DOKK Library

Cultura libera

Authors Lawrence Lessig

License CC-BY-NC-1.0

Plaintext
1
2
Cultura libera

Lawrence Lessig




       3
Questo ebook è pubblicato da Apogeo Editore (marchio di IF - Idee editoriali Feltrinelli s.r.l.) e rilasciato
sotto una licenza Creative Commons BY-NC.

Nomi e marchi citati nel testo sono generalmente depositati o registrati dalle rispettive case produttrici.

~

Sito web: www.apogeonline.com

Scopri le novità di Apogeo su Facebook

Seguici su Twitter

Collegati con noi su LinkedIn

Guarda cosa stiamo facendo su Instagram

Rimani aggiornato iscrivendoti alla nostra newsletter




                                                        4
                                                         Introduzione




   Il 17 dicembre 1903, su una ventosa spiaggia del North Carolina i fratelli Wright dimostrarono, per
una durata appena inferiore ai cento secondi, che un veicolo più pesante dell’aria, dotato di propulsione
propria, era in grado di volare. Fu un momento entusiasmante e la sua importanza venne ampiamente
compresa. Quasi immediatamente, ci fu un’esplosione d’interesse per questa nuova tecnologia del volo
umano, e un’ondata di innovatori iniziò a costruire su di essa.
   All’epoca in cui i fratelli Wright inventarono l’aeroplano, la legislazione americana sosteneva che il
proprietario di un terreno ne possedeva di conseguenza non soltanto la superficie, ma tutta la terra al di
sotto, fino al centro della terra, e tutto lo spazio al di sopra, “fino a un’estensione indefinita, verso
l’alto”1. Per molti anni, gli studiosi si erano chiesti come interpretare correttamente l’idea che i diritti
sulla terra potessero estendersi fino al cielo. Ciò significava forse che si possedevano anche le stelle? Si
potevano denunciare le oche per le continue e volontarie violazioni?
   Poi arrivarono gli aeroplani, e per la prima volta questo principio della legislazione americana -
profondamente innestato nella tradizione, e riconosciuto da gran parte dei maggiori studiosi di diritto del
passato - divenne importante. Se il mio terreno arriva fino al cielo, che cosa succede quando la United ci
vola sopra? Ho il diritto di vietarne il passaggio sulla mia proprietà? Mi è consentito firmare una licenza
esclusiva con Delta Airlines? Possiamo organizzare un’asta pubblica per decidere il valore di tali diritti?
   Nel 1945, queste domande divennero un caso federale. Quando Thomas Lee e Tinie Causby, contadini
del North Carolina, iniziarono a perdere i polli a causa dei voli a bassa quota degli aerei militari (sembra
che i polli volassero terrorizzati contro le pareti del granaio e morissero), i Causby sporsero denuncia
sostenendo che il governo violava illegalmente la loro proprietà terriera. Gli aeroplani, naturalmente, non
toccavano mai la superficie del terreno dei Causby. Ma se, come avevano sostenuto Blackstone, Kent e
Coke, la proprietà raggiungeva “un’estensione indefinita, verso l’alto”, allora il governo stava violando
tale proprietà, e i coniugi Causby volevano impedirlo.
   La Corte Suprema accettò di esaminare il caso. Il Congresso aveva dichiarato pubbliche le strade
dell’aria, ma se la proprietà di qualcuno si estendeva veramente fino al cielo, allora la dichiarazione del
Congresso avrebbe ben potuto configurarsi come una “appropriazione” incostituzionale della proprietà
senza compenso. La Corte riconobbe che “esiste un’antica dottrina secondo cui nel diritto
consuetudinario, o sistema giuridico a ‘common law’2, la proprietà di un terreno si estende fino alla
periferia dell’universo”. Ma il giudice Douglas non aveva molta soggezione verso le antiche dottrine. In
unico paragrafo, vennero cancellati centinaia di anni di leggi sulla proprietà. Così scrisse Douglas a nome
della Corte:
  [Tale] dottrina non ha spazio nel mondo moderno. L’aria è un’autostrada pubblica, come ha dichiarato il Congresso. Se
  ciò non fosse vero, ogni volo transcontinentale sarebbe soggetto a infinite denunce per violazione di proprietà. Il senso
  comune si ribellerebbe all’idea. Il riconoscimento di simili istanze private nei confronti dello spazio aereo intaserebbe
  queste autostrade, interferendo seriamente con il loro controllo e sviluppo nell’interesse pubblico, e trasferirebbe alla
  proprietà privata ciò su cui soltanto il pubblico può vantare diritti.3

  “Il senso comune si ribellerebbe all’idea.”
  È così che normalmente funziona la legge. Spesso in modo meno brutale o intollerante, ma in
definitiva è così che funziona. Lo stile di Douglas non dava adito a esitazioni. Altri giudici avrebbero

                                                                5
blaterato per pagine intere prima di raggiungere la conclusione che Douglas racchiude in una sola riga:
“Il senso comune si ribellerebbe all’idea”. Ma che occupi intere pagine o si risolva in poche parole, lo
spirito peculiare del sistema di diritto consuetudinario, com’è il nostro, è che la legge si adegua alle
tecnologie dell’epoca. E mentre vi si adegua, cambia. Concetti che erano solidi come roccia in un’epoca
si riducono in polvere in un’altra.
   O almeno, è così che succede quando non esiste alcun soggetto potente sull’altra sponda del
cambiamento. I Causby erano semplici contadini. E, anche se, sicuramente, parecchi altri si trovavano
nella loro situazione, disturbati dal crescente traffico nel cielo (sempre sperando che non fossero molti i
polli che andavano a fracassarsi contro i muri), sarebbe stato assai difficile per i vari Causby del mondo
unirsi per bloccare l’idea, e la tecnologia, a cui i fratelli Wright avevano dato i natali. I fratelli Wright
avevano sputato gli aeroplani nel bacino dei memi4 tecnologici; l’idea si diffuse come un virus in una stia
per polli; contadini come i Causby si trovarono circondati da “quel che appare ragionevole” sulla base
della tecnologia che i Wright avevano realizzato. Potevano starsene nelle loro fattorie, con i polli morti in
mano, agitando i pugni contro quelle stravaganti tecnologie quanto volevano. Potevano rivolgersi a
qualche parlamentare o perfino sporgere denuncia. Ma alla fine avrebbe prevalso la forza di quel che
sembrava “ovvio” a chiunque altro, la forza del “senso comune”. Non si sarebbe consentito al loro
“interesse privato” di prevalere su un ovvio beneficio pubblico.
   Edwin Howard Armstrong è uno dei geni inventori dimenticati d’America. Apparve sulla scena dei
grandi inventori americani appena dopo i giganti Thomas Edison e Alexander Graham Bell. Ma il suo
lavoro nel campo della tecnologia relativa alla radio fu forse più importante di quello di qualsiasi altro
inventore nei primi cinquant’anni di vita di questo strumento. Aveva un’istruzione migliore di quella di
Michael Faraday che, apprendista rilegatore di libri, aveva scoperto l’induzione elettrica nel 1831. Ma
vantava la medesima intuizione sulle modalità operative del mondo della radio, e in almeno tre occasioni
Armstrong inventò tecnologie profondamente importanti per il progresso della nostra comprensione di
questo dispositivo.
   Nel giorno seguente il Natale del 1933, gli vennero rilasciati quattro brevetti per l’invenzione più
significativa - la radio a modulazione di frequenza (FM). Fino ad allora, gli ascoltatori disponevano di
quella AM (a modulazione d’ampiezza). I teorici di allora sostenevano che la radio a modulazione di
frequenza (FM) non avrebbe mai potuto funzionare, il che era vero nel caso di banda di spettro ridotta.
Ma Armstrong scoprì che la radio a modulazione di frequenza in un’ampia banda di spettro poteva
fornire un’incredibile fedeltà dei suoni, con un trasmettitore assai meno potente e con minori disturbi
causati dalle scariche elettrostatiche.
   Il 5 novembre 1935 diede una dimostrazione della tecnologia nel corso di una riunione dell’Institute of
Radio Engineers all’Empire State Building di New York. Fece scorrere la manopola della sintonia lungo
una sfilza di stazioni AM, fino a sintonizzarsi sulla frequenza di una trasmissione che aveva predisposto
da una distanza di 17 miglia. La radio rimase muta, come fosse morta, poi, con una chiarezza che
nessuno in quella stanza aveva mai sentito in un apparecchio elettrico, si udì la voce di un annunciatore:
“Questa è l’emittente amatoriale W2AG di Yonkers, New York, che trasmette sulla modulazione di
frequenza di due metri e mezzo”.
   Il pubblico stava ascoltando qualcosa che nessuno aveva ritenuto possibile:
   Un bicchiere d’acqua veniva riempito davanti al microfono in quel di Yonkers; il suono era quello di un bicchiere
   d’acqua che veniva riempito... Un foglio di carta fu arrotolato e accartocciato; sembrava proprio un foglio di carta e
   non il fuoco che divampava in una foresta... Si trasmisero dischi con le marce di Sousa e un assolo di pianoforte e uno
   di chitarra... La musica veniva trasmessa con una fedeltà raramente, o forse mai, udita prima da un comune apparecchio
   radio.5




                                                             6
   Come ci direbbe il senso comune, Armstrong aveva scoperto una tecnologia per la radio infinitamente
superiore. Ma, all’epoca della sua invenzione, egli lavorava per la RCA, il soggetto dominante nell’allora
prevalente mercato della radio AM. Nel 1935 esistevano un migliaio di emittenti in tutti gli Stati Uniti,
ma le stazioni delle grandi città erano tutte di proprietà di un pugno di reti.
   Il presidente della RCA, David Sarnoff, amico di Armstrong, era eccitato all’idea che quest’ultimo
avesse scoperto un modo per eliminare le scariche dalle trasmissioni “radio AM”. Perciò si mostrò molto
impaziente quando Armstrong gli annunciò di avere un apparecchio in grado di eliminare
l’inconveniente. Ma, quando Armstrong diede la dimostrazione dell’invenzione, Sarnoff non ne rimase
affatto contento.
  Credevo che Armstrong avesse inventato un qualche tipo di filtro per eliminare le scariche dalla nostra radio AM. Non
  pensavo che avrebbe lanciato una rivoluzione - introdurre una dannata industria del tutto nuova capace di competere
  con la RCA.6

   L’invenzione di Armstrong minacciava l’impero AM della RCA, per cui l’azienda lanciò una
campagna per sopprimere la radio FM. Pur essendo questa una tecnologia migliore, Sarnoff era uno
stratega superiore. Come ha raccontato uno scrittore,
  Le forze a favore della radio FM, generalmente di livello ingegneristico, non riuscirono a superare il peso della
  strategia escogitata dagli uffici vendita, brevetti e legale per soggiogare questa minaccia contro la posizione della
  grande impresa. Perché la radio FM, nel caso ne fosse stato permesso lo sviluppo senza limitazioni, imponeva... la
  completa riorganizzazione del sistema radiofonico... e la sconfitta finale del sistema AM attentamente regolamentato,
  grazie al quale la RCA aveva raggiunto il potere.7

   Inizialmente la RCA mantenne la tecnologia al proprio interno, insistendo sulla necessità di ulteriori
test. Quando, dopo due anni di prove, Armstrong divenne impaziente, la RCA iniziò a usare la propria
influenza presso il governo per bloccare l’implementazione della radio FM in generale. Nel 1936, la
RCA assunse l’ex responsabile della FCC con l’incarico di assicurarsi che la stessa FCC assegnasse le
frequenze in modo da castrare la radio FM - principalmente spostandola su una diversa banda di
frequenze. All’inizio questi tentativi fallirono. Ma quando Armstrong e la nazione furono distratti dalla
Seconda Guerra Mondiale, l’opera della RCA iniziò a ottenere successo. Poco dopo la fine della guerra,
la FCC annunciò una serie di direttive che avrebbero avuto un effetto preciso: la radio FM sarebbe stata
azzoppata. Come scrive Lawrence Lessing,
  la serie di colpi che la radio FM subì subito dopo la guerra, in una serie di disposizioni manipolate attraverso la FCC
  dai grandi interessi dell’industria radiofonica, fu quasi incredibile quanto a potenza e scorrettezza.8

   Per far posto nello spettro di trasmissione all’ultima scommessa della RCA, la televisione, gli utenti
della radio FM dovettero essere spostati su una banda di frequenze totalmente nuova. Anche la potenza
delle emittenti FM venne ridotta, nel senso che non si potevano più usare per trasmettere programmi da
una parte all’altra del paese. (Questa modifica ottenne il forte appoggio della AT&T, perché la perdita di
stazioni-ponte in FM avrebbe imposto alle emittenti l’acquisto dei cavi di collegamento dalla AT&T
stessa.) La diffusione delle radio FM venne così soffocata, almeno temporaneamente.
   Armstrong resistette agli attacchi della RCA. Per tutta risposta, la RCA si oppose ai brevetti di
Armstrong. Dopo aver incorporato la tecnologia FM nello standard emergente per la televisione, la RCA
dichiarò i brevetti non validi - senza alcun fondamento e quindici anni dopo la loro assegnazione. Con
ciò rifiutò di pagare ad Armstrong le royalty. Per sei anni egli combatté una dispendiosa battaglia legale
per difendere i suoi brevetti. Alla fine, proprio mentre questi stavano per scadere, la RCA propose un
accordo economico talmente misero che non avrebbe coperto neppure i compensi degli avvocati di
Armstrong. Sconfitto, affranto, e ora ridotto sul lastrico, nel 1954 Armstrong, dopo aver scritto una breve
missiva alla moglie, si suicidò, saltando da una finestra del tredicesimo piano.


                                                            7
   È così che talvolta funziona la legge. Spesso non con esiti così tragici, raramente con il dramma di un
eroe, ma qualche volta funziona così. Da sempre il governo e le agenzie governative sono soggette a una
sorta di ricatto. È più probabile che siano ricattate quando grossi interessi vengono minacciati da un
cambiamento legislativo o tecnico. Troppo spesso questi potenti interessi esercitano la propria influenza
all’interno del governo per indurlo a tutelarli. Ovviamente la retorica di questa tutela appare sempre a
favore del pubblico; la realtà è ben diversa. Idee che un tempo erano solide come rocce, ma che, lasciate
a se stesse, in un altro periodo si sarebbero sgretolate, vengono sostenute tramite questa sottile corruzione
del nostro processo politico. La RCA possedeva quel che mancava ai coniugi Causby: il potere di
soffocare l’effetto del cambiamento tecnologico.
   Non esiste un unico inventore di Internet. Come non esiste una data precisa in cui collocarne la
nascita. Tuttavia, in un lasso di tempo assai breve, Internet è divenuta parte della vita quotidiana in
America. Secondo il Pew Internet and American Life Project, nel 2002 il 58 per cento degli statunitensi
aveva accesso a Internet, in crescita rispetto al 49 per cento di due anni prima9. Si può stimare che quella
percentuale abbia ormai superato i due terzi della nazione alla fine del 2004.
   Man mano che Internet si è integrata nella vita quotidiana, ha prodotto alcuni cambiamenti. Alcuni
tecnici - Internet ha reso più veloce la comunicazione, ha ridotto i costi della raccolta dei dati, e così via.
Tali cambiamenti tecnici restano al di fuori dello scopo di quest’opera. Sono importanti. Non vengono
compresi appieno. Ma appartengono a quel tipo di cose che finiscono semplicemente con lo scomparire
non appena ci scolleghiamo da Internet. Non hanno effetto su coloro che non usano Internet, o almeno
non in maniera diretta. Andrebbero affrontati in un apposito volume dedicato a questo argomento. Ma
questo libro non lo è.
   Esso affronta invece un effetto provocato da Internet al di là della stessa Internet: l’effetto sul modo in
cui si costruisce la cultura. Secondo la mia tesi, nel corso di questo processo Internet ha indotto un
cambiamento importante e poco riconosciuto, che trasformerà in maniera radicale una tradizione che
risale agli albori stessi della Repubblica. Se fosse in grado di riconoscere questo mutamento, la maggior
parte delle persone finirebbe per rifiutarlo. Tuttavia, in genere non riesce neppure a notare il
cambiamento che la Rete ha innescato.
   Possiamo intuire il senso del cambiamento distinguendo tra cultura commerciale e non-commerciale e
seguendo la mappa delle regolamentazioni legislative di entrambe. Per “cultura commerciale” intendo
quella parte della nostra cultura che viene prodotta e posta in vendita oppure prodotta con l’intento di
essere venduta. Per “cultura non-commerciale” intendo tutto il resto. Quando gli uomini anziani si
sedevano sulle panchine nei parchi oppure agli angoli delle strade e raccontavano delle storie per i
ragazzi e altri ascoltatori, quella era cultura non-commerciale. Quando Noah Webster pubblicò il
prototipo dell’omonimo dizionario, o Joel Barlow le sue poesie, quella era cultura commerciale.
   All’inizio della nostra epoca storica, e per l’intero corso della nostra tradizione, sostanzialmente la
cultura non-commerciale non era soggetta a regole. Ovviamente, nel caso di storie lascive, o di canzoni
che disturbassero la quiete, interveniva la legge. Ma essa non riguardava mai direttamente la creazione o
la diffusione di questa forma di cultura, che veniva lasciata “libera”. Le normali modalità con cui la gente
comune condivideva e trasformava la propria cultura - raccontando storie, riproponendo scene di lavori
teatrali o televisivi, partecipando a club di appassionati, condividendo musica, registrando nastri - erano
ignorate dalla legge.
   La legislazione si concentrava sulla creatività commerciale. All’inizio in modo blando, poi sempre più
esteso, la legge tutelava gli incentivi dei creatori riconoscendo loro i diritti esclusivi sulle proprie opere,
così che potessero vendere tali diritti nel mercato10. Naturalmente, ciò rappresenta una parte importante
della creatività e della cultura, ed è divenuto un elemento sempre più importante in America. Ma in


                                                      8
nessun senso era qualcosa di dominante nella nostra tradizione. Ne costituiva piuttosto soltanto una parte,
una parte sotto controllo, equilibrata da quella libera.
   Oggi questa grossolana divisione tra cultura libera e cultura controllata è stata cancellata11. Internet ha
impostato lo scenario per questa cancellazione e, sotto la spinta dei grandi media, ora rientra sotto la
tutela della legge. Per la prima volta nel corso della nostra tradizione, le modalità correnti con cui gli
individui creano e condividono cultura ricadono all’interno della regolamentazione giuridica, che è stata
estesa fino a portare sotto il proprio controllo una quantità di cultura e creatività mai raggiunta prima. La
tecnologia che aveva mantenuto l’equilibrio della nostra storia - tra gli usi della cultura ritenuti liberi e
quelli possibili soltanto dietro permesso - è stata eliminata. La conseguenza è che siamo sempre meno
una cultura libera, e sempre più una cultura del permesso.
   Questo cambiamento viene giustificato come elemento necessario a tutela della creatività
commerciale. E, infatti, il protezionismo ne rappresenta la motivazione precisa. Ma quel protezionismo a
giustificazione dei cambiamenti, che descriverò più avanti, non è del tipo limitato ed equilibrato che ha
definito la legge in passato. Non è un protezionismo che tutela gli artisti. È invece un protezionismo che
tutela certe forme di attività commerciali. Le grandi aziende, minacciate dalla potenzialità di Internet di
cambiare il modo in cui vengono realizzate e condivise sia la cultura commerciale sia quella non-
commerciale, si sono alleate nell’indurre i legislatori a usare la legge per proteggerle. È la storia della
RCA e di Armstrong; è il sogno dei Causby.
   Il punto è che Internet ha offerto a molta gente l’eccezionale possibilità di partecipare al processo di
costruzione e coltivazione di una cultura che va ben oltre gli ambiti locali. Questa forza ha modificato il
mercato dove si produce e si coltiva la cultura in senso generale, e a sua volta il cambiamento minaccia
le industrie attualmente dedite alla produzione di contenuti. Per le industrie che realizzavano e
distribuivano contenuti nel XX secolo, Internet è simile a quel che la radio FM fu per la radio AM, o a
quel che l’industria del traffico pesante fu per la ferrovia nel XIX secolo: l’inizio della fine, o
quantomeno una trasformazione sostanziale. Le tecnologie digitali, legate a Internet, potrebbero dar vita
a un mercato molto più vivo e competitivo per la costruzione e lo sviluppo della cultura; tale mercato
potrebbe contenere una gamma di creatori assai più ampia e diversificata; questi creatori potrebbero
produrre e distribuire creatività a un livello molto più esuberante; e sulla base di alcuni importanti fattori,
tali creatori potrebbero guadagnare mediamente più da questo sistema che dall’attuale - tutto ciò purché
le RCA dei nostri giorni non decidano di ricorrere alla legge per proteggersi contro questa concorrenza.
   Tuttavia, come sostengo nelle pagine successive, ciò è esattamente quanto accade oggi alla cultura.
Questi equivalenti moderni delle radio dell’inizio del XX secolo o delle ferrovie del XIX secolo, stanno
usando il loro potere per fare in modo che la legge li protegga contro tecnologie nuove, più efficaci, più
vitali nel costruire cultura. Stanno portando al successo il piano di rifare Internet prima che Internet
rifaccia loro.
   Per molti le cose non stanno così. Alla maggior parte della gente le battaglie relative al diritto d’autore
e a Internet appaiono lontane. Ai pochi che le seguono, tali battaglie sembrano riguardare per lo più
un’area ristretta di problemi - se la “pirateria” verrà consentita e se la “proprietà” sarà tutelata. La
“guerra” che è stata dichiarata alle tecnologie di Internet - quel che Jack Valenti, presidente della Motion
Picture Association of America (MPAA), definisce la sua “guerra personale contro il terrorismo”12 - è
stata presentata come una battaglia sulle norme giuridiche e sul rispetto della proprietà. Per sapere da che
parte stare in questa guerra, la maggioranza crede che si debba decidere soltanto se si è a favore o contro
la proprietà.
   Se fossero veramente queste le alternative, allora mi schiererei con Jack Valenti e con l’industria che
produce contenuti. Anch’io credo nella proprietà, e soprattutto nell’importanza di quel che il signor


                                                      9
Valenti definisce elegantemente “proprietà creativa”. Credo che la “pirateria” sia sbagliata e che la legge,
adeguatamente affinata, dovrebbe punirla, fuori o dentro Internet.
   Ma queste semplici opinioni mascherano una questione molto più essenziale e un cambiamento assai
più radicale. Il mio timore è che, se non riusciamo a vedere questo mutamento, la guerra per liberare il
mondo di Internet dai “pirati” porterà altresì la cultura a disfarsi di quei valori che fin dalle origini hanno
fatto parte integrante della tradizione.
   Questi valori hanno dato vita a una tradizione che, almeno per i primi 180 anni della Repubblica
statunitense, garantiva ai creatori il diritto a costruire liberamente sul passato, e tutelava i creatori e gli
innovatori dal controllo a livello sia statale che privato. Il Primo Emendamento proteggeva i creatori dal
controllo statale. E, come sostiene efficacemente il professor Neil Netanel13, le leggi sul diritto d’autore,
appropriatamente calibrate, tutelavano i creatori nei confronti del controllo privato. La nostra tradizione
non era quindi né quella sovietica né quella dei mecenati. Si era invece ritagliata un’ampia area protetta
all’interno della quale i creatori potevano coltivare ed estendere la cultura.
   Eppure la risposta della legge a Internet, quando associata ai cambiamenti nella tecnologia della Rete
stessa, ha enormemente aumentato l’effettiva regolamentazione della creatività in America. Per costruire
sopra la cultura che ci circonda, o per giudicarla, si deve prima chiedere il permesso, alla maniera di
Oliver Twist. Ovviamente, spesso tale permesso viene accordato - ma non così di frequente ai critici o
agli indipendenti. Abbiamo costruito una sorta di nobiltà culturale; quelli che appartengono alla classe
nobile vivono una bella vita, chi ne resta fuori no.
   La storia che segue riguarda questa guerra. Non la “centralità della tecnologia” nella vita ordinaria.
Non credo in un dio, digitale o di altro tipo. Né intendo demonizzare qualche gruppo o individuo, perché
non credo neppure nel demonio, di tipo “corporation” o altro. Questo libro non è una allegoria morale.
Non è neanche un incitamento alla jihad contro un’industria.
   Si sforza invece di capire una guerra distruttiva e senza speranza, ispirata dalle tecnologie di Internet
ma con una portata che va ben oltre il suo codice. E, tramite la comprensione di questa battaglia, è il
tentativo di tracciare una mappa per la pace. Non esiste alcun valido motivo per continuare l’attuale
conflitto sulle tecnologie che circondano Internet. La nostra tradizione e la nostra cultura subiranno danni
ingenti se tale conflitto dovesse proseguire indisturbato. Dobbiamo arrivare a comprendere l’origine di
questa guerra. Dobbiamo risolverla presto.
   Al pari della battaglia dei coniugi Causby, questa è, in parte, una guerra per la “proprietà”. La
proprietà, in questa guerra, non è tangibile come nel caso dei Causby, e finora nessun pollo innocente ha
perso la vita. Tuttavia le idee che circondano questa “proprietà” appaiono ovvie tanto quanto le
rivendicazioni dei Causby sulla sacralità della loro fattoria. Siamo noi i Causby. La maggior parte di noi
dà per scontate le ragioni straordinariamente forti che oggi sostengono i detentori della “proprietà
intellettuale”. La maggior parte di noi, come i Causby, considera ovvie tali ragioni. E su queste basi, al
pari dei Causby, solleviamo obiezioni quando una nuova tecnologia interferisce con questa proprietà. Per
noi è evidente, come lo era per loro, che le nuove tecnologie di Internet stanno “violando" le legittime
rivendicazioni della “proprietà”. Per noi è evidente, come lo era per loro, che la legge dovrebbe
intervenire per bloccare una simile violazione.
   E così, quando i fanatici o gli esperti di tecnologia difendono la proprie innovazioni simili a quelle di
Armstrong o dei fratelli Wright, la maggior parte di noi mostra semplicemente scarsa simpatia. Il senso
comune non si ribella. Contrariamente al caso degli sfortunati Causby, in questa guerra il senso comune è
dalla parte di chi detiene la proprietà. Contrariamente ai fortunati fratelli Wright, Internet non ha ispirato
una rivoluzione che la sostenga.
   La mia speranza è quella di fare progredire questo senso comune. Sono sempre più meravigliato dalla
forza di questo concetto di proprietà intellettuale e, ancora più importante, dalla sua capacità di annullare

                                                      10
il pensiero critico nei politici e nei cittadini. Non è mai esistito un periodo della storia in cui gran parte
della “cultura” fosse “di proprietà” com’è oggi. Eppure non è mai esistita un’epoca in cui la
concentrazione del potere nel controllare gli utilizzi della cultura venisse così supinamente accettata
com’è ora.
   La domanda è: “Perché?”
   Perché siamo arrivati a comprendere la verità del valore e dell’importanza della proprietà assoluta
sulle idee e sulla cultura? È stato forse perché abbiamo scoperto quanto fosse sbagliata la tradizione di
rifiutare una simile motivazione assoluta?
   Oppure perché il concetto di proprietà assoluta sulle idee e sulla cultura porta benefici alle RCA della
nostra epoca ed è conforme alle nostre intuizioni prive di riflessione? L’abbandono radicale della
tradizione di una cultura libera è un esempio dell’America che corregge un errore del passato, come è
accaduto, dopo una sanguinosa guerra, nei confronti della schiavitù, e come sta lentamente accadendo nei
confronti delle ineguaglianze? Oppure il radicale abbandono della tradizione di una cultura libera è
l’ennesimo esempio di un sistema politico ricattato da un pugno di interessi particolari?
   Su questa faccenda, il senso comune sembra portare a posizioni estreme perché ci crede davvero?
Oppure tace di fronte ad esse, perché, come nel caso di Armstrong contro la RCA, la fazione più potente
si è assicurata di avere il punto di vista più influente?
   Non voglio fare il misterioso. Le mie opinioni sono chiare. Credo fosse giusto per il senso comune
rivoltarsi contro l’estremismo dei Causby. Credo che sarebbe giusto per il senso comune ribellarsi contro
le ragioni estreme sostenute oggi a favore della “proprietà intellettuale”. Quel che la legge chiede oggi è
sempre più stupido, tanto quanto uno sceriffo che arresti un aeroplano per violazione di proprietà. Ma le
conseguenze di questa stupidità saranno molto più profonde.
   Il conflitto che sta emergendo ora è centrato su due concetti: “pirateria” e “proprietà”. Il mio obiettivo,
nelle successive due parti del volume, è quello di esplorare questi due concetti.
   Il mio metodo non è quello comunemente seguito da un accademico. Non voglio far naufragare il
lettore in un’argomentazione complicata, sostenuta da riferimenti a oscuri teorici francesi - per quanto
ciò possa apparire naturale a quella strana specie di accademici in cui ci siamo trasformati. Inizio invece
ciascuna parte descrivendo una serie di eventi che disegnano il contesto all’interno del quale questi
concetti apparentemente semplici possano essere compresi nel modo migliore.
   Le due sezioni servono a impostare la tesi centrale del libro: che mentre Internet ha effettivamente
prodotto qualcosa di fantastico e di nuovo, le istituzioni governative, sotto la spinta dei grandi media, nel
rispondere a questo “qualcosa di nuovo” stanno distruggendo qualcosa di molto antico. Anziché
comprendere i cambiamenti che Internet può consentire, e anziché guadagnare tempo in modo da lasciar
decidere al “senso comune” la risposta migliore, stiamo permettendo a coloro che si sentono più
minacciati dai cambiamenti di usare la loro forza per modificare la legge - e, fatto più importante, di
usare la forza per cambiare qualcosa di fondamentale che riguarda ciò che siamo sempre stati.
   Lo permettiamo, credo, non perché sia giusto, e non perché la maggior parte di noi creda veramente in
questi cambiamenti. Lo permettiamo perché gli interessi maggiormente minacciati appartengono a chi
gioca un ruolo estremamente potente nel processo di costruzione delle leggi, un processo compromesso
in maniera deprimente. Questo libro è la storia di un’ulteriore conseguenza di questa forma di corruzione
- una conseguenza che la maggior parte di noi ignora.




                                                     11
                                                        Prefazione




   Al termine della recensione del mio primo libro Code: And Other Laws of Cyberspace, David Pogue,
brillante autore di innumerevoli testi tecnici e informatici, così scriveva:
   Contrariamente alla legge reale, il software di Internet non ha alcuna capacità punitiva. Non riguarda chi non è online
   (e lo è soltanto una ristretta minoranza della popolazione mondiale). E se non ci piace il sistema di Internet, possiamo
   sempre buttar via il modem.1

   Pogue si mostrava scettico rispetto alla tesi centrale del libro - che il software, o “codice”, funzionasse
come una specie di legge - e la sua recensione suggeriva la felice idea che, nel caso la vita nel
ciberspazio diventasse difficile, avremmo sempre potuto recitare una formula magica - ossia
semplicemente girare l’interruttore e tornarcene a casa. Spegniamo il modem, stacchiamo il computer, e
qualsiasi problema esista in quello spazio non ci “riguarderà” più.
   Pogue poteva aver ragione nel 1999 - ne dubito, ma forse era così. Ma anche se aveva ragione allora,
ora è diverso: Cultura libera affronta i problemi provocati da Internet anche una volta spento il modem. È
una discussione su come le battaglie che oggi infuriano a proposito della vita online interessino in
maniera fondamentale anche “chi non è online”. Non esiste un interruttore in grado di isolarci dall’effetto
di Internet.
   Ma, contrariamente a Code, qui la discussione non verte su Internet in se stessa. Concerne invece le
conseguenze che essa ha su una parte della nostra tradizione, cosa assai più cruciale e, per quanto possa
essere difficile da ammettere per i fanatici della tecnologia, molto più importante.
   Tale tradizione riguarda il modo in cui viene creata la nostra cultura. Come illustro nelle pagine che
seguono, proveniamo da una tradizione di “cultura libera” - in cui il concetto di libertà è lo stesso che in
“libertà d’espressione, libero mercato, libero commercio, libertà di impresa, libera volontà e libere
elezioni”2. Una cultura libera sostiene e tutela i creatori e gli innovatori. Lo fa in modo diretto garantendo
i diritti di proprietà intellettuale. Ma lo fa anche in maniera indiretta limitando la portata di tali diritti,
allo scopo di garantire che creatori e innovatori successivi rimangano quanto più liberi possibile dal
controllo del passato. Una cultura libera non è una cultura in cui non esiste la proprietà, proprio come il
libero mercato non è un mercato in cui tutti i beni sono gratuiti. L’opposto di una cultura libera è una
“cultura del permesso” - una cultura in cui i creatori possono creare soltanto con il permesso dei potenti,
o dei creatori del passato.
   Se comprendiamo questo mutamento, credo che vi opporremo resistenza. Non “noi” della Sinistra o
“voi” della Destra, ma noi che non abbiamo alcun interesse economico in quelle specifiche industrie
culturali che hanno caratterizzato il XX secolo. Che siate di Destra o di Sinistra, o indifferenti al
problema, la storia che racconto in queste pagine vi farà riflettere. Perché i cambiamenti che mi accingo a
descrivere riguardano valori considerati fondamentali da entrambe le posizioni della nostra cultura
politica.
   Negli Stati Uniti, abbiamo osservato uno scorcio di questo oltraggio “bipartisan” all’inizio dell’estate
2003. Mentre la Federal Communications Commission (FCC) prendeva in esame alcuni cambiamenti
alle norme sulla proprietà dei media, che avrebbero ridotto i limiti posti alla concentrazione delle testate,
una coalizione straordinaria produsse oltre 700.000 lettere indirizzate alla FCC che si opponevano a tali


                                                             12
cambiamenti. Mentre William Safire descriveva la “scomoda marcia assieme a CodePink Women for
Peace e alla National Rifle Association, tra la liberal Olympia Snowe e il conservatore Ted Stevens”,
spiegava forse nel modo più semplice quale fosse la posta in gioco: la concentrazione del potere. E
mentre osservava:
   Tutto questo sembra forse anti-conservatore? Non per me. La concentrazione del potere - della politica, delle imprese,
   dei media, della cultura - dovrebbe essere una maledizione per i conservatori. Il decentramento del potere tramite il
   controllo locale, per incoraggiare la partecipazione individuale, è l’essenza del federalismo e la più alta espressione
   della democrazia.3

   Quest’idea è uno degli elementi a sostegno della tesi esposta in Cultura libera, anche se il mio
interesse non si focalizza soltanto sulla concentrazione del potere prodotta dalla concentrazione della
proprietà ma, fatto ancora più importante perché meno visibile, sulla concentrazione del potere prodotta
da un mutamento radicale degli obiettivi sostanziali della legge. La legge sta cambiando; questo
cambiamento altera il modo in cui si costruisce la nostra cultura; tale cambiamento dovrebbe
preoccuparci - che ci stia o meno a cuore Internet, e che ci si ponga a destra o a sinistra di Safire.
   L’ispirazione per il titolo e per gran parte delle idee sostenute in questo volume deriva dal lavoro di
Richard Stallman e della Free Software Foundation. Anzi, nel rileggere le opere di Stallman, soprattutto i
saggi di Software libero, pensiero libero, mi sono accorto di come tutte le analisi teoriche da me
sviluppate in queste pagine siano riflessioni che Stallman aveva presentato qualche decennio fa. Si
potrebbe sostenere perciò che questo sia un lavoro “meramente” derivato.
   Accetto questa critica, se poi è una critica. Il lavoro di un avvocato è sempre derivato, e in questo libro
non intendo fare altro che rammentare a una cultura quella tradizione che le è sempre stata propria. Al
pari di Stallman, difendo quella tradizione sulla base dei valori che ha espresso. Come Stallman, ritengo
che siano i valori della libertà. E, come Stallman, credo che siano i valori del passato da tutelare nel
futuro. La cultura libera è il nostro passato, ma sarà il nostro futuro soltanto se riusciremo a cambiare la
strada che stiamo percorrendo ora.
   Analogamente alle posizioni di Stallman sul software libero, la tesi a sostegno della cultura libera
inciampa su un malinteso difficile da evitare, e ancora più difficile da comprendere. Una cultura libera
non è priva di proprietà; non è una cultura in cui gli artisti non vengono ricompensati. Una cultura senza
proprietà, in cui i creatori non ricevono un compenso, è anarchia, non libertà. E io non intendo
promuovere l’anarchia.
   Al contrario, la cultura libera che difendo in questo libro è in equilibrio tra anarchia e controllo. La
cultura libera, al pari del libero mercato, è colma di proprietà. Trabocca di norme sulla proprietà e di
contratti che vengono applicati dallo stato. Ma proprio come il libero mercato si corrompe se la proprietà
diventa feudale, anche una cultura libera può essere danneggiata dall’estremismo nei diritti di proprietà
che la definiscono. Questo è ciò che oggi temo per la nostra cultura. È per oppormi a tale estremismo che
ho scritto questo libro.




                                                             13
                                     Presentazione dell’edizione italiana




   Sono trascorsi quasi dieci anni, ormai, da quando, nel 1996, un giovane professore di diritto
costituzionale dell'Università di Chicago, Lawrence Lessig, pubblicò, sul terzo numero della rivista
giuridica Emory Law Journal, un articolo che poneva interessanti e innovative problematiche correlate al
cosiddetto “ciberspazio” e, più in generale, ai principi fondamentali e ai diritti di libertà applicabili al
mondo elettronico.
   Nel Vecchio Continente - dove lo stato dell’evoluzione e della diffusione delle tecnologie correlate a
Internet, in quegli anni, ancora ci faceva guardare agli Stati Uniti d’America come una terra dei “miracoli
tecnologici” - la voce del giovane giurista arrivò forte e chiara: il mondo elettronico stava sollevando
problematiche giuridiche, e di libertà, che presto sarebbero esplose anche da noi, e che prendevano il
nome, e la forma, del diritto all’anonimato, della regolamentazione - da parte del Governo e
dell’industria - dell’architettura tecnologica alla base del mondo elettronico, della diffusione libera della
cultura, del “governo” del ciberspazio e dei sempre più numerosi fenomeni di violazione del copyright.
   Nel 2005, dopo tre volumi di successo mondiale (Code and Others Laws of Cyberspace, The Future of
Ideas: The Fate of the Commons in a Connected World e il presente Free Culture: How Big Media Uses
Technology and the Law to Lock Down Culture and Control Creativity), decine di articoli e incarichi
giuridici di grande importanza, Lawrence Lessig viene, giustamente, considerato come uno dei più
grandi studiosi di queste tematiche; le sue teorie hanno ben presto varcato i confini statunitensi e hanno
destato grande attenzione in tutto il mondo.
   Lo stile di Lessig, capace di unire una grande precisione e un estremo rigore giuridico a una scrittura
ricca di esempi, e soprattutto idoneo a fare interessare a queste tematiche anche il “non giurista”, è stato
mantenuto integralmente nell’ottima traduzione in italiano di Free Culture, che è certamente l’opera di
più ampio respiro delle tre sinora pubblicate dallo studioso statunitense.
   La tempestività della traduzione italiana è a dir poco esemplare: il 16 dicembre 2004 a Torino, in
presenza dello stesso Lessig, vi è stato il “lancio” ufficiale di Creative Commons Italy, progetto portato
avanti da diversi enti e volontari, tutti dediti a cercare di attuare e raggiungere, in Italia, gli obiettivi che
Creative Commons - l’idea più importante nata dalla fervida mente di Lessig - si propone.
   Il volume, come si è in parte anticipato, è sì un testo scritto da un eminente giurista, ma è pensato,
anche e soprattutto, per diffondere il più possibile, anche presso i non giuristi, le idee che stanno alla base
delle teorie di Lessig.
   I numerosissimi esempi ed episodi riportati (normativi, giurisprudenziali ma, soprattutto, collegati alla
storia costituzionale statunitense), contribuiscono, inoltre, a riferire immediatamente le nozioni teoriche a
fatti realmente accaduti che spaziano, da un punto di vista temporale, dalla preistoria sino ai giorni nostri.


