www.ledizioni.it LA BATTAGLIA PER L’OPEN COME L’OPEN HA VINTO, MA NON SEMBRA UNA VITTORIA Digitalizzazione pervasiva e iperconnessione ci rendono automatica- mente cittadini più informati e partecipi? La Rete deve essere neutrale o “indirizzata” per il nostro bene? Il diritto alla riservatezza va asservito all’interesse superiore? Le infrastrutture digitali sono diritti o merci? La conoscenza deve essere accessibile a tutti? E la tecnologia: traspa- rente o oscura? La Cittadinanza Digitale è possibile? Risponderemo a queste ed altre domande rivolgendoci a chi inizia a rendersi conto che la piena consapevolezza sugli aspetti tecnologici sottostanti i processi sociali, politici ed economici è importante. Ci aggrapperemo a questa consapevolezza costruendo un quadro, pur a tratti tecnico, delle tec- nologie connesse alla Cittadinanza Digitale. I nostri lettori ideali sono in particolare gli studenti, gli attivisti politici, gli accademici, gli amministratori pubblici, i policy makers, i professionisti delle tecnologie (ad esempio gli sviluppatori) e i politici, categorie che tradizionalmente ricoprono ruoli di “influenza” sociale, politica e tec- nologica e che quindi potrebbero e dovrebbero indirizzare la società verso il bene comune. Martin Weller Martin Weller è professore di Educational Technology alla Open University del Regno Unito. Ha diretto il primo e principale corso di elearning alla OU nel 1999, che contava più di 120.000 studenti, e ha portato avanti diverse grandi iniziative di elearning. Ha cominciato a bloggare nel 2005 interessandosi all’impatto delle nuove tecnologie sulla pratica accademica. Al momento è direttore del progetto OER Research Hub e ha la cattedra ICDE in OER. Simone Aliprandi Martin Weller è professore di Educational Technology alla Open University del Regno Unito. Ha diretto il primo e principale corso di elearning alla OU nel 1999, che contava più di 120.000 studenti, e ha portato avanti diverse grandi iniziative di elearning. Ha cominciato a bloggare nel 2005 interessandosi all’impatto delle nuove tecnologie sulla pratica accademica. Al momento è direttore del progetto OER Research Hub e ha la cattedra ICDE in OER. Elena Giglia Elena Giglia è responsabile dell’Unità di progetto Open Access dell’Università di Torino. Svolge una intensa attività di formazione e promozione su logiche e vantaggi dell’accesso aperto e sulla comunicazione scientifica. È membro del Gruppo di lavoro “Open Access” della CRUI e di AISA, l’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta. www.ledizioni.it 18 euro www.ledipublishing.com
Authors Martin Weller Simone Aliprandi
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