    La matrice e l’humus statunitense di Free Culture
   Il terzo volume di Lessig, qui presentato nella sua traduzione italiana, muove dalla realtà giuridica in
cui opera l’Autore.
   Questa osservazione, di per sè banale, deve però essere sempre mantenuta ben presente dal lettore
italiano che si appresta a leggere un’opera strettamente correlata alla realtà normativa statunitense.

                                                       14
   Questo humus normativo è chiaramente riscontrabile, innanzitutto, leggendo le numerose note di
riferimento riportate nella parte finale del volume. Si noterà che in tali note sono citati quasi
esclusivamente studi ed elaborazioni dottrinali di giuristi statunitensi, accanto a documenti normativi
(soprattutto il celebre, anche in Europa, Digital Millennium Copyright Act) di quell’ordinamento e ad
eventi che hanno caratterizzato il panorama giuridico statunitense.
   L’analisi del lettore italiano dell’opera di Lessig deve, quindi, sempre muovere dalla consapevolezza
che gran parte dei concetti giuridici, delle teorie riportate, dei diritti e obblighi, degli adempimenti, sono
quelli appartenenti all’ordinamento giuridico statunitense, e non sempre sono applicabili all’ordinamento
giuridico italiano.
   Il lettore noterà che gran parte delle idee - molto spesso geniali - e delle nozioni giuridiche alla base
del pensiero di Lessig sono applicabili ad ogni realtà, compresa quella italiana; non appena, però, lo
studioso scende nel “particolare” ed entra a piè pari nel “suo” sistema di common law (citando, per
esempio, precedenti, o disegni di legge, o normativa vigente, o episodi giuridici o politici), tali
riferimenti sono chiaramente esclusivi dell’ordinamento statunitense e nella maggior parte dei casi o non
si applicano alla realtà giuridica nostrana o, in alcuni casi, sono in palese contrasto con disposizioni
vigenti nel nostro ordinamento.
   È quindi il caso di non dimenticare mai che si sta leggendo un’opera di uno studioso che parla,
essenzialmente, del “suo” ordinamento giuridico, che ha caratteristiche in molti casi originali (due
esempi per tutti: le ricorrenti descrizioni delle attività dei Copyright Offices, e le teorie alla base del
cosiddetto “fair use” delle opere).


                           Il panorama attuale italiano
   La lettura di un’opera completa e stimolante, quale è Free Culture, può essere sicuramente
un’occasione di confronto tra la situazione giuridica descritta da Lessig e la situazione giuridica italiana.
   Ciò, soprattutto, al fine di avere un quadro completo e non confuso di come due realtà giuridiche
disciplinano questa materia in continua evoluzione.
   Il sistema del diritto d’autore ha avuto, in questi ultimi cinque anni, nel nostro Paese, un’evoluzione a
dir poco frenetica, che lo ha disegnato con caratteristiche a volte particolari.
   Il 2004 si è chiuso, in Italia, con un nuovo interesse su larga scala a proposito di ciò che sta accadendo
in tema di diritto d’autore e di brevetti, sempre con riferimento al software.
   Una Commissione apposita, la Commissione per i contenuti digitali nell’era di Internet - più
brevemente denominata “commissione e-content”, e voluta dal Ministro Stanca - ha iniziato ad
analizzare il problema della diffusione dei contenuti in rete e la gestione dei relativi diritti.
   Tale Commissione sta anche analizzando il caos normativo creato da una brutta legge, approvata in
fretta e contenente numerosi errori, che ha convertito, il 21 maggio 2004, l’ormai celebre “Decreto
Urbani”.
   Il panorama italiano è, poi, caratterizzato da un ruolo essenziale della SIAE, soprattutto con
riferimento alla gestione dei diritti degli autori associati alla SIAE stessa e ad alcuni adempimenti, quali
l’obbligo di contrassegni (il cosiddetto “bollino”).
   L’apprezzabile scelta di Lessig di dare vita a un progetto - Creative Commons - che si presenta come
un progetto mondiale (le nazionalizzazioni di tale progetto stanno procedendo a pieno regime) suscita
tantissimi spunti interessanti.
   Una cospicua parte di Free Culture, noterà il lettore, è dedicata a descrivere il funzionamento di
Creative Commons.



                                                     15
   Sarà molto interessare vedere, quindi, quali saranno i rapporti tra questo nuovo modo di pensare alcuni
aspetti del diritto d’autore e la normativa vigente in determinati Paesi.
   Sorgeranno immediatamente dei conflitti? E come verranno risolti? E chi li risolverà?
   Saranno gli stessi protagonisti del mondo della gestione dei diritti ad avvicinarsi a questi nuovi tipi di
licenza, improntati sulla diffusione della cultura, per raggiungere finalmente quel copyright “moderato”
che Lessig si augura in tutta l’opera? Oppure il quadro normativo è già talmente vincolante, e lascia
talmente poco spazio a nuovi sistemi, tanto che tali idee rimarranno valide sul piano teorico ma avranno
grossi problemi di applicazione pratica o, peggio, verranno confinate a pochi casi?
   Certamente l’entusiasmo - e la voglia di agire - che si provano una volta terminato di leggere qualsiasi
scritto di Lessig fanno ben sperare in una diffusione maggiore di queste teorie e, soprattutto, in un
disegno di un quadro politico e normativo su queste tematiche che tenga sempre ben presenti i diritti di
libertà e di condivisione della cultura e della conoscenza.
                                                                                           Giovanni Ziccardi
                                                                                       Milano, gennaio 2005




                                                     16
                                                           Parte I


                                                    Pirateria


   Fin dalla nascita di una legislazione atta a regolare la proprietà creativa, è esistita la guerra contro la
“pirateria”. È difficile tracciare i contorni precisi di tale concetto - “pirateria” - ma l’ingiustizia che la
anima è facile da afferrare. Come scrisse Lord Mansfield in un caso che estese la portata delle norme sul
diritto d’autore inglese fino a includere gli spartiti musicali,
   una persona può usare una copia per suonare il pezzo, ma non ha alcun diritto di defraudare l’autore del profitto,
   moltiplicando le copie e usandole a proprio piacimento.1

   Oggi siamo nel bel mezzo di un’altra “guerra” contro la “pirateria”. Una guerra provocata da Internet,
che rende possibile la diffusione dei contenuti in modo molto efficace. La condivisione di file tramite reti
“peer-to-peer (p2p)” è una delle più efficienti fra le già efficienti tecnologie attivate dalla Rete. Mediante
l’intelligenza distribuita, i sistemi p2p facilitano la semplice distribuzione di contenuti secondo modalità
inimmaginabili una generazione fa.
   Tale efficienza non rispetta i canali tradizionali del diritto d’autore. La rete non discrimina tra la
condivisione di contenuti tutelati o non tutelati da copyright. Esiste perciò in circolazione un’ampia
quantità di materiale protetto dal diritto d’autore. Questa circolazione di materiale condivisibile ha a sua
volta attizzato la guerra, poiché i detentori del copyright temono che tale condivisione finirà per
“defraudare l’autore del profitto”.
   I combattenti si sono rivolti alle corti di giustizia, alle assemblee legislative e, con sempre maggior
frequenza, alla tecnologia, per difendere la loro “proprietà” contro questa “pirateria”. Una generazione di
americani, mettono sull’avviso questi combattenti, viene allevata nella convinzione che la “proprietà”
debba essere “gratuita”. Dimentichiamo i tatuaggi, lasciamo perdere il “piercing” - i nostri figli stanno
diventando dei ladri!
   Non c’è alcun dubbio che la “pirateria” non sia una cosa giusta e che i pirati vadano puniti. Ma prima
di chiamare il boia, dovremmo inserire la nozione di “pirateria” nel giusto contesto. Perché, pur
trattandosi di un concetto usato sempre più spesso, si basa su un’idea quasi sicuramente sbagliata, che si
può descrivere più o meno nel modo seguente:
   L’opera creativa possiede un certo valore; ogni volta che uso l’opera creativa di altri, la elaboro o ci costruisco sopra,
   ne traggo qualcosa dotato di valore. Ogni volta che lo faccio, dovrei chiedere il permesso. Prendere qualcosa di valore
   da altri senza il loro permesso è un’ingiustizia. È una forma di pirateria.

   Questa visione penetra in profondità nell’attuale dibattito. È quel che Rochelle Dreyfuss, professore di
legge presso la New York University, definisce, criticandola, la teoria sulla proprietà creativa del “se
vale, allora c’è un diritto”2 - se esiste un valore, allora qualcuno deve vantare un diritto su di esso. È il
punto di vista in base al quale l’ente per i diritti dei compositori, ASCAP, ha denunciato le Girl Scout per
non aver pagato i diritti per le canzoni che le ragazze cantavano attorno al fuoco durante le escursioni3.
Esisteva un “valore” (le canzoni), per cui doveva esserci un “diritto” - e questo valeva anche per le Girl
Scout.
   Quest’idea è sicuramente una possibile interpretazione del modo in cui dovrebbe funzionare la
proprietà creativa. Potrebbe ben proporsi come possibile progetto per un sistema giuridico a tutela di tale



                                                              17
proprietà. Ma la teoria del “se vale qualcosa, allora c’è un diritto” non è mai stata la teoria americana
sulla proprietà creativa. Non ha mai guadagnato terreno nell’ambito della legislazione.
   Nella nostra tradizione, invece, la proprietà intellettuale è uno strumento. Imposta la struttura di base
per una società riccamente creativa, ma rimane subordinata al valore della creatività. L’attuale dibattito
ha capovolto la questione. Ci preoccupiamo così tanto di proteggere lo strumento che abbiamo perso di
vista il valore.
   La fonte di questa confusione sta in una distinzione che la legge non si cura più di tracciare - la
distinzione tra la ripubblicazione dell’opera di qualcuno, da una parte, e la costruzione a partire da tale
opera, o la sua trasformazione, dall’altra. Quando nacque, la legislazione sul copyright si occupava
soltanto della pubblicazione; oggi regola entrambe le situazioni.
   Prima dell’avvento delle tecnologie di Internet, questa fusione non aveva grande importanza. Le
tecnologie per la pubblicazione erano costose e questo implicava che gran parte dell’editoria fosse
commerciale. Le imprese commerciali potevano sostenere il fardello giuridico - perfino il peso della
bizantina complessità che avevano assunto le norme sul diritto d’autore. Era soltanto un’ulteriore costo
nell’esercizio di quell’attività.
   Ma, con la nascita di Internet, questo limite naturale alla portata della legge è scomparso. La legge
controlla non soltanto la creatività degli autori professionali; ma di fatto quella di chiunque. Anche se
una simile estensione non avrebbe grande importanza qualora le norme sul copyright regolassero soltanto
la “copia”, quando tali norme agiscono in modo così ampio e oscuro, come avviene oggi, allora
l’estensione diviene molto importante. Oggi il peso di questa legge supera enormemente ogni beneficio
originario - sicuramente ha effetto sulla creatività non-commerciale, e sempre più anche su quella
commerciale. Perciò, come vedremo più chiaramente nei capitoli successivi, il ruolo della legge è sempre
meno quello di offrire sostegno alla creatività, e sempre più quello di tutelare determinate industrie nei
confronti della concorrenza. Proprio nel momento in cui la tecnologia digitale potrebbe liberare
un’eccezionale vena di creatività, commerciale e non, la legge grava su tale creatività con norme
follemente complicate e vaghe e con la minaccia di pene oscenamente severe.
   Finiremo per assistere, come scrive Richard Florida, alla “nascita della classe creativa4.” Purtroppo,
stiamo assistendo anche all’eccezionale proliferare di regolamentazioni per questa classe.
   Questi oneri non hanno alcun senso nella nostra tradizione. Dovremmo iniziare a capire un po’ meglio
tale tradizione e a porre nel contesto appropriato le attuali battaglie relative al comportamento definito
“pirateria”.


                                        In questa parte
      Capitolo 1 - Creatori
      Capitolo 2 - Semplici imitatori
      Capitolo 3 - Cataloghi
      Capitolo 4 - Pirati
      Capitolo 5 - Pirateria
      Capitolo 6 - Fondatori




                                                    18
                                                        Capitolo 1


                                                    Creatori


   Nel 1928 nacque un personaggio dei cartoni animati. Nel maggio di quell’anno fece infatti il suo
debutto Topolino, in un fallimentare film muto dal titolo Plane Crazy. A novembre, al Colony Theater di
New York, nel primo cartone animato ad ampia distribuzione e sincronizzato con il sonoro, Steamboat
Willie portò alla luce il personaggio che sarebbe poi divenuto il Topolino che tutti conosciamo.
   Il sonoro sincronizzato era stato introdotto nei film un anno prima con la pellicola Il cantante di jazz
(The Jazz Singer). Quel successo spinse Walt Disney a copiarne la tecnica, integrando il suono con i
cartoni animati. Nessuno poteva sapere se avrebbe funzionato o meno, né, in caso positivo, se avrebbe
mai conquistato un proprio pubblico. Ma quando Disney fece un test, nell’estate del 1928, i risultati non
lasciarono dubbi. Ecco come lo stesso Disney descrive quel primo esperimento:
  Un paio di ragazzi sapevano leggere la musica, e uno di loro suonava l’armonica. Li mettemmo in una stanza dove non
  potevano vedere lo schermo e facemmo in modo di diffondere il suono nella sala in cui mogli e amici si apprestavano a
  vedere il filmato.
  I ragazzi seguivano gli spartiti per la musica e gli effetti sonori. Dopo varie false partenze, suono e azione andarono in
  sintonia. Il suonatore di armonica eseguiva la melodia, noi altri tenevamo il ritmo battendo su padelle di latta e usando
  dei fischietti. La sincronizzazione era abbastanza precisa. L’effetto sul ristretto pubblico fu addirittura elettrizzante.
  Reagì in maniera quasi istintiva a questa simultaneità di suono e movimento. Credevo che mi stessero prendendo in
  giro. Così mi piazzarono tra il pubblico e ripeterono l’esecuzione. Fu terribile, ma anche meraviglioso! Ed era qualcosa
  di nuovo!1

   L’allora socio di Disney, e uno dei talenti più straordinari in fatto di animazione, Ub Iwerks, ci offre
una descrizione ancora più forte: “Non sono mai stato così eccitato in vita mia. Da allora nulla ha
eguagliato quella sensazione”.
   Disney aveva creato davvero qualcosa di nuovo, che si basava su qualcosa di relativamente nuovo. La
sincronizzazione del suono aveva dato vita a una forma di creatività che raramente - se non nelle mani di
Disney - era stata qualcosa di più di un riempitivo. Nell’intera storia iniziale dell’animazione, fu
l’invenzione di Disney a impostare lo standard che gli altri lottavano per raggiungere. E, piuttosto spesso,
il grande genio di Disney, la sua scintilla creativa, costruivano sull’opera altrui.
   Fin qui si tratta di eventi noti. Quel che forse non molti sanno è che il 1928 segna anche un’altra
importante transizione. In quell’anno un genio comico (non un cartone animato) creò il suo ultimo film
muto di produzione indipendente. Quel genio era Buster Keaton. Il film s’intitolava Steamboat Bill, Jr.
   Keaton era nato nel 1895 in una famiglia proveniente dal “vaudeville”. All’epoca del cinema muto, era
riuscito a usare al meglio la gestualità comica per suscitare l’incontrollabile ilarità del pubblico.
Steamboat Bill, Jr. era un classico di questo genere, famoso tra gli appassionati per le sue incredibili
trovate. Il film fu un classico di Keaton - enormemente popolare e tra i migliori del suo genere.
   Steamboat Bill, Jr. uscì prima del cartone animato di Disney Steamboat Willie. La coincidenza dei
titoli non è casuale. Steamboat Willie è la parodia diretta, in versione cartone animato, di Steamboat
Bill2, ed entrambi si rifanno, come fonte originale, alla stessa canzone. Steamboat Willie non deriva
unicamente dall’invenzione del sonoro sincronizzato de Il cantante di jazz. È anche dal personaggio di
Buster Keaton, anch’esso ispirato alla canzone “Steamboat Bill”, che proviene Steamboat Willie, da cui
deriverà poi Topolino.


                                                             19
   Questo “prendere in prestito” non era un fatto raro, né per Disney né per l’industria dei cartoni
animati. Disney rifaceva sempre il verso ai lungometraggi di maggiore successo dei suoi giorni3. Lo
stesso dicasi per molti altri autori. I primi cartoni animati erano pieni di caricature - leggere variazioni sui
temi di successo; rifacimenti di racconti tradizionali. La chiave del successo stava nella brillantezza delle
differenze. Con Disney, fu il suono a far scintillare le animazioni. Più tardi, fu la qualità del suo lavoro
rispetto alle produzioni dei concorrenti. Eppure tutto questo era costruito su una base presa in prestito.
Disney aggiungeva alcuni elementi a opere realizzate da altri prima di lui, creando qualcosa di nuovo
semplicemente sulla base di qualcosa di vecchio.
   Talvolta il prestito si riduceva a poca cosa. Altre volte era significativo. Prendiamo i racconti dei
fratelli Grimm. Se non li conoscete, forse li ritenete storie carine, gioiose, adatte per far addormentare i
bambini. In realtà, per noi i racconti dei fratelli Grimm sono alquanto macabri. Sono rari e forse troppo
pretenziosi quei genitori che hanno il coraggio di leggere queste storie sanguinarie e moraliste ai propri
figli, prima che si addormentino o in qualsiasi altro momento.
   Disney prese questi racconti e li ripropose trasferendoli in un’epoca nuova. Diede loro animazione,
con personaggi e luce propri. Senza eliminare del tutto gli elementi di paura e di pericolo, rese divertente
quel che era truce, e diffuse un genuino sentimento di compassione laddove prima c’era il terrore. E non
lo fece soltanto con l’opera dei fratelli Grimm. Infatti il catalogo dei lavori di Disney, basato su opere
altrui, è stupefacente se considerato nel suo insieme: Biancaneve (Snow White, 1937), Fantasia (1940),
Pinocchio (1940), Dumbo (1941), Bambi (1942), I racconti dello zio Tom (Song of the South,1946),
Cenerentola (Cinderella,1950), Alice nel paese delle meraviglie (Alice in Wonderland, 1951), Robin
Hood (1952), Peter Pan (1953), Lilli e il vagabondo (Lady and the Tramp, 1955), Mulan (1998), La bella
addormentata (Sleeping Beauty, 1959), La carica dei 101 (101 Dalmatians ,1961), La spada nella roccia
(The Sword in the Stone, 1963) e Il libro della giungla (The Jungle Book, 1967) - tralasciando un recente
esempio che forse dovremmo dimenticare in fretta, Treasure Planet (2003). In tutti questi film, Disney
(oppure, la Disney, Inc.) si impadronì degli spunti creativi della cultura che lo circondava, li mescolò con
l’eccezionale talento personale e fece bruciare questa miscela nell’anima della propria cultura.
Impadronirsi, mescolare, bruciare.
   Questo è un tipo di creatività. È una creatività che va ricordata e celebrata. Per alcuni non esiste altra
creatività all’infuori di questa. Non occorre arrivare a tanto per riconoscerne l’importanza. Potremmo
definirla “creatività alla Disney”, sebbene ciò possa rivelarsi un po’ fuorviante. Si tratta, più
precisamente, della “creatività alla Walt Disney” - una forma di espressione e di genialità che costruisce
sulla cultura che ci circonda e produce qualcosa di diverso.
   Nel 1928 la cultura a cui Disney fu libero di attingere era relativamente fresca. Il pubblico dominio del
1928 non poteva dirsi molto stagionato e perciò era molto vitale. La durata media del copyright era di
trent’anni più o meno - per quella minoranza di lavori creativi che era in realtà coperta dal diritto
d’autore4. Ciò significa che per trent’anni, mediamente, gli autori o i detentori del copyright di un’opera
creativa possedevano il “diritto esclusivo” a controllare determinati usi di tale opera. L’utilizzo di ogni
lavoro coperto da copyright entro certi limiti richiedeva il permesso del detentore di tale copyright.
   Allo scadere della durata del diritto d’autore, l’opera diventava di pubblico dominio. A quel punto non
occorreva alcun permesso per riprenderla o usarla. Nessun permesso e, di conseguenza, nessun avvocato.
Il pubblico dominio è una “zona libera da avvocati”. Così, gran parte dei contenuti prodotti nel XIX
secolo era liberamente disponibile perché Disney potesse utilizzarla e riproporla nel 1928. Era libera
perché chiunque - che fosse o meno ben introdotto, ricco o povero, apprezzato o no - potesse usarla e
costruirvi sopra.
   Si è sempre proceduto così - fino a tempi piuttosto recenti. Per gran parte della nostra storia, il
pubblico domino era un orizzonte poco lontano. Dal 1790 fino al 1978, la durata media del copyright non

                                                      20
fu mai superiore ai trentadue anni, e questo voleva dire che la maggior parte della cultura, vecchia di
appena una generazione e mezzo, era liberamente disponibile a chiunque volesse attingervi senza il
permesso di nessuno. L’equivalente odierno sarebbe che i lavori creativi degli anni 1960 e 1970 fossero
liberi, in modo che un successivo Walt Disney potesse elaborarli senza permesso. Invece oggi il pubblico
dominio vale soltanto per contenuti precedenti la Grande Depressione (ossia l’inizio degli anni 1930).
   Ovviamente Walt Disney non aveva il monopolio sulla “creatività alla Walt Disney”. Come non lo ha
l’America. Le norme di una cultura libera, fino a poco tempo fa e con l’eccezione dei paesi totalitari,
sono state ampiamente sfruttate e valgono a livello più o meno universale.
   Consideriamo, per esempio, una forma di creatività che a molti americani appare strana, ma da cui non
si può prescindere nell’ambito della cultura giapponese: i manga, o fumetti. I giapponesi sono fanatici dei
fumetti: rappresentano qualcosa come il 40 per cento delle pubblicazioni, e ne deriva il 30 per cento del
ricavato editoriale complessivo. Si trovano ovunque nella società giapponese, in ogni edicola, portati in
giro da una quantità enorme di pendolari che usano l’eccezionale sistema di trasporto pubblico
giapponese.
   Gli americani tendono a guardare dall’alto in basso questa forma di cultura. Si tratta di una delle nostre
caratteristiche meno simpatiche. È probabile che non riusciamo a capire gran che dei manga, perché
pochi di noi hanno mai letto qualcosa di simile alle storie di questi “racconti grafici”. Per i giapponesi, i
manga coprono ogni aspetto della vita sociale. Per noi, i fumetti sono “uomini in calzamaglia”. E
comunque, non è che le metropolitane di New York siano piene di gente che legge Joyce o anche
Hemingway. Persone di culture differenti hanno modi diversi di distrarsi: i giapponesi hanno questo
modo diverso e interessante.
   Ma il mio obiettivo non è quello di capire i manga. È quello di descrivere una variante sui manga che,
dal punto di vista di un avvocato, appare strana, ma che dal punto di vista di Disney è invece piuttosto
familiare.
   Si tratta del fenomeno dei doujinshi. Anche questi sono fumetti, ma una sorta di fumetti-imitazione.
Un’etica ricca di sfumature governa la creazione dei doujinshi. Se un fumetto è soltanto una copia non è
doujinshi; l’artista deve fornire un contributo all’arte che imita, trasformandola in modo sottile oppure
sostanziale. Un fumetto doujinshi può perciò prendere un soggetto noto e svilupparlo in maniera diversa
- seguendo una trama differente. Oppure può mantenere lo stesso personaggio, modificandone però
leggermente l’aspetto. Non esiste una formula sul modo di rendere “diverso” il doujinshi. Ma per poter
essere considerati veri doujinshi i fumetti devono essere diversi. Ci sono persino dei comitati che
controllano i doujinshi prima di ammetterli alle varie esposizioni e rifiutano qualsiasi imitazione che non
sia altro che una copia.
   Questi fumetti non rappresentano una piccola parte del mercato dei manga. Ne costituiscono una parte
significativa. Oltre 33.000 “circoli” di autori in tutto il Giappone producono questi esempi di creatività
alla Walt Disney. Due volte l’anno, più di 450.000 giapponesi partecipano alla maggiore esposizione
nazionale, dove i doujinshi vengono scambiati e venduti. Questo mercato vive in parallelo al principale
mercato professionale dei manga. In qualche modo si trova ovviamente a competere con questo, ma non
esiste alcuno sforzo organizzato da parte di chi controlla il mercato dei manga per chiudere quello dei
doujinshi. Il quale continua a prosperare, nonostante la concorrenza e nonostante la legge.
   L’aspetto più imbarazzante del mercato dei doujinshi, almeno per chi pratica il diritto, è che ne venga
consentita l’esistenza. Per la legislazione giapponese sul diritto d’autore, che in tal senso (sulla carta)
riflette quella americana, il mercato dei doujinshi è illegale. I fumetti doujinshi sono chiaramente delle
“opere derivate”. Non esiste alcuna pratica generalizzata da parte degli artisti doujinshi per garantirsi il
permesso dei creatori di manga. L’usanza è invece semplicemente quella di prendere e modificare le
creazioni altrui, come Walt Disney fece con Steamboat Bill, Jr. Secondo la normativa giapponese e

                                                     21
americana, quel “prendere” senza il permesso del detentore del copyright originale è illecito. Fare una
copia o un’opera derivata senza tale permesso è una violazione del copyright originale.
   Eppure in Giappone questo mercato illegale esiste e anzi fiorisce, e molti ritengono che sia proprio la
sua esistenza a far prosperare i manga. Come mi disse lo scrittore di fumetti americano Judd Winick, “nei
primi tempi di vita dei fumetti in America accadeva qualcosa di simile a quel che avviene ora in
Giappone... i fumetti americani nacquero copiandosi a vicenda... È così che [gli artisti] imparano a
disegnare - immergendosi nei libri di fumetti e, anziché ricalcarli, osservandoli e ricopiandoli” ... e
costruendovi sopra5.
   Ora i fumetti americani sono decisamente diversi, spiega Winick, in parte per via delle difficoltà
imposte dalla legge alla possibilità di imitazione con le stesse modalità consentite ai doujinshi. Se si parla
di Superman, aggiunge Winick, “esistono queste norme e si devono rispettare”. Ci sono cose che
Superman “non può” fare. “Come artista, è frustrante dover aderire a parametri vecchi di cinquant’anni.”
   La normativa giapponese tende a mitigare tale rigore legale. Alcuni ritengono che sia proprio il
beneficio che ne deriva al mercato dei manga a spiegare questa permissività. Per esempio, secondo
l’ipotesi di Salil Mehra, professore di legge alla Temple University, il mercato dei manga accetta queste
violazioni tecniche perché lo stimolerebbero a diventare più ricco e produttivo. Sarebbe peggio per tutti
se i doujinshi venissero vietati, perciò la legge non li proibisce6.
   Il problema, tuttavia, come Mehra chiaramente ammette, è che il meccanismo che produce questa
risposta di tipo “laissez faire” non è chiaro. Potrebbe davvero essere che nel complesso il mercato vada
meglio se i doujinshi sono permessi anziché vietati, ma questo non spiega perché i singoli possessori del
copyright non sporgano comunque querela. Se la legislazione non prevede alcuna eccezione generale per
i doujinshi, e infatti in alcuni casi gli artisti manga ne hanno denunciato gli autori, perché non esiste un
modello più generale per bloccare questo “libero prendere” da parte della cultura doujinshi?
   Ho trascorso quattro mesi meravigliosi in Giappone, e ho posto questa domanda ogni volta che ho
potuto. Forse alla fine la risposta migliore me l’ha data un amico che lavora in un importante studio
legale giapponese. “Non abbiamo avvocati a sufficienza”, mi disse un pomeriggio. “Semplicemente non
esistono le risorse sufficienti per perseguire casi come questi.”
   Questo è un tema su cui torneremo: la regolamentazione giuridica è in funzione sia di quanto è scritto
nei testi legali sia dei costi necessari per applicare tali testi. Per ora, concentriamoci sull’ovvia domanda
che ne consegue: le cose andrebbero meglio in Giappone se ci fossero più avvocati? I manga sarebbero
più ricchi qualora gli artisti doujinshi venissero perseguiti regolarmente? I giapponesi otterrebbero un
risultato importante se potessero porre fine a questa pratica di condivisione senza compenso? In questo
caso la pirateria danneggia o aiuta chi ne è vittima? Gli avvocati che dovessero combattere questa
pirateria aiuterebbero o danneggerebbero i propri clienti?
   Facciamo una breve pausa.
   Se siete come ero io dieci anni fa, oppure come la maggior parte della gente quando inizia a riflettere
su simili questioni, allora dovrebbe venirvi un dubbio al quale non avete pensato prima.
   Viviamo in un mondo che onora la “proprietà”. Io appartengo a questo mondo. Credo nel valore della
proprietà in generale, e credo anche nel valore di quella strana forma di proprietà che gli avvocati
definiscono “proprietà intellettuale7.” Una società vasta e diversificata non può sopravvivere senza la
nozione di proprietà; una società vasta, diversificata e moderna non può prosperare senza la nozione di
proprietà intellettuale.
   Ma basta riflettere un momento per rendersi conto di come là fuori esista un’estesa quantità di valore
che la “proprietà” non riesce a catturare. Non intendo qualcosa del tipo “il denaro non può comprarti
l’amore”, ma piuttosto quel valore che è chiaramente parte del processo di produzione, commerciale o
non-commerciale che sia. Se gli animatori di Disney avessero rubato una scatola di matite per disegnare

                                                     22
Steamboat Willie, non avremmo esitazioni nel condannare tale azione - per quanto insignificante. Eppure
non c’era nulla di sbagliato, almeno per la legge di allora, se Disney aveva attinto da Buster Keaton o dai
fratelli Grimm. Non c’era nulla di illegale nei confronti di Keaton perché l’uso di Disney era considerato
“legittimo”. Nulla di illegale nel caso dei fratelli Grimm, perché il loro lavoro era di pubblico dominio.
   Perciò, anche se quello di cui Disney si appropriò - o più in generale, ciò di cui si appropria chiunque
eserciti la creatività alla Walt Disney - ha un certo valore, la nostra tradizione non considera illegale tale
appropriazione. Alcune cose restano libere perché vi si possa attingere nell’ambito di una cultura libera, e
questa libertà è positiva.
   Lo stesso avviene nella cultura doujinshi. Se un artista doujinshi fa irruzione nella sede di un editore e
fugge via, senza pagare, con un migliaio di copie dell’ultima produzione - o anche con una sola copia -
non abbiamo esitazione nel sostenere che l’artista ha violato la legge. Oltre alla violazione di proprietà,
ha rubato qualcosa che ha un valore. La legge vieta il furto in qualsiasi forma, piccolo o grande.
   Tuttavia esiste un’evidente riluttanza, anche tra gli avvocati giapponesi, nel sostenere che gli artisti che
copiano i fumetti stiano “rubando”. Questa forma di creatività alla Walt Disney viene considerata
parimenti giusta e legittima, pur se nel caso specifico gli avvocati trovano difficile spiegarne il perché.
   Lo stesso vale per migliaia di esempi che compaiono ovunque, non appena ci guardiamo attorno. Gli
scienziati costruiscono sul lavoro di altri scienziati senza chiedere permessi o pagare per questo
privilegio. (“Mi scusi, professor Einstein, potrei avere il permesso di usare la sua teoria della relatività
per dimostrare che lei aveva torto sulla fisica dei quanti?”) Le compagnie teatrali mettono in scena
adattamenti delle opere di Shakespeare senza chiedere il permesso a nessuno. (Qualcuno crede forse che
Shakespeare sarebbe maggiormente diffuso nella nostra cultura, se ci fosse un archivio centrale per i
relativi diritti a cui debbano prima rivolgersi tutti coloro che ne mettono in scena le opere?) E Hollywood
presenta ciclicamente certi tipi di film: cinque film sugli asteroidi sul finire degli anni 1990; due film su
disastri causati dai vulcani nel 1997.
   Qui e ovunque gli autori costruiscono sempre e comunque sulla creatività che li ha preceduti e che li
circonda. Questo processo di costruzione viene sempre e comunque attuato, almeno parzialmente, senza
permesso e senza ricompensare l’autore originale. Nessuna società, libera o controllata, ha mai richiesto
che si paghi per ogni utilizzo o che si debba sempre domandare il permesso per la creatività alla Walt
Disney. Al contrario, ogni società ha lasciato libera una parte della cultura perché venga rielaborata - le
società libere con un’adesione più piena delle altre, forse, ma tutte lo hanno fatto entro certi limiti.
   La domanda cruciale non è perciò se una cultura sia libera o meno. Tutte le culture lo sono fino a un
certo punto. Ma è invece: “Quanto è libera questa cultura?” Fino a che punto, e con quale ampiezza, la
cultura è lasciata libera perché altri possano appropriarsene e costruirvi sopra? Questa libertà è limitata
agli iscritti al partito? Ai membri della famiglia reale? Alle dieci maggiori corporation della borsa di
New York? Oppure tale libertà è diffusa ad ampio raggio? Agli artisti in generale, che siano associati o
meno con il Metropolitan Museum? Ai musicisti in genere, che siano o non siano bianchi? A chiunque
voglia girare un film, che sia associato o meno con uno studio di produzione?
   Le culture libere sono quelle che lasciano aperta quanta più creatività possibile affinché altri possano
costruire su di essa; le culture non libere, o quelle del permesso, ne lasciano disponibile una quantità
assai minore. La nostra era una cultura libera. Lo sta diventando sempre meno.




                                                      23
                                                          Capitolo 2


                                         Semplici imitatori


   Nel 1839, Louis Daguerre inventò la prima tecnologia pratica in grado di produrre quelle che oggi
definiremmo “fotografie”. Con una definizione abbastanza appropriata, esse venivano chiamate allora
“dagherrotipi”. Il processo era complicato e costoso, e quindi il settore era limitato ai professionisti e a
pochi dilettanti, ricchi e appassionati. (Esisteva perfino una American Daguerre Association che
contribuì a regolamentare l’industria, come fanno tutte le associazioni analoghe, riducendo la
competizione allo scopo di tenere alti i prezzi.)
   Tuttavia, nonostante i prezzi elevati, la richiesta di dagherrotipi era forte, cosa che spinse gli inventori
a cercare modi più semplici ed economici per ottenere “fotografie automatiche”. Ben presto William
Talbot scoprì un processo per produrre i “negativi”. Ma, essendo questi di vetro e dovendo essere
mantenuti bagnati, il procedimento rimaneva dispendioso e ingombrante. Dopo il 1870 vennero
realizzate le lastre asciutte, cosa che facilitò la separazione tra l’operazione di fare le fotografie e quella
di svilupparle. Si trattava comunque di lastre di vetro, e il processo rimaneva perciò fuori portata per gran
parte dei dilettanti.
   Il cambiamento tecnologico che rese possibile la fotografia di massa non ebbe luogo fino al 1888, e fu
l’invenzione di un solo individuo. George Eastman, egli stesso fotografo amatoriale, era frustrato dalla
tecnologia fotografica basata sulle lastre. In un lampo d’intuizione (per così dire), Eastman si rese conto
che, rendendo flessibile la pellicola, questa poteva essere arrotolata attorno a un fuso. Quel rullino poteva
quindi essere portato da uno sviluppatore, riducendo in maniera sostanziale i costi della fotografia.
Diminuendone le spese, Eastman prevedeva di ampliare enormemente la popolazione dei fotografi.
   Eastman realizzò una pellicola flessibile di carta emulsionata e ne collocò i rullini in macchine
fotografiche piccole e semplici: le Kodak. L’apparecchio fu commercializzato facendo leva sulla sua
semplicità. “Tu premi il pulsante e noi pensiamo al resto”1. Così viene descritto in The Kodak Primer (il
manuale della Kodak):
   Il principio del sistema Kodak consiste nel separare l’attività richiesta a una qualsiasi persona che scatti una fotografia,
   dal lavoro che soltanto gli esperti sono in grado di fare... Forniamo a chiunque, uomo, donna o bambino, che sia dotato
   dell’intelligenza sufficiente per puntare una scatola diritta e premere un pulsante, uno strumento che elimina
   completamente dalla pratica della fotografia la necessità di appositi laboratori o, di fatto, di qualsiasi conoscenza
   specifica sull’arte stessa. Si può utilizzare questo sistema senza studi preliminari, senza camera oscura e senza sostanze
   chimiche.2

    Per 25 dollari, chiunque poteva fare fotografie. La macchina fotografica aveva la pellicola pre-caricata
e, dopo l’uso, andava riportata a un laboratorio Eastman, dove si sviluppavano le foto. Naturalmente, con
il tempo furono migliorati sia il costo della macchina fotografica sia la facilità d’impiego. I rullini
divennero così la base per l’esplosiva crescita della fotografia. La macchina fotografica di Eastman
venne messa in vendita per la prima volta nel 1888; un anno dopo, la Kodak stampava oltre seimila
negativi al giorno. Dal 1888 al 1909, mentre la produzione industriale saliva del 4,7 per cento, le vendite
di materiale e attrezzature per la fotografia crebbero dell’11 per cento3. Nello stesso periodo le vendite
della Eastman Kodak segnarono un incremento medio annuale superiore al 17 per cento4.
    Il vero significato dell’invenzione di Eastman, tuttavia, non era di tipo economico. Era di tipo sociale.
La fotografia professionale offriva alla gente uno scorcio di luoghi che altrimenti non avrebbe mai visto.

                                                               24
La fotografia amatoriale le dava la capacità di documentare la propria vita in un modo fino ad allora
impossibile. Come sottolinea lo scrittore Brian Coe, “per la prima volta l’album delle istantanee forniva
all’uomo della strada un documento permanente della sua famiglia e delle sue attività... Per la prima
volta nella storia esisteva una documentazione visiva autentica dell’aspetto e delle attività dell’uomo
comune realizzata senza interpretazioni o pregiudizi [letterari]”5.
   In tal senso, la macchina fotografica e la pellicola Kodak furono tecnologie espressive. Naturalmente,
lo erano anche la matita e il pennello. Ma ci volevano anni di addestramento prima che questi strumenti
potessero essere utilizzati dai dilettanti in maniera utile o efficace. Con la Kodak, divenne possibile
esprimersi in modo assai più rapido e semplice. Venne abbassata la barriera dell’espressione creativa. Gli
snob ne schernirebbero la “qualità”; i professionisti la liquiderebbero come qualcosa di estraneo. Ma
osserviamo un bambino che studia l’inquadratura migliore per scattare una fotografia e avremo il senso
dell’esperienza creativa a cui la Kodak ha dato vita. Tali strumenti democratici offrirono alle persone
comuni un modo molto più facile per esprimere se stesse di quanto fosse possibile con ogni altro
strumento precedente.
   Che cosa occorreva perché questa tecnologia avesse successo? Ovviamente, il genio di Eastman
rappresentò un elemento importante. Ma parimenti importante fu il contesto legale all’interno del quale si
sviluppò l’invenzione di Eastman. Fin dagli albori nella storia della fotografia, si ebbe una serie di
decisioni giuridiche che avrebbero potuto cambiarne il corso in modo sostanziale. Alle corti di giustizia
venne chiesto se il fotografo, dilettante o professionista, dovesse chiedere il permesso prima di scattare
fotografie e stamparle. La risposta fu negativa6.
   Gli argomenti a favore della richiesta di un permesso suoneranno sorprendentemente familiari. Il
fotografo stava “prendendo” qualcosa dalla persona o dall’edificio di cui scattava l’istantanea - stava
piratando qualcosa dotata di un valore. Qualcuno riteneva persino che si stesse impossessando dell’anima
del soggetto. Proprio come Disney non era libero di prendere le matite che i disegnatori usavano per le
animazioni di Topolino, così anche questi fotografi non dovevano essere liberi di prendere immagini a
cui attribuivano un valore.
   Sul fronte opposto troviamo un argomento che appare altrettanto familiare. Certo, si stava usando
qualcosa che aveva un valore. Ma i cittadini dovrebbero avere il diritto di catturare almeno le immagini
che sono già offerte alla vista del pubblico. (Louis Brandeis, che sarebbe divenuto giudice della Corte
Suprema, riteneva che le norme avrebbero dovuto essere diverse per le immagini di spazi privati7.) Forse
questo significava che il fotografo prendeva qualcosa senza dare nulla in cambio. Così come Disney
traeva ispirazione da Steamboat Bill, Jr. oppure dai fratelli Grimm, il fotografo doveva essere libero di
riprendere un’immagine senza doverne compensare la fonte.
   Fortunatamente per il signor Eastman, e per la fotografia in generale, le decisioni iniziali furono a
favore dei pirati. In generale, non occorrevano permessi per catturare un’immagine e condividerla con
altri. Si presumeva che il permesso fosse scontato. L’opzione di partenza era la libertà. (La legge avrebbe
poi inserito un’eccezione per le persone famose: i fotografi di professione, che scattano istantanee di
personaggi noti a scopo di lucro, sono soggetti a restrizioni maggiori di quanto lo siamo noi. Ma, in
genere, si può catturare un’immagine senza liquidare i relativi diritti8.)
   Possiamo soltanto fare qualche ipotesi sulla strada che avrebbe preso la fotografia nel caso la legge
avesse deciso diversamente. Se l’onere della prova fosse stato a carico del fotografo, allora quest’ultimo
avrebbe dovuto dimostrare di avere il permesso. Forse avrebbe dovuto farlo anche la Eastman Kodak,
prima di poter sviluppare la pellicola sulla quale erano state catturate le immagini. Senza il permesso,
dopo tutto, la Eastman Kodak avrebbe beneficiato dal “furto” commesso dal fotografo. Proprio come
Napster trasse vantaggio dalle infrazioni al copyright commesse dagli utenti, la Kodak avrebbe
beneficiato dalle infrazioni sui “diritti d’immagine” dei fotografi. Possiamo allora immaginare che la

                                                    25
legge avrebbe imposto all’azienda di esigere un qualche tipo di permesso prima di procedere allo
sviluppo. Possiamo immaginare un sistema di sviluppo atto a dimostrare l’esistenza del permesso.
    Certo, è possibile immaginare un sistema di questo tipo, ma sembra molto difficile pensare che la
fotografia avrebbe potuto prosperare come ha fatto, qualora il requisito del permesso fosse stato integrato
nelle norme regolamentari. La fotografia sarebbe esistita. Avrebbe acquisito maggiore importanza con
l’andare del tempo. I professionisti avrebbero continuato a usare tale tecnologia come hanno fatto -
poiché sarebbero stati in grado di sostenere più facilmente gli oneri di questo sistema. Ma non ci sarebbe
stata la diffusione della fotografia tra le persone comuni. Non ci sarebbe stato alcuno sviluppo in tal
senso. E, sicuramente, niente di simile alla crescita realizzata per una tecnologia democratica mirata
all’espressione creativa.
    Guidando attraverso il Presidio di San Francisco (ex area militare recentemente adibita a struttura
polivalente9) potrebbe capitarci di incrociare due vistosi autobus scolastici gialli ridipinti con immagini
colorate e vivaci, e il logo “Just Think!” al posto del nome della scuola. Ma c’è ben poco di intellettuale
nei progetti proposti da questi autobus. I quali sono pieni di tecnologie che insegnano ai ragazzi come
manipolare le pellicole. Non quelle di Eastman. Neppure i film del nostro videoregistratore. Piuttosto, “la
pellicola” delle macchine fotografiche digitali. “Just Think!” è un progetto che consente ai ragazzi di fare
dei film, per comprendere e analizzare la cultura delle immagini che li circonda. Ogni anno, questi
autobus raggiungono oltre trenta istituti scolastici, permettendo a trecento-cinquecento ragazzi di
apprendere le nozioni di base sui media mentre li utilizzano. Imparano a pensare facendo. Imparano
mentre lavorano.
    Questi autobus non costano poco, ma la tecnologia che trasportano sta diventando sempre più
economica. Il prezzo di un sistema video digitale di alta qualità si è notevolmente abbassato. Come
spiega un esperto, “cinque anni fa, un buon sistema per realizzare video digitali in tempo reale costava
25.000 dollari. Oggi si può ottenere una qualità professionale per 595 dollari”10. Questi autobus
contengono una tecnologia che appena dieci anni fa sarebbe costata centinaia di migliaia di dollari. E
oggi è possibile immaginare non soltanto autobus come questi, ma anche aule in ogni parte del Paese in
cui i ragazzi imparino sempre meglio quel che gli insegnanti definiscono “alfabetizzazione mediatica”.
    “Alfabetizzazione mediatica,” come la definisce Dave Yanofsky, direttore esecutivo di “Just Think!”,
“è la capacità di... comprendere, analizzare e decostruire le immagini dei media. L’obiettivo è quello di
insegnare [ai ragazzi] le modalità operative dei media, il modo in cui vengono realizzati e diffusi, le
modalità d’accesso”.
    Tutto questo sembra avere poco a che fare con “l’alfabetizzazione”. Per gran parte della gente,
alfabetizzazione significa imparare a leggere e scrivere. Chi è “alfabetizzato” deve conoscere Faulkner e
Hemingway e l’uso corretto della grammatica e della sintassi.
    Forse. Ma in un mondo dove i bambini vedono in media 390 ore l’anno di pubblicità televisiva, oppure
tra 20.000 e 45.000 inserzioni pubblicitarie in generale11, è sempre più importante comprendere la
“grammatica” dei media. Perché, come esiste la grammatica per la parola scritta, così ne esiste una anche
per i media. E, proprio come i ragazzi imparano a scrivere producendo una quantità di prosa orribile, così
imparano a usare i media realizzando (almeno all’inizio) molti progetti mediatici orribili.
    Una cerchia sempre più vasta di accademici e di attivisti considera questa forma di alfabetizzazione
fondamentale per la cultura della prossima generazione. Infatti, sebbene chiunque abbia provato a
scrivere si renda conto di quanto sia difficile - difficile mantenere il filo della storia, conservare
l’attenzione del lettore, esprimersi in un linguaggio comprensibile - pochi tra noi hanno effettivamente
compreso quanto sia difficile usare i media. O, più concretamente, pochi di noi comprendono realmente
il funzionamento dei media, come facciano a conquistare il pubblico o a condurlo nei meandri di una
storia, a scatenare emozioni o a creare suspense.

                                                    26
   La cinematografia ha impiegato una generazione prima di riuscire a realizzare qualcosa di buono. Ma
anche allora, la capacità stava nel realizzare film, non nello scrivere sull’argomento. La bravura
emergeva dalla sperimentazione, non dalla lettutra di un libro sul cinema. Per imparare a scrivere,
bisogna prima scrivere e poi riflettere su quanto si è scritto. Per imparare a scrivere con le immagini,
occorre realizzarle e quindi riflettere su quanto si è creato.
   Questa grammatica si è modificata di pari passo con i cambiamenti dei media. Quando si trattava
soltanto di film, come mi spiegò Elizabeth Daley, direttore esecutivo dell’Annenberg Center for
Communication e responsabile della School of Cinema-Television, entrambi presso l’Università della
California Meridionale, la grammatica riguardava “il posizionamento degli oggetti, il colore, ... il ritmo,
la cadenza e la struttura”12. Man mano però che il computer ha aperto spazi interattivi dove la storia viene
“rappresentata”, ma anche vissuta, quella grammatica cambia. Il semplice controllo della narrazione si
perde, e perciò si rendono necessarie altre tecniche. Lo scrittore Michael Crichton aveva un’assoluta
padronanza della narrativa di fantascienza. Ma quando cercò di progettare un computer game basato su
uno dei suoi lavori, dovette imparare un’arte nuova. Riuscire a guidare le persone all’interno del gioco,
senza che se ne accorgessero, non era qualcosa di ovvio, neppure per un autore di enorme successo13.
   Questa capacità è precisamente l’arte che impara il cineasta. Come fa notare Daley, “si rimane assai
sorpresi dal modo in cui si viene guidati nella trama di un film. È una costruzione perfetta, fatta per
impedirci di notarlo, così non ce ne rendiamo conto. Se il regista fa un buon lavoro, non possiamo
prevedere dove ci condurrà la storia”. Se invece lo capiamo, il film non è riuscito.
   Eppure la spinta verso un’alfabetizzazione più ampia - capace di andare oltre il testo per includere
elementi sonori e visuali - non mira a produrre registi migliori. L’obiettivo non è affatto quello di
perfezionare la professione del cineasta. Al contrario, come spiega Daley,
   dal mio punto di vista, probabilmente il lato più importante della “linea di demarcazione digitale” non è l’accesso a una
   scatola. È la capacità di manipolare il linguaggio che tale scatola veicola. Altrimenti, soltanto un numero assai ristretto
   di persone potrà scrivere con questo linguaggio, e tutti gli altri saranno costretti a rimanere solamente lettori.

   “Solamente lettori.” Passivi destinatari di cultura prodotta altrove. Amanti del divano. Consumatori.
Questo è il mondo dei media tipico del XX secolo.
   Il XXI secolo potrebbe essere diverso. Questo è il punto cruciale: potrebbe significare leggere ma
anche scrivere. O, quantomeno, leggere e capire meglio l’arte dello scrivere. O, ancor meglio, leggere e
comprendere gli strumenti che consentono alla scrittura di guidare o di fuorviare. Scopo di qualsiasi tipo
di alfabetizzazione, e di questa in particolare, è quello di “offrire agli individui la capacità di scegliere il
linguaggio appropriato per ciò che hanno la necessità di creare o di esprimere”14. È quello di consentire
agli studenti di “essere in grado di comunicare nel linguaggio del XXI secolo”15.
   Come ogni linguaggio, anche questo risulta più facile per alcuni che per altri. Non viene appreso
necessariamente meglio da chi eccelle nella lingua scritta. Elizabeth Daley e Stephanie Barish,
quest’ultima direttrice dell’Institute for Multimedia Literacy presso l’Annenberg Center, descrivono
l’esempio particolarmente significativo di un progetto da loro curato in una scuola media. L’istituto si
trovava in un quartiere molto povero nei sobborghi di Los Angeles. In tutte le tradizionali valutazioni del
successo, questa scuola era un fallimento. Ma Daley e Barish gestivano un programma che offriva ai
ragazzi l’opportunità di usare il cinema per esprimere contenuti riguardanti una realtà che gli studenti
conoscevano - la violenza delle armi.
   Il corso si svolgeva il venerdì pomeriggio, e creò subito un problema relativamente nuovo per la
scuola. Mentre per molti corsi la sfida stava nel convincere i ragazzi a prendervi parte, in questo caso il
problema era mandarli via. “I ragazzi arrivavano alle sei del mattino e se ne andavano alle cinque del
pomeriggio,” disse Barish. Si applicavano con una passione maggiore che in ogni altro corso nel
perseguire l’obiettivo dell’insegnamento - imparare a esprimere se stessi.

                                                              27
   Usando qualsiasi “materiale libero fosse reperibile sul web” e strumenti relativamente semplici, per
consentire ai ragazzi di mescolare “immagini, suoni e testo”, come Barish racconta, in questo corso si
realizzò una serie di progetti che affrontavano la violenza delle armi secondo modalità che pochi
avrebbero compreso. Si trattava di un problema vicino alla vita di questi studenti. Il progetto “fornì loro
strumenti e capacità per poterlo comprendere e per parlarne”, spiegò Barish. Quegli strumenti riuscirono
a creare possibilità di espressione - in una maniera molto più efficace e valida di quanto permettesse il
solo ricorso al testo. “Se avessimo dovuto chiedere a questi studenti, ‘ditelo solo con le parole’, si
sarebbero arresi e sarebbero passati ad altro”, afferma Barish, in parte perché, senza dubbio, esprimersi
attraverso un testo non riesce bene a studenti di questo tipo. Tuttavia, il testo non è certo la forma più
adatta per esprimere al meglio certe idee. La forza di quel messaggio dipendeva dalla connessione delle
diverse forme espressive.
   “Ma la scuola non dovrebbe insegnare a scrivere ai ragazzi?” chiesi. In parte, ovviamente, è così. Ma
perché insegniamo loro a scrivere? La scuola, spiegò Daley, dovrebbe fornire agli studenti la capacità di
“costruire significato”. Sostenere che questo avviene soltanto attraverso la scrittura è come dire che
insegnare a scrivere si riduce a insegnare ai ragazzi la corretta ortografia delle parole. Il testo è solo una
parte - e, sempre più spesso, non quella più efficace - della costruzione di significato. Così spiega Daley
nel passaggio più toccante dell’intervista:
   Quel che vogliamo è offrire a questi studenti alternative per costruire significato. Se non diamo loro altro che testo, non
   ci riusciranno. Perché non possono farlo. C’è Johnny che è capace di seguire un video, di giocare con i videogame, di
   riempire le pareti di graffiti, di smontarti l’automobile, ... di fare un sacco di altre cose. Ma non sa leggere. Così Johnny
   viene a scuola e noi gli diciamo: “Johnny, sei un analfabeta. Qualunque cosa tu faccia è inutile”. Beh, a quel punto
   Johnny ha due scelte: se la prenderà con noi o con se stesso. Se il suo ego è abbastanza sano, se la prenderà con noi.
   [Ma se] invece gli diciamo: “Beh, visto che sai fare tutte queste cose, parliamone. Suona della musica, se credi possa
   rispecchiare la tua idea, oppure fammi vedere delle immagini o disegnami qualcosa che la rifletta”. Non mettiamo in
   mano a un ragazzo una videocamera dicendogli: “Andiamo a divertirci e giriamo un piccolo film”. Piuttosto: “Ti
   aiutiamo a prendere gli elementi che comprendi, che sono il tuo linguaggio, per costruire significato su un certo
   argomento...”.

   Questo potenzia enormemente le capacità. E poi quel che accade, ovviamente, è che alla fine, come è successo in tutti
   questi corsi, i ragazzi vanno a sbattere contro la realtà: “Devo spiegarmi, devo proprio scrivere qualcosa”. E, come
   diceva uno degli insegnanti a Stephanie, finiranno per riscrivere un paragrafo 5, 6, 7, 8 volte, finché non è perfetto.
   Perché devono farlo. C’è un motivo per farlo. Devono comunicare qualcosa, anziché essere costretti all’interno dei
   nostri percorsi obbligati. Devono usare proprio quel linguaggio con cui non sanno esprimersi. Ma sono arrivati a
   comprendere che esso può offrire loro molte potenzialità.

   Quando due aeroplani si sono schiantati sul World Trade Center, un altro contro il Pentagono e un
quarto in un campo della Pennsylvania, tutti i media del mondo si sono concentrati su questa notizia.
Praticamente ogni istante di ogni giorno per quella settimana, e per le settimane successive, in particolare
la televisione, e in generale tutti i media, hanno ripresentato la storia degli eventi a cui avevamo appena
assistito. Si trattava di un racconto continuamente ripetuto, perché avevamo già visto i fatti descritti. La
genialità di quest’orrenda azione terroristica fu che il secondo attacco fu ritardato con un calcolo perfetto
allo scopo di avere la certezza che a osservarlo ci fosse il mondo intero.
   Queste ripetizioni del racconto assumevano un sapore sempre più familiare. Erano inframmezzate da
stacchi musicali, mentre grafici elaborati saettavano sullo schermo. Le interviste seguivano una formula
prestabilita. C’era “equilibrio” e serietà. Si trattava di notizie orchestrate nella maniera che siamo sempre
più inclini ad aspettarci, “notizie come intrattenimento”, anche se l’intrattenimento è una tragedia.
   Ma in aggiunta a questa produzione di notizie sulla “tragedia dell’11 settembre”, coloro che si
collegavano a Internet poterono seguirne anche una versione assai diversa. Internet pullulava di
descrizioni sullo stesso evento. Descrizioni che però avevano un sapore molto differente. Qualcuno


                                                               28
aveva realizzato pagine fotografiche, che catturavano immagini da ogni parte del mondo e le
presentavano come una serie di diapositive accompagnate da qualche nota di testo. Qualcun altro
presentava delle lettere aperte. C’erano registrazioni sonore. C’era rabbia e frustrazione. Si tentò di
creare un contesto. In breve, si riuscì eccezionalmente a costruire un granaio globale16, nel senso dato al
termine da Mike Godwin nel libro Cyber Rights, attorno a un evento d’attualità che aveva catturato
l’attenzione del mondo intero. C’erano sì le reti televisive ABC e CBS, ma c’era anche Internet.
   Non intendo semplicemente tessere le lodi di Internet - pur ritenendo che coloro che hanno scelto
questa forma espressiva meritino dei complimenti. Vorrei piuttosto sottolineare il significato di questo
tipo di discorso. Infatti, come una Kodak, Internet consente di catturare immagini. E come in un film
realizzato da uno studente sull’autobus di “Just Think!”, le immagini possono essere integrate con
elementi sonori o testuali.
   Ma, contrariamente a qualsiasi tecnologia semplicemente in grado di catturare immagini, Internet
permette la condivisione di queste creazioni con un numero straordinario di persone, praticamente in
modo immediato. Qualcosa di nuovo nella nostra tradizione - non solo che la cultura venga catturata a
livello meccanico, e ovviamente neppure che si commentino gli eventi, ma il fatto che questo mix di
immagini, suoni e commenti così catturati possa essere diffuso praticamente in modo istantaneo.
   L’11 settembre non è stata un’anomalia. È stato un inizio. All’incirca nello stesso periodo, stava
entrando nella coscienza popolare una forma di comunicazione, cresciuta in seguito enormemente: il
Web-log, o blog. Si tratta di una specie di diario pubblico e, nell’ambito di certe culture, come in
Giappone, funziona forse come un diario. In quelle culture, registra i fatti privati in un contesto pubblico
- è una sorta di Jerry Springer17 elettronico, raggiungibile ovunque nel mondo.
   Ma negli Stati Uniti, i blog hanno assunto una connotazione alquanto diversa. Alcuni ne usano lo
spazio semplicemente per parlare della propria vita personale. Ma altri lo fanno per partecipare a una
discussione pubblica. Dibattere questioni d’importanza collettiva, criticare altri che, secondo loro, stanno
sbagliando, offrire soluzioni a problemi che sono sotto gli occhi di tutti: i blog creano la sensazione di
una assemblea pubblica virtuale, ma di un tipo a cui non intendiamo partecipare tutti
contemporaneamente e in cui le conversazioni non sono necessariamente legate tra loro. Gli interventi
migliori dei blog sono quelli relativamente brevi: riportano direttamente stralci di discorsi altrui, per
criticarli o integrarli. Rappresentano probabilmente la forma più importante di dibattito pubblico non
organizzato di cui disponiamo.
   È un’affermazione forte. Eppure la dice lunga tanto sulla nostra democrazia quanto sui blog. Questa è
la parte dell’America più difficile da accettare per quanti tra noi amano l’America: la nostra democrazia
si è atrofizzata. Abbiamo le elezioni, naturalmente, e di solito le corti di giustizia ne convalidano i
risultati. Un numero relativamente ridotto di elettori si reca a votare. Il ciclo di queste elezioni è divenuto
una faccenda di routine e per professionisti. La maggior parte di noi ritiene che questa sia la democrazia.
   Ma la democrazia non ha mai significato solo elezioni. Democrazia significa governo del popolo, e
governo vuol dire qualcosa di più che elezioni soltanto. Nella nostra tradizione, significa anche controllo
tramite dibattiti ragionati. Questa fu l’idea che catturò l’immaginazione di Alexis de Tocqueville,
l’avvocato francese del XIX secolo a cui si deve il resoconto più importante sulla prima fase della
“Democrazia in America”. Non furono le elezioni popolari ad affascinarlo - fu la giuria, un’istituzione
che dava alla persone comuni il diritto di scegliere tra la vita o la morte di altri cittadini. E rimase ancor
più affascinato dal fatto che la giuria non si limitava a votare sulla sentenza da imporre. Doveva
deliberare. I membri discutevano sul risultato “giusto”; cercavano di persuadersi a vicenda su quale fosse
la sentenza “corretta” e, almeno nelle cause penali, dovevano raggiungere un accordo unanime perché il
processo potesse considerarsi concluso18.


                                                      29
   Eppure, perfino questa istituzione viene meno nella vita americana odierna. E, in sua vece, non esiste
alcuno sforzo sistematico per consentire ai cittadini di deliberare. C’è chi preme per creare proprio
un’istituzione di questo tipo19. E, in alcune cittadine del New England, esiste ancora qualcosa di simile.
Ma per gran parte di noi il più delle volte non esiste tempo o luogo dove possa manifestarsi una
“deliberazione democratica”.
   Fatto ancora più bizzarro, in genere non è neppure consentito che questo avvenga. Noi, la democrazia
più potente del mondo, abbiamo sviluppato una solida abitudine che c’impedisce di parlare di politica.
Sta bene parlarne con chi è d’accordo con noi. Ma è poco educato discutere di politica con persone di
opinioni diverse. Il discorso politico si fa isolato, e il discorso isolato diventa più estremo20. Diciamo
quel che gli amici vogliono sentire, e ascoltiamo ben poco al di là di quanto dicono gli amici.
   Proviamo a entrare in un blog. È la sua stessa architettura a risolvere parte di questo problema. Si
inseriscono testi quando si vuole, e si leggono quando si desidera farlo. È difficile mantenere la sincronia
temporale. Le tecnologie che consentono la comunicazione asincrona, come la posta elettronica,
accrescono le opportunità di comunicazione. I blog attivano il discorso pubblico senza che la gente abbia
bisogno di radunarsi in unico luogo.
   Ma oltre l’architettura, i blog hanno anche risolto il problema delle regole. Nello spazio dei blog non
esiste (ancora) alcuna regola per parlare di politica. Tale spazio pullula di interventi politici, di destra e di
sinistra. Alcuni dei siti più popolari sono conservatori oppure libertari, ma ne esistono parecchi di ogni
tendenza politica. E anche i blog che non sono politicizzati, quando l’occasione lo merita, si occupano di
questioni politiche.
   Oggi questi blog non sono molto significativi, ma neppure così privi di importanza. Il nome di Howard
Dean può essere scomparso dalla corsa per le presidenziali del 2004, ma non dai blog. Eppure, anche se
il numero di lettori è limitato, il fatto che vengano letti sta producendo un certo effetto. Una conseguenza
diretta riguarda certi fatti che hanno avuto un ciclo di vita diverso sui grandi media. L’affare Trent Lott
ne è un esempio. Quando commise una “gaffe” alla festa per il Senatore Strom Thurmond, lodandone in
sostanza le idee segregazioniste, Lott calcolò correttamente che questa vicenda sarebbe scomparsa dalla
grande stampa nel giro di quarantotto ore. Così fu. Ma non ne previde il ciclo di vita nello spazio dei
blog. I blogger continuarono a fare ricerche. Col tempo emerse un numero sempre maggiore di occasioni
in cui si era ripetuta la medesima “gaffe”. Finché la storia riapparve sulla grande stampa. Alla fine, Lott
fu costretto a dimettersi da leader della maggioranza al Senato21.
   Tale differenza è resa possibile dal fatto che tra i blog non esiste la stessa pressione commerciale che
caratterizza altre attività imprenditoriali. La televisione e i giornali sono imprese commerciali. Devono
produrre per conservare l’attenzione del pubblico. Se perdono lettori, le entrate diminuiscono. Devono
procedere come pescecani.
   Ma i blogger non sono soggetti a simili limitazioni. Possono diventare ossessivi, concentrarsi su un
evento, fare indagini serie. Se un blogger scrive un articolo particolarmente interessante, un numero
sempre maggiore di persone inserirà un link a quell’articolo. E man mano che cresce il numero dei link,
la storia guadagna posizioni. La gente legge quel che è popolare; e ciò che è popolare viene scelto tramite
un processo molto democratico di punteggio generato dai suoi simili.
   Esiste anche una seconda ragione per la quale i blog hanno un ciclo diverso rispetto alla grande
stampa. Come mi disse Dave Winer, uno dei padri di questo movimento e autore di software per molti
decenni, un’altra differenza riguarda l’assenza di “conflitti d’interesse” di tipo economico. “Credo che
occorra eliminare questi conflitti” dal giornalismo, aggiunse Winer. “Un giornalista dilettante
semplicemente non è toccato da conflitti d’interesse, oppure è talmente facile scoprirli che è possibile
scegliere di ignorarlo.”


                                                       30
   Questi conflitti acquistano maggiore importanza di pari passo con l’aumento della concentrazione dei
media (si veda più avanti per ulteriori dettagli sul tema). Questa concentrazione permette ai media di
nascondere meglio i fatti al pubblico - come la CNN ammise di aver fatto dopo l’annuncio della guerra in
Iraq, perché temeva possibili conseguenze per i propri operatori22. La concentrazione impone inoltre di
seguire una linea più coerente. (Nel pieno della guerra in Iraq, ho letto un intervento su Internet di
qualcuno che si era trovato ad ascoltare una comunicazione via satellite con una giornalista inviata in
Iraq. I responsabili della direzione di New York le hanno ripetuto più volte che il suo resoconto sulla
guerra era troppo cupo: doveva presentare un pezzo dal taglio più ottimista. Quando lei rispose che non
si sentiva di garantirlo, i responsabili di New York le dissero che al pezzo stavano pensando loro.)
   Lo spazio dei blog offre ai dilettanti un modo per entrare nel dibattito - “dilettanti” non perché
inesperti ma, come gli atleti alle Olimpiadi, persone che non ricevono alcun compenso per i propri
articoli. Ciò consente di avere riscontri molto più ampi su un evento, come hanno rivelato i resoconti del
disastro del Columbia, quando centinaia di persone che vivevano nell’area sud-occidentale degli Stati
Uniti si sono collegati a Internet per raccontare quel che avevano visto23. E spinge inoltre i lettori a
seguire l’intera gamma dei vari interventi e a “triangolare”, come dice Winer, la verità. I blog, afferma
sempre Winer, rappresentano “un canale di comunicazione diretta con la controparte, e il mediatore viene
eliminato” - con tutti i benefici, e i costi, che questo implica.
   Winer è ottimista sul futuro del giornalismo contagiato dai blog. “Diventerà un requisito essenziale”, è
la sua previsione, per le figure pubbliche e, sempre più, anche per quelle private. Non è chiaro se questo
faccia o meno piacere alla categoria - a qualche giornalista è stato imposto di dare un taglio al proprio
blog24. Ma è chiaro che ci troviamo ancora in un periodo di transizione. “Gran parte di quanto stiamo
facendo ora sono esercizi di riscaldamento”, mi diceva Winer. Molto materiale deve raggiungere un buon
livello di maturazione prima che questo spazio possa produrre effetti duraturi. E poiché inserire contenuti
in questo spazio è una delle pratiche in cui si commettono le infrazioni minori nell’uso di Internet (se ci
riferiamo alle violazioni del diritto d’autore), aggiunse Winer, “saremo gli ultimi costretti a chiudere”.
   Questa libertà d’espressione ha influenza sulla democrazia. Winer ritiene che ciò accada perché “non
si deve lavorare per qualcuno che controlla il flusso dell’informazione”. È vero. Ma l’influenza sulla
democrazia si verifica anche in un altro modo. Se un numero sempre maggiore di cittadini esprime la
propria opinione, e la difende per iscritto, cambierà il modo in cui le persone giungono a comprendere le
questioni pubbliche. È facile sbagliare e commettere errori quando tutto rimane nella propria testa. È più
difficile quando il prodotto dei nostri pensieri viene sottoposto alle critiche altrui. Naturalmente, è raro
incontrare qualcuno che ammetta di essere stato convinto di avere fatto un errore. Ma è ancora più raro
che qualcuno possa ignorare il proprio errore una volta che questo sia stato provato. L’atto di mettere per
iscritto idee, discussioni e critiche migliora la democrazia. Oggi esistono probabilmente un paio di
milioni di blog dove questa scrittura prende corpo. Quando si raggiungeranno i dieci milioni, allora ci
sarà qualcosa di straordinario da raccontare.
   John Seely Brown è il responsabile della ricerca alla Xerox Corporation. Il suo lavoro, come viene
descritto nel suo sito Web personale, riguarda “l’apprendimento umano e ... la creazione di ecologie di
conoscenza per creare ... innovazione”.
   Brown considera perciò queste tecnologie di creatività digitale in modo un po’ diverso da quanto ho
delineato finora. Sono sicuro che sarebbe stimolato da qualsiasi tecnologia che possa migliorare la
democrazia. Ma il suo vero interesse riguarda il modo in cui tali tecnologie incidono sull’apprendimento.
   Secondo Brown, si impara armeggiando e manipolando. “Molti di noi”, spiega, facevano pratica “sui
motori delle motociclette e dei taglia-erba, su automobili, radio e così via”. Ma le tecnologie digitali
consentono una manipolazione di tipo diverso - con idee astratte pur se in forma concreta. I ragazzi di
“Just Think!” non riflettono soltanto sul modo in cui la pubblicità presenta un politico; grazie alla

                                                    31
tecnologia digitale, possono smontare quell’inserzione e manipolarla, curiosarvi dentro per vedere il
modo in cui fa ciò che fa. Le tecnologie digitali hanno lanciato un nuovo tipo di bricolage, o “collage
libero”, come lo definisce Brown. Le manipolazioni di tante persone possono essere integrate o
trasformate da quelle di molte altre.
   Finora il migliore esempio su larga scala di questo tipo di manipolazione è il software libero, o
software open source. Si tratta di software il cui codice sorgente viene condiviso. Chiunque può
prelevare la tecnologia che fa girare un programma di software libero o open source. E chiunque sia
interessato a imparare come funziona una parte specifica di tale tecnologia, può manipolarne il codice.
   Questa opportunità crea una “piattaforma di apprendimento di tipo completamente nuovo”, spiega
Brown. “Non appena si dà il via a quest’operazione, si ... fa girare un collage libero nella comunità, in
modo che altre persone possano vedere il nostro codice, manipolarlo, provarlo, cercare di migliorarlo.”
Ogni tentativo è una sorta di apprendistato. “L’open source diventa un’importante piattaforma per
l’apprendistato.”
   In questo processo, “gli elementi che si manipolano sono astratti. Si tratta di codice”. I ragazzi “stanno
passando alla capacità di manipolare i concetti astratti, e questa non è più un’attività solitaria che si fa in
un garage. Si lavora su una piattaforma comunitaria ... Si manipola materiale altrui. Più si manipola, più
si migliora”. Più si migliora, più si impara.
   Lo stesso accade anche con i contenuti. E quando tali contenuti fanno parte del Web, accade con
l’identico approccio collaborativo. Come spiega Brown, “il Web [è] il primo mezzo di comunicazione
che fa davvero onore alle molteplici forme di intelligenza”. Le tecnologie precedenti, come per esempio
la macchina per scrivere o gli elaboratori di testi, contribuivano ad ampliare il testo. Ma il Web amplia
assai più del testo. “Il Web ... ti dice che se sei portato per la musica, per l’arte, per le immagini, se sei
interessato ai filmati ... [allora] puoi ottenere molto usando questo mezzo, che è ora in grado di allargare
e di esaltare queste molteplici forme di intelligenza.”
   Brown si riferisce a quello che insegnano Elizabeth Daley, Stephanie Barish e “Just Think!”: questa
manipolazione di oggetti culturali insegna man mano che crea. Sviluppa talenti in modo diverso e
realizza un tipo diverso di apprezzamento.
   Eppure la libertà di manipolare questi oggetti non è garantita. Anzi, come vedremo più avanti, questa
libertà viene fortemente e sempre più spesso contestata. Mentre non c’è alcun dubbio che nostro padre
avesse il diritto di smontare il motore dell’automobile, ne esistono parecchi sul fatto che nostra figlia
abbia il diritto di manipolare le immagini che trova attorno a sé. La legge e, sempre più, la tecnologia
interferiscono con una libertà che la stessa tecnologia, e la curiosità, altrimenti ci assicurerebbero.
   Queste restrizioni hanno attirato l’attenzione di ricercatori e studiosi. Il professor Ed Felten di
Princeton (di cui parleremo meglio nel capitolo 10) ha messo a punto una tesi convincente a sostegno del
“diritto di manipolare” applicato all’informatica e alla conoscenza in generale25. Ma la preoccupazione di
Brown è antecedente, o più giovane, o più fondamentale. Riguarda l’apprendimento che i ragazzi
possono seguire, o meno, a causa della legge.
   “Ecco dove sta andando la didattica del XXI secolo”, spiega Brown. Dobbiamo “comprendere il modo
in cui pensano e vogliono imparare i ragazzi che crescono digitali”.
   “Eppure”, come prosegue Brown, e come chiarirà nel complesso questo libro, “stiamo costruendo un
sistema giuridico che sopprime completamente le tendenze naturali dei ragazzi digitali di oggi... Stiamo
costruendo un’architettura che libera il 60 per cento del cervello e un sistema legale che invece lo
blocca”.
   Stiamo costruendo una tecnologia che prende la magia della Kodak, combina le immagini in
movimento con il sonoro, vi aggiunge uno spazio per i commenti e l’opportunità di diffondere ovunque
quella creatività. Ma stiamo realizzando una normativa che bloccherà quella tecnologia.

                                                      32
  “Non è questo il modo di gestire la cultura”, come Brewster Kahle, che incontreremo nel capitolo 9,
ebbe a dire in un raro momento di sconforto.




                                                  33
                                                 Capitolo 3


                                           Cataloghi


   Nell’autunno del 2002, Jesse Jordan di Oceanside, Stato di New York, si iscrisse come matricola al
Rensselaer Polytechnic Institute (RPI) di Troy, nello Stato di New York. La sua materia di
specializzazione era la tecnologia dell’informazione. Pur non essendo un programmatore, a ottobre Jesse
decise di iniziare a lavorare sulla tecnologia del motore di ricerca disponibile sulla rete dell’RPI.
   Quest’ultimo è uno dei più prestigiosi istituti per la ricerca tecnologica esistente in America. Offre
diplomi in discipline che spaziano dall’architettura e dall’ingegneria alle scienze dell’informazione. Oltre
il 65 per cento dei suoi cinquemila studenti rientrano nel 10 per cento dei migliori nei rispettivi corsi
superiori. La scuola rappresenta perciò una perfetta combinazione tra il talento e l’esperienza per
immaginare, e quindi per costruire, una generazione tagliata per l’era delle reti.
   La rete informatica dell’RPI collega tra loro studenti, docenti e amministrazione. Collega anche
l’istituto a Internet. Non tutto quello che è disponibile sulla rete dell’RPI è reperibile su Internet. Ma la
rete è progettata in modo da offrire l’accesso a Internet agli studenti, oltre che un accesso più riservato
agli altri membri della comunità dell’RPI.
   I motori di ricerca danno la misura della familiarità di una rete. Google ha reso Internet molto più
vicina a tutti noi, migliorando in modo fantastico la qualità della ricerca online. I motori di ricerca
specializzati riescono a farlo anche meglio. L’idea di motori di ricerca per le “intranet”, che effettuano
ricerche all’interno di una specifica istituzione, è quella di fornire agli utenti di quest’ultima un accesso
adeguato al materiale interno. Le aziende se ne servono in modo costante, consentendo ai dipendenti di
accedere a materiale inaccessibile per le persone esterne. Lo stesso vale per le università.
   Questi motori sono potenziati dalla stessa tecnologia della rete. Microsoft, per esempio, ha un file
system di rete che rende assai semplice, per i motori di ricerca integrati nella rete stessa, interrogare il
sistema su informazioni relative ai contenuti pubblicamente disponibili (all’interno di quella rete). Il
motore di ricerca di Jesse era realizzato in modo da approfittare di questa tecnologia. Usava il file system
di rete della Microsoft per costruire un indice di tutti i file disponibili sulla rete dell’RPI.
   Quello di Jesse non era il primo motore di ricerca messo a punto per la rete dell’RPI. Anzi, il suo non
era altro che la modifica di motori realizzati da altri. L’unico miglioramento di rilievo che vi apportò fu
la sistemazione di un “bug” all’interno del sistema di file-sharing di Microsoft, che poteva causare il
blocco del computer. Con i motori preesistenti, quando si cercava di accedere a un file tramite un
browser Windows presente su un elaboratore non in linea, il computer poteva bloccarsi. Jesse modificò
leggermente il sistema per risolvere quel problema, aggiungendo un pulsante sul quale l’utente poteva
fare clic per vedere se la macchina in cui si trovava il file fosse ancora online.
   Il motore di Jesse andò online verso la fine di ottobre. Nel semestre successivo, egli continuò a
lavorarci sopra per migliorarne la qualità. A marzo il sistema funzionava piuttosto bene. Jesse aveva
accumulato nell’apposita directory oltre un milione di file, che contenevano qualsiasi tipo di contenuto
fosse presente sui computer degli utenti.
   Perciò l’indice prodotto dal motore di ricerca comprendeva immagini, che gli studenti potevano
inserire nei propri siti Web; copie di appunti o di ricerche; copie di opuscoli informativi; spezzoni di



                                                     34
filmati creati dagli studenti; fascicoli universitari - praticamente qualsiasi materiale messo a disposizione
dagli studenti della rete dell’RPI all’interno della cartellina pubblica dei loro computer.
    Ma l’indice comprendeva anche file musicali. In realtà, erano tali un quarto dei file elencati dal motore
di ricerca. Ma ciò significava, ovviamente, che tre quarti non lo erano, e - perché questo punto sia
assolutamente chiaro - Jesse non fece nulla per indurre gli altri studenti a inserire file musicali nelle
cartelline pubbliche. Non fece nulla per indirizzare il motore di ricerca verso questi file. Era un ragazzo
che manipolava una tecnologia simile a quella di Google in una università in cui studiava scienze
dell’informazione, e il cui obiettivo, di conseguenza, era proprio quello di lavorare sulla tecnologia.
Contrariamente a Google, o a Microsoft, per quel che vale, egli non ricavò nulla da questa
manipolazione; non era coinvolto in alcuna attività commerciale che avrebbe potuto ricavare danaro da
quest’esperimento. Era un ragazzo che manipolava una tecnologia in un ambiente dove si riteneva che si
dovesse fare proprio questo.
    Il 3 aprile 2003, Jesse venne contattato dal rettore del Rensselaer Polytechnic Institute. Il rettore lo
informò che la Recording Industry Association of America, la RIAA, avrebbe sporto denuncia contro di
lui e altri tre studenti che lui non conosceva neppure, due dei quali erano iscritti in altre università.
Alcune ore dopo, venne consegnata a Jesse una copia cartacea della denuncia. Man mano che ne leggeva
il testo e seguiva i resoconti del telegiornale su queste vicende, il suo stupore cresceva. “Era assurdo”, mi
disse. “Non credo d’aver fatto nulla di male ... Non credo ci fosse nulla di illegale nel motore di ricerca
che gestivo o ... nelle modifiche da me apportate. Nessuna di queste poteva in alcun modo promuovere o
stimolare l’opera di pirati. Avevo modificato quel motore soltanto perché fosse più facile da usare” -
ribadisco, un motore di ricerca, che Jesse non aveva ideato, che usava il sistema di file-sharing di
Windows, che Jesse non aveva realizzato, per consentire ai membri della comunità dell’RPI di accedere a
contenuti, che Jesse non aveva creato né inserito, gran parte dei quali non aveva nulla a che fare con la
musica.
    Ma la RIAA accusò Jesse di essere un pirata. Sostennero che amministrava una rete e perciò aveva
violato “intenzionalmente” la legislazione sul diritto d’autore. Gli chiesero il risarcire i danni provocati
dal suo operato. Per casi di “violazione intenzionale”, il Copyright Act specifica una sanzione che gli
avvocati definiscono “statutory damages”, ossia “danni fissati dalla legge”1, in base alla quale il titolare
di un copyright può arrivare a pretendere fino a 150.000 dollari per ciascuna violazione. Poiché la RIAA
sosteneva che le specifiche violazioni erano più di cento, chiese a Jesse un rimborso pari ad almeno
15.000.000 dollari.
    Analoghe denunce vennero sporte nei confronti di altri tre studenti: uno studiava all’RPI, un altro alla
Michigan Technical University, e un terzo a Princeton. La loro situazione era simile a quella di Jesse.
Sebbene ogni caso differisse nei dettagli, la questione di fondo era esattamente la stessa: richieste di
rimborsi enormi per “danni” ai quali la RIAA sosteneva di avere diritto. Facendo la somma di tutte le
istanze, le quattro denunce chiedevano alle corti di giustizia degli Stati Uniti un rimborso per i querelanti
pari a quasi 100 miliardi di dollari - sei volte il ricavato totale dell’industria cinematografica nel 20012.
    Jesse chiamò i suoi genitori, che si mostrarono solidali ma anche un po’ spaventati. Aveva uno zio
avvocato, il quale iniziò a trattare con la RIAA. Gli chiesero di quanto denaro disponesse Jesse. Il
ragazzo aveva messo da parte 12.000 dollari, frutto di lavori estivi e di altre attività saltuarie. E così
pretesero 12.000 dollari per chiudere il caso.
    La RIAA voleva che Jesse ammettesse di avere compiuto un’azione illegale. Lui rifiutò. Volevano che
si piegasse a un’ingiunzione che sostanzialmente gli avrebbe reso impossibile trovare lavoro in parecchi
ambiti tecnologici per il resto della vita. Rifiutò. Gli fecero capire che la causa non sarebbe stata
piacevole. (Come mi raccontò il padre, il principale avvocato del caso, Matt Oppenheimer, disse a Jesse:
“Meglio evitare un’altra seduta da un dentista come me”.) E, per tutta la durata della trattativa, la RIAA

                                                     35
ribadì che non avrebbe chiuso il caso finché non avesse ottenuto fino all’ultimo centesimo dei risparmi di
Jesse.
   La famiglia del ragazzo si sentì oltraggiata da queste pretese. Volevano combattere. Ma lo zio
avvocato spiegò loro la natura del sistema giuridico americano. Jesse poteva affrontare la RIAA. Poteva
perfino vincere. Ma il costo per affrontare un procedimento come questo, venne spiegato a Jesse, sarebbe
stato almeno di 250.000 dollari. Se avesse vinto, non avrebbe mai recuperato quel denaro. Se avesse
vinto, avrebbe avuto un pezzo di carta in cui si diceva che aveva vinto, e un pezzo di carta in cui si
diceva che lui e la sua famiglia erano in bancarotta.
   Così Jesse si trovò di fronte a una scelta di tipo mafioso: 250.000 dollari e la possibilità di vincere,
oppure 12.000 dollari e l’archiviazione del caso.
   L’industria discografica insiste che si è trattato di una questione di legge e di morale. Mettiamo per un
momento da parte la legge e pensiamo alla morale. Dove sta la morale in una causa come questa? Che
cosa c’è di buono nel volere a tutti i costi un capro espiatorio? La RIAA è una lobby straordinariamente
potente. Si dice che lo stipendio del suo presidente superi il milione di dollari l’anno. Gli artisti, d’altra
parte, non sono ben pagati. L’artista discografico medio guadagna 45.900 dollari3. La RIAA ha a
disposizione parecchi modi per influenzare e manovrare le scelte politiche. Che cosa c’è di morale
nell’impadronirsi dei risparmi di uno studente che gestisce un motore di ricerca?4
   Il 23 giugno Jesse trasferì i propri risparmi sul conto bancario di un avvocato della RIAA. Il caso
venne quindi archiviato. E con questo, il ragazzo che aveva “smanettato” su un computer fino a
provocare una querela da 15 milioni di dollari, si trasformò in un attivista:
   Certo [prima] non lo ero. Non ho mai desiderato diventarlo ... [Ma] ci sono stato spinto. Non avrei mai potuto
   prevedere nulla di simile, ma ritengo del tutto assurdo il comportamento della RIAA.

   I genitori di Jesse tradiscono un certo orgoglio per il loro attivista suo malgrado. Come mi disse il
padre, Jesse “si considera molto conservatore, e lo sono anch’io ... Non è certo il tipo che abbraccia gli
alberi per salvarli ... È strano che abbiano incastrato proprio lui. Ma lui vuol far sapere alla gente che
stanno trasmettendo il messaggio sbagliato. E vuole porre rimedio a questa situazione”.




                                                        36
                                                         Capitolo 4


                                                         Pirati


   Se “pirateria” significa usare la proprietà creativa di altri senza il loro permesso - tenendo valida la
teoria del “se c’è un valore, allora c’è un diritto” - la storia dell’industria produttrice di contenuti è una
storia di pirateria. Ogni settore importante dei “grandi media” odierni -cinematografico, discografico,
radiofonico e della TV via cavo - è nato da un qualche tipo di cosiddetta pirateria. La storia è coerente sul
modo in cui i pirati dell’ultima generazione sono entrati a far parte del club della generazione corrente -
almeno finora.


                                                      Cinema
   L’industria cinematografica di Hollywood fu costruita da pirati in fuga1. All’inizio del XX secolo,
autori e registi emigrarono dalla costa orientale in California, anche per sfuggire al controllo che i
brevetti avevano garantito all’inventore della cinematografia, Thomas Edison. Questo controllo veniva
esercitato tramite un “trust” monopolistico, la Motion Pictures Patents Company (MPPC), e si basava
sulla proprietà creativa di Thomas Edison - i brevetti. Edison aveva formato la MPPC per esercitare i
diritti derivatigli dalla proprietà creativa, e la MPPC faceva sul serio nell’imporre tale controllo. Così un
commentatore racconta parte della storia:
   Alla scadenza di gennaio 1909 tutte le aziende dovevano mettersi in regola con la licenza. A febbraio, i fuorilegge privi
   di licenza, che si autodefinivano indipendenti, protestarono contro il trust e proseguirono l’attività senza sottomettersi
   al monopolio di Edison. Nell’estate del 1909 il movimento indipendente era in piena azione, con produttori e
   proprietari di teatri di posa, che ricorrevano ad apparecchiature illegali e a pellicole importate per creare un mercato
   sotterraneo.
   Mentre il Paese viveva una formidabile espansione nella diffusione dei “nickelodeon”2, la Società dei Brevetti reagì nei
   confronti del movimento indipendente creando un “braccio armato” supplementare, noto come General Film Company,
   per fermare l’attività degli indipendenti privi di licenza. Grazie a tattiche repressive divenute leggendarie, la General
   Film confiscò le apparecchiature illegali, bloccò la fornitura di prodotti alle sale che proiettavano film senza licenza e
   monopolizzò di fatto la distribuzione con l’acquisizione di tutte le agenzie distributrici di film statunitensi, eccetto
   quella posseduta dall’indipendente William Fox, che oppose resistenza al trust anche quando gli venne revocata la
   licenza.3

   I Napster di quei giorni, gli “indipendenti”, erano aziende come la Fox. E non diversamente da quanto
avviene oggi, questi indipendenti si scontravano con una vigorosa opposizione. “Le riprese venivano
impedite dal furto di macchinari e da frequenti ‘incidenti’, come la perdita di negativi, apparecchiature,
edifici e talvolta anche di vite umane.”4 Ciò convinse gli indipendenti ad abbandonare la costa orientale.
La California era abbastanza lontana dalla portata di Edison, perché i cineasti potessero piratarne le
invenzioni senza dover temere la legge. E fu proprio quello che fecero i protagonisti della cinematografia
di Hollywood, Fox primo fra tutti.
   Naturalmente, la California si sviluppò rapidamente e, alla fine, il braccio repressivo della legislazione
federale raggiunse anche l’occidente. Ma poiché i brevetti garantivano a chi li deteneva un monopolio
“limitato” (all’epoca appena diciassette anni), quando si raggiunse un numero sufficiente di agenti
federali i brevetti erano estinti. Era nata una nuova industria, in parte scaturita dalla pirateria contro la
proprietà creativa di Edison.

                                                              37
                                     Registrazioni musicali
   L’industria discografica nacque da un altro tipo di pirateria, anche se, per capire come, occorre
esaminare alcuni dettagli sulle norme che regolamentavano la musica.
   Nel periodo in cui Edison e Henri Fourneaux inventarono le macchine per la riproduzione della musica
(Edison il fonografo, Fourneaux la pianola automatica), la legge assegnava ai compositori il diritto
esclusivo di controllare le copie e le esecuzioni pubbliche della propria musica. In altri termini se, nel
1900, avessimo voluto una copia del successo di Phil Russel “Happy Mose”, del 1899, la legge stabiliva
che avremmo dovuto pagare per avere il diritto a una copia dello spartito musicale e, inoltre, avremmo
dovuto pagare per avere il permesso di eseguirlo in pubblico.
   E se avessimo voluto registrare “Happy Mose”, usando il fonografo di Edison oppure la pianola di
Fourneaux? Ecco dove inciampava la legge. Era abbastanza chiaro che avremmo dovuto acquistare una
copia dello spartito musicale che avremmo registrato. Ed era sufficientemente chiaro che avremmo
dovuto pagare per qualsiasi esecuzione pubblica della canzone che volevamo registrare. Ma non era per
niente chiaro se avremmo dovuto pagare come per una “esecuzione pubblica”, qualora la registrazione
della canzone avvenisse in casa nostra (anche oggi, non dobbiamo nulla ai Beatles se cantiamo le loro
canzoni sotto la doccia), oppure se registravamo la canzone eseguendola a memoria (le copie
memorizzate nel cervello non sono - ancora - regolate dalle norme sul copyright). Non era chiaro se al
compositore spettasse qualcosa quando si cantava semplicemente la canzone in un apparecchio per la
registrazione, nell’intimità della propria casa. E, fatto ancora più importante, non era chiaro se si fosse in
debito con il compositore, qualora si facessero copie di quella registrazione. Così, a causa di questi vuoti
nella normativa, in pratica si poteva piratare una canzone altrui senza dovere nulla a chi l’aveva
composta.
   I compositori (e gli editori) non erano affatto contenti di questo stato di cose. Come spiegò il senatore
del South Dakota Alfred Kittredge,
   pensiamo all’ingiustizia della cosa. Un compositore scrive una canzone o un’opera. Un editore ne acquista i diritti a
   costi elevati e li pone sotto copyright. Arrivano allora le società fonografiche e quelle che producono i rulli musicali, e
   rubano deliberatamente il prodotto dell’intelletto del compositore e dell’editore senza alcuna considerazione per i [loro]
   diritti.5

   Gli innovatori che sviluppavano le tecnologie per la registrazione stavano “scroccando la fatica, il
lavoro, il talento, e il genio dei compositori americani”6, e “l’industria dell’editoria musicale” era perciò
“alla completa mercé di questi pirati”7. Così si espresse, senza giri di parole, John Philip Sousa: “Se
qualcuno fa soldi con i miei pezzi, voglio la mia parte”8.
   Simili posizioni trovano un’eco familiare nelle battaglie dei nostri giorni. Lo stesso vale per le tesi del
fronte opposto. Gli innovatori che avevano realizzato la pianola automatica sostenevano che “è
perfettamente dimostrabile come l’introduzione di sistemi automatici per eseguire musica non abbia
privato i compositori di nulla di ciò che possedevano prima di tale introduzione”. Piuttosto, le macchine
incrementavano la vendita degli spartiti9. In ogni caso, sostenevano gli innovatori, il compito dei membri
del Congresso era quello “di considerare prima di tutto gli interessi [del pubblico], di cui erano
rappresentanti e servitori”. “Tutto questo parlare di ‘furto’”, scriveva il consulente legale della American
Graphophone Company, “sono solo paroloni, perché non esiste in realtà alcuna proprietà delle idee -
musicali, letterarie o artistiche - fatta eccezione per ciò che stabilisce la legge”10.
   Presto la legge risolse la questione a favore dei compositori e degli artisti che eseguivano incisioni
della loro musica. Il Congresso emendò la legislazione facendo in modo che i compositori venissero
ricompensati per “la riproduzione meccanica” delle loro opere. Ma, anziché garantire semplicemente al
compositore il completo controllo sul diritto a realizzare riproduzioni meccaniche, il Congresso

                                                               38
riconobbe agli artisti esecutori di musica altrui il diritto di eseguire altre incisioni, al prezzo stabilito dal
Congresso stesso, una volta che il compositore aveva concesso il permesso per la prima registrazione.
Questa parte della legge sul diritto d’autore rende possibili le cosiddette “cover”, le canzoni cantate da
artisti diversi dall’esecutore originale. Una volta che il compositore autorizza la registrazione di una sua
canzone, altri sono liberi di inciderla a loro volta, a patto che paghino al compositore originale una tariffa
stabilita dalla legge.
   Normalmente la legislazione americana definisce questo procedimento “compulsory license” (licenza
obbligatoria), mentre io la chiamo “statutory license” (licenza regolamentata o calmierata dal governo):
si tratta di due modi di definire una licenza i cui termini chiave sono stabiliti dalla legge. Dopo
l’emendamento al Copyright Act approvato dal Congresso nel 1909, le case discografiche furono libere
di distribuire copie delle registrazioni dietro pagamento al compositore (o al detentore del copyright)
della tariffa stabilita dalla legge.
   Siamo di fronte a un’eccezione nella legislazione sul diritto d’autore. Quando John Grisham scrive un
racconto, un editore è libero di pubblicarlo soltanto se Grisham gli accorda il permesso. A sua volta, egli
è libero di chiedere qualsiasi cifra per concedere tale permesso. Il prezzo per la pubblicazione viene
perciò deciso da Grisham, e normalmente la legge sul copyright afferma che non se ne possono usare le
opere se non con il suo permesso.
   Ma la normativa che regolamenta le registrazioni musicali concede qualcosa di meno agli artisti. E
così la legge sostiene di fatto l’industria discografica tramite una sorta di pirateria - assegnando agli
artisti che incidono dischi diritti più limitati rispetto a quelli riconosciuti agli altri autori creativi. I
Beatles hanno minore controllo sulle proprie creazioni di quanto ne abbia Grisham. E i beneficiari di
questo controllo più limitato sono l’industria discografica e il pubblico. La prima ottiene un valore con
una somma minore di quella che altrimenti dovrebbe pagare; il secondo conquista l’accesso a una gamma
più vasta di creatività musicale. Non a caso il Congresso fu piuttosto esplicito sui motivi alla base del
riconoscimento di questo diritto. Temeva il potere monopolista di chi deteneva i diritti e che tale potere
avrebbe soffocato la creatività in futuro11.
   Mentre recentemente l’industria discografica è stata piuttosto evasiva su questo punto, storicamente ha
offerto concreto sostegno alla licenza per le registrazioni regolamentata dalla legge. Come riporta una
relazione diffusa nel 1967 dalla Commissione Giudiziaria della Camera,
   i produttori discografici hanno sostenuto con vigore che la licenza obbligatoria deve essere mantenuta. Hanno
   affermato che l’industria discografica è un’attività da mezzo miliardo di dollari, di grande importanza economica negli
   Stati Uniti e in tutto il mondo; oggi i dischi sono il principale mezzo per far circolare la musica, e ciò crea problemi
   particolari, poiché gli esecutori hanno bisogno di avere accesso illimitato al materiale musicale in base a termini non
   discriminatori. Storicamente, hanno sottolineato i produttori discografici, prima del 1909 non esistevano i diritti di
   registrazione, e lo statuto del 1909 adottò la licenza obbligatoria come specifica condizione anti-monopolio nella
   cessione di tali diritti. Essi sostengono che come risultato si è avuta una grande produzione di musica registrata, che ha
   offerto al pubblico prezzi più bassi, qualità migliore e scelte più ampie.12

  Limitando i diritti dei musicisti, piratandone parzialmente il lavoro creativo, traggono dei benefici i
produttori discografici e il pubblico.


                                                       La radio
   Anche la radio nacque dalla pirateria.
   Quando una stazione radio trasmette un disco, si tratta di una “esecuzione pubblica” del lavoro del
compositore13. Come ho illustrato sopra, la legge consente al compositore (o al detentore del copyright) il
diritto esclusivo sull’esecuzione pubblica del proprio lavoro. Perciò, per tale esecuzione, l’emittente gli
deve del denaro.

                                                               39
   Ma quando la radio trasmette un disco, non esegue soltanto una copia dell’opera del compositore.
Esegue anche una copia dell’opera dell’artista che l’ha registrata. Una cosa è mandare in onda “Happy
Birthday” eseguita dal coro di voci bianche locale; decisamente un’altra è trasmetterne la versione dei
Rolling Stones oppure quella di Lyle Lovett. L’artista che l’ha incisa aggiunge valore alla composizione
mandata in onda. E se la legge fosse perfettamente coerente, l’emittente dovrebbe pagare anche l’artista
che ha registrato il pezzo, proprio come paga chi ne ha composto la musica.
   Ma non è così. Sulla base delle norme che governano le trasmissioni radiofoniche, l’emittente non
deve compensare l’artista che ha registrato la canzone. Deve pagare soltanto il compositore. Così la
stazione radio ottiene un valore senza dare nulla in cambio. Può trasmettere gratuitamente la
registrazione dell’opera, pur dovendo pagare il compositore per il privilegio di mandarla in onda.
   Questa differenza può rivelarsi notevole. Immaginiamo di comporre un pezzo musicale. È la nostra
prima creazione. Possediamo i diritti per autorizzarne l’esecuzione pubblica. Perciò, se Madonna vuole
cantarla in pubblico, deve avere il nostro permesso.
   Immaginiamo che la canti, e che le piaccia molto. Decide allora di registrare la canzone, che diventa
un pezzo di successo. In base all’attuale legge, ogni volta che una stazione radio la trasmette, riceviamo
un compenso. Però Madonna non ne ricava nulla, salvo la ricaduta sulle vendite del CD. L’esecuzione
pubblica della sua registrazione non è un diritto “tutelato”. Così la stazione radio può piratare il valore
del lavoro di Madonna senza doverle nulla.
   Senza dubbio si potrebbe sostenere che anche gli artisti che eseguono le incisioni traggono a loro volta
dei benefici. In media, la promozione che ottengono vale più dei diritti di esecuzione a cui rinunciano.
Forse. Ma, anche in tal caso, normalmente la legge assegna all’autore il diritto di fare questa scelta.
Operando la scelta in sua vece, la legge offre all’emittente il diritto di prendere qualcosa senza dare nulla
in cambio.


                                              La TV via cavo
   Anche la TV via cavo è nata da un tipo di pirateria.
   Quando, nel 1948, gli imprenditori della TV via cavo iniziarono a portare i cavi televisivi nelle
abitazioni, per lo più rifiutarono di pagare i produttori per i contenuti veicolati ai clienti. Anche quando
iniziarono a vendere l’accesso alle trasmissioni televisive, rifiutarono di pagare per i contenuti che
vendevano. Le società delle TV via cavo stavano perciò Napsterizzando i contenuti delle emittenti che li
producevano, ma spingendosi ben oltre quanto fece mai Napster - che non impose mai tariffe per i
contenuti che consentiva ad altri di diffondere.
   Le emittenti televisive e i detentori del copyright furono lesti a bloccare questo furto. Rosel Hyde,
responsabile della Federal Communications Commission, considerò la pratica come un tipo di
“concorrenza sleale e potenzialmente distruttiva”14. Poteva essere di “pubblico interesse” ampliare la
diffusione della TV via cavo ma, come chiese Douglas Anello, consigliere generale della National
Association of Broadcasters, al senatore Quentin Burdick durante una seduta, “l’interesse pubblico
impone forse l’uso della proprietà altrui?”15 Secondo un altro produttore,
   una caratteristica straordinaria dell’attività commerciale della TV via cavo è che è l’unica che io conosca dove si venda
   un prodotto che non è stato pagato.16

  Ripeto, la richiesta dei detentori di copyright apparve abbastanza ragionevole:
   Chiediamo solo una cosa molto semplice, che coloro che oggi accedono alla nostra proprietà senza dare nulla in
   cambio, paghino. Stiamo cercando di bloccare la pirateria e non credo esista un termine meno forte per descrivere
   questa condotta. Credo anzi che definizioni più pesanti sarebbero perfettamente adatte.17



                                                              40
  Si trattava di “passeggeri che viaggiavano a sbafo”, come affermò Charlton Heston, presidente della
Screen Actors Guild, di gente che “privava gli attori del giusto compenso”18.
  Ma, ancora, il dibattito presentava un’altra faccia. Come disse l’assistente del procuratore generale
Edwin Zimmerman,
  noi sosteniamo che il problema non è se esista o meno una tutela qualsivoglia del diritto d’autore, il problema è se si
  debba consentire ai detentori del copyright, che hanno già ricevuto un compenso, che già vantano un monopolio, di
  estendere ulteriormente tale monopolio ... Il problema è l’ammontare del compenso loro dovuto e fino a che punto si
  possa retrodatare il diritto a tale compenso.19

   I detentori del copyright trascinarono in tribunale le aziende delle TV via cavo. Per due volte la Corte
Suprema stabilì che queste ultime non dovevano nulla ai titolari del diritto d’autore.
   Il Congresso impiegò quasi trent’anni prima di decidere se le aziende delle TV via cavo dovevano
pagare o meno per i contenuti che “piratavano”. Alla fine, il Congresso risolse questa questione nello
stesso modo in cui aveva sbrogliato la faccenda dei registratori e delle pianole automatiche. Sì, le TV via
cavo avrebbero dovuto pagare per il contenuto che trasmettevano; ma la somma non dovevano stabilirla i
detentori del copyright. La tariffa doveva deciderla la legge, in modo che i produttori non potessero
esercitare potere di veto sulle emergenti tecnologie della TV via cavo. Fu così che le TV via cavo
costruirono il proprio impero, “piratando” in parte il valore creato dai produttori di contenuti.
   Queste storie diverse hanno un tema comune. Se “pirateria” significa usare il valore della proprietà
creativa altrui senza il permesso dell’autore - come la si definisce oggi sempre più spesso20 - allora ogni
industria odierna che abbia a che fare con il copyright è in un certo senso il prodotto e la beneficiaria
della pirateria. L’industria cinematografica, discografica, radiofonica, della TV via cavo ... L’elenco è
lungo e potrebbe tranquillamente allungarsi ancora. Ogni generazione dà il benvenuto ai pirati di quella
precedente. Ogni generazione - finora.




                                                            41
                                                  Capitolo 5


                                             Pirateria


   La pirateria di materiale coperto da copyright esiste. E non è poca. La più significativa è quella
commerciale, l’appropriazione non autorizzata di contenuti altrui in un contesto commerciale.
Nonostante le numerose giustificazioni addotte a sua difesa, questa appropriazione è illegale. Non si
dovrebbe scusarla, e la legge deve bloccarla.
   Ma, oltre alla pirateria da copisteria, esiste un altro tipo di “appropriazione” che riguarda più
direttamente Internet. Anche quest’appropriazione appare illecita a molta gente, e molto spesso lo è.
Prima di definire “pirateria” una simile appropriazione, tuttavia, dovremmo comprenderne un po’ meglio
la natura. Perché il danno prodotto da quest’appropriazione è significativamente più ambiguo dell’atto
esplicito di copiare, e la legge dovrebbe dar conto di una simile ambiguità, come ha fatto spesso in
passato.


                                             Pirateria I
   In ogni parte del mondo, ma soprattutto in Asia e nell’Europa orientale, ci sono molte aziende che non
fanno altro che appropriarsi di contenuti altrui, tutelati dal diritto d’autore, copiarli e rivenderli - tutto
senza il permesso di chi ne detiene il copyright. L’industria discografica stima una perdita di circa 4,6
miliardi di dollari ogni anno a causa della pirateria di prodotti fisici1 (che riguarda uno su tre CD venduti
nel mondo). La Motion Picture Association of America (MPAA) imputa alla pirateria mondiale una
perdita annuale stimata sui 3 miliardi di dollari.
   Si tratta di pirateria pura e semplice. Nessun argomento di questo volume, né la posizione sostenuta
dalla maggior parte di quanti seguono le tematiche affrontate nel libro, mette in dubbio questo semplice
punto: quella pirateria è illecita.
   Ciò non vuol dire che non sia possibile addurre scuse e giustificazioni a sua difesa. Potremmo, per
esempio, rammentarci che per i primi cent’anni della nostra Repubblica, l’America non rispettò i
copyright stranieri. In tal senso, siamo nati come nazione pirata. Potrebbe perciò apparire ipocrita la forte
pressione su altre nazioni in via di sviluppo affinché considerino ingiusto quel che noi, nei primi
cent’anni di vita, abbiamo ritenuto giusto.
   Ma non è poi una scusa così solida. Tecnicamente, la nostra legislazione non vieta l’appropriazione di
opere straniere. Si limita in maniera esplicita a considerare i lavori statunitensi. Così gli editori americani
che hanno pubblicato opere straniere senza il permesso dei relativi autori non hanno violato alcuna legge.
Le copisterie dell’Asia, al contrario, stanno violando le norme asiatiche; poiché esse tutelano il copyright
straniero, il comportamento di tali copisterie contravviene a quelle norme. Perciò l’aspetto negativo della
pirateria che esse praticano non è ingiusto soltanto sul piano morale ma anche su quello legale, e non è
ingiusto solamente rispetto alle legislazioni internazionali, ma anche a quelle locali.
   Certo, queste norme locali sono state in realtà imposte a quei paesi. Nessuna nazione può far parte
dell’economia mondiale senza tutelare il diritto d’autore in ambito internazionale. Possiamo essere nati
come nazione pirata, ma non permetteremo ad alcun paese di vivere un’infanzia come la nostra.
   Se, tuttavia, ogni paese va considerato sovrano, allora le sue leggi sono tali a prescindere dalla loro
origine. Le norme internazionali cui sono soggette queste nazioni offrono loro alcune opportunità per

                                                      42
sfuggire al peso delle leggi sulla proprietà intellettuale2. Secondo me, un maggior numero di nazioni in
via di sviluppo dovrebbe approfittare di queste opportunità ma, quando non lo fanno, allora le loro norme
vanno rispettate. E per le leggi di tali nazioni, questo tipo di pirateria è illecito.
   In alternativa, potremmo cercare di giustificare questa pirateria notando come, in ogni caso, non
procuri alcun danno all’industria. I cinesi che hanno accesso ai CD americani per mezzo dollaro a copia
non sono persone che avrebbero acquistato quegli stessi CD a 15 dollari l’uno. Perciò, in realtà, nessuno
ha ricevuto meno denaro di quanto ne avrebbe guadagnato in caso contrario3.
   Spesso questo è vero (anche se alcuni miei amici hanno comprato migliaia di CD piratati, pur avendo
sicuramente abbastanza denaro per pagare il materiale di cui si sono appropriati), e mitiga, entro certi
limiti, il danno causato da una simile appropriazione. Coloro che, in questo dibattito, sostengono
posizioni radicali dicono: “Non andreste certo da Barnes & Noble a prendere un libro dagli scaffali senza
pagarlo; perché dovrebbe essere diverso per la musica online?” La differenza, naturalmente, sta nel fatto
che quando si prende un libro da Barnes & Noble, la libreria ha una copia in meno da vendere. Al
contrario, quando si preleva un MP3 da una rete informatica, non c’è un CD in meno da vendere. Le
leggi fisiche della pirateria dell’intangibile sono diverse da quelle del mondo tangibile.
   Si tratta comunque di una tesi piuttosto debole. Tuttavia, nonostante il copyright sia un diritto di
proprietà di tipo assai speciale, è un diritto di proprietà. In quanto tale, il copyright assegna al titolare il
diritto di stabilire i termini che regolano la condivisione di un contenuto. Se il titolare non vuole
venderlo, non è tenuto a farlo. Esistono alcune eccezioni: importanti licenze regolate dalla legge che si
applicano a contenuti protetti da copyright indipendentemente dalla volontà di chi lo detiene. Queste
licenze garantiscono il diritto ad “appropriarsi” di tali contenuti, che il proprietario li voglia vendere o
meno. Ma laddove la legge non consenta alcuna appropriazione dei contenuti, tale comportamento è
illecito, anche se non provoca danni. Se abbiamo un sistema basato sulla proprietà, e se tale sistema è
adeguatamente equilibrato rispetto alla tecnologia del momento, allora non è giusto accedere a una
proprietà senza il permesso del legittimo titolare. È questo il significato esatto di “proprietà”.
   Infine, potremmo cercare di giustificare questa pirateria in base alla tesi secondo la quale la pirateria
giova in realtà al titolare del copyright. Quando i cinesi “rubano” Windows, diventano dipendenti da
Microsoft. Quest’ultima perde il valore del software di cui si appropriano. Ma conquista utenti che si
abituano a vivere nel mondo Microsoft. Col tempo, man mano che la nazione arricchisce, un numero
sempre maggiore di persone preferirà acquistare il software anziché rubarlo. E poiché di tali acquisti
beneficerà Microsoft, con il passare del tempo essa trarrà vantaggio dalla pirateria. Se anziché piratare
Microsoft Windows, usassero il sistema operativo libero GNU/Linux, quegli utenti cinesi non
acquisterebbero in seguito prodotti Microsoft. La quale, senza la pirateria, ci perderebbe.
   Sotto certi aspetti, anche questa tesi è corretta. La strategia della dipendenza è ben concepita. Sono
numerose le aziende che vi fanno ricorso. Grazie ad essa, alcune prosperano parecchio. [Negli Stati
Uniti], per esempio, agli studenti di legge viene offerto libero accesso ai due maggiori database giuridici.
I loro uffici marketing sperano che essi si abituino ad avvalersi dei loro servizi tanto da voler usare quelli
e non altri una volta divenuti avvocati (a questo punto sborseranno costose tariffe d’abbonamento).
   Eppure, non si tratta di una tesi particolarmente convincente. Non consideriamo una giustificazione
per l’alcolizzato il fatto che abbia rubato la prima birra, soltanto perché questo renderà più probabile
l’acquisto delle prossime tre. Invece, normalmente consentiamo alle aziende di decidere in autonomia se
sia meglio o no regalare un loro prodotto. Se Microsoft teme la concorrenza di GNU/Linux, allora
potrebbe regalare alcuni prodotti, come fece, per esempio, con Internet Explorer nella lotta contro
Netscape. Il diritto di proprietà significa che il detentore ha il diritto di stabilire chi debba avere accesso a
che cosa - almeno normalmente. E se la legge riesce a stabilire un equilibrio adeguato fra i diritti del
titolare del copyright e i diritti all’accesso, allora violare la legge è pur sempre ingiusto.

                                                       43
   Così, pur comprendendo il senso di simili giustificazioni nei confronti della pirateria, e valutandone
con chiarezza le motivazioni, alla fine, dal mio punto di vista, questi sforzi per giustificare la pirateria
commerciale semplicemente non hanno presa. Questo tipo di pirateria è in rampante crescita e
assolutamente illegale. Non trasforma i contenuti di cui si appropria; non trasforma il mercato in cui
compete. Si limita a permettere a qualcuno di accedere a qualcosa in violazione a quanto previsto dalla
legge. Non ci sono stati cambiamenti che possano mettere in dubbio tale legge. Questa forma di pirateria
è decisamente un atto illegittimo.
   Ma, come suggeriscono gli esempi illustrati nei quattro capitoli introduttivi del libro, anche se un certo
tipo di pirateria è assolutamente ingiusto, non è così per tutta la “pirateria”. O almeno, non tutta la
“pirateria” è sbagliata se ci si riferisce a tale termine nelle accezioni oggi usate con sempre maggior
frequenza. Molti tipi di “pirateria” sono utili e produttivi, per dare vita sia a nuovi contenuti sia a nuove
modalità imprenditoriali. Né la nostra tradizione né quella altrui hanno mai vietato tutta la “pirateria” in
tal senso.
   Questo non vuol dire che un recente tipo di pirateria, ovvero la condivisione di file tramite accesso
peer-to-peer (p2p), non sollevi problemi. Significa però che dobbiamo comprendere un po’ meglio i
danni procurati dalla condivisione peer-to-peer prima di condannarla al patibolo con l’accusa di pirateria.
   Perché (1), come è avvenuto alla nascita di Hollywood, la condivisione p2p vuole sfuggire al controllo
eccessivo dell’industria; e (2), come è accaduto alle origini dell’industria discografica, sfrutta
semplicemente una nuova modalità di distribuzione dei contenuti; ma (3), contrariamente alla TV via
cavo, nessuno rivende il materiale condiviso tramite i servizi p2p.
   Sono queste le differenze che distinguono la condivisione p2p dalla pirateria vera e propria. Esse
dovrebbero spingerci a trovare un modo per tutelare gli artisti consentendo al contempo la sopravvivenza
di tale condivisione.


                                            Pirateria II
   Punto chiave della “pirateria”, che la legge mira a reprimere, è l’utilizzo che “depreda l’autore del suo
profitto”4. Significa che dobbiamo stabilire se e fino a che punto la condivisione p2p provochi danni,
prima di sapere quanto duramente la legge dovrebbe cercare di impedirla o di trovare alternative per
assicurare all’autore quel profitto.
   La condivisione p2p è diventata famosa grazie a Napster. Ma gli inventori dell’omonima tecnologia
non hanno realizzato nessuna importante innovazione. Come ogni altro grande sviluppo innovativo su
Internet (e, ragionevolmente, anche al di fuori di Internet5 ), Shawn Fanning e il suo gruppo hanno
semplicemente messo insieme dei componenti che erano stati sviluppati indipendentemente.
   Il risultato è stata una combustione spontanea. Lanciato nel luglio del 1999, nel giro di nove mesi
Napster aveva raccolto oltre 10 milioni di utenti. Dopo diciotto mesi, gli utenti registrati del sistema
erano quasi 80 milioni6. I tribunali ne imposero rapidamente la chiusura, ma emersero altri servizi a
prenderne il posto. (Attualmente Kazaa è il servizio p2p più popolare. Vanta oltre 100 milioni di utenti.) I
sistemi di questi servizi differiscono tra loro nell’architettura, pur offrendo funzioni analoghe:
consentono agli utenti di rendere disponibili i contenuti a un numero qualsiasi di altri utenti. Grazie a un
sistema p2p, possiamo condividere le canzoni preferite con il nostro migliore amico - oppure con 20.000
migliori amici.
   Secondo alcune stime, un numero enorme di americani ha provato la tecnologia del file-sharing.
Un’indagine condotta da Ipsos-Insight nel settembre del 2002 ha calcolato che negli Stati Uniti 60
milioni di persone hanno scaricato musica - il 28 per cento degli americani al di sopra dei 12 anni7. Un
sondaggio curato dal gruppo NPD ripreso dal New York Times stimava che, nel maggio del 2003, 43

                                                     44
milioni di cittadini avessero usato il file-sharing per scambiare materiale8. Per lo più non erano ragazzini.
Qualunque sia la cifra reale, su queste reti ci si “appropria” di una massiccia quantità di contenuti. La
facilità e la convenienza delle reti di file-sharing ha ispirato milioni di persone a godere della musica in
un modo mai sperimentato prima.
   In certi casi esiste una violazione del copyright. Non in altri. E anche per la parte che tecnicamente è
una violazione, calcolare il danno concreto causato ai detentori del copyright è più complicato di quanto
si possa credere. Consideriamo quindi - con un po’ più di attenzione di quanto facciano generalmente le
voci che si sono polarizzate su questo dibattito - i tipi di condivisione consentiti dal file-sharing, e i tipi
di danni provocati.
   Chi utilizza il file-sharing condivide contenuti di tipo diverso, che possiamo suddividere in quattro
categorie.
 A. Ci sono alcuni che usano il file-sharing in sostituzione dell’acquisto. Così, quando viene
    pubblicato il CD di Madonna, anziché comprarlo, semplicemente se ne appropriano. Potremmo
    disquisire sul problema se avrebbero acquistato o meno il CD nel caso in cui il file-sharing non lo
    avesse reso disponibile gratuitamente. Probabilmente la maggior parte non l’avrebbe fatto, ma
    chiaramente qualcuno sì. Quest’ultimo è il gruppo che interessa la categoria A: utenti che
    scaricano invece di acquistare.
 B. Altri ricorrono al file-sharing per scegliere la musica prima di procedere all’acquisto. Così, un
    amico invia a un altro amico un MP3 di un artista che questo non conosce. In seguito, l’amico ne
    compra i CD. Si tratta di una sorta di pubblicità mirata, con parecchie probabilità di successo.
    Poiché la persona che raccomanda l’album non ricava nulla da una cattiva proposta, allora è
    ragionevole supporre che le raccomandazioni siano davvero valide. L’effetto finale di questo file-
    sharing potrebbe incrementare la quantità di musica acquistata.
 C. Molti utilizzano il file-sharing per accedere a materiali tutelati da copyright, che sono fuori
    mercato oppure che non avrebbero acquistato per gli eccessivi costi di transazione al di fuori di
    Internet. Per molti questo è l’uso più gratificante delle reti di condivisione. Canzoni dell’infanzia
    ormai scomparse dal mercato che riappaiono come per magia sulla rete. (Un’amica mi ha detto
    che, dopo aver scoperto Napster, ha trascorso un intero fine settimana alla “riscoperta” di vecchi
    motivi, stupita dalla quantità e dalla varietà del materiale disponibile.) Per i contenuti non più in
    commercio, tecnicamente questo rimane comunque una violazione del copyright, anche se, visto
    che il titolare del diritto d’autore non li vende più, il danno economico arrecato equivale a zero - un
    danno identico a quando vendo la mia raccolta di dischi 45 giri degli anni ’60 a un collezionista
    locale.
 D. Infine, ci sono molti che usano il file-sharing per accedere a materiali che non sono protetti da
    copyright o che il proprietario vuole distribuire liberamente.
   Come si deve considerare l’impatto di questi diversi tipi di condivisione?
   Partiamo da alcuni punti semplici ma importanti. Dal punto di vista giuridico, soltanto la categoria D è
chiaramente nella legalità. Dal punto di vista economico, soltanto il tipo A è palesemente dannoso9. La
categoria B è fuori legge, ma decisamente vantaggiosa. Il tipo C è illegale, eppure positivo per la società
(poiché è un bene che la musica abbia maggiore visibilità) e innocuo per l’artista (poiché quei lavori non
sarebbero altrimenti disponibili). Risulta perciò difficile rispondere alla domanda sull’impatto causato da
tale condivisione - e sicuramente molto più difficile di quanto sembri suggerire l’attuale retorica sulla
questione.
   L’impatto negativo della condivisione dipende fondamentalmente da quanto risulta dannosa quella di
tipo A. Proprio come Edison protestava contro Hollywood, i compositori se la prendevano con i rulli per

                                                      45
pianole, gli artisti esecutori di composizioni altrui facevano lo stesso con la radio e i produttori con la TV
via cavo, l’industria musicale si lamenta perché la condivisione di tipo A sarebbe un sorta di “furto” che
sta “devastando” l’industria stessa.
   Anche se le cifre paiono suggerire che tale condivisione produca un danno, più difficile è stabilirne la
portata. Da molto tempo l’industria discografica è solita incolpare la tecnologia per qualsiasi
diminuzione nelle vendite. Ne è un valido esempio la vicenda delle cassette registrabili. Come spiega uno
studio di Cap Gemini Ernst & Young, “anziché trarre vantaggio da questa nuova e popolare tecnologia, le
etichette discografiche vi si opposero10.” Sostenevano che ogni album registrato significava un album
invenduto e, quando nel 1981 le vendite di dischi diminuirono dell’11,4 per cento, l’industria affermò di
averne le prove. Il problema era la tecnologia, e la risposta stava nel vietarla o nel regolamentarla.
   Eppure subito dopo, e prima che il Congresso USA avesse la possibilità di stabilire delle regole, fu
lanciata MTV, e l’industria registrò un ribaltamento da record. “Alla fine”, conclude Cap Gemini, “la
‘crisi’ ... non era causata da chi registrava le cassette - la cui attività non si fermò [dopo l’arrivo di MTV]
- ma in larga parte derivava dalla stagnazione nell’innovazione musicale delle maggiori etichette
discografiche”11.
   Ma soltanto perché l’industria ha sbagliato in passato, non significa necessariamente che lo stia
facendo anche oggi. Per valutare la minaccia concreta arrecata dalla condivisione p2p all’industria in
particolare, e alla società in generale - o quantomeno alla società erede della tradizione che ci ha portato
l’industria cinematografica, discografica, radiofonica, quella della TV via cavo e il videoregistratore - la
domanda non è semplicemente se la condivisione di tipo A sia dannosa o meno. La questione riguarda
anche fino a che punto sia tale, e quanto vantaggiose siano le altre categorie.
   Per iniziare a rispondere a questa domanda concentriamo l’attenzione sul danno reale, dal punto di
vista dell’industria nel suo insieme, provocato dalle reti di file-sharing. Il “danno netto” per l’industria
nel suo complesso equivale a quanto, tradotto in denaro, la condivisione di tipo A supera quella di tipo B.
Se le società discografiche vendessero più dischi grazie alle anteprime di quanti ne perdono con la
sostituzione, allora le reti di file-sharing dovrebbero, a conti fatti, portare dei benefici ai produttori
musicali. Perciò questi ultimi dovrebbero avere pochi motivi validi per opporvisi.
   È forse vero? Può darsi che l’industria nel suo insieme possa guadagnare grazie al file-sharing? Per
quanto possa suonare strano, in realtà i dati sulle vendite di CD suggeriscono che questo dato si avvicina
alla verità.
   Nel 2002, la Recording Industry Association of America (RIAA) riportava una diminuzione dell’8,9
per cento nelle vendite di CD, da 882 a 803 milioni di unità; le entrate erano calate del 6,7 per cento12.
Ciò conferma una tendenza in atto negli ultimi anni. La RIAA ne dà la colpa alla pirateria via Internet,
anche se esistono parecchie altre motivazioni che potrebbero essere responsabili di un simile declino.
SoundScan, per esempio, segnala una riduzione di oltre il 20 per cento nel numero di CD prodotti a
partire dal 1999. Non c’è dubbio che a questo si debba addebitare parte del decremento nelle vendite.
L’aumento dei prezzi potrebbe essere responsabile almeno di una parte delle perdite. “Dal 1999 al 2001,
[negli USA] il prezzo medio di un CD è cresciuto del 7,2 per cento, da 13,04 a 14,19 dollari.”13 Anche la
concorrenza di altri tipi di media potrebbe aver causato in parte tale declino. Come fa notare Jane Black
di BusinessWeek, “la colonna sonora del film Alta fedeltà (High Fidelity) ha un prezzo di listino di 18,98
dollari. Per 19,99 dollari si può acquistare l’intero film [su DVD]”14.
   Ma ammettiamo pure che la RIAA abbia ragione, e che tutta la diminuzione nelle vendite di CD vada
imputata alla condivisione via Internet. Ecco la contraddizione: nello stesso periodo in cui la RIAA
dichiara 803 milioni di CD venduti, la stessa associazione stima che siano stati scaricati gratuitamente
2,1 miliardi di CD. Perciò, nonostante lo scaricamento gratuito abbia superato di 2,6 volte la quantità di
CD venduti, le entrate sono diminuite appena del 6,7 per cento.

                                                      46
   Avvengono troppe cose diverse nello stesso tempo per trovare una spiegazione definitiva a queste
cifre, ma una conclusione è inevitabile: l’industria discografica chiede in continuazione: “Qual è la
differenza tra scaricare una canzone e rubare un CD?” - ma sono proprio le cifre da lei fornite a rivelare
la differenza. Se rubiamo un CD, allora ce n’è uno di meno da vendere. Ogni furto è una vendita persa.
Ma, sulla base delle cifre fornite dalla RIAA, è assolutamente chiaro che la stessa equazione non si
applica al materiale scaricato. Se ogni file scaricato fosse una vendita persa - se ciascun utente di Kazaa
“avesse depredato l’autore del suo profitto” - allora lo scorso anno l’industria avrebbe sofferto una caduta
del 100 per cento nelle vendite, non una diminuzione inferiore al 7 per cento. Se è stato scaricato
gratuitamente un numero di file equivalente a 2,6 volte la quantità di CD venduti, e tuttavia le vendite
sono calate appena del 6,7 per cento, allora c’è una differenza enorme tra “scaricare una canzone e rubare
un CD”.
   Questi sono i danni - presunti e forse esagerati ma, ammettiamolo, reali. Che cosa possiamo dire sui
benefici? Il file-sharing provoca dei costi all’industria discografica. Ma, al di là di tali costi, quale valore
può produrre?
   Un beneficio è la condivisione di tipo C - rendere disponibili materiali tecnicamente ancora coperti da
copyright, ma non più reperibili a livello commerciale. Non si tratta di una categoria da poco. Esistono
milioni di pezzi musicali ormai fuori dal circuito commerciale15. E, anche se si può immaginare che parte
di questi contenuti non siano più disponibili perché così vogliono i rispettivi artisti, la grande
maggioranza non è reperibile solamente perché l’editore o il distributore ha deciso che a livello
economico non ha più senso per l’azienda tenerli in circolazione.
   Nel mondo reale - molto tempo prima dell’arrivo di Internet - il mercato proponeva una risposta
semplice per risolvere il problema: negozi di libri e dischi usati. Oggi in America esistono migliaia di
negozi che vendono libri e dischi usati16. Acquistano il materiale dai proprietari, per poi rivenderlo. E, in
base alla normativa statunitense sul copyright, quando comprano e rivendono quei contenuti, anche se
tali contenuti sono tuttora protetti da copyright, chi ne possiede i diritti non ne ricava nulla. I negozi di
libri e dischi usati sono imprese commerciali; i loro proprietari guadagnano grazie al materiale venduto;
ma, come le TV via cavo prima delle licenze regolamentate per legge, non sono tenuti a pagare nulla a
chi detiene il copyright sui contenuti che rivendono.
   La condivisione di tipo C, dunque, è assai simile ai negozi di libri e dischi usati. Ne differisce solo
perché la persona che mette a disposizione quei materiali non ne ricava denaro. Un’altra differenza,
naturalmente, è che, mentre nello spazio reale quando rivendiamo un disco non lo possediamo più, nel
ciberspazio, se qualcuno condivide la mia registrazione del 1949 di “Two Love Songs” di Bernstein,
questa rimane ancora in mio possesso. Tale differenza avrebbe importanza a livello economico se chi
possiede il copyright della versione del 1949 stesse vendendo il disco in concorrenza con la mia
condivisione. Ma qui stiamo parlando di contenuti non più disponibili in ambito commerciale. Internet li
mantiene in circolazione, tramite la condivisione cooperativa, senza competere con il mercato.
   Tutto considerato, sarebbe forse meglio se il titolare del copyright ricavasse qualcosa da questo
scambio. Ma non ne consegue che sarebbe bene vietare le librerie dell’usato. Oppure, messo in modo
diverso, se crediamo che la condivisione di tipo C vada fermata, riteniamo forse che si debbano chiudere
anche le biblioteche e le librerie dell’usato?
   Infine, e questo è forse il punto più importante, le reti di file-sharing consentono l’esistenza della
condivisione di tipo D - quella relativa a contenuti che i detentori del copyright vogliono condividere o
per i quali non esiste un diritto d’autore continuativo. Chiaramente questa condivisione porta benefici
agli autori e alla società. Lo scrittore di fantascienza Cory Doctorow, per esempio, ha diffuso nello stesso
tempo il suo primo racconto, Down and Out in the Magic Kingdom, liberamente online e nel normale
circuito librario. L’opinione di Doctorow (e dell’editore) era che la distribuzione online sarebbe stata

                                                      47
un’ottima forma di pubblicità per il libro “reale”. Il pubblico ne avrebbe letta qualche parte online, per
decidere se gli piaceva o no. In caso affermativo, con tutta probabilità l’avrebbe acquistato. Il materiale
di Doctorow rientra nella condivisione di categoria D. Se le reti di file-sharing consentono la diffusione
del suo lavoro, allora sia lui sia la società ne trarranno vantaggio. (Anzi, un grande vantaggio: è un
ottimo libro!)
   Analoga situazione per le opere di pubblico dominio: questa condivisione è positiva per la società
senza alcun danno legale per gli autori. Se gli sforzi per risolvere i problemi della condivisione di tipo A
distruggono le opportunità per quella di tipo D, allora perderemmo qualcosa d’importante pur di
proteggere i contenuti di tipo A.
   La questione centrale è questa: mentre l’industria discografica sostiene comprensibilmente: “Ecco
quanto abbiamo perso”, dovremmo anche chiedere: “Quanto ha guadagnato la società dalla condivisione
p2p? Quale rendimento ha ottenuto? Qual è il materiale che altrimenti non sarebbe disponibile?”
   Perché, contrariamente alla pirateria che ho descritto nella prima sezione di questo capitolo, gran parte
della “pirateria” attivata dal file-sharing è del tutto legale e positiva. E, al pari di quella descritta nel
capitolo 4, buona parte di questa pirateria è motivata da una nuova modalità per la diffusione dei
contenuti, veicolata dai mutamenti nella tecnologia di distribuzione. Perciò, coerentemente con la
tradizione che ci ha portato Hollywood, la radio, l’industria discografica e la TV via cavo, la domanda
che dovremmo porci sul file-sharing è come preservarne al meglio i benefici riducendo al contempo al
minimo (per quanto possibile) il danno che causa agli artisti. È un problema di equilibrio. La legge
dovrebbe mirare a tale equilibrio, che potrà essere raggiunto soltanto col tempo.
   “Ma non si tratta forse di una guerra contro la condivisione illegale? L’obiettivo non è dunque soltanto
quello che definiamo condivisione di tipo A?”
   Sembrerebbe. E dovremmo sperarlo. Ma finora non è stato così. L’effetto della guerra dichiarata
presumibilmente soltanto alla condivisione di tipo A, ha avuto conseguenze che vanno ben oltre questa
categoria. Appare ovvio fin dal caso Napster. Quando fu spiegato alla corte distrettuale che Napster
aveva messo a punto una tecnologia capace di bloccare il trasferimento del 99,4 per cento del materiale
identificato in violazione del copyright, i giudici risposero ai suoi legali che il 99,4 per cento non era
sufficiente. Napster doveva ridurre tali violazioni “a zero”.17
   Se il 99,4 per cento non basta, allora si tratta di una guerra contro le tecnologie di file-sharing, non
contro la violazione del copyright. Non esiste alcuna possibilità di garantire che si possa usare un sistema
p2p il 100 per cento delle volte nel rispetto delle norme, esattamente come non esiste un modo per
garantire che il 100 per cento dei videoregistratori o il 100 per cento delle fotocopiatrici Xerox o il 100
per cento delle pistole vengano usati nel rispetto della legge vigente. Tolleranza zero significa zero p2p.
La sentenza del tribunale sta a significare che la società deve fare a meno dei vantaggi del p2p, anche
quelli completamente legali e positivi, semplicemente per avere la certezza che non si verifichi alcuna
violazione del copyright a causa del p2p stesso.
   La tolleranza zero non è mai appartenuta alla nostra storia. Non ha prodotto l’industria dei contenuti
che conosciamo oggi. La storia giuridica americana è stata un processo d’equilibrio. Man mano che le
nuove tecnologie modificavano le modalità di distribuzione dei contenuti, le norme si adeguavano, dopo
qualche tempo, alle nuove tecnologie. In questo processo di adeguamento, la legge mirava ad assicurare i
legittimi diritti degli autori pur proteggendo l’innovazione. Talvolta ciò ha significato maggiori diritti per
gli autori. Talvolta minori.
   Così, come abbiamo visto, quando la “riproduzione meccanica” minacciava gli interessi dei
compositori, il Congresso ne bilanciò i diritti contro gli interessi dell’industria discografica. Riconobbe
dei diritti ai compositori, ma anche agli artisti che ne registravano la musica: entrambi andavano pagati,
ma a una tariffa stabilita dal Congresso. Però quando la radio iniziò a trasmettere le registrazioni degli

                                                     48
artisti esecutori, e questi si lamentarono per il mancato rispetto della loro “proprietà creativa” (poiché le
stazioni radio non avevano il dovere di compensarli per la creatività che trasmettevano), il Congresso ne
respinse le proteste. Era sufficiente il beneficio indiretto.
   Per la TV via cavo si seguirono le orme degli album di cover. Quando i giudici respinsero la pretesa di
imporre un pagamento a chi ritrasmetteva contenuti via cavo, il Congresso rispose affermando il diritto
dei produttori a una ricompensa, ma con una quota stabilita per legge. Di conseguenza diedero alle TV
via cavo il diritto a quei materiali, fintanto che pagavano il prezzo imposto.
   Questo compromesso, come quello relativo ai dischi e alle pianole automatiche, permise di
raggiungere due obiettivi importanti - anzi, i due obiettivi fondamentali di qualsiasi legislazione sul
copyright. Primo, la legge garantiva agli innovatori che avrebbero avuto la libertà di sviluppare modalità
nuove per distribuire i contenuti. Secondo, la legge garantiva ai titolari del copyright che sarebbero stati
ricompensati per i loro contenuti così distribuiti. Uno dei timori fu che, se il Congresso avesse
semplicemente imposto alle TV via cavo di pagare ai titolari del copyright qualsiasi cifra richiedessero
per i loro contenuti, allora questi ultimi e i produttori avrebbero usato il loro potere per soffocare questa
nuova tecnologia via cavo. Se però il Congresso avesse permesso a quest’ultima di usare liberamente i
contenuti dei produttori, questa decisione la avrebbe favorita in modo scorretto. Perciò il Congresso
scelse una strada tesa a garantire una ricompensa senza dare al passato (i produttori) il controllo sul
futuro (la tecnologia via cavo).
   Nello stesso anno in cui il Congresso raggiunse quest’equilibrio, due grandi produttori e distributori
cinematografici sporsero querela contro un’altra tecnologia, il videoregistratore realizzato da Sony, il
Betamax. La rivendicazione di Disney e Universal contro Sony era relativamente semplice: Sony
produceva un apparecchio, sostenevano, che consentiva ai consumatori di violare il copyright. Poiché il
dispositivo messo a punto da Sony aveva il pulsante “registra”, poteva essere impiegato per registrare
spettacoli e film tutelati dal diritto d’autore. Di conseguenza Sony ricavava dei benefici dalle violazioni
del copyright da parte dei consumatori. Si doveva quindi ritenerla parzialmente responsabile, insistevano
Disney e Universal, per tali violazioni.
   La rivendicazione di Disney e Universal conteneva qualche elemento valido. Sony aveva infatti deciso
di progettare l’apparecchio in modo da semplificare non poco la registrazione dei programmi televisivi.
Avrebbe potuto costruirlo in modo che bloccasse o inibisse qualsiasi copia diretta delle trasmissioni TV.
O, magari, avrebbe potuto fare in modo di consentire la copia soltanto se appariva sullo schermo uno
speciale avviso tipo “copiami”. Era chiaro che numerosi spettacoli televisivi non avrebbero permesso
registrazioni. Anzi, se qualcuno ne avesse avanzato richiesta, non c’è dubbio che la maggioranza dei
programmi avrebbe negato il permesso di eseguire copie. E, in considerazione di questo ovvio
atteggiamento, Sony avrebbe potuto progettare il sistema in modo da ridurre al minimo la possibilità di
violazioni del copyright. Non lo fece, e per questo Disney e Universal la considerarono responsabile per
l’architettura scelta.
   Il presidente della Motion Picture Association of America (MPAA), Jack Valenti, divenne il portavoce
più esplicito degli studi cinematografici. Valenti definì i videoregistratori “vermi solitari”. “Quando ci
saranno 20, 30, 40 milioni di questi videoregistratori sparsi per il paese, saremo invasi da milioni di
‘vermi solitari’ che divoreranno il cuore e l’essenza del patrimonio più prezioso posseduto dai titolari del
copyright, il copyright stesso18,” ammonì. “Non occorre essere esperti in sofisticate tecniche di marketing
e valutazioni creative”, riferì al Congresso, “per comprendere la devastazione sul mercato legato al dopo-
teatro causata dalle centinaia di milioni di registrazioni, che avranno un impatto negativo sul futuro della
comunità creativa di questo paese. È soltanto una questione di economia di base e di semplice buon
senso19.” Infatti, come avrebbero dimostrato i successivi sondaggi, il 45 per cento dei possessori di
videoregistratori possedeva una collezione di 10 o più video20 - un impiego che in seguito la Corte

                                                     49
Suprema avrebbe definito non “corretto”. Consentendo ai “possessori di videoregistratori di copiare
liberamente esonerandoli dalla responsabilità di violazione del copyright, senza creare un meccanismo
per ricompensarne i detentori”, aggiunge nella testimonianza Valenti, il Congresso avrebbe “defraudato i
titolari del copyright dell’essenza stessa della loro proprietà: il diritto esclusivo di controllare chi possa
usare o meno la loro opera, ovvero, a chi sia consentito copiarla e quindi trarre profitto dalla sua
riproduzione”21.
   Ci vollero otto anni prima che questo caso venisse risolto dalla Corte Suprema. Nel frattempo, il
tribunale d’appello della Nona Circoscrizione, la cui giurisdizione comprende Hollywood - il primo
giudice Alex Kozinski, che fa parte di quel tribunale, la definisce la “Circoscrizione di Hollywood” -
stabilì che Sony sarebbe stata ritenuta responsabile per le violazioni del copyright rese possibili dai suoi
apparecchi. In base alla sentenza del tribunale della Nona Circoscrizione, questa tecnologia
assolutamente familiare - che Jack Valenti aveva definito “lo strangolatore di Boston dell’industria
cinematografica americana” (ancor peggio, si trattava dello strangolatore di Boston giapponese
dell’industria cinematografica americana) - era giudicata illegale22.
   Ma la Corte Suprema ribaltò la decisione dei giudici della Nona Circoscrizione. E, nella motivazione,
spiegò chiaramente se e quando il tribunale sarebbe dovuto intervenire in dispute di questo tipo. Come
scrisse la Corte Suprema,
   La conformità decisionale, così come la storia, dà sostegno alla nostra coerente deferenza nei confronti del Congresso
   quando importanti innovazioni tecnologiche alterano il mercato del materiale protetto da copyright. Il Congresso
   possiede l’autorità costituzionale e la capacità istituzionale per risolvere pienamente i diversi mutamenti dei conflitti
   d’interesse che sono inevitabilmente coinvolti nell’avvento di queste nuove tecnologie.23

  Venne dunque chiesto al Congresso di rispondere alla decisione della Corte Suprema. Ma, come nel
caso dell’appello degli artisti esecutori di pezzi altrui nei confronti delle trasmissioni radio, il Congresso
ignorò la richiesta. Era infatti convinto che l’industria cinematografica americana avesse ottenuto
abbastanza, malgrado questa “appropriazione”.
  Se mettiamo a confronto questi casi, si evidenzia un percorso comune:
        Caso                 Valore “piratato”            Risposta dei tribunali           Risposta del congresso

Registrazioni           Compositori                    Nessuna tutela                   Licenza obbligatoria

Radio                   Artisti esecutori              Nessuna                          Nessuna

TV via cavo             Produttori                     Nessuna tutela                   Licenza obbligatoria

Videoregistratori       Autori cinematografici         Nessuna tutela                   Nessuna

   In ciascuno dei casi, per tutto il corso della storia, le nuove tecnologie sono riuscite a modificare le
modalità di distribuzione dei contenuti24. In ciascuno dei casi, per tutto il corso della storia, il significato
di questo cambiamento fu che qualcuno riusciva a fare una “corsa senza biglietto” sull’opera di qualcun
altro.
   In nessuno di questi casi, né i tribunali né il Congresso eliminarono completamente l’esistenza delle
corse senza biglietto. In nessuno di questi casi, né i tribunali né il Congresso insistettero sul fatto che la
legge debba assicurare al titolare del copyright l’intero valore creato dal copyright stesso. In ciascuno dei
casi, i detentori del diritto d’autore protestarono contro la “pirateria”. In ciascuno dei casi, il Congresso
agì in modo da riconoscere una qualche legittimità nel comportamento dei “pirati”. In ciascuno dei casi,
il Congresso consentì ad alcune delle nuove tecnologie di trarre beneficio dai contenuti realizzati in
precedenza. Raggiunse un equilibrio tra gli interessi in gioco.
   Quando consideriamo questi esempi, e gli altri che compongono i primi quattro capitoli di questa
sezione, tale equilibrio sembra avere senso. Walt Disney era forse un pirata? Il doujinshi sarebbe

                                                             50
migliore se gli autori dovessero chiedere permessi? Bisognerebbe regolamentare meglio gli strumenti che
consentono ad altri di catturate e di diffondere immagini allo scopo di coltivare o di criticare la nostra
cultura? È proprio giusto che realizzare un motore di ricerca possa esporci a una richiesta di risarcimento
per danni di 15 milioni di dollari? Sarebbe stato meglio se Edison avesse avuto il controllo dell’industria
cinematografica? Ogni gruppo musicale che esegue pezzi di altri autori dovrebbe assumere un avvocato
per avere il permesso di registrarli?
   Potremmo rispondere sì a tutte queste domande, ma la nostra tradizione ha risposto no. Come stabilito
dalla Corte Suprema, nella nostra tradizione il diritto d’autore “non ha mai accordato al titolare del
copyright il controllo completo su tutti gli usi possibili del proprio lavoro”25. Al contrario, gli utilizzi
specifici regolati dalla legge sono stati definiti cercando un equilibrio fra gli aspetti positivi che derivano
dal garantire un diritto esclusivo e quelli negativi creati dallo stesso diritto esclusivo. E storicamente
questo equilibrio è stato raggiunto dopo che una tecnologia è giunta a maturazione, oppure si è integrata
nell’insieme delle tecnologie che favoriscono la distribuzione dei contenuti.
   Lo stesso si dovrebbe fare oggi. La tecnologia di Internet si sta modificando velocemente. Il tipo di
collegamento alla Rete (mediante cablaggio terrestre oppure senza fili) sta cambiando con rapidità. È
fuori di dubbio che la rete non debba divenire uno strumento per “rubare” agli artisti. Ma la legge non
dovrebbe neppure diventare uno strumento per radicare una specifica modalità di ricompensa per gli
artisti (o, più precisamente, per i distributori). Come illustro in dettaglio nel capitolo conclusivo del libro,
dovremmo assicurare il compenso agli artisti, pur consentendo al mercato di stabilire il modo più efficace
per promuovere e distribuire contenuti. Questo richiederà cambiamenti a livello giuridico, almeno
temporaneamente. Si dovrebbero progettare tali cambiamenti per creare un equilibrio fra la tutela
giuridica e il forte interesse pubblico allo sviluppo innovativo.
   Cosa particolarmente vera quando una nuova tecnologia attiva una modalità distributiva di gran lunga
superiore. Ed è ciò che ha fatto il p2p. Le cui tecnologie sono l’ideale per trasferire nel modo più efficace
i contenuti attraverso una rete molto diversificata. Se lasciate libere di svilupparsi, possono rendere la
rete decisamente più efficiente. Tuttavia questi “potenziali benefici pubblici”, come scrive John Schwartz
nel New York Times, “potrebbero subire ritardi a causa della guerra al p2p”26.
   Eppure quando si inizia a parlare di “equilibrio”, i guerrieri del copyright hanno un’opinione diversa.
“Tutto questo agitarsi su equilibrio e incentivi”, sostengono, “sorvola su una questione fondamentale.
Quei contenuti”, insistono i guerrieri, “sono di nostra proprietà. Perché dovremmo aspettare che il
Congresso intervenga a ‘riequilibrare’ i nostri diritti di proprietà? Dobbiamo forse aspettare prima di
chiamare la polizia quando ci rubano la macchina? E perché mai il Congresso dovrebbe deliberare sui
meriti di questo furto? Chiediamo forse se il ladro ha fatto un buon uso della macchina prima di
arrestarlo?”
   “È la nostra proprietà”, insistono i guerrieri. “E dovrebbe essere tutelata proprio come qualsiasi altra
proprietà.”




                                                      51
                                                 Capitolo 6


                                           Fondatori


   William Shakespeare scrisse Romeo e Giulietta nel 1595. L’opera venne pubblicata per la prima volta
nel 1597. Fu il settimo lavoro importante scritto da Shakespeare, che avrebbe continuato a scriverne fino
a tutto il 1613. Da allora le sue opere continuano a caratterizzare la cultura anglo-americana. I lavori di
uno scrittore del XVI secolo sono radicati a tal punto nella nostra cultura che spesso non ne riconosciamo
neppure l’origine. Una volta mi capitò di ascoltare qualcuno che commentava l’adattamento di Enrico V
da parte di Kenneth Branagh: “Mi è piaciuto, ma Shakespeare è così pieno di cliché”.
   Nel 1774, quasi 180 anni dopo la stesura di Romeo e Giulietta, si riteneva che il “copy-right”
dell’opera fosse ancora diritto esclusivo di un singolo editore londinese, Jacob Tonson1. Era il più
importante di un piccolo gruppo di editori chiamato Conger2 che, nel corso del XVIII secolo, controllava
il mercato librario in Inghilterra. Il Conger proclamava il diritto perpetuo al controllo sulle “copie” dei
libri che aveva acquistato dagli autori. Questo diritto perpetuo stava a significare che nessun altro poteva
pubblicare copie di un libro di cui detenevano il copyright. Di conseguenza, i prezzi dei classici si
mantenevano alti e si eliminava il rischio di concorrenza da parte di edizioni migliori o più economiche.
   Ora, per chiunque sappia qualcosa sulle norme del copyright, l’anno 1774 riveste un significato
sconcertante. L’anno più noto nella storia del diritto d’autore è il 1710, l’anno in cui il Parlamento
britannico adottò la prima legislazione sul “copyright”. Conosciuta con il nome di “Statute of Anne”
(Statuto di Anna), la normativa stabiliva che da quel momento tutte le opere pubblicate avrebbero avuto
un copyright della durata di quattordici anni, rinnovabile una volta nel caso l’autore fosse vivo, e che
tutte le opere pubblicate prima del 1710 avrebbero ottenuto una sola estensione di altri ventun anni3. In
base a questa legge, Romeo e Giulietta avrebbe dovuto essere libera nel 1731. Perché allora non destava
alcun problema il fatto che nel 1774 fosse ancora sotto il controllo di Tonson?
   Il motivo è che gli inglesi non avevano ancora raggiunto un accordo su cosa fosse il “copyright” - anzi,
non l’aveva ancora fatto nessuno. All’epoca in cui il Parlamento inglese approvò lo Statute of Anne non
esisteva alcuna altra legge che riguardasse il copyright. L’ultima normativa che regolamentava il lavoro
degli editori, il Licensing Act del 1662, non era più valida dal 1695. Questa norma assegnava agli editori
il monopolio sulla stampa, allo scopo di facilitare alla Corona il controllo su quanto veniva pubblicato.
Ma, decaduta tale norma, non esisteva alcun diritto positivo4 che assegnasse agli editori, o “Stationer”, il
diritto esclusivo di stampare libri.
   Non c’era un diritto positivo, ma ciò non significava che non esistessero norme. La tradizione
giuridica anglo-americana considera sia le parole del corpo legislativo sia quelle dei giudici, per
conoscere le regole che devono governare il comportamento delle persone. Definiamo le parole del corpo
legislativo “diritto positivo” e le parole dei giudici “diritto consuetudinario” (o “common law”).
Quest’ultimo stabilisce il contesto generale su cui agisce il corpo legislativo; il quale, in genere, può
avere la meglio su tale contesto di fondo soltanto se approva delle norme che lo sostituiscano. E così la
vera questione, dopo l’estinzione degli statuti sulle licenze, era se il diritto consuetudinario tutelasse il
copyright, indipendentemente dall’esistenza di una legge positiva.
   Questo problema era importante per gli editori, o “bookseller” [letterelmente “venditori di libri”,
NdT], come venivano chiamati, a causa della crescente concorrenza degli editori stranieri. Gli scozzesi,


                                                     52
in particolare, si dedicavano sempre più alla pubblicazione e all’esportazione di libri in Inghilterra.
Questa concorrenza riduceva i profitti della Conger, che reagì chiedendo al Parlamento di approvare
nuovamente una legge che assegnasse loro il controllo esclusivo. Tale richiesta alla fine sfociò nello
Statute of Anne.
   Lo statuto garantiva all’autore o “proprietario” di un libro il diritto esclusivo di stamparlo. Con una
importante limitazione, tuttavia, e con gran sdegno dei bookseller, la norma assegnava loro questo diritto
per un periodo di tempo limitato. Alla scadenza di quel periodo il copyright si estingueva, l’opera
diventava libera e poteva essere stampata da chiunque. O almeno, questa si ritiene fosse l’intenzione
della legge.
   Ora, il punto su cui interrogarsi per un momento è questo: perché il Parlamento avrebbe limitato il
diritto esclusivo? Non perché avrebbe limitato tale diritto alla durata stabilita, ma perché avrebbe deciso
di imporre una limitazione a quel diritto?
   Per i bookseller, e gli autori da questi rappresentati, questa decisione rappresentava una presa di
posizione molto forte. Prendiamo come esempio Romeo e Giulietta: quell’opera era stata scritta da
Shakespeare. Fu il suo genio a portarla al mondo. Quando creò quel dramma non si appropriò della
proprietà di chicchessia (questo è un punto controverso, ma lasciamo andare) e, creandolo, non rese più
difficile ad altri la realizzazione di opere proprie. Perché mai allora la legge dovrebbe consentire a
qualcun altro di appropriarsi dell’opera di Shakespeare senza il suo permesso, o di quello degli eredi
patrimoniali? Qual è la ragione che permette a qualcuno di “rubare” il lavoro di Shakespeare?
   La risposta si divide in due parti. Dobbiamo per prima cosa notare un punto particolare nella nozione
di “copyright” esistente all’epoca dello Statute of Anne. Secondo, c’è un’importante considerazione da
fare sui “bookseller”.
   Iniziamo con il copyright. Negli ultimi trecento anni, siamo arrivati ad applicare il concetto di
“copyright” in maniera sempre più ampia. Ma nel 1710 il copyright non era un concetto, bensì un diritto
molto particolare. Il copyright nacque come una serie di limitazioni molto specifiche: impediva ad altri di
pubblicare un libro. Nel 1710, il “copy-right” indicava il diritto di usare una macchina particolare per
riprodurre un’opera specifica. Non andava oltre questo diritto assai ristretto. Non controllava in alcun
senso più generale il modo in cui un’opera potesse essere usata. Oggi il diritto comprende una lunga serie
di restrizioni alla libertà altrui: garantisce all’autore il diritto esclusivo alla copia, il diritto esclusivo alla
distribuzione, il diritto esclusivo alla pubblica esecuzione, e via di seguito.
   Così, per esempio, anche se il copyright sulle opere di Shakespeare fosse stato perpetuo, in base al
significato originale del termine questo avrebbe semplicemente voluto dire che nessun altro poteva
ristampare le opere di Shakespeare senza il permesso dei suoi eredi patrimoniali. Il che non avrebbe
consentito alcun controllo, per esempio, sul modo di mettere in scena l’opera, sulle eventuali traduzioni,
oppure sulla possibilità che Kenneth Branagh ne ricavasse un film. Il “copy-right” assegnava soltanto il
diritto esclusivo alla stampa - niente di meno, ovviamente, ma anche nulla di più. Perfino un diritto così
limitato veniva considerato con scetticismo dai britannici, che avevano vissuto un’esperienza lunga e
penosa per quanto riguarda i “diritti esclusivi”, soprattutto i “diritti esclusivi” garantiti dalla Corona. Gli
inglesi avevano combattuto una guerra civile anche a causa della gestione dei monopoli da parte della
Corona - specialmente quelli su opere già esistenti. Il re Enrico VIII assegnò infatti un brevetto per
stampare la Bibbia e concesse a Darcy il monopolio per la stampa delle carte da gioco. Il Parlamento
inglese iniziò a opporsi a questo potere della Corona e, nel 1656, approvò lo Statuto dei Monopoli,
limitando i monopoli ai brevetti di nuove invenzioni. Nel 1710 era impaziente di mettersi al lavoro per
regolare il crescente monopolio in campo editoriale.
   Perciò il “copy-right,” se considerato come diritto di monopolio, veniva normalmente interpretato
come un diritto che andava limitato. (Per quanto convincente possa apparire un’affermazione del tipo “è

                                                        53
di mia proprietà, e dovrebbe appartenermi per sempre”, proviamo ad apparire convincenti quando
diciamo “è un mio monopolio, e dovrebbe appartenermi per sempre”.) Lo stato avrebbe tutelato il diritto
esclusivo, ma soltanto fintanto che portava benefici alla società. I britannici conoscevano i danni causati
dal favoritismo verso interessi particolari; approvarono quindi una legge intesa a bloccarlo.
   Passiamo ora ai bookseller. Il punto non era soltanto il fatto che il copyright fosse un monopolio. Era
anche un monopolio detenuto dai bookseller. Ora ci sembrano innocue figure d’altri tempi, ma
nell’Inghilterra del XVII secolo non erano considerati altrettanto innocui. I soci della Conger erano
sempre più visti come monopolisti della peggior specie - il braccio repressivo della Corona, che vendeva
la libertà dell’Inghilterra per garantirsi i profitti del monopolio. Gli attacchi contro questi monopolisti
erano duri: Milton li descriveva come “i vecchi titolari di brevetti e monopoli nel commercio della
vendita di libri”; perciò “uomini che non esercitano una professione onesta a cui il sapere deve
gratitudine5.”
   Molti ritenevano che il potere esercitato dai bookseller sulla diffusione della conoscenza fosse
dannoso, proprio nel periodo in cui l’Illuminismo andava insegnando l’importanza della diffusione
dell’istruzione e della conoscenza. L’idea che la conoscenza dovesse essere libera era il marchio
distintivo dell’epoca, e questi potenti interessi commerciali interferivano con tale idea.
   Per equilibrare un simile potere, il Parlamento decise di incrementare la concorrenza tra i “venditori di
libri”, e il modo più semplice per farlo fu quello di distribuire il patrimonio dei volumi di valore. Di
conseguenza, il Parlamento limitò la durata del copyright, garantendo così che i libri di valore
risultassero disponibili per la stampa a qualsiasi editore, dopo un periodo di tempo limitato. Così la
decisione di stabilire un termine di appena ventun anni per le opere esistenti fu un compromesso per
opporsi al potere dei bookseller. La limitazione sulla durata fu un modo indiretto per assicurare la
concorrenza tra gli editori, e quindi la costruzione e la diffusione della cultura.
   Quando si arrivò al 1731 (1710 + 21), tuttavia, gli editori iniziarono a preoccuparsi. Considerarono le
conseguenze di un aumento della concorrenza e, come avrebbe fatto chiunque direttamente coinvolto,
non le trovarono di loro gradimento. All’inizio si limitarono a ignorare lo Statute of Anne, continuando a
insistere sul diritto perpetuo al controllo delle pubblicazioni. Ma nel 1735 e nel 1737 cercarono di
persuadere il Parlamento a estendere i termini. Ventun anni non erano abbastanza, dicevano; avevano
bisogno di una durata più lunga.
   Il Parlamento respinse le loro richieste. Riprendendo l’autore di un libello, con parole che trovano eco
ancor oggi,
   non vedo alcuna ragione per concedere ora una durata maggiore, che non verrà rispettata con richieste di nuove
   estensioni, man mano che si estinguono le vecchie scadenze; per cui, se dovesse passare, questa proposta in effetti
   stabilirà un monopolio perpetuo, una cosa meritatamente odiosa agli occhi della legge; diverrebbe un grande ostacolo
   al commercio, scoraggerebbe l’apprendimento, non sarebbe un beneficio per gli autori, ma una tassa generale per il
   pubblico; e tutto ciò soltanto per incrementare i guadagni privati dei venditori di libri.6

   Dopo aver fallito in Parlamento, gli editori portarono in tribunale una serie di casi. La loro tesi era
semplice e diretta: lo Statute of Anne riconosceva agli autori determinate protezioni tramite il diritto
positivo, ma tali protezioni non erano intese come una sostituzione del diritto consuetudinario; andavano
piuttosto considerate semplicemente un supplemento a quest’ultimo. In base al quale, era già illecito
impadronirsi della “proprietà” creativa di una persona senza il suo permesso. Lo Statute of Anne,
sostenevano i bookseller, non modificava questo punto. Perciò, il solo decadere delle protezioni decise da
tale statuto non significava che le tutele imposte dal diritto consuetudinario dovessero considerarsi
estinte: in base ad esse, gli editori avevano il diritto di vietare la pubblicazione di un libro, anche se lo
Statute of Anne decretava la cessazione del relativo copyright. Questo, insistevano, era l’unico modo per
tutelare gli autori.

                                                           54
   Si trattava di una tesi ingegnosa, che vantava il sostegno di alcuni dei maggiori giuristi di quei giorni.
Dimostrava anche una straordinaria impudenza. Fino ad allora, come spiegava il professor Raymond
Patterson, “gli editori ... si preoccupavano degli autori tanto quanto un mandriano si preoccupa della
mandria7.” Al bookseller non interessavano un bel nulla i diritti dell’autore. La sua preoccupazione era il
profitto che derivava dal monopolio sulla sua opera.
   Contro la tesi dei bookseller venne ingaggiata una battaglia. L’eroe di questa lotta fu un editore
scozzese che rispondeva al nome di Alexander Donaldson8.
   Donaldson non apparteneva alla Conger londinese. Iniziò la carriera a Edinburgo nel 1750. La sua
attività commerciale si concentrava sulle ristampe economiche di “opere standard di cui erano scaduti i
termini del copyright”, almeno in base allo Statute of Anne9. La casa editrice di Donaldson prosperò fino
a diventare “qualcosa di simile a un centro letterario per gli Scozzesi”.
   “Tra di loro”, scrive il Professor Mark Rose, c’era “il giovane James Boswell che, assieme all’amico
Andrew Erskine, aveva pubblicato un’antologia di poesie scozzesi contemporanee per le edizioni di
Donaldson10.”
   Quando i librai di Londra tentarono di far chiudere il negozio di Donaldson in Scozia, egli rispose
trasferendolo a Londra e vendendo edizioni economiche dei “più popolari libri inglesi, in violazione al
supposto diritto di Proprietà Letteraria basato sul diritto consuetudinario”11. I suoi libri costavano dal 30
al 50 per cento in meno di quelli della Conger, ed egli fondava il suo diritto a competere sul fatto che,
secondo lo Statute of Anne, le opere che stava vendendo non erano più protette.
   Rapidamente i bookseller londinesi sporsero querela per bloccare la “pirateria” di Donaldson. Una
serie di azioni contro i “pirati” ebbe successo e la più importante vittoria iniziale fu il caso Millar v.
Taylor.
   Millar era un bookseller che, nel 1729, aveva acquistato i diritti sulla poesia “The Seasons” di James
Thomson. Aveva rispettato le norme dello Statute of Anne, e quindi ne aveva ricevuto piena tutela.
Scaduti i termini del copyright, Robert Taylor pubblicò un volume in diretta concorrenza. Millar lo
denunciò, appellandosi al diritto perpetuo garantito dal diritto consuetudinario, nonostante l’esistenza
dello Statute of Anne12.
   Sorprendentemente per gli avvocati moderni, uno dei giudici più importanti della storia inglese, Lord
Mansfield, si dichiarò d’accordo con i bookseller. Qualunque fosse la protezione che lo Statute of Anne
garantiva agli editori, sosteneva, essa non estingueva le norme del diritto consuetudinario. La domanda
era se quest’ultimo tutelasse anche l’autore contro i successivi “pirati”. La risposta di Mansfield fu
affermativa: il diritto consuetudinario vietava a Taylor la ripubblicazione della poesia di Thomson senza
il permesso di Millar. Perciò dava effettivamente ai bookseller il diritto perpetuo di controllare la
pubblicazione di qualsiasi libro loro assegnato.
   Considerata dal punto di vista di una giustizia astratta - ragionando come se la giustizia fosse soltanto
una faccenda di deduzione logica partendo dai principi iniziali - la conclusione di Mansfield potrebbe
anche avere un senso. Però ignorava la questione più ampia affrontata dal Parlamento nel 1710: qual era
il modo migliore per limitare il potere monopolistico degli editori? La strategia del Parlamento fu di
stabilire una scadenza per le opere esistenti, che fosse sufficientemente lunga da calmare le acque nel
1710, ma abbastanza breve da assicurare la competizione in ambito culturale entro un ragionevole
periodo di tempo. Nel giro di ventun anni, secondo i membri del Parlamento, la Gran Bretagna sarebbe
maturata passando dalla cultura controllata, tanto gradita alla Corona, a quella libera che abbiamo
ereditato.
   Tuttavia la battaglia per difendere i limiti imposti dallo Statute of Anne non sarebbe finita così, ed è
qui che entra in ballo Donaldson.


                                                     55
   Millar morì poco dopo la vittoria, per cui il caso non andò in appello. I suoi eredi patrimoniali
vendettero la poesia di Thomson a un consorzio di stampatori, di cui faceva parte anche Thomas
Beckett13. Donaldson allora diffuse un’edizione non autorizzata delle opere di Thomson. Beckett, forte
della decisione sul caso Millar, ottenne un’ingiunzione contro Donaldson. Il quale presentò appello alla
Camera dei Lord, che aveva funzioni analoghe a quelle della Corte Suprema americana. Nel febbraio del
1774, quell’istituzione ebbe così la possibilità di interpretare il significato dei limiti imposti sessant’anni
prima dal Parlamento.
   Come raramente è accaduto nella storia giuridica, Donaldson v. Beckett attirò un’enorme attenzione in
tutta la Gran Bretagna. I legali di Donaldson sostenevano che qualunque fossero le garanzie accordate
dal diritto consuetudinario, si dovevano considerare decadute in base allo Statute of Anne. Una volta
approvato quest’ultimo, l’unica tutela legale per il diritto esclusivo al controllo della pubblicazione
andava cercata nello statuto stesso. Perciò, dicevano, dopo la scadenza del termine specificato nello
Statute of Anne, le opere da questo precedentemente tutelate non lo erano più.
   La Camera dei Lord era una strana istituzione. Le questioni legali venivano presentate e votate prima
dai “law lord” (lord giuristi), membri di una speciale rappresentanza giuridica, che operavano in modo
assai simile ai giudici americani della Corte Suprema. Dopo il loro voto, generalmente votava anche la
Camera dei Lord.
   I resoconti sul voto dei law lord sono contraddittori. Secondo alcune fonti sembra che prevalesse la
tesi del copyright perpetuo. Ma non esiste alcun dubbio sul voto della Camera dei Lord nel suo
complesso. Con una maggioranza di due a uno (22 contro 11) respinse l’idea del copyright perpetuo.
Qualunque fosse l’interpretazione del diritto consuetudinario, da quel momento al copyright era stato
assegnato un periodo di tempo determinato, scaduto il quale l’opera tutelata dal copyright diveniva di
pubblico dominio.
   “Il pubblico dominio.” Prima del caso Donaldson v. Beckett, in Inghilterra non esisteva un’idea
precisa di che cosa fosse. Prima del 1774, esisteva la radicata convinzione che il copyright stabilito dal
diritto consuetudinario fosse perpetuo. Dopo il 1774, nacque il pubblico dominio. Per la prima volta nella
storia anglo-americana, il controllo legale sui lavori creativi era decaduto, e le opere più importanti della
storia inglese - comprese quelle di Shakespeare, Bacon, Milton, Johnson e Bunyan - potevano
considerarsi libere da vincoli giuridici.
   È difficile per noi immaginarlo, ma questa decisione della Camera dei Lord alimentò una straordinaria
reazione a livello popolare e politico. In Scozia, dove operava la maggior parte degli “editori pirata”, la
gente scese per le strade a celebrare la sentenza. Come riportava l’Edinburgh Advertiser, “nessuna causa
privata ha monopolizzato tanto l’attenzione del pubblico, e per nessun caso, fra quelli vagliati dalla
Camera dei Lord, la decisione ha interessato tante persone”. “Grande esultanza a Edinburgo per la
vittoria sulla proprietà letteraria: luminarie e falò.”14
   A Londra, tuttavia, almeno tra gli editori, la reazione fu ugualmente forte nella direzione opposta. Così
scriveva il Morning Chronicle:
   Grazie alla suddetta decisione    ... quasi 200.000 sterline di beni onestamente acquistati nelle vendite pubbliche, e che
   fino a ieri erano ritenuti una    proprietà, vengono ora ridotti a nulla. I ventditori di libri di Londra e Westminster,
   parecchi dei quali avevano        venduto possedimenti e proprietà immobiliari per acquistare il copy-right, sono
   praticamente rovinati, e quelli   che dopo molti anni di lavoro nel settore ritenevano di aver acquisito una competenza
   con cui mantenere le proprie famiglie, ora si ritrovano senza un scellino da lasciare agli eredi.15

   “Rovinati” è un po’ esagerato. Ma non è esagerato dire che il cambiamento fu profondo. La sentenza
della Camera dei Lord significò che i bookseller non potevano più controllare il modo in cui la cultura
sarebbe cresciuta e si sarebbe sviluppata in Inghilterra. Da allora, in Inghilterra, la cultura fu libera. Ciò
non significava che non c’era più un copyright da rispettare, perché ovviamente, per un periodo di tempo

                                                               56
limitato dopo l’uscita di un’opera, gli editori mantenevano il diritto esclusivo a controllarne la
pubblicazione. Ciò non significava neanche che fosse concesso rubare i libri, perché, anche dopo la
scadenza del copyright, bisognava pur sempre acquistarli da qualcuno. Ma libera nel senso che la cultura,
e il suo sviluppo, non sarebbero più stati controllati da un piccolo gruppo di editori. Come ogni mercato
libero, anche quello della cultura libera sarebbe cresciuto secondo le scelte dei consumatori e dei
produttori. La cultura inglese si sarebbe sviluppata in base alle scelte dei lettori inglesi - grazie ai libri
che avrebbero acquistato e scritto; tramite i memi16 che avrebbero replicato e sostenuto. Scelte operate
all’interno di un contesto competitivo, non di un contesto le cui scelte sul tipo di cultura messa a
disposizione del pubblico e sulle modalità d’accesso vengono fatte da pochi senza tenere conto dei
desideri di molti.
   Almeno, questa fu la sentenza di un mondo dove il Parlamento è anti-monopolistico, contrario alle
richieste protezionistiche degli editori. In un mondo dove il Parlamento fosse più arrendevole, la cultura
libera sarebbe meno tutelata.




                                                     57
                                                   Parte II


                                            Proprietà


   I guerrieri del copyright hanno ragione: il diritto d’autore è un tipo di proprietà. Può essere posseduto e
rivenduto, e la legge lo tutela contro il furto. Normalmente, il titolare del copyright riesce a spuntare il
prezzo che vuole. I mercati valutano la domanda e l’offerta che determinano in parte il prezzo che egli ne
può ricavare.
   Ma nel linguaggio comune definire il copyright un diritto di “proprietà” è un po’ fuorviante, perché
quella del copyright è una proprietà di tipo particolare. Anzi, l’idea stessa di proprietà di un’idea o di un
modo di espressione appare molto strana. Capisco di che cosa mi approprio quando prendo il tavolo da
picnic che qualcuno ha lasciato nel suo giardino. Prendo una cosa, il tavolo da picnic e, dopo che l’ho
presa, l’altro non ce l’ha più. Ma di che cosa mi approprio quando prendo la buona idea che qualcuno ha
avuto quando ha messo il tavolo da picnic in giardino - se per esempio, vado in un grande magazzino,
compro anch’io un tavolo e lo metto in giardino? Che cosa sto prendendo in questo caso?
   Il punto non riguarda soltanto la concretezza dei tavoli da picnic rispetto alle idee, anche se si tratta di
una differenza importante. La questione piuttosto è che in una situazione normale - anzi, praticamente in
ogni caso tranne che in una gamma ridotta di eccezioni - le idee diffuse nel mondo sono libere. Non mi
approprio di nulla quando copio il modo di vestire di qualcun altro - anche se potrebbe sembrare strano
se lo facessi tutti i giorni, ancor di più se copiassi regolarmente il modo di vestire di qualcuno dell’altro
sesso. Invece, come affermò Thomas Jefferson (ed è particolarmente vero quando copio il modo di
vestire di un'altra persona), “chi riceve un’idea da me, ricava conoscenza senza diminuire la mia; come
chi accende la sua candela con la mia, riceve luce senza lasciarmi al buio”1.
   Le eccezioni al libero utilizzo sono idee ed espressioni che rientrano nel campo di azione delle
legislazioni sui brevetti e sul copyright, e di alcuni altri ambiti di cui non mi occuperò in questa sede. Qui
la legge dice che non ci si può appropriare delle mie idee o delle mie espressioni creative senza il mio
permesso: la legge trasforma in proprietà l’intangibile.
   Ma è importante capire in che modo, fino a che punto e in quale forma - i dettagli, in altri termini. Per
farsi un’idea corretta di come sia emersa questa pratica di trasformare in proprietà l’intangibile,
dobbiamo collocare questa “proprietà” nel contesto adeguato2.
   Per fare questo, uso la stessa strategia della parte precedente del libro. Presento quattro storie che
contribuiscano a porre nel giusto contesto l’idea che “il materiale protetto da copyright è una proprietà”.
Da dove proviene tale idea? Quali sono i suoi limiti? Come funziona in pratica? Dopo avere letto queste
storie, risulterà un po’ più chiaro il significato dell’affermazione - “il materiale protetto da copyright è
una proprietà” - e le relative implicazioni si riveleranno alquanto diverse da quelle che i guerrieri del
copyright vorrebbero farci credere.


                                       In questa parte
      Capitolo 7 - Autori che registrano pezzi altrui
      Capitolo 8 - Autori che trasformano
      Capitolo 9 - Collezionisti


                                                      58
Capitolo 10 - Proprietà




                          59
                                                 Capitolo 7


                 Autori che registrano pezzi altrui


    Jon Else è un autore cinematografico. È noto per una serie di documentari è ha avuto molto successo
nella diffusione delle sue opere. Si dedica anche all’insegnamento, ed essendo io stesso un insegnante,
invidio la fedeltà e l’ammirazione che gli dimostrano i suoi studenti. (Per combinazione ne ho incontrati
due a una festa. Era il loro dio.)
    Else stava lavorando su un documentario che mi vedeva coinvolto. Durante una pausa, mi raccontò
una storia sulla libertà di creare nell’odierna cinematografia americana.
    Nel 1990, Else stava lavorando a un documentario sulla tetralogia dell’anello del Nibelungo di
Wagner. I protagonisti erano i macchinisti teatrali dell’Opera di San Francisco. Questi personaggi
rappresentano un elemento particolarmente variopinto e divertente in un’opera. Durante lo spettacolo, se
ne stanno al di sotto del palcoscenico nell’area loro riservata oppure nella stanza degli addetti alle luci.
Rappresentano un perfetto contrasto all’arte messa in scena sul palcoscenico.
    Nel corso di uno spettacolo, Else stava riprendendo alcuni macchinisti che giocavano a dama. In un
angolo della stanza c’era un apparecchio televisivo. Sullo schermo scorrevano le immagini dei Simpson,
mentre i macchinisti giocavano e la compagnia interpretava l’opera di Wagner. Quel tocco di cartoni
animati, pensava Else, contribuiva a catturare il particolare sapore di quella scena.
    Anni dopo, quando riuscì finalmente a trovare i finanziamenti per completare il film, Else cercò di
sistemare la faccenda dei diritti per quei pochi secondi in cui apparivano i Simpson. Perché, ovviamente,
quei pochi secondi sono coperti da copyright; e, naturalmente, per usare del materiale coperto da
copyright, occorre il permesso del titolare, a meno che non sia possibile applicare il “fair use”1 (uso
legittimo) o qualche altra eccezione.
    Else chiamò l’ufficio del creatore dei Simpson, Matt Groening, che approvò la sequenza. Era
un’immagine di quattro secondi e mezzo su un minuscolo televisore in un angolo della stanza. Quale
danno avrebbe mai potuto provocare? Groening era contento che apparisse nel film, ma disse a Else di
contattare la Gracie Films, società produttrice del programma.
    Anche alla Gracie Films si dissero d’accordo ma, al pari di Groening, volevano essere sicuri. Così
dissero a Else di contattare la casa-madre, la Fox. Else chiamò e illustrò loro la sequenza che appariva in
un’inquadratura dell’angolo di una stanza in una scena del film. Matt Groening aveva già dato il
permesso, aggiunse Else. Occorreva soltanto la conferma della Fox.
    Allora, come mi raccontò Else, “accaddero due cose. Primo, venimmo a scoprire ... che Matt Groening
non era padrone di ciò che aveva creato - o almeno qualcuno [alla Fox] la pensava così”. Secondo, la Fox
“voleva diecimila dollari in cambio della licenza per l’uso di questi quattro secondi e mezzo di ...
Simpson assolutamente casuali, che apparivano in un angolo della scena”.
    Else era sicuro che si trattasse di un errore. Si diede da fare e riuscì a contattare una persona, che gli
parve essere un vicepresidente responsabile per le licenze, Rebecca Herrera. “Deve esserci un equivoco
...” le spiegò; “vi stiamo chiedendo la tariffa per l’utilizzo di questa scena a scopo didattico.” Quella era
la tariffa per l’utilizzo a scopo didattico, fece Herrera a Else. Qualche giorno dopo, Else richiamò la
signora per avere conferma di quanto gli era stato detto.



                                                     60
   “Volevo esser certo di aver capito bene”, mi disse. “Sì, ha capito bene”, rispose Herrera. Sarebbe
costato 10.000 dollari usare la sequenza dei Simpson nell’angolo di una scena di un documentario sulla
tetralogia dell’anello del Nibelungo di Wagner. E poi, sorprendentemente, Herrera aggiunse: “E se lei
cita quanto le ho detto, passerò la questione ai nostri avvocati”. Come spiegò in seguito a Else
un’assistente di Herrera: “Non gliene frega un bel nulla. Vogliono soltanto i soldi”.
   Else non aveva il denaro necessario ad acquisire i diritti per ritrasmettere quelle poche immagini
andate in onda alla televisione dietro le quinte dell’Opera di San Francisco. Riprodurre quella realtà
avrebbe sforato i fondi a disposizione del cineasta. All’ultimo momento, prima del lancio del film, Else
sostituì digitalmente la sequenza con un’altra, ripresa dal film The Day After Trinity, su cui aveva
lavorato dieci anni prima.
   Non c’è dubbio che qualcuno, Matt Groening o la Fox, detiene il copyright dei Simpson. Tale
copyright è di loro proprietà. E talvolta l’uso di materiale coperto da copyright richiede il permesso del
proprietario. Se l’uso che Else voleva fare del copyright dei Simpson era uno di quelli limitati per legge,
allora occorreva il permesso del titolare prima di poter utilizzare il materiale. E, nel libero mercato, spetta
al proprietario del copyright stabilire il prezzo per qualsiasi uso per il quale la legge gli assegna il
controllo.
   Per esempio, la “pubblica rappresentazione” è un utilizzo dei Simpson sotto il controllo del titolare del
copyright. Se mettiamo insieme una selezione degli episodi preferiti, affittiamo un cinema e facciamo
pagare il biglietto per venire a vedere “I nostri Simpson preferiti”, allora dovremmo ottenere il permesso
del titolare del copyright. E lui (giustamente, secondo me) può chiedere qualsiasi cifra - 10 dollari oppure
1.000.000 di dollari. È nel suo diritto, come stabilito per legge.
   Ma quando gli avvocati sentono questa storia su Jon Else e la Fox, il loro primo pensiero corre al “fair
use”, all’uso legittimo2. L’utilizzo da parte di Else di appena 4,5 secondi di una sequenza indiretta di un
episodio dei Simpson è chiaramente un uso legittimo - e per l’uso legittimo non occorre il permesso di
nessuno.
   Così chiesi a Else perché non si fosse basato soltanto sull’“uso legittimo.” Ecco la sua risposta:
   Il fiasco dei Simpsons fu per me una grande lezione sull’abisso che corre tra quello che gli avvocati non trovano
   pertinente in senso astratto, e quello che lo è enormemente in pratica, per quanti tra noi cercano sul serio di realizzare e
   diffondere documentari. Non ho mai avuto dubbi che si trattasse di “uso chiaramente legittimo” in senso strettamente
   giuridico. Ma non potevo fare affidamento su questo concetto in modo concreto. Ecco perché:

   1. Prima che i nostri film possano essere proiettati, la rete di distribuzione pretende che stipuliamo un’assicurazione
   contro errori e omissioni. Le compagnie d’assicurazione vogliono la lista dettagliata dei “segnali di azione” dove sono
   elencati la fonte e lo stato delle licenze di ciascuna sequenza del film. Hanno un’opinione confusa dell’“uso legittimo”
   e un ricorso su questo punto può portare al blocco dell’intero processo.

   2. Probabilmente non avrei mai dovuto chiedere nulla a Matt Groening, tanto per cominciare. Ma sapevo (almeno
   secondo voci che circolavano) che la Fox era solita rintracciare e fermare l’uso non autorizzato dei Simpson, proprio
   come George Lucas era noto per le denunce per l’uso di Guerre stellari (Star Wars). Così decisi di seguire la legge alla
   lettera, pensando che avremmo ottenuto una licenza gratuita o a poco prezzo per quei quattro secondi di Simpson.
   Essendo un produttore di documentari, che lavora fino all’esaurimento con fondi risicati, l’ultima cosa che volevo era il
   rischio di problemi legali, o anche solo di fastidi legali, o perfino di dover difendere un principio.

   3. In realtà mi consultai con un collega della Stanford Law School ... il quale mi ribadì che si trattava di uso legittimo.
   Mi confermò altresì che la Fox mi avrebbe “denunciato e portato in aula a ogni costo”, a prescindere dal merito della
   mia posizione. Mi chiarì che il punto essenziale era chi poteva disporre dei migliori avvocati e dei fondi più cospicui,
   io o loro.

   4. La questione dell’uso legittimo solitamente si pone alla conclusione del progetto, quando dobbiamo rispettare una
   data di chiusura e non abbiamo più soldi.



                                                               61
   In teoria, l’uso legittimo significa che non occorrono permessi. Di conseguenza, la teoria sostiene la
cultura libera e la difende contro la cultura del permesso. Però, in pratica, l’uso legittimo funziona in
maniera assai diversa. La confusa linea di demarcazione della legge, legata agli eccezionali rischi a cui si
è esposti quando la si supera, significa che in effetti il ricorso all’uso legittimo per molti tipi di autori è
minimo. La legge ha un obiettivo corretto; la pratica ha sconfitto tale obiettivo.
   La pratica dimostra proprio fino a che punto la legge si sia allontanata dalle radici del XVIII secolo. La
normativa era nata come scudo per tutelare i profitti degli editori contro la concorrenza sleale dei pirati.
Con il tempo, è diventata una spada che interferisce con qualsiasi uso, che rappresenti o meno una
trasformazione.




                                                      62
                                                       Capitolo 8


                                Autori che trasformano


   Nel 1993, Alex Alben era un avvocato impiegato presso la Starwave, Inc., un’azienda innovativa
lanciata dal cofondatore di Microsoft, Paul Allen, per realizzare prodotti di intrattenimento digitale.
Molto tempo prima che Internet si diffondesse, la Starwave iniziò a investire in nuove tecnologie per la
distribuzione dell’intrattenimento in previsione dello sviluppo di reti sempre più potenti.
   Alben aveva un interesse particolare per la tecnologia. Era attratto dal mercato emergente della
tecnologia dei CD-ROM - non per distribuire filmati, ma per utilizzarli in progetti che altrimenti
sarebbero stati assai difficili da realizzare. Nel 1993 lanciò un’iniziativa per sviluppare un prodotto per la
realizzazione di retrospettive sulle opere di alcuni attori. Il primo scelto fu Clint Eastwood. L’idea era
quella di creare una vetrina di tutti i lavori di Eastwood, con brevi sequenze dei suoi film e interviste con
personaggi importanti nella sua carriera.
   All’epoca Eastwood aveva partecipato a oltre cinquanta pellicole, come attore e come regista. Alben
iniziò con una serie di interviste, ponendogli domande sul suo passato professionale. Poiché era la
Starwave a produrre tali interviste, poteva inserirle liberamente nel CD.
   Ma questo contenuto da solo non avrebbe consentito di mettere insieme un prodotto di grande
interesse, così la Starwave volle aggiungervi altri contenuti tratti dai film di Eastwood: manifesti,
sceneggiature e altro materiale relativo ai film da lui interpretati. Per gran parte della sua carriera,
Eastwood aveva lavorato con la Warner Brothers, e così fu relativamente semplice ottenere il permesso
per quel materiale.
   Poi Alben e il suo gruppo decisero di inserire anche vere e proprie sequenze tratte dai film. “Il nostro
obiettivo era di avere una scena per ogni film di Eastwood”, mi disse Alben. Fu qui che nacque il
problema. “Non l’aveva mai fatto nessuno”, spiegò Alben. “Nessuno ci aveva mai provato nel contesto
di una carrellata artistica sulla carriera di un attore.”
   Alben sottopose l’idea a Michael Slade, l’amministratore delegato di Starwave. Slade chiese, “Bene,
che cosa serve?”
   Alben rispose, “Beh, dobbiamo ottenere il permesso da tutti quelli che compaiono in quei film, e lo
stesso vale per la musica e per ogni altro materiale che vogliamo usare di queste sequenze”. Slade
rispose: “Ottimo! Procediamo1 ”.
   Il problema era che né Alben né Slade avevano la minima idea di che cosa significasse risolvere la
questione di quei permessi. Ciascun attore di ogni film poteva avanzare delle richieste per concedere il
benestare al riutilizzo delle scene. Ma nei contratti degli attori non erano menzionati in modo specifico i
CD-ROM, perciò non c’era modo di sapere come dovesse comportarsi la Starwave.
   Chiesi ad Alben come affrontò il problema. Con evidente soddisfazione per le proprie capacità, che
oscurava le ovvie stranezze del racconto, Alben raccontò quel che fecero:
   Osservammo in modo del tutto meccanico le sequenze dei film. Prendemmo alcune decisioni di tipo artistico su quali
   scegliere - ovviamente avremmo usato la scena con la famosa frase “Make my day” (nella versione italiana, “Coraggio,
   fatti ammazzare”) da Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry). Ma allora non potrà mancare il tipo sul
   pavimento che si dimena sotto la minaccia della pistola e perciò ci vorrà il suo permesso. E dovremo decidere quanto
   gli daremo.



                                                            63
   Stabilimmo che sarebbe stato onesto offrire loro la tariffa giornaliera di un attore per il diritto a riutilizzare quella
   scena. Stiamo parlando di una sequenza che dura meno di un minuto, ma per inserirla nel CD-ROM la tariffa all’epoca
   era di circa 600 dollari.

   Così dovemmo identificare le persone - operazione in certi casi difficile, perché nei film di Eastwood è impossibile
   distinguere chi è il tipo che piomba sulla porta a vetri - è l’attore oppure una controfigura? E allora mettemmo insieme
   una squadra, la mia assistente e qualcun altro, e iniziammo a chiamare le varie persone.

   Qualche attore fu lieto di aiutarci - Donald Sutherland, per esempio, seguì direttamente la faccenda per
assicurarsi che fosse tutto a posto. Altri rimasero sconcertati di fronte alla fortuna che era loro capitata.
Alben chiedeva: “Posso pagarti 600 dollari, o forse anche 1.200 se recitavi in due film, che ne dici?” E
loro rispondevano: “È tutto vero? Certo, mi piacerebbe proprio intascare 1.200 dollari”. Naturalmente
alcuni casi furono un po’ difficili (in particolare, le ex-mogli). Ma alla fine Alben e i suoi erano riusciti
ad avere il benestare per la pubblicazione di questo CD-ROM contenente una retrospettiva sulla carriera
di Clint Eastwood.
   Era trascorso un anno - “e neppure allora eravamo sicuri che fosse tutto a posto”.
   Alben è orgoglioso del lavoro svolto. Il progetto fu il primo del genere e l’unico di cui fosse a
conoscenza in cui un gruppo di lavoro si fosse dedicato a un simile enorme progetto, allo scopo di
realizzare una retrospettiva.
   Tutti ritenevano che sarebbe stato troppo difficile. Tutti si limitavano ad alzare le mani e a dire: “Oh, come faremo, un
   film ... ci sono talmente tanti copyright, c’è la musica, c’è la sceneggiatura, c’è il regista, ci sono gli attori”. Ma noi lo
   scomponemmo in vari pezzi. Lo dividemmo nelle parti che lo costituivano e dicemmo: “Bene, ci sono un tot di attori,
   di registi ... un tot di musicisti”, e procedemmo sistematicamente per avere il consenso su tutti i diritti.

   E, senza dubbio, il prodotto risultò eccezionalmente buono. A Eastwood piacque parecchio, e vendette
molto bene.
   Ma decisi d’insistere con Alben sulla stranezza di impiegare un anno di lavoro semplicemente per
avere il benestare sui diritti di riutilizzo. Senza dubbio Alben aveva risolto il problema in modo efficace,
ma come dice una famosa frase di Peter Drucker, “non c’è nulla di tanto inutile quanto fare in modo
efficiente qualcosa che non dovrebbe essere fatto per niente”2. Aveva forse senso, chiesi ad Alben, che si
dovesse seguire questa procedura per portare a termine un nuovo progetto? Poiché, come ammise lui
stesso, “solo alcuni ... hanno il tempo, le risorse e la volontà per farlo”, e così ben pochi lavori di questo
genere saranno mai realizzati. Ha senso, gli chiesi, rispetto all’opinione corrente su ciò che dovrebbe
spettare per i diritti originali, che tu sia dovuto andare a chiedere il consenso per sequenze di quel tipo?
   Non credo. Quando un attore o un’attrice recitano in un film, vengono pagati molto bene ... E allora quando si usano 30
   secondi di quella prestazione in un nuovo prodotto, che è la retrospettiva sulla carriera di uno di loro, non credo che ...
   debbano essere ricompensati.

   O almeno, è questo il modo in cui l’artista va ricompensato? Non sarebbe meglio, chiesi, che ci fosse
un qualche tipo di licenza regolamentata per legge, da pagare per essere liberi di fare un uso derivato di
spezzoni, come in questo caso? Aveva davvero senso che un successivo autore dovesse rintracciare ogni
singolo artista, attore, regista, musicista, e ottenere un esplicito permesso da ciascuno di loro? La
creatività non sarebbe maggiormente favorita, se la componente legale del processo creativo diventasse
più lineare?
   Assolutamente. Credo che se esistesse un qualche meccanismo di “fair license”3 - senza dover subire intoppi e trattare
   con ex-coniugi abbandonati - vedremmo molti più lavori del genere, perché non sarebbe così scoraggiante cercare di
   mettere insieme una retrospettiva sulla carriera di un artista, illustrandola in modo significativo con vari tipi di media
   tratti dalla sua attività. Si dovrebbero prevedere i costi per la produzione. Si dovrebbero prevedere i costi per pagare X
   dollari ai talenti coinvolti. Ma sarebbero spese conosciute. Questo è il punto che trattiene tutti e che rende così difficile
   far decollare questo genere di prodotti. Prevedendo di inserire un centinaio di minuti di filmati e che il costo dovrebbe


                                                                64
   essere di X dollari, allora si potrebbe fare un budget e ottenere finanziamenti o qualsiasi altra cosa necessaria alla
   creazione del prodotto. Ma se dici: “Voglio un centinaio di minuti di qualcosa e non ho idea di quanto mi verrebbe a
   costare, e inoltre un certo numero di persone potrebbe bloccarmi per questioni di soldi”, allora diventa difficile mettere
   insieme prodotti del genere.

   Alben lavorava per una grande società. L’azienda aveva il sostegno finanziario di alcuni tra i più ricchi
investitori del mondo. Di conseguenza, poteva vantare autorità ed entrature impossibili per un comune
Web designer. Perciò, se lui ci ha impiegato un anno, quanto tempo ci avrebbe messo un altro? E quanta
creatività non trova una via per concretizzarsi soltanto a causa dei costi così elevati per ottenere il nulla-
osta sui diritti? Questi costi sono il fardello imposto da un certo tipo di regolamentazione. Mettiamoci per
un momento nei panni di un repubblicano [in USA], e arrabbiamoci un po’. È il governo a definire la
portata di questi diritti, ed è questa a determinare quanto costa negoziarli. (Ricordiamoci dell’idea
secondo la quale la terra arriva fino al cielo, e immaginiamo il pilota che acquista i diritti di volo,
contrattandoli man mano che viaggia da Los Angeles a San Francisco.) Una volta questi diritti potevano
aver senso; ma con il mutare delle circostanze, non lo hanno più. O almeno, un repubblicano ben
motivato e interessato a ridurre al minimo le regolamentazioni dovrebbe considerare la situazione e
chiedersi: “Ha forse ancora senso tutto ciò?”
   Ho notato qualche lampo di approvazione quando la gente riesce a comprendere questo punto, ma
abbastanza di rado. La prima volta fu a una conferenza di giudici federali in California, riuniti per
discutere il tema emergente del ciber-diritto. Mi venne chiesto di partecipare al dibattito. Harvey
Saferstein, avvocato di tutto rispetto di uno studio di Los Angeles, introdusse la discussione con un video
che aveva prodotto assieme all’amico Robert Fairbank.
   Il video era un brillante collage di film appartenenti a vari periodi del XX secolo, tutti centrati attorno
all’idea di un episodio di 60 Minutes [noto programma televisivo della rete CBS su fatti d’attualità].
L’esecuzione era perfetta, compresa l’apparizione del cronometro al termine di ogni segmento. I giudici
ne apprezzarono ogni istante.
   Quando le luci si riaccesero, lanciai un’occhiata all’altro partecipante, David Nimmer, forse il più
importante studioso e professionista di questioni relative al copyright a livello nazionale. Aveva
un’espressione attonita sul volto, mentre osservava la stanza con oltre 250 giudici assai divertiti.
Assumendo un tono sinistro, iniziò l’intervento con una domanda: “Sapete quante leggi federali sono
state appena violate in questa stanza?”
   Perché, ovviamente, i due brillanti e valenti autori che avevano realizzato il film non si erano dati da
fare come Alben. Non avevano impiegato un anno per ottenere il benestare sui diritti di quelle sequenze;
tecnicamente, tutto quello che avevano realizzato violava la legge. Naturalmente questo non significava
che loro o qualcun altro sarebbe stato denunciato per quelle violazioni (nonostante la presenza di 250
giudici e di un gruppo di funzionari federali). Ma Nimmer stava sottolineando un punto importante: un
anno prima che qualcuno sentisse nominare la parola Napster, e due anni prima che un altro partecipante
alla discussione, David Boies, difendesse Napster davanti alla Corte d’Appello della Nona
Circoscrizione, Nimmer stava cercando di dimostrare ai giudici che la legge non si sarebbe dimostrata
amica delle potenzialità consentite da questa tecnologia. Tecnologia significa che oggi è possibile fare
con facilità cose incredibili; ma non è facile farle legalmente.
   Viviamo nella cultura del “taglia e incolla” consentito dalla tecnologia. Chiunque debba mettere
insieme una presentazione conosce la straordinaria libertà offerta dall’architettura taglia e incolla di
Internet - in un secondo si può trovare qualsiasi immagine si desideri; in un altro secondo la si può
importare nella propria presentazione.
   Ma le presentazioni sono soltanto un piccolo inizio. Usando Internet e i suoi archivi, i musicisti sono
in grado di mescolare tra loro suoni mai immaginati prima; gli autori cinematografici possono realizzare


                                                              65
filmati ricomponendo sequenze tratte dai computer di ogni parte del mondo. Un incredibile sito svedese
prende le immagini dei politici e le mescola con pezzi musicali per creare pepati commenti politici. Un
sito chiamato Camp Chaos ha prodotto la critica più feroce che esista sull’industria discografica, tramite
la combinazione di Flash! e musica.
   Tecnicamente tutte queste creazioni sono illegali. Se anche gli autori volessero mantenersi nella
legalità, i costi per rispettare la legge sarebbero alti in modo impossibile. Di conseguenza, per chi vuole
onorare le norme vigenti, la ricchezza creativa non può trovare espressione. E quella parte che ci riesce,
se non segue le regole per il nulla-osta sui diritti, non viene distribuita.
   Per alcuni, queste storie suggeriscono una soluzione: modifichiamo la combinazione dei vari diritti in
modo che la gente sia libera di costruire sulla cultura. Libera di aggiungere o di mescolare come meglio
crede. Potremmo anche attuare questo cambiamento senza imporre necessariamente che l’uso “libero”
sia anche gratuito, come in “ingresso libero”. Al contrario, il sistema potrebbe semplicemente rendere più
semplice per gli autori successivi compensare gli artisti originali, senza l’accompagnamento di un
esercito di avvocati: una norma, per esempio, che dica: “Le royalty dovute al titolare del copyright di
un’opera non registrata, per il suo riuso derivato, equivarranno all’uno per cento delle entrate nette, da
versare in un deposito a garanzia a nome del titolare del copyright”. Grazie a una simile norma, egli
incasserà delle royalty, pur non godendo dei benefici del pieno diritto di proprietà (intendendo il diritto di
chiedere qualsiasi cifra), a meno che non decida di registrare l’opera.
   Chi potrebbe sollevare obiezioni? E per quale motivo potrebbe obiettare? Stiamo parlando di opere
che per ora non sono state realizzate, ma che, una volta realizzate secondo questa ipotesi, produrranno
nuove entrate per gli artisti. Per quali ragioni qualcuno potrebbe opporsi?
   Nel febbraio del 2003, gli studi della DreamWorks annunciarono un accordo con Mike Myers, il genio
comico di Saturday Night Live, e con Austin Powers. Secondo l’annuncio, Myers e la DreamWorks
avrebbero lavorato insieme per dare forma a un “eccezionale patto di produzione cinematografica”. In
base all’accordo, la DreamWorks “acquisirà i diritti di film classici e di successo esistenti, scriverà nuove
sceneggiature e - ricorrendo alle più aggiornate tecnologie digitali - inserirà nel film Myers e altri attori,
creando così una forma di intrattenimento completamente nuova”.
   L’annuncio definì quanto descritto sopra “degustazione di film”. Come spiegò Myers, “questi film
sono un modo stimolante per imprimere un effetto di originalità ai film esistenti e consentire al pubblico
di vedere vecchie pellicole sotto una luce nuova. Gli artisti rap lo hanno fatto per anni con la musica e
ora siamo in grado di prendere la stessa idea e di applicarla ai film”. Viene anche citata la frase di Steven
Spielberg: “Se c’è qualcuno in grado di inventare un modo per presentare vecchi film a nuovi spettatori,
questo è Mike” .
   Spielberg ha ragione. Le degustazioni di Myers saranno brillanti. Ma se non si riflette, si potrebbe
trascurare il punto veramente incredibile di quest’annuncio. Dato che la grande maggioranza del nostro
patrimonio cinematografico rimane sotto copyright, il vero significato dell’annuncio di DreamWorks non
è altro che questo: Mike Myers e soltanto Mike Myers è libero di realizzare questi film. Qualsiasi libertà
in generale di costruire sull’archivio cinematografico della nostra cultura, una libertà di cui in altri
contesti tutti noi godiamo, per ora è un privilegio riservato a persone divertenti e famose - e
presumibilmente ricche.
   Un privilegio riservato a pochi per due ordini di motivi. Il primo continua la storia che ho presentato
nel capitolo precedente: l’indeterminatezza del “fair use”. Gran parte delle degustazioni, infatti, dovrebbe
essere considerata tale, ma pochi si baserebbero su una dottrina così debole per dedicarsi a un’attività del
genere. Da qui la seconda ragione: i costi per negoziare i diritti legali per il riutilizzo creativo dei
contenuti sono astronomici. Tali costi rispecchiano quelli dell’uso legittimo: o si paga un avvocato per
difendere il diritto al “fair use”, oppure si paga un avvocato per ottenere i permessi, così da non dover

                                                     66
fare affidamento sull’uso legittimo. In entrambi i casi, il processo creativo non riesce a evitare di pagare
gli avvocati - di nuovo, un privilegio, o forse una maledizione, riservato a pochi.




                                                     67
                                                 Capitolo 9


                                        Collezionisti


   Nell’aprile del 1996, milioni di “bot” - codici informatici, chiamati spider (o ragni), progettati per
cercare automaticamente determinati materiali su Internet e copiarli - iniziarono a girare per tutta la Rete.
Una pagina dopo l’altra, questi bot copiarono le informazioni reperite in Internet su una piccola serie di
computer sistemati in un garage nel Presidio di San Francisco. Una volta conclusa la copia dell’intera
Rete, i bot ricominciavano da capo. E così via di seguito, una volta ogni due mesi, questi pezzi di codice
facevano delle copie di Internet e le archiviavano.
   Nell’ottobre del 2001, i bot avevano raccolto oltre cinque anni di copie. Con un piccolo annuncio
diffuso da Berkeley, California, l’archivio costituito da tali copie, l’Internet Archive, venne aperto al
mondo. Usando una tecnologia chiamata “The Back Away Machine”, si poteva inserire l’indirizzo di una
pagina Web, e visualizzarne le copie fino al 1996, con tutte le relative modifiche.
   Si tratta di qualcosa riguardante Internet che Orwell avrebbe apprezzato. Nella distopia illustrata in
1984, i vecchi quotidiani venivano continuamente aggiornati per assicurarsi che l’attuale visione del
mondo, approvata dal governo, non fosse contraddetta dai resoconti giornalistici precedenti. Migliaia di
impiegati correggevano costantemente il passato, così non ci sarebbe mai stato modo di sapere se
l’articolo che si stava leggendo oggi fosse lo stesso stampato alla data di uscita del giornale.
   È lo stesso con Internet. Se oggi visitiamo una pagina Web, non c’è modo di sapere se il contenuto che
stiamo leggendo è uguale a quello letto in precedenza. La pagina può sembrare identica, ma il contenuto
potrebbe facilmente essere diverso. Internet è la biblioteca di Orwell - aggiornata in continuazione, priva
di una memoria affidabile. Almeno, fino alla Way Back Machine, grazie alla quale (e all’Internet Archive
sottostante) si può visualizzare il passato di Internet. Abbiamo la possibilità di vedere quello che
ricordiamo. Ma, ancora più importante, abbiamo anche la possibilità di trovare quello che non ricordiamo
e quello che altri preferirebbero fosse dimenticato1.
   Diamo per scontato che sia possibile andare a ritroso per vedere quel che ricordiamo di aver letto.
Pensiamo ai quotidiani. Se volessimo analizzare la reazione del giornale locale ai disordini razziali di
Watts nel 1965, oppure all’idrante di Bull Connor nel 1963, basta andare alla biblioteca pubblica e dare
un’occhiata ai quotidiani dell’epoca. I quali sono probabilmente disponibili su microfilm. Se siamo
fortunati, esistono anche in versione cartacea. In entrambi i casi, siamo liberi di usare la biblioteca,
tornare al passato e ricordare - non soltanto ciò che ci fa comodo rammentare, ma ciò che si avvicina alla
verità.
   Si dice che coloro che non ricordano la storia sono condannati a ripeterla. Non è del tutto esatto. Tutti
noi dimentichiamo la storia. La questione è se abbiamo la possibilità di tornare indietro per riscoprire
quel che abbiamo dimenticato. O, più direttamente, se una conoscenza oggettiva del passato può
mantenerci onesti. Le biblioteche ci aiutano in questo senso, raccogliendo il materiale e conservandolo,
per gli studenti, per i ricercatori, per le nonne. Una società libera non può prescindere da questo tipo di
conoscenza.
   Internet era un’eccezione. Fino alla creazione dell’Internet Archive, non c’era alcun modo per tornare
indietro. Internet era il medium transitorio per eccellenza. Eppure, man mano che cresce la sua capacità
di formare e di riformare la società, diviene sempre più importante conservarne qualche elemento storico.


                                                     68
È davvero strano pensare che abbiamo un numero enorme di archivi per i quotidiani di piccole città di
ogni parte del mondo, mentre esiste soltanto una copia di Internet - quella mantenuta dall’Internet
Archive.
   Brewster Kahle è il fondatore dell’Internet Archive. È stato un imprenditore di successo nell’ambito di
Internet, dopo essere stato un affermato ricercatore informatico. Negli anni ’90, Kahle decise che si era
affermato a sufficienza nel campo degli affari e che era ora di provare un altro tipo di successo. Così si
dedicò a una serie di progetti mirati ad archiviare la conoscenza umana. L’Internet Archive fu soltanto il
primo dei progetti lanciati da questo Andrew Carnegie2 di Internet. Al dicembre 2002, l’archivio
conteneva oltre 10 miliardi di pagine, e cresceva al ritmo di circa un miliardo di pagine al mese.
   La Way Back Machine è il più ampio archivio della conoscenza umana mai realizzato nella storia. Alla
fine del 2002, conteneva “duecentotrenta terabyte di materiale” - ed era “dieci volte più grande della
Biblioteca del Congresso”. E questo era soltanto il primo degli archivi che Kahle si proponeva di
realizzare. In aggiunta all’Internet Archive, Kahle stava costruendo il Television Archive. Sembra che la
televisione sia perfino più effimera di Internet. Sebbene buona parte della cultura del XX secolo sia stata
costruita attraverso la televisione, soltanto una percentuale minima di tale cultura è disponibile a chi oggi
voglia accedervi. Tre ore di notizie giornalistiche vengono registrate ogni sera dalla Vanderbilt
University - grazie a una particolare esenzione sulle norme del copyright. Questo materiale viene
indicizzato, ed è a disposizione dei ricercatori a tariffe assai ridotte. “Ma al di là di questo, [la
televisione] è quasi inavvicinabile”, mi ha detto Kahle. “Se ci si chiama Barbara Walters3 si ha accesso
[agli archivi], ma se si è semplicemente uno studente universitario?” Come spiega Kahle,
   chi rammenta quella volta in cui Dan Quayle si mise a discutere con Murphy Brown? Ricordiamo quell’esperienza
   surreale di un politico che dialogava con un personaggio televisivo di fantasia? Se uno studente universitario volesse
   analizzare quella situazione, e volesse avere le scene originali di quello scambio di battute, oltre all’episodio di 60
   Minutes trasmesso in seguito ... sarebbe quasi impossibile ... Quei materiali sono praticamente introvabili...

    Perché mai? Perché la parte della nostra cultura registrata sui giornali rimane accessibile per sempre,
mentre non è così per quella registrata su nastri video? Per quale ragione abbiamo creato un mondo in cui
i ricercatori che tentano di comprendere l’effetto dei media sull’America del XIX secolo hanno un
compito più facile di quelli che tentano di capire l’effetto dei media sull’America del XX secolo?
    In parte, la colpa è della legge. Inizialmente, in America le norme sul diritto d’autore imponevano ai
titolari del copyright l’obbligo di depositare copie delle proprie opere nelle biblioteche. Esse dovevano
servire sia per facilitare la diffusione della conoscenza sia per assicurarsi che esistesse una copia
dell’opera una volta scaduto il copyright, in modo che altri potessero accedervi e copiarla.
    Queste regole valevano anche per i film. Ma nel 1915, la Biblioteca del Congresso introdusse
un’eccezione. I film potevano essere tutelati da copyright fintanto che restavano depositati. Ma ai registi
venne poi concesso di riprendere in prestito le pellicole depositate - per un periodo di tempo illimitato e
senza spese. Soltanto nel 1915, oltre 5475 film furono depositati e poi “ripresi in prestito”. Così, allo
scadere dei relativi diritti, nessuna biblioteca ne avrà più una copia. Questa esiste - quando esiste -
nell’archivio del produttore cinematografico4.
    Lo stesso accade in genere alla televisione. In origine le trasmissioni televisive non erano tutelate da
copyright - non c’era modo di registrarle, per cui non si temevano “furti”. Man mano però che la
tecnologia ha reso possibile la cattura delle immagini, i produttori si sono affidati sempre di più alla
legge. La quale impone loro di riservare una copia dell’opera per porla “sotto copyright”. Ma tali copie
devono semplicemente essere conservate dallo stesso produttore. Nessuna biblioteca può vantare diritti
su di esse; il governo non lo ha richiesto. I contenuti di questa parte della cultura americana sono
praticamente inaccessibili a chiunque voglia prenderne visione.


                                                             69
   Kahle era ansioso di trovare un rimedio. Prima dell’11 settembre 2001, assieme ad alcuni colleghi
aveva iniziato a catturare le immagini televisive. Dopo avere selezionato venti stazioni di ogni parte del
mondo, aveva premuto il pulsante Registra. Dopo l’11 settembre, Kahle, in collaborazione con decine di
altre persone, ha scelto venti emittenti di vari paesi e, a partire dall’11 ottobre 2001, ha reso disponibile
gratuitamente online il materiale raccolto durante la settimana dell’11 settembre. Chiunque poteva vedere
come i telegiornali di tutto il mondo avevano riportato gli eventi di quel giorno.
   Kahle ebbe la stessa idea per i film. Lavorando con Rick Prelinger, il cui archivio cinematografico
raccoglie quasi 45.000 “film effimeri” (per intenderci, pellicole diverse da quelle di Hollywood, film che
non sono mai stati messi sotto copyright), Kahle mise in piedi il Movie Archive. Prelinger gli consentì di
digitalizzare 1300 film del suo archivio e di diffonderli su Internet per essere scaricati gratuitamente.
Quella di Prelinger è una normale azienda commerciale. Vende copie di quei film a metri, come avanzi di
magazzino. Così il proprietario ha scoperto che, dopo averne reso disponibile gratuitamente una quantità
significativa, le vendite sono salite notevolmente. La gente riusciva a trovare con facilità il materiale che
voleva usare. Alcuni lo scaricarono e realizzarono film in proprio. Altri acquistarono delle copie per
realizzare nuove pellicole. In entrambi i casi, l’archivio garantì l’accesso a questa parte importante della
nostra cultura. Vogliamo vedere una copia del film “Duck and Cover”, che insegna ai bambini come
salvarsi durante un attacco nucleare? Andiamo su archive.org, e potremo scaricare il film in pochi minuti
- gratis.
   Di nuovo, Kahle ci permette di accedere a un’area della nostra cultura che altrimenti sarebbe difficile,
se non impossibile, raggiungere. Si tratta comunque di un’altra parte che caratterizza il XX secolo andato
perduto per la storia. La legge non impone a nessuno di conservare queste copie, né di depositarle in un
archivio. Di conseguenza non esiste un modo per reperirle con facilità.
   Il punto, qui, è l’accesso, non il prezzo. Kahle vuole consentire il libero accesso a questo materiale, ma
vuole altresì permettere ad altri di rivendere tale disponibilità. Il suo scopo è quello di garantire la
concorrenza nell’accesso a questa parte importante della nostra cultura. Non durante la vita commerciale
di un frammento di proprietà creativa, ma nel corso della seconda vita che ha ogni proprietà creativa -
una vita non-commerciale.
   Ecco un’idea che dovremmo capire con maggiore chiarezza. Ogni frammento di proprietà creativa
passa per “vite” differenti. Nella prima, se l’autore ha fortuna, il contenuto viene venduto. In questo caso
il mercato porta l’autore al successo. La grande maggioranza della proprietà creativa non raggiunge tale
successo, ma in qualche caso chiaramente ci riesce. Per quel materiale, la vita commerciale risulta
estremamente importante. Senza questo mercato commerciale, sostengono molti, esisterebbe una quantità
assai minore di creatività.
   Una volta conclusa la vita commerciale della proprietà creativa, la nostra tradizione ne ha sempre
sostenuto anche una seconda. Un quotidiano consegna ogni giorno le notizie sulla porta delle case
americane. Già il giorno successivo, lo si usa per incartare il pesce o per imballare oggetti fragili, oppure
per costruire l’archivio della nostra conoscenza storica. In questa seconda vita, il contenuto può
continuare a informare anche se l’informazione non viene più venduta.
   Lo stesso vale da sempre per i libri. Un libro va fuori catalogo assai rapidamente (oggi la media è dopo
un anno circa5 ). Quando è fuori catalogo può essere rivenduto nella librerie dell’usato, senza che il
titolare del copyright intaschi nulla, e conservato nelle biblioteche, dove molti potranno leggerlo, anche
gratuitamente. Le librerie dell’usato e le biblioteche rappresentano perciò la seconda vita di un libro.
Questa seconda vita è estremamente importante per la diffusione e la stabilità della cultura.
   Eppure, con sempre maggior frequenza, qualsiasi ipotesi di una seconda vita stabile per la proprietà
creativa non viene riconosciuta come una delle componenti più importanti della cultura popolare del XX
e XXI secolo. Per questi media - televisione, film, musica, radio, Internet - non esiste alcuna garanzia di

                                                     70
una seconda vita. Per questo genere di cultura è come se avessimo sostituito le biblioteche con i super-
negozi alla Barnes & Noble. Per questa cultura, nient’altro è accessibile se non ciò che richiede un certo
mercato ristretto. Al di fuori di tale mercato, la cultura scompare.
   Per gran parte del XX secolo, si è trattato soltanto di un problema economico. Sarebbe stato
follemente dispendioso raccogliere e rendere accessibile tutta la produzione televisiva, i film e la musica:
il costo delle copie analogiche è infatti straordinariamente elevato. Così, anche se la legge in linea di
principio avesse posto dei limiti alla capacità di un Brewster Kahle di copiare e archiviare la cultura in
generale, la vera limitazione era di tipo economico. Il mercato rendeva difficile, se non impossibile, fare
qualcosa per questa cultura effimera; la legge aveva scarso effetto pratico.
   Forse la funzione più importante della rivoluzione digitale è che, per la prima volta dalla Biblioteca di
Alessandria, diviene plausibile immaginare la realizzazione di archivi capaci di contenere tutta la cultura
prodotta o distribuita pubblicamente. La tecnologia rende possibile immaginare un archivio di tutti i libri
pubblicati, e pensare a un archivio di tutte le immagini in movimento e di tutti i suoni diviene una
possibilità sempre più concreta.
   La portata di questo archivio potenziale è qualcosa di mai immaginato prima. I Brewster Kahle della
storia lo hanno sognato; ma per la prima volta ci troviamo in una situazione in cui quel sogno è possibile.
Così lo descrive Kahle:
  Sembra che esistano dai due ai tre milioni di registrazioni musicali. Fino a oggi. Nei cinema sono stati proiettati circa
  centomila film ... e da uno a due milioni [sono stati distribuiti] nel corso del XX secolo. Abbiamo ventisei milioni di
  titoli di libri diversi. Tutto ciò potrebbe trovare posto su pochi computer sistemati in questa stanza, che anche una
  piccola azienda si potrebbe permettere. Eccoci perciò a un punto di svolta della storia. La meta è l’accesso universale.
  E l’opportunità di vivere una vita differente, basata su di esso, è ... elettrizzante. Potrebbe essere una di quelle conquiste
  di cui l’umanità andrebbe orgogliosa. Lassù, assieme alla Biblioteca di Alessandria, al primo uomo sulla luna e
  all’invenzione della macchina per la stampa.

   Kahle non è l’unico bibliotecario. L’Internet Archive non è il solo archivio esistente. Tuttavia Kahle e
l’Internet Archive suggeriscono quale potrà essere il futuro delle biblioteche o degli archivi. Non so dire
quando termina la vita commerciale della proprietà creativa. Ma termina. E ogni volta che accade, Kahle
e il suo archivio ci rimandano a un mondo dove questa conoscenza e questa cultura rimangono
disponibili per sempre. Qualcuno le analizzerà per comprenderle, altri per criticarle. Altri ancora le
useranno, come fece Walt Disney, allo scopo di ricreare il passato per il futuro. Queste tecnologie
promettono qualcosa che pareva inimmaginabile - un futuro per il passato. La tecnologia dell’arte
digitale potrebbe trasformare nuovamente in realtà il sogno della Biblioteca di Alessandria.
   I tecnologi hanno dunque eliminato il problema economico della costruzione di simili archivi. Ma
rimangono le spese per gli avvocati. Perché, per quanto li si voglia definire “archivi”, per quanto possa
apparire elettrizzante l’idea di una “biblioteca”, il “contenuto” raccolto in questi spazi digitali è pur
sempre “proprietà” di qualcuno. E le norme sulla proprietà limitano le libertà che Kahle e altri
vorrebbero esercitare.




                                                               71
                                                        Capitolo 10


                                                   Proprietà


   Jack Valenti è stato presidente della Motion Picture Association of America (MPAA) fin dal 1966.
Fece la sua prima apparizione a Washington, D.C., al seguito dell’amministrazione di Lyndon Johnson -
letteralmente. Nella famosa fotografia del giuramento di Johnson a bordo dell’aereo Air Force One dopo
l’assassinio del presidente Kennedy, Valenti compare in secondo piano. In quasi quarant’anni di gestione
della MPAA, si è imposto come il lobbysta forse più importante ed efficiente di Washington.
   La MPAA è la filiale americana dell’Associazione internazionale dell’industria cinematografica.
Venne fondata nel 1922 come associazione di categoria, con l’obiettivo di tutelare i film americani contro
le crescenti critiche interne. Oggi l’organizzazione rappresenta non soltanto i registi, ma anche i
produttori e i distributori di intrattenimento per la televisione, i video e la TV via cavo. Nel suo comitato
esecutivo siedono responsabili e presidenti dei sette maggiori studi di produzione e distribuzione di
programmi cinematografici e televisivi degli Stati Uniti: Walt Disney, Sony Pictures Entertainment,
MGM, Paramount Pictures, Twentieth Century Fox, Universal Studios e Warner Brothers.
   Valenti è soltanto il terzo presidente della MPAA. Nessuno prima di lui ha esercitato tanta influenza
sull’organizzazione o su Washington. Da buon texano, Valenti padroneggia la qualità politica
caratteristica di un uomo del Sud - la capacità di apparire semplice e lento nascondendo una mente che
viaggia alla velocità della luce. Anche oggi, Valenti recita la parte dell’uomo semplice, umile. Ma si è
laureato a Harvard, ha scritto quattro libri, ha finito il liceo all’età di quindici anni e ha partecipato a oltre
cinquanta missioni di combattimento aereo nella Seconda guerra mondiale - non è uno qualunque.
Arrivato a Washington, Valenti ha imparato a destreggiarsi nella capitale con un piglio che è la
quintessenza dello stile washingtoniano.
   Per quanto riguarda la difesa della libertà artistica e della libertà d’espressione su cui si basa la nostra
cultura, la MPAA ha fatto cose buone e importanti. Nell’impostare il sistema di classificazione per i film,
probabilmente la MPAA ha evitato parecchi danni rispetto alla regolamentazione della libertà
d’espressione. Ma c’è un aspetto nella missione dell’organizzazione che è il più radicale e il più
importante nello stesso tempo. Si tratta del tentativo, incarnato in ogni azione di Valenti, di ridefinire il
significato di “proprietà creativa”.
   Nel 1982, la sua testimonianza davanti al Congresso mise perfettamente in evidenza questa strategia:
   Non ha importanza la lunghezza delle argomentazioni, non contano le accuse e le contraccuse, non interessa quanto ci
   si agiti e si gridi, uomini e donne ragionevoli torneranno alla questione fondamentale, al tema centrale che anima
   l’intero dibattito: ai titolari della proprietà creativa devono essere assegnati gli stessi diritti e la stessa protezione
   riconosciuti a tutti gli altri proprietari di questa nazione. Questo è il punto. Questo è il problema. E questa è la
   piattaforma sulla quale dovranno confrontarsi questa udienza e tutti i dibattiti che seguiranno.1

   La strategia di questa retorica, come di gran parte della retorica di Valenti, è brillante e semplice, e
brillante perché semplice. Il “tema centrale” al quale torneranno “uomini e donne ragionevoli” è questo:
“ai titolari della proprietà creativa devono essere assegnati gli stessi diritti e la stessa protezione
riconosciuti a tutti gli altri proprietari di questa nazione”. Non esistono cittadini di seconda classe,
avrebbe potuto aggiungere Valenti. Né dovrebbero esserci proprietari di seconda classe.
   Questa posizione contiene un richiamo intuitivo ovvio e potente. Viene affermata con una chiarezza
tale da rendere quell’idea ovvia quanto il fatto che si indicano le elezioni per scegliere il presidente. Ma

                                                              72
in realtà, non esiste posizione più estrema, sostenuta da chiunque possa definirsi una persona seria, di
quella di Valenti. Per quanto dolce e per quanto brillante, Jack Valenti è forse il maggiore estremista del
paese di fronte alla natura e all’estensione della “proprietà creativa”. I suoi punti di vista non hanno alcun
collegamento ragionevole con la reale tradizione giuridica americana, anche se il sottile richiamo del
fascino texano è andato lentamente ridefinendo tale tradizione, almeno in quel di Washington.
   Anche se la “proprietà creativa” è sicuramente “proprietà” nel senso ottuso e preciso che gli avvocati
sono addestrati a comprendere2, non si è mai dato il caso, né dovrebbe, in cui ai “ai titolari della proprietà
creativa” siano stati “assegnati gli stessi diritti e la stessa protezione riconosciuti a tutti gli altri
proprietari”. Anzi, se ai titolari della proprietà creativa venissero riconosciuti gli stessi diritti di chiunque
altro possieda una proprietà, questo comporterebbe un mutamento radicale, e assolutamente
indesiderabile, della nostra tradizione.
   Valenti lo sa. Ma è il portavoce di un’industria che non ha alcun interesse per la tradizione e per i
valori che essa rappresenta. Parla a nome di un’industria che sta invece lottando per reintrodurre una
tradizione che i britannici eliminarono nel 1710. Nel mondo che le modifiche di Valenti finirebbero per
creare, poche persone potenti eserciterebbero il controllo completo sullo sviluppo della cultura creativa.
   In questo capitolo mi riprometto due obiettivi. Il primo è convincere i lettori che, a livello storico, la
posizione di Valenti è assolutamente distorta. Il secondo è persuaderli che sarebbe un terribile errore
rifiutare la storia. Abbiamo sempre trattato i diritti della proprietà creativa in modo diverso da quanto
viene riconosciuto a tutti gli altri titolari di una proprietà. Non è mai stata la stessa cosa. E non dovrebbe
mai esserlo perché, per quanto possa apparire poco intuitivo, questa equiparazione indebolirebbe in modo
sostanziale l’opportunità di creare per i nuovi autori. La creatività dipende dal fatto che i titolari della
stessa non ne abbiano un controllo perfetto.
   Organizzazioni come la MPAA, nel cui direttivo sono presenti le persone più potenti della vecchia
guardia, nutrono scarso interesse, nonostante la loro retorica, a permettere che il nuovo possa scalzarli.
Nessuna organizzazione lo vorrebbe. Nessuna persona. (Parliamo dei docenti di ruolo, tanto per fare un
esempio.) Ma quel che è bene per la MPAA non lo è necessariamente per l’America. Una società che
difende gli ideali della cultura libera deve appunto tutelare la possibilità che la nuova creatività minacci
quella vecchia.
   Per una semplice dimostrazione del fatto che c’è qualcosa di fondamentalmente errato nella tesi di
Valenti, basta guardare la stessa Costituzione degli Stati Uniti.
   Gli estensori della Costituzione americana apprezzavano molto la “proprietà”. Anzi, l’amavano a tal
punto che inserirono nel dettato costituzionale un punto importante. Se il governo s’impossessa di una
nostra proprietà - se ci sequestra la casa, o acquisisce una fetta del nostro podere - gli viene imposto,
secondo la “Takings Clause” (espropriazione per pubblica utilità) del quinto emendamento, di
corrisponderci il “giusto compenso”. Così la Costituzione garantisce, in un certo senso, che la proprietà è
sacra; che non può mai essere sottratta a chi la possiede a meno che il governo non paghi per questo
privilegio.
   Eppure, proprio la stessa Costituzione si esprime in modo assai diverso su quel che Valenti definisce
“proprietà creativa”. Nell’articolo che assegna al Congresso l’autorità di attribuire a qualcuno la
“proprietà creativa”, la Costituzione impone che dopo un “periodo di tempo limitato”, il Congresso
rientri in possesso dei diritti assegnati e liberi la “proprietà creativa” perché diventi di pubblico dominio.
Eppure quando opera in questo modo, quando alla scadenza del termine “si appropria” del nostro
copyright e lo rende di dominio pubblico, il Congresso non ha alcun obbligo di corrispondere il “giusto
compenso” per tale “appropriazione”. Piuttosto, la stessa Costituzione che impone un risarcimento per il
nostro terreno, ci ingiunge di perdere il diritto alla “proprietà creativa” senza alcun compenso.


                                                       73
   Perciò è la Costituzione ad affermare esplicitamente che a queste due forme di proprietà non debbano
essere riconosciuti uguali diritti. Vanno chiaramente trattate in maniera diversa. Valenti non sta dunque
chiedendo soltanto di cambiare la tradizione, quando sostiene che ai titolari della proprietà creativa
vadano riconosciuti i medesimi diritti di chiunque altro possieda una proprietà. Ciò che sostiene in effetti
è la modifica della Costituzione stessa.
   Non che richiedere una modifica della Costituzione sia necessariamente un errore. Nel testo originale
c’erano parecchi punti chiaramente sbagliati. La Costituzione del 1789 difendeva la schiavitù; prevedeva
la nomina invece che l’elezione dei senatori; consentiva che il collegio elettorale sancisse l’esistenza di
un legame diretto tra il presidente e il vicepresidente (come avvenne nel 1800). Indubbiamente gli
estensori erano persone eccezionali, ma sono io il primo ad ammettere che commisero gravi errori. Da
allora ne abbiamo eliminati alcuni; senza dubbio ce ne sono altri che dovremmo ugualmente respingere.
Non voglio perciò sostenere semplicemente che, perché la pensava così Jefferson, dobbiamo pensarla
anche noi allo stesso modo.
   Al contrario, la mia tesi è che, dal momento che Jefferson ha stabilito così, dovremmo almeno tentare
di comprenderne il motivo. Perché gli estensori, fanatici della proprietà come erano, rifiutarono la
posizione secondo la quale alla proprietà creativa devono essere riconosciuti gli stessi diritti di ogni altra
proprietà? Perché hanno imposto alla proprietà creativa l’esistenza del pubblico dominio?
   Per rispondere a questa domanda, dobbiamo considerare in una prospettiva storica i diritti della
“proprietà creativa” e il controllo che ne scaturiva. Dopo aver visto con chiarezza il modo diverso in cui
furono definiti tali diritti, ci troveremo in una posizione migliore per affrontare la domanda che dovrebbe
essere al centro di questa guerra: non se la proprietà creativa debba essere tutelata, ma in che modo. Non
se si debbano far rispettare i diritti che la legge riconosce ai titolari della proprietà creativa, ma quale
debba essere la specifica combinazione di tali diritti. Non se gli artisti debbano essere pagati, ma se alle
istituzioni incaricate di assicurare loro i compensi spetti anche il controllo sullo sviluppo della cultura.
   Per rispondere a queste domande, occorre un approccio più generale al dibattito sulle modalità di
tutela della proprietà. Più precisamente, occorre un approccio più generale di quello offerto dal
linguaggio ristretto consentito dalla legge. In Code and Other Laws of Cyberspace, ho usato un semplice
modello per sintetizzare questa prospettiva più generale. Per ogni diritto o norma specifici, questo
modello indaga sull’interazione fra quattro diverse modalità di regolamentazione nel sostenere o
indebolire tale diritto o norma. Lo ho illustrato mediante il seguente diagramma:




    Al centro di questa immagine si trova un cerchio: l’individuo o il gruppo, obiettivo della
regolamentazione, oppure il titolare di un diritto. (In ciascuno dei casi successivi, potremmo indicarlo sia
come regolamentazione sia come diritto. Per maggiore semplicità, parlerò soltanto di regolamentazioni.)
Gli ovali rappresentano le quattro modalità attraverso le quali l’individuo o il gruppo possono essere
regolamentati - imponendo vincoli o, in alternativa, dando loro la possibilità di agire. La legge è il
vincolo più ovvio (almeno, per gli avvocati). Impone delle limitazioni minacciando una punizione dopo
il fatto, qualora vengano violate le regole decise in precedenza. Così se, per esempio, violiamo

                                                     74
volontariamente il copyright di Madonna copiandone una canzone dall’ultimo CD e diffondendola sul
Web, possiamo essere puniti con una multa di 150.000 dollari. Si tratta di una pena ex post per aver
violato una regola ex ante. Essa viene imposta dallo Stato.
   Le norme sono un tipo diverso di vincolo. Anch’esse condannano una persona per aver violato una
regola. Ma in questo caso la pena è imposta da una comunità, non (o non soltanto) dallo Stato. Forse non
esistono leggi che vietano di sputare, ma questo non significa che non si venga puniti se si sputa per terra
mentre si fa la fila davanti a un cinema. Può darsi che la sanzione non sia troppo severa - dipende dalla
comunità - ma può anche risultare più severa di molte sanzioni inflitte dallo Stato. La differenza non sta
nella severità della regola, ma nella istituzione che ne esige il rispetto.
   Il mercato è il terzo tipo di vincolo. I limiti vengono imposti attraverso determinate condizioni:
possiamo fare X se paghiamo Y; saremo pagati M se facciamo N. Ovviamente questi vincoli non sono
indipendenti da leggi o da norme - è la legislazione sulla proprietà a definire quel che si deve acquistare
perché l’appropriazione sia legale; sono le norme a stabilire le modalità appropriate di vendita. Ma una
volta impostate le norme e il contesto giuridico sulla proprietà e sui contratti, è il mercato a imporre
simultaneamente un vincolo sul comportamento del singolo o del gruppo.
   Infine, e per il momento, forse, in modo più misterioso, “l’architettura” - il mondo fisico per come lo
si trova - è un vincolo sul comportamento. Un ponte crollato può limitare la nostra possibilità di
attraversare il fiume. La ferrovia può ridurre la capacità di integrazione sociale di una comunità. Al pari
del mercato, l’architettura non vincola attraverso punizioni ex post. Piuttosto, sempre come il mercato, lo
fa ricorrendo a condizioni simultanee. Queste non vengono dettate dai tribunali che applicano i contratti,
o dalla polizia che punisce il furto, ma dalla natura, tramite “l’architettura”. Se una roccia da 250 chili ci
blocca la strada, è la legge della gravità a far rispettare questo vincolo. Se un biglietto aereo da 500
dollari si frappone tra noi e un volo per New York, è il mercato a imporre quel limite.
   Diventa allora ovvio il primo punto riguardante queste quattro modalità di regolamentazione: esse
interagiscono tra loro. Le restrizioni imposte da una possono essere rafforzate da un’altra. Oppure le
limitazioni dettate da una possono essere scardinate da un’altra.
   Ne consegue direttamente il secondo punto: per comprendere l’effettiva libertà di fare una determinata
cosa in un determinato momento, occorre considerare il modo in cui queste quattro modalità
interagiscono tra loro. Che esistano o meno altri vincoli (potrebbe succedere; la mia posizione non vuole
essere esaustiva), questi quattro restano i più significativi, e chiunque voglia stabilire regole (nella
direzione di un maggior controllo o di una maggiore libertà) deve considerare il modo specifico in cui
interagiscono.
   Pensiamo, per esempio, alla “libertà” di guidare un’auto a forte velocità. Tale libertà è in parte limitata
per legge: i limiti di velocità stabiliscono quanto veloci si possa andare in luoghi specifici in momenti
particolari. È in parte vincolata dall’architettura: gli appositi dossi, per esempio, inducono a rallentare la
maggior parte degli autisti di buon senso; i regolatori degli autobus, altro esempio, impostano la velocità
massima di guida. La libertà è parzialmente limitata dal mercato: il risparmio di carburante diminuisce
con l’aumento della velocità, perciò è il prezzo della benzina a porre indirettamente un limite. E, infine,
le norme di una comunità possono vincolare o meno la libertà di correre in macchina. Se passiamo a 70
km all’ora davanti alla scuola del quartiere, è probabile che verremo puniti dai vicini. La stessa norma
non avrebbe identica efficacia in un’altra città, oppure di notte.
   Anche il punto finale di questo semplice modello dovrebbe risultare abbastanza chiaro (vedi il
diagramma nella pagina seguente): anche se le quattro modalità sono analiticamente indipendenti, la
legge svolge un ruolo particolare nei confronti delle altre tre3. La legge, in altri termini, talvolta agisce
rendendo più rigidi o più laschi i vincoli di una determinata modalità. Si potrebbe così ricorrere alla
legge per incrementare le tasse sulla benzina, in modo da aumentare l’incentivo a guidare più lentamente.

                                                     75
La legge potrebbe essere usata per imporre un maggior numero di dossi, allo scopo di mettere in
difficoltà chi corre troppo. La legge potrebbe servire a reperire fondi per campagne pubblicitarie atte a
stigmatizzare la guida scorretta. Oppure potrebbe essere usata per imporre altre normative più severe -
una richiesta a livello federale che imponga ai singoli stati di abbassare il limite di velocità, per esempio -
così da scoraggiare la tendenza alla guida veloce.
   Questi vincoli possono perciò cambiare, e possono essere modificati. Per comprendere quale sia
l’effettiva tutela della libertà o della proprietà in un determinato momento, dobbiamo considerare queste
modifiche nel corso del tempo. Una limitazione imposta da una modalità potrebbe essere cancellata da
un’altra. Una libertà consentita da una modalità potrebbe essere annullata da un’altra4.


                        Perché Hollywood ha ragione




   Il punto più ovvio rivelato da questo modello è proprio perché, o come, Hollywood ha ragione. I
guerrieri del copyright hanno fatto pressione sul Congresso e sui tribunali per tutelare il diritto d’autore.
Questo modello ci aiuta a vedere perché tale pressione abbia senso.
   Diciamo che l’immagine della regolamentazione del copyright prima di Internet è il diagramma della
pagina a fronte.
   Esiste un equilibrio tra legge, norme, mercato e architettura. La legge limita la capacità di copiare e di
condividere contenuti, imponendo sanzioni a coloro che lo fanno. Tali sanzioni sono rafforzate dalle
tecnologie che rendono difficile (architettura) e costosa (mercato) la copia e la condivisione di contenuti.
Infine, le sanzioni sono mitigate da norme riconosciute da tutti - per esempio, i ragazzi che registrano su
cassetta i dischi degli amici. Questi utilizzi di materiale protetto da copyright possono ben considerarsi
una violazione, ma le norme della società (almeno, prima di Internet) non consideravano un problema
tale forma di violazione.




  Prendiamo ora in considerazione Internet o, più precisamente, tecnologie quali MP3 e la condivisione
p2p. Qui il vincolo dell’architettura cambia in maniera notevole, come pure quello del mercato. E mentre

                                                      76
entrambe le modalità allentano la regolamentazione del copyright, le norme vanno accumulandosi.
L’equilibrio perfetto (almeno per i guerrieri) della vita prima di Internet, si trasforma in un vero e proprio
stato d’anarchia nel dopo Internet.
   Da qui il senso e la giustificazione della reazione dei guerrieri. La tecnologia è cambiata, essi dicono, e
l’effetto di questo mutamento, quando si ramifica attraverso il mercato e le norme, è la perdita
dell’equilibrio nella tutela dei diritti dei titolari del copyright.
   Questo è l’Iraq dopo la caduta di Saddam, ma stavolta nessun governo giustifica il saccheggio che ne
deriva.
   Né questa analisi né le conclusioni che seguono sono nuove per i guerrieri. Infatti in un “libro bianco”
preparato nel 1995 dal Ministero del Commercio statunitense (struttura sotto la pesante influenza dei
guerrieri del copyright), questo mix di modalità di regolamentazione veniva già identificato e la strategia
per farvi fronte già delineata. In risposta ai mutamenti apportati da Internet, il documento sosteneva che
(1) il Congresso avrebbe dovuto rafforzare le leggi in tema di proprietà intellettuale, (2) l’imprenditoria
avrebbe dovuto adottare innovative tecniche di marketing, (3) i tecnologi avrebbero dovuto spingere per
lo sviluppo di codice atto a proteggere il materiale tutelato da copyright e (4) gli educatori avrebbero
dovuto indirizzare i ragazzi verso una maggiore sensibilità nei confronti della protezione del copyright.




   Questa strategia combinata è esattamente quello che occorreva al copyright - se si voleva conservare il
particolare equilibrio esistente prima dei cambiamenti indotti da Internet. Ed è proprio ciò che dovremmo
aspettarci dall’industria produttrice di contenuti. È americano quanto la torta di mele considerare un
diritto la felicità, e rivolgersi alla legge per tutelare tale diritto nel caso si verifichi qualcosa che
modifichi quella felicità. Chi possiede una casa in una pianura soggetta a inondazioni non ha esitazioni
ad appellarsi al governo perché la ricostruisca (e continui a farlo) quando un’inondazione (architettura)
spazza via la sua proprietà (legge). I contadini non esitano a chiedere aiuti al governo quando un
parassita (architettura) devasta i loro raccolti. I sindacati non esitano a rivolgersi al governo perché
intervenga quando le importazioni (mercato) annientano l’industria statunitense dell’acciaio.
   Perciò non c’è nulla di sbagliato o di sorprendente nella campagna dell’industria produttrice di
contenuti per tutelarsi dalle dannose conseguenze dell’innovazione tecnologica. E io sono l’ultimo a
sostenere che il cambiamento prodotto dalla tecnologia di Internet non abbia avuto un profondo impatto
sugli affari di tale industria o, come spiega John Seely Brown, sulla sua “architettura delle entrate”.
   Ma il solo fatto che un particolare settore d’interesse chieda il sostegno del governo non significa che
tale sostegno vada accordato. E solo perché la tecnologia ha indebolito un determinato modo di lavorare,
non significa che il governo debba intervenire per sostenere quel vecchio comportamento. La Kodak, per
esempio, ha perso fino al 20 per cento del mercato della fotografia tradizionale a causa delle tecnologie
emergenti delle macchine fotografiche digitali5. Qualcuno pensa forse che il governo debba proibirne la
produzione soltanto per sostenere la Kodak? Le autostrade hanno indebolito il commercio del traffico

                                                     77
pesante su ferrovia. C’è qualcuno che pensa che si debba impedire la circolazione su strada dei camion
allo scopo di proteggere le ferrovie? Per restare nel tema di questo libro, il telecomando per cambiare
canale ha ridotto l’attenzione agli spot televisivi (se appare una pubblicità noiosa, grazie al telecomando
possiamo saltare facilmente su altri canali), e può darsi che questo cambiamento abbia limitato il mercato
della pubblicità televisiva. Ma qualcuno pensa forse che dovremmo regolamentare il telecomando per
ridare forza agli spot pubblicitari? (Magari limitando la sua funzionalità a una volta per secondo, oppure
permettendo di cambiare solo dieci canali in un’ora?)
   La risposta ovvia a queste domande chiaramente retoriche è no. In una società libera, dove vige il
libero mercato, basata sulla libertà di impresa e di commercio, il ruolo del governo non è quello di dare
sostegno a un determinato tipo di business a discapito degli altri. Il suo ruolo non è quello di scegliere i
vincitori e di tutelarli contro le perdite. Se il governo si comportasse così a livello generale, non ci
sarebbe alcun progresso. Come scrisse nel 1991 il responsabile della Microsoft, Bill Gates, in un
promemoria che criticava i brevetti sul software, “le aziende affermate hanno interesse a escludere i
futuri concorrenti6 ”. E nei confronti delle società emergenti, le aziende affermate hanno anche i mezzi
per farlo. (Pensiamo alla RCA e alla radio FM.) Un mondo in cui i concorrenti con idee nuove devono
combattere non soltanto con il mercato ma anche con il governo, è un mondo in cui le nuove idee non
potranno farcela. È un mondo statico, affetto da una stagnazione sempre più concentrata. È l’Unione
Sovietica sotto Breznev.
   Quindi, pur essendo comprensibile che le industrie minacciate da nuove tecnologie che le obbligano a
cambiare le loro pratiche imprenditoriali chiedano protezione al governo, è dovere specifico di chi decide
le politiche operative garantire che quella tutela non divenga un deterrente per il progresso. È dovere di
chi decide, in altri termini, assicurarsi che i cambiamenti apportati, in risposta alla richiesta di coloro che
sono danneggiati dalle tecnologie emergenti, risultino tali da preservare gli incentivi e le opportunità per
l’innovazione e il cambiamento.
   Nel contesto delle normative che regolano la libertà di espressione - dove rientrano ovviamente le
leggi sul copyright - questo dovere è ancora più pressante. Quando l’industria che protesta contro le
tecnologie emergenti chiede al Congresso una risposta che pesi sulla libertà di espressione e sulla
creatività, chi ha poteri decisionali dovrebbe mostrarsi particolarmente cauto. È sempre un cattivo affare
per il governo mettersi a regolamentare la libertà di espressione. I rischi e i pericoli di un simile gioco
sono precisamente la ragione per cui venne creato il primo Emendamento alla Costituzione: “Il
Congresso non promulgherà alcuna legge ... che limiti la libertà di espressione”. Così, quando ci si
rivolge al Congresso perché approvi leggi che possano “limitare” tale libertà, occorre chiedersi - con
molta attenzione - se una regolamentazione del genere sia giustificata o meno.
   Per ora la mia tesi, tuttavia, non ha nulla a che fare con un’eventuale “giustificazione” dei
cambiamenti proposti dai guerrieri del copyright. La mia posizione riguarda il loro effetto. Perché, prima
di affrontare il problema della giustificazione, questione importante che dipende molto dai valori
individuali, dovremmo chiederci se comprendiamo l’effetto dei mutamenti voluti dall’industria
produttrice di contenuti.
   Ecco la metafora su cui poggia l’argomentazione seguente.
   Nel 1873, venne sintetizzato per la prima volta il DDT. Nel 1948, il chimico svizzero Paul Hermann
Müller vinse il Premio Nobel per averne dimostrato le qualità insetticide. Negli anni ’50, esso fu
ampiamente usato in tutto il mondo per uccidere insetti portatori di malattie. Venne altresì impiegato per
incrementare la produzione agricola.
   Nessuno dubita che uccidere insetti portatori di malattie o incrementare la produzione agricola sia una
cosa ben fatta. Nessuno mette in dubbio che la scoperta di Müller fu importante e positiva e che
probabilmente salvò molte vite, forse milioni.

                                                      78
   Tuttavia nel 1962, Rachel Carson pubblicò Primavera silenziosa (Silent Spring)7, dove sosteneva che il
DDT, malgrado i suoi benefici primari, produceva anche conseguenze non volute sull’ambiente. Gli
uccelli perdevano la capacità di riprodursi. Si stavano annientando intere catene ecologiche.
   Nessuno aveva deciso di distruggere l’ambiente. Sicuramente Paul Müller non aveva alcuna intenzione
di nuocere agli uccelli. Ma il tentativo di risolvere una serie di problemi ne produsse altri che, per
qualcuno, erano assai peggiori di quelli iniziali. O, più precisamente, i problemi provocati dal DDT erano
peggiori di quelli che risolveva, almeno se si prendevano in considerazione altri modi, ecologicamente
più sostenibili, per risolvere gli stessi problemi affrontati dal DDT.
   È precisamente a questa immagine che si rifà James Boyle, professore di legge presso la Duke
University, quando sostiene che abbiamo bisogno di un “ambientalismo” per la cultura8. La sua
posizione, e il punto che voglio sviluppare nel complesso di questo capitolo, non sostiene che gli scopi
del copyright siano errati. O che gli autori non debbano essere compensati per le loro opere. O che la
musica debba essere “gratis”. Il punto è che alcune delle modalità adottate per tutelare gli autori avranno
conseguenze non volute sull’ambiente culturale, assai simili a quelle che il DDT provocò sull’ambiente
naturale. Così, come le critiche al DDT non intendono difendere la malaria o attaccare i contadini, anche
le critiche a una determinata serie di regolamentazioni a tutela del copyright non significano difendere
l’anarchia o prendersela con gli autori. Ciò che stiamo cercando è un ambiente favorevole alla creatività,
e dovremmo essere coscienti degli effetti delle nostre azioni sull’ambiente.
   La mia posizione, in questo capitolo, tenta di stabilire esattamente i contorni di tali effetti. Non c’è
dubbio che la tecnologia di Internet abbia avuto conseguenze notevoli sulla capacità dei titolari di
copyright di tutelare i propri contenuti. Ma, nello stesso tempo, è difficile avere dubbi sul fatto che,
quando si sommano tra loro i cambiamenti delle legislazioni sul copyright nel corso del tempo e i
mutamenti tecnologici che riguardano ora Internet, l’effetto totale non sarà soltanto quello di un’efficace
protezione dei lavori sotto copyright. Inoltre, fatto generalmente ignorato, l’effetto complessivo di questo
massiccio incremento della tutela risulterà devastante per l’ambiente creativo.
   In una battuta: per uccidere un moscerino, spargiamo DDT con conseguenze per la cultura libera assai
più devastanti della scomparsa di quel moscerino.


                                                     Gli inizi
   L’America ha copiato la legislazione inglese sul copyright. Anzi, l’abbiamo copiata e migliorata. La
nostra Costituzione chiarisce lo scopo dei diritti di “proprietà creativa”; stabilisce le limitazioni tese a
rafforzare l’obiettivo inglese di evitare che gli editori divengano eccessivamente potenti.
   L’autorità di stabilire diritti sulla “proprietà creativa” viene riconosciuta al Congresso in un modo
molto ambiguo, almeno per la nostra Costituzione. L’articolo I, sezione 8, clausola 8 della Costituzione
dichiara che:
   Il Congresso ha l’autorità di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili assicurando per periodi di tempo
   limitato agli autori e agli inventori il diritto esclusivo sui rispettivi scritti e scoperte.

   Lo si potrebbe definire “l’articolo del progresso”, se si facesse attenzione a quello che non dice.
L’articolo non afferma che il Congresso ha il potere di assegnare i “diritti sulla proprietà creativa”. Dice
che il Congresso ha la facoltà di promuovere il progresso. Scopo dell’articolo è garantire questa autorità,
e il suo obiettivo è pubblico, non è quello di arricchire gli editori, e neppure quello di ricompensare gli
autori.
   L’articolo del progresso limita espressamente la durata del copyright. Come abbiamo visto nel capitolo
6, gli inglesi la limitarono in modo da avere la sicurezza che pochi individui non potessero esercitare un
controllo sproporzionato sulla cultura, tramite l’esercizio di un predominio eccessivo sull’editoria.

                                                             79
Possiamo ritenere che gli estensori della Costituzione americana abbiano seguito gli inglesi puntando su
un obiettivo analogo. Anzi, contrariamente agli inglesi, rafforzarono tale obiettivo stabilendo che il
copyright venisse esteso soltanto “agli autori”.
   L’obiettivo dell’articolo del progresso riflette qualcosa dell’impostazione generale della Costituzione.
Per evitare un problema, gli estensori costruirono una struttura. Per impedire la concentrazione del potere
degli editori, realizzarono una struttura che teneva il copyright fuori dalla loro portata e che gli assegnava
una durata ridotta. Per impedire la concentrazione del potere di una Chiesa, vietarono al governo federale
di fondarne una. Per impedire la concentrazione di potere nel governo federale, costruirono una struttura
atta a rafforzare il potere degli stati - compreso il Senato, i cui membri all’epoca erano selezionati dagli
stati, e un collegio elettorale, anch’esso scelto dai vari stati, per eleggere il presidente. In ogni caso, era
una struttura a tenere in piedi il sistema dei controlli incrociati all’interno della sfera costituzionale,
impostata in modo da impedire concentrazioni di potere altrimenti inevitabili.
   Dubito che gli estensori della Costituzione riconoscerebbero la regolamentazione che oggi definiamo
“copyright”. La portata di tale regolamentazione va ben oltre qualsiasi loro eventuale considerazione. Per
iniziare a comprendere ciò che fecero, occorre mettere il nostro “copyright” nel giusto contesto:
dobbiamo considerarne i cambiamenti avvenuti nei 210 anni trascorsi dalla prima impostazione.
   Alcuni di essi sono avvenuti per legge: alcuni alla luce delle trasformazioni tecnologiche e altri alla
luce dei cambiamenti tecnologici imposti da una specifica concentrazione di potere nel mercato. Rispetto
al nostro modello, siamo partiti da qui:




  Finiremo qui:




  Lasciatemi spiegare in che modo.


                                      Legge: la durata
   Quando il primo Congresso emanò le leggi a tutela della proprietà creativa, si trovò di fronte
all’identica incertezza sul suo stato giuridico che avevano affrontato gli inglesi nel 1774. Molti stati
avevano approvato normative a protezione della proprietà creativa, e alcuni ritenevano che simili
normative operassero semplicemente come supplemento ai diritti della “common law” che già la
tutelavano9. Ciò significava che negli Stati Uniti del 1790 non esisteva alcun pubblico dominio garantito.
Se il copyright era protetto dal diritto consuetudinario, allora non c’era un modo semplice per sapere se

                                                      80
un’opera pubblicata negli Stati Uniti fosse tutelata o libera. Così come in Inghilterra, questa prolungata
incertezza rendeva difficile agli editori affidarsi al pubblico dominio per ristampare e distribuire le opere.
    Quell’incertezza ebbe termine dopo l’approvazione da parte del Congresso della legislazione che
riconosceva il diritto d’autore. Poiché la legge federale si sovrappone a qualsiasi altra normativa
contraria a livello statale, la tutela federale per i lavori protetti da copyright eliminò ogni protezione
statale. Proprio come in Inghilterra lo Statute of Anne alla fine comportò il decadere del copyright per
tutte le opere inglesi, anche lo statuto federale decretò l’estinzione di qualsiasi copyright statale.
    Nel 1790, il Congresso approvò la prima legislazione sul diritto d’autore. Essa creava il copyright
federale e ne stabiliva una durata di quattordici anni. Se l’autore era vivo alla fine di quei quattordici
anni, poteva decidere di rinnovarlo per altri quattordici. Se non lo faceva, l’opera diveniva di pubblico
dominio.
    Sebbene fossero numerose le opere realizzate negli Stati Uniti nei primi dieci anni della Repubblica,
appena il 5 per cento furono effettivamente registrate in base al regime del copyright federale. Di tutte le
opere create negli Stati Uniti, sia prima del 1790 sia tra il 1790 e il 1800, il 95 per cento passarono
immediatamente nel pubblico dominio; lo stesso sarebbe accaduto al resto, al massimo entro ventotto
anni, e più probabilmente entro quattordici10.
    Questa opzione di rinnovo era un punto essenziale del sistema americano del copyright. Assicurava
che la durata massima venisse accordata soltanto a quelle opere per cui c’era richiesta sul mercato. Dopo
il termine iniziale di quattordici anni, se un autore decideva che non valeva la pena di rinnovare il
copyright, allora non conveniva insistere neppure alla società in generale.
    Quattordici anni potrebbe sembrarci una durata breve, ma per gran parte dei titolari di allora, era
abbastanza lunga: soltanto una piccola minoranza rinnovava il copyright dopo quattordici anni; gli altri
consentivano che le proprie opere diventassero di pubblico dominio11.
    Ancora oggi questa struttura si rivela sensata. La maggior parte dei lavori creativi in realtà ha una vita
commerciale di appena un paio d’anni. Buona parte dei libri va fuori catalogo dopo un anno12. Quando
ciò accade, i libri usati vengono scambiati senza sottostare alle regolamentazioni sul copyright. Perciò in
pratica i libri non sono più sotto il controllo del copyright. L’unico utilizzo pratico e commerciale a quel
punto è rivenderli come libri usati; un uso effettivamente libero - poiché non concerne la pubblicazione.
    Nei primi cento anni della Repubblica, la durata del copyright fu modificata una volta. Nel 1831 il
termine venne esteso da un massimo di 28 a un massimo di 42 anni, aumentando la durata iniziale da 14
a 28 anni. Nei successivi cinquant’anni, il termine venne esteso ancora una volta. Nel 1909 il Congresso
spostò la durata del rinnovo da 14 a 28 anni, stabilendo una durata massima complessiva di 56 anni.
    A quel punto, a partire dal 1962, il Congresso diede inizio a una pratica che da allora ha caratterizzato
la normativa sul copyright. Per undici volte negli ultimi quarant’anni, ha esteso i termini esistenti; per
due volte in questi quarant’anni ha allungato la durata dei copyright futuri. All’inizio le estensioni dei
copyright esistenti erano brevi, appena uno o due anni. Nel 1976, il Congresso allungò tutti i copyright
esistenti di diciannove anni. E nel 1998, con il Sonny Bono Copyright Term Extension Act, estese di
vent’anni la durata dei copyright esistenti e futuri.
    L’effetto di queste estensioni è semplicemente quello di penalizzare, o ritardare, il passaggio delle
opere al pubblico dominio. Quest’ultima estensione sta a significare che il pubblico dominio dovrà essere
penalizzato per trentanove dei cinquantacinque anni previsti, o per il 70 per cento del periodo a partire
dal 1962. Così nei vent’anni successivi al Sonny Bono Act mentre, grazie alla scadenza dei termini, un
milione di brevetti diverrà di pubblico dominio, nessuna opera sotto copyright avrà la stessa sorte.
    L’effetto di queste estensioni è stato esacerbato da un ulteriore mutamento, scarsamente notato, della
legge sul copyright. Come ho detto in precedenza, gli estensori della Costituzione stabilirono un regime
suddiviso in due parti, richiedendo al titolare del copyright di decidere per il rinnovo dopo la scadenza

                                                     81
iniziale. Questa richiesta voleva dire che le opere che non avevano più bisogno della tutela sarebbero
passate di pubblico dominio con maggiore rapidità. I lavori che rimanevano sotto protezione sarebbero
stati quelli che continuavano a mantenere un qualche valore commerciale.
   Nel 1976 gli Stati Uniti abbandonarono questo ragionevole sistema. A tutte le opere create dopo il
1978 venne applicata un’unica durata - il termine massimo. Per gli autori “naturali” fu di cinquant’anni
dopo la morte. Per le aziende fu di settantacinque. In seguito, nel 1992, il Congresso abbandonò la
richiesta di presentare la richiesta di rinnovo per tutti i lavori creati prima del 1978. A ogni opera ancora
sotto copyright venne accordata la durata massima allora disponibile. Dopo il Sonny Bono Act, quel
termine era di novantacinque anni.
   Questo cambiamento significò che per la legge americana non esisteva più un modo automatico per
garantire che le opere non più sfruttate divenissero di pubblico dominio. E infatti, dopo tali cambiamenti,
non è chiaro se sarà ancora possibile l’esistenza di lavori di pubblico dominio, che praticamente non
esiste più, grazie a questi mutamenti legislativi. Nonostante il requisito di legge che i termini siano
“limitati”, non abbiamo alcuna prova che ci sia qualcosa in grado di imporre limiti.
   L’effetto di queste trasformazioni sulla durata media del copyright è enorme. Nel 1973 oltre l’85 per
cento dei titolari di copyright non lo ha rinnovato. E questo voleva dire quindi che nel 1973 la durata
media del copyright era di appena 32,2 anni. A causa dell’eliminazione della richiesta di rinnovo, oggi la
durata media del copyright è quella massima. In trent’anni, dunque, la durata media è triplicata, passando
da 32,2 a 95 anni13.


                             Legge: il raggio di azione
   La “portata” di un copyright è l’estensione dei diritti garantiti per legge. La portata del copyright
americano è mutata in modo drammatico. Non si tratta di trasformazioni necessariamente negative, ma
dobbiamo comprenderne il valore se vogliamo mantenere il dibattito nel giusto contesto.
   Nel 1790, quella portata era assai ridotta. Il copyright copriva soltanto “mappe, diagrammi e libri”. Il
che significa, per esempio, che non copriva la musica o l’architettura. Ancor più significativo il fatto che
il copyright dava all’autore il diritto esclusivo a “pubblicare” i lavori così tutelati. E questo vuol dire che
tale diritto veniva violato solo se qualcun altro ripubblicava l’opera senza il permesso del titolare. Infine,
il diritto garantito dal copyright era esclusivo per quel determinato libro e non si estendeva a ciò che gli
avvocati definiscono “opere derivate”. Perciò non poteva interferire con il diritto di qualcun altro,
diverso dall’autore, di tradurre un libro protetto da copyright, o di adattarne la storia in una forma diversa
(ad esempio un dramma teatrale tratto da un libro pubblicato).
   Anche questo ha subito notevoli trasformazioni. Mentre oggi i limiti del copyright sono estremamente
difficili da descrivere con chiarezza, in termini generali il diritto copre praticamente qualsiasi lavoro
creativo a cui venga data una forma tangibile. La musica così come l’architettura, il dramma teatrale
come i programmi informatici. Assegna al titolare del copyright di un’opera creativa non soltanto il
diritto esclusivo a “pubblicarla”, ma anche il diritto esclusivo al controllo su qualunque sua “copia”. E
quel che è più significativo per il nostro obiettivo in quest’ambito, il diritto riconosce al titolare del
copyright non solo il controllo sul proprio lavoro, ma anche su ogni “opera derivata” che si possa
ricavare dall’originale. In tal modo, il diritto copre una quantità sempre maggiore di lavoro creativo, lo
tutela in modo più ampio e protegge le opere che derivano in modo significativo dall’opera creativa
iniziale.
   Contemporaneamente all’espansione del copyright, sono stati allentati i vincoli procedurali. Ho già
parlato della completa eliminazione della richiesta di rinnovo del 1992. Inoltre, per gran parte della storia
della normativa americana sul copyright, esisteva la condizione che un’opera dovesse essere registrata

                                                      82
prima di poter ricevere la tutela del copyright. In aggiunta, ogni lavoro protetto da copyright doveva
essere contrassegnato con la famosa © o con la parola copyright. E per gran parte della storia della
legislazione americana sul copyright, bisognava che i lavori venissero depositati presso il governo prima
di poter garantire loro il copyright.
   Il motivo dell’obbligo della registrazione era la ragionevole convinzione che per la maggior parte delle
opere non occorreva nessun copyright. Come ho già detto, nei primi dieci anni della Repubblica il 95 per
cento dei lavori che ne avrebbero avuto i requisiti non fu mai posto sotto copyright. Ovvero, la regola
rifletteva la norma comune: la maggioranza delle opere non sembrava avere bisogno del copyright, così
la registrazione restringeva la regolamentazione legale a quelle poche che ne avevano la necessità. La
medesima motivazione giustificava l’imposizione del contrassegno da apporre sull’opera - in tal modo
era facile sapere se esistesse o meno un copyright da rispettare. L’obbligo della registrazione serviva ad
assicurarsi che, dopo la scadenza, da qualche parte sarebbe esistita una copia dell’opera, in modo che
altri potessero copiarla senza dover rintracciare l’autore.
   Tutte queste “formalità” vennero abolite dal sistema americano quando si decise di seguire la
legislazione europea. Non occorre registrare un’opera per ottenere il copyright; ora il copyright è
automatico e lo si applica a prescindere dalla presenza del contrassegno ©; ed esiste indipendentemente
dalla disponibilità di una copia destinata all’uso altrui.
   Prendiamo un esempio concreto per capire meglio la portata di queste differenze.
   Se, nel 1790, abbiamo scritto un libro e facciamo parte del 5 per cento che effettivamente l’hanno
messo sotto copyright, la legislazione ci tutela contro l’eventualità che un altro editore prenda quel libro
e lo ripubblichi senza il nostro permesso. Scopo della legge era regolamentare gli editori in modo da
impedire questo tipo di concorrenza sleale. Nel 1790 esistevano negli Stati Uniti 174 editori14. Il
Copyright Act era perciò una regolamentazione minima per un piccolo settore di una parte trascurabile
del mercato creativo degli Stati Uniti - gli editori.
   La normativa lasciava gli altri creatori completamente privi di protezione. Se qualcuno avesse copiato
a mano una nostra poesia, più e più volte, per impararla a memoria, per quel gesto non sarebbe stata
prevista alcuna regolamentazione in base alla legge del 1790. Se qualcuno avesse realizzato la versione
teatrale di un nostro racconto, oppure se lo avesse tradotto o ridotto, nessuna di queste attività sarebbe
stata regolata dalla normativa originaria sul copyright. Queste attività creative rimanevano libere, mentre
quelle degli editori erano soggette a vincoli.
   Oggi la storia è assai diversa. Se scriviamo un libro, esso viene automaticamente posto sotto tutela.
Anzi, non soltanto il libro. Ogni e-mail, ogni appunto per il nostro partner, ogni scarabocchio, ogni atto
creativo espresso in forma tangibile - tutto ciò viene automaticamente messo sotto copyright. Non c’è
bisogno di registrare un’opera o di contrassegnarla con la ©. La tutela è una conseguenza della creazione,
non della procedura per ottenerla.
   Questa tutela ci dà il diritto (soggetto a una serie limitata di eccezioni relative al “fair use”) di
controllare il modo in cui altri copiano l’opera, che lo facciano per ripubblicarla o per condividerne un
estratto.
   Fin qui la parte ovvia. Ogni sistema di copyright mira a controllare l’editoria concorrente. Ma esiste
una seconda parte dell’attuale copyright che non è affatto così scontata. Si tratta della tutela dei “diritti
derivati”. Se scriviamo un libro, nessuno può farne un film senza permesso. Nessuno può tradurlo senza
autorizzazione. Non se ne può trarre un compendio, se non si è autorizzati. Tutti questi usi derivati del
lavoro originario sono controllati dal titolare del copyright. In altri termini, ora il copyright non è soltanto
il diritto esclusivo sui nostri scritti, ma anche su una notevole percentuale di scritti successivi ispirati dai
primi.


                                                      83
   È questo diritto derivato che apparirebbe decisamente strano agli estensori della Costituzione, sebbene
sia divenuto per noi una seconda natura. Inizialmente, questa estensione fu creata per affrontare le ovvie
evasioni al copyright più limitato. Se ho scritto un libro, qualcuno potrebbe modificarne una parola e poi
vantare il diritto di copyright come se fosse un’opera nuova e diversa? Naturalmente questo
significherebbe farsi beffe del copyright, così la legge venne adeguatamente ampliata per prevedere
simili piccole modifiche oltre alle copie letterali dell’opera originale.
   Per impedire quella beffa, la legge creò un potere incredibile all’interno della cultura libera -
incredibile, almeno quando si arriva a comprendere che la legge si applica non soltanto a un editore
commerciale ma a chiunque possieda un computer. Capisco che sia illegale duplicare e rivendere l’opera
di qualcun altro. Ma, per quanto ingiusto, trasformare il lavoro di qualcun altro è una trasgressione di
tipo diverso. Alcuni non la considerano neppure tale - ritengono che la nostra legge, come nella stesura
originale, non dovrebbe tutelare affatto i diritti derivati.15 Che si voglia o meno arrivare a tanto, appare
chiaro che qualunque sia il tipo di illecito, è fondamentalmente differente dalla pirateria diretta.
   Eppure la legge sul copyright tratta allo stesso modo questi due diversi tipi di trasgressione. Posso
ottenere dal tribunale un’ingiunzione contro chi pirata il mio libro. Posso ugualmente ottenere dal
tribunale un’ingiunzione contro chi usa il mio libro per trasformarlo16. Questi due diversi utilizzi del mio
lavoro creativo sono trattati in modo identico.
   La cosa può anche sembrare corretta. Se ho scritto un libro, perché mai qualcuno dovrebbe essere
libero di realizzare un film che riprende la mia storia e di guadagnarci senza compensarmi o darmene
riconoscimento? Oppure, se Disney ha creato un personaggio chiamato “Mickey Mouse”, perché a
qualcun altro dovrebbe essere permesso di realizzare dei pupazzi di Mickey Mouse e di fare affari su un
valore in origine creato da Disney?
   Si tratta di buone argomentazioni e, in generale, la mia posizione non ritiene ingiustificato il diritto
derivato. Il mio obiettivo per ora è assai più limitato: semplicemente rendere chiaro come questo
ampliamento rappresenti una trasformazione significativa dei diritti garantiti originariamente.


               Legge e architettura: il raggio d’azione
   Mentre in origine la legge regolamentava soltanto gli editori, la modifica alla portata del copyright
significa che oggi la legge disciplina editori, utenti e autori. Questo perché tutte e tre le categorie sono in
grado di eseguire copie, e queste costituiscono il cuore della regolamentazione sul copyright17. “Copie”.
E questo appare sicuramente ovvio per una legge sul “copyright”. Ma, come per la tesi di Jack Valenti,
che ho descritto all’inizio del capitolo, secondo la quale la “proprietà creativa” merita gli “stessi diritti”
di ogni altra proprietà, è proprio all’ovvio che dobbiamo stare più attenti. Perché, anche se può sembrare
scontato che nel mondo prima di Internet le copie fossero la molla che faceva scattare la legge sul
copyright, riflettendoci meglio, dovrebbe essere ovvio che, nel mondo di Internet, le copie non
dovrebbero essere la motivazione per una legge sul copyright. Più precisamente, non dovrebbero esserlo
sempre.
   Questa è forse l’affermazione fondamentale del libro, e quindi consentitemi di affrontarla con calma,
in modo che questo punto non sfugga all’attenzione generale. La mia posizione è che Internet dovrebbe
almeno spingerci a ripensare le condizioni in base alle quali la legge sul copyright viene applicata
automaticamente18, perché è chiaro che l’attuale raggio d’azione del copyright non è stato mai
contemplato, e ancor meno scelto, dai legislatori che ne stesero le relative norme.
   Possiamo considerare questo punto in modo astratto, partendo da un grande cerchio bianco
(diagramma nella pagina a fronte).



                                                      84
   Pensiamo a un libro nello spazio reale, e immaginiamo che questo cerchio ne rappresenti tutti gli usi
potenziali. La maggior parte di essi non è regolata dalla legge sul copyright, perché non sono gli usi a
creare la copia. Se leggiamo un libro, questa azione non è regolata dalla legge sul copyright. Se lo diamo
a qualcuno, questo atto non rientra in tale normativa. Se lo rivendiamo, questa azione non è regolata dalla
legge sul copyright (la quale afferma esplicitamente che, dopo la prima vendita, il titolare del copyright
non può imporre alcuna ulteriore condizione sulla collocazione del libro). Se lo usiamo per dormirci
sopra o per fare da sostegno a una lampada o lasciamo che venga distrutto dal nostro cucciolo, queste
azioni non sono regolate dalla legge sul copyright, perché, attraverso di esse, non si produce una copia.




   Ovviamente, tuttavia, alcuni utilizzi di un libro protetto da copyright sono regolati dalla relativa legge.
La ripubblicazione, per esempio, ne fa una copia. Perciò viene regolamentata dalla normativa sul
copyright. Anzi, questo impiego specifico si trova al centro del cerchio dei possibili usi di un opera
tutelata da copyright. È l’uso paradigmatico, adeguatamente regolato dalla normativa sul copyright (si
veda il primo diagramma nella pagina successiva).
   Infine, esiste una fetta ridotta di usi altrimenti regolati, che non sono sottoposti a regolamentazione
perché la legge li considera “fair use”.




   Si tratta di utilizzi che in se stessi non escludono la copia, ma che la legge non regolamenta, perché
l’ordine pubblico lo richiede. Siete liberi di riportare citazioni da questo libro, perfino in una recensione
negativa, senza il mio permesso, anche se quelle citazioni implicano l’atto di copiare. Normalmente
l’esistenza di una copia assegnerebbe al titolare del copyright il diritto esclusivo a stabilire se questa sia
consentita o meno, ma la legge gli nega ogni diritto esclusivo su un simile “uso legittimo”, per una

                                                      85
questione di ordine pubblico (e, magari, anche a causa del Primo Emendamento [alla Costituzione USA,
che tutela la libertà di espressione]).




  Nello spazio reale, dunque, gli utilizzi possibili di un libro sono divisi in tre categorie: (1) usi non
regolati, (2) usi regolati, e (3) usi regolati che vengono comunque considerati “legittimi”, a prescindere
dal punto di vista del titolare del copyright.




   E qui arriva Internet - una rete digitale distribuita, dove qualsiasi uso di un’opera sotto copyright ne
produce una copia19. E a causa di questa caratteristica unica, arbitraria, nel design di una rete digitale, la
portata della categoria 1 cambia notevolmente. Utilizzi che prima si presupponevano non regolati, ora si
presume che lo diventino. Non esiste più una serie di usi che si presumono non regolati e che definiscono
una libertà associata a un lavoro protetto da copyright. Invece ora ogni uso è soggetto al copyright,
perché ciascun impiego rende possibile la copia - la categoria 1 viene risucchiata nella categoria 2. E
coloro che difendono gli usi non regolati devono considerare esclusivamente la categoria 3, gli usi
legittimi, per sostenere il peso di questo mutamento.
   Cerchiamo dunque di essere molto precisi, per chiarire questo punto. Prima di Internet, se
compravamo un libro e lo leggevamo dieci volte, il titolare del copyright non avrebbe avuto nessun
argomento plausibile, per quanto riguarda il copyright, per controllare l’uso del suo libro. La legge sul
copyright non avrebbe avuto nulla da eccepire sul fatto che il libro venisse letto una volta, dieci volte
oppure ogni sera prima di andare a letto. Nessuno di tali esempi di utilizzo - sempre lettura - poteva
essere regolamentato dalla legge sul copyright, perché nessuno produceva una copia.
   Ma lo stesso libro in formato e-book è in pratica regolato da una serie di criteri differenti. Ora, se il
titolare del copyright sostiene che possiamo leggerlo soltanto una volta o una volta al mese, ecco che la
legge sul copyright lo assiste nell’applicare questo livello di controllo, a causa della caratteristica
accidentale della normativa, che scatta con l’esistenza di una copia. Oggi, se leggiamo il libro dieci volte
e la licenza dice che possiamo farlo solo cinque, ogni volta che lo leggiamo (per intero o in parte) dopo la
quinta volta, ne facciamo una copia in violazione della volontà del titolare del copyright.
   Per qualcuno questo ha senso. Il mio scopo per ora non è discutere se sia giusto o no. Qui intendo
soltanto chiarire tale trasformazione. Una volta evidenziato questo punto, anche gli altri diventeranno più
chiari.

                                                     86
   Primo, eliminare la categoria 1 è una cosa che nessun legislatore ha mai avuto intenzione di fare. Il
Congresso non puntava alla cancellazione degli usi presumibilmente non regolati delle opere protette da
copyright. Non ci sono prove che i legislatori avessero in mente un’idea simile quando consentirono
questo mutamento. Gli usi non regolati erano una parte importante della cultura libera prima di Internet.
   Secondo, questo cambiamento risulta particolarmente inquietante nel contesto degli usi che
trasformano i contenuti creativi. Ripeto, tutti noi comprendiamo gli aspetti negativi della pirateria
commerciale. Ma oggi la legge pretende di regolare qualsiasi trasformazione si operi su un lavoro
creativo per mezzo di una macchina. “Copia e incolla” e “taglia e incolla” diventano reato. Manipolare
una storia e distribuirla ad altri espone chi lo fa quantomeno alla richiesta di una giustificazione. Per
quanto una simile estensione appaia problematica rispetto alla copia di un’opera, lo diventa in modo
straordinario se riguarda gli usi atti a trasformare un lavoro creativo.
   Terzo, questo passaggio dalla categoria 1 alla 2 impone alla categoria 3 (“fair use”) un peso
eccezionale, che non aveva mai dovuto sostenere prima. Se il titolare di un copyright oggi cercasse di
controllare quante volte ho letto un libro online, la reazione naturale sarebbe considerare questa pretesa
una violazione del mio diritto all’uso legittimo. Ma finora non si è mai avuta una causa legale sulla
lettura come uso legittimo, perché prima di Internet la lettura non faceva scattare l’applicazione della
legge sul copyright e quindi la necessità di una difesa in base all’uso legittimo. In precedenza il diritto di
leggere era efficacemente tutelato, perché la lettura non era regolamentata.
   Questo punto relativo all’uso legittimo viene totalmente ignorato, anche dai sostenitori della cultura
libera. Siamo stati spinti in un angolo, costretti ad affermare che i nostri diritti dipendono dall’uso
legittimo - senza mai considerare la questione precedente relativa all’ampliamento dell’effettiva
regolamentazione. Una leggera protezione fondata sull’uso legittimo ha senso quando la grande
maggioranza degli usi non è regolata. Ma quando si presume che tutto diventi regolamentato, allora le
protezioni del “fair use” non sono sufficienti.
   Il caso di Video Pipeline è un buon esempio. Video Pipeline produceva brevi anteprime pubblicitarie
dei film in vendita nei negozi di video, per favorire le vendite delle videocassette. Video Pipeline
otteneva gli spezzoni dai distributori, li metteva su nastro e li rivendeva ai negozi.
   L’azienda si dedicò a quest’attività per circa quindici anni. Poi, nel 1997, iniziò a prendere in
considerazione Internet come un’altra strada per distribuire queste anteprime. L’idea era di ampliare la
tecnica di “vendita grazie alle anteprime”, offrendo ai negozi online questa possibilità. Come in una
libreria è possibile leggere qualche pagina di un libro prima di comprarlo, così l’utente avrebbe potuto
vedere online qualche spezzone del film prima di acquistare la cassetta.
   Nel 1998 Video Pipeline informò la Disney e altri produttori cinematografici che intendeva far
circolare quelle anteprime via Internet (anziché spedire i nastri) tra i distributori dei loro video. Due anni
dopo, la Disney disse a Video Pipeline di smetterla. Il proprietario di Video Pipeline chiese alla Disney di
discutere la questione - aveva costruito un’attività commerciale sulla distribuzione di quei contenuti per
promuovere la vendita dei film della Disney; aveva clienti che dipendevano dalla consegna di quel
materiale. La Disney si disse d’accordo a discutere soltanto se Video Pipeline avesse immediatamente
bloccato la distribuzione. Video Pipeline riteneva che distribuire quelle anteprime rientrasse nel loro uso
legittimo. Così sporse querela per chiedere al tribunale di stabilire il suo diritto a procedere.
   La Disney presentò una controdenuncia - per danni pari a 100 milioni di dollari. La richiesta era basata
sul presupposto che Video Pipeline avesse “violato intenzionalmente” il copyright della Disney. Quando
i giudici indagano su un caso di violazione intenzionale non stabiliscono il rimborso rispetto al danno
reale arrecato al titolare del copyright, ma in base a una cifra stabilita a norma di legge. Poiché Video
Pipeline aveva distribuito settecento spezzoni di film della Disney, per consentire ai negozi di vendere
quei video, adesso la Disney chiedeva un rimborso di 100 milioni di dollari.

                                                     87
   Ovviamente la Disney aveva il diritto di controllare la sua proprietà. Ma anche i negozi di
videocassette avevano il diritto di essere messi in condizione di rivendere i film acquistati dalla Disney.
La posizione di quest’ultima in aula era che i negozi potessero sì rivendere i suoi film e, a questo scopo,
potessero fare un elenco dei titoli, ma che non fosse loro consentito mostrarne degli spezzoni, per
stimolarne la vendita, senza il permesso della Disney.
   Ora, si tratta certo di un caso controverso, e credo che così lo considererebbero i giudici. Ma quello
che mi interessa in questo caso è definire il cambiamento che dà questo potere alla Disney. Prima di
Internet, la Disney non era in grado di controllare efficacemente in che modo si potesse accedere al suo
materiale. Una volta che un video entrava nel mercato, la “first-sale doctrine” (letteralmente, “dottrina
della prima vendita”)20 avrebbe consentito al rivenditore di usarlo come meglio credeva, anche di
proiettarne alcune parti per stimolarne la vendita. Ma con Internet diveniva possibile per la Disney
centralizzare il controllo sull’accesso ai suoi contenuti. Poiché ogni uso di Internet produce una copia,
tale uso è soggetto al controllo del titolare del copyright. La tecnologia estende di fatto la portata del
controllo, visto che produce una copia all’interno di ogni transazione.
   Senza dubbio, la potenzialità non costituisce ancora un abuso, come la potenzialità del controllo non
significa ancora l’abuso del controllo stesso. Barnes & Noble ha il diritto di sostenere che non si possono
toccare i libri nel suo negozio; la legge sulla proprietà le garantisce quel diritto. Ma il mercato protegge
con efficacia il pubblico da un simile abuso. Se Barnes & Noble vietasse di curiosare tra gli scaffali,
allora i consumatori sceglierebbero altre librerie. La concorrenza offre una tutela contro i comportamenti
radicali. E potrebbe anche darsi il caso (la mia tesi per ora non lo pone neppure in discussione) che la
concorrenza possa impedire danni del genere quando si tratta del copyright. Certo, gli editori che
esercitano il diritto assegnato loro dagli autori potrebbero tentare di regolamentare quante volte ci sia
consentito leggere un libro, o cercare di impedirci di condividerlo con altre persone. Ma in un mercato
competitivo come quello editoriale, i pericoli che ciò avvenga sono piuttosto ridotti.
   Ripeto, finora il mio obiettivo è semplicemente quello di evidenziare i cambiamenti attivati da questa
nuova architettura. Consentire alla tecnologia di imporre il controllo del copyright significa che questo
non viene più definito in base a una politica equilibrata. Il controllo del copyright è semplicemente quello
scelto dai singoli titolari. Un fatto innocuo, quantomeno in alcuni contesti. Ma in altri è una ricetta che
porta al disastro.


                         Architettura e legge: la forza
   La scomparsa degli utilizzi non regolamentati sarebbe già un cambiamento sufficiente, ma una
seconda importante trasformazione veicolata da Internet ne accresce il significato. Questo secondo
mutamento non influisce sul raggio d’azione della regolamentazione sul copyright; incide sulle modalità
di applicazione di tale regolamentazione.
   Nel mondo precedente la tecnologia digitale, in genere era la legge a controllare se e come si dovesse
rispettare la normativa sul copyright. Legge, per intendere un tribunale, un giudice: alla fine era un essere
umano, preparato secondo la tradizione giuridica e consapevole degli equilibri abbracciati da tale
tradizione, a stabilire se e come la legge avrebbe limitato la nostra libertà.
   Gira una famosa storiella su una controversia tra i fratelli Marx e la Warner Brothers. I primi volevano
fare una parodia di Casablanca. La Warner Brothers si oppose. Scrisse una lettera minacciosa ai fratelli
Marx, avvisandoli che sarebbero andati incontro a serie conseguenze legali nel caso avessero dato corso
al progetto.21
   I fratelli Marx risposero per le rime. Spiegarono alla Warner Brothers che i fratelli Marx [Marx
Brothers in inglese] erano fratelli [brothers] “molto prima di loro”22. Per cui erano proprietari del termine

                                                     88
brothers [fratelli], e se la Warner Brothers si accaniva a volere il controllo su Casablanca, allora i fratelli
Marx avrebbero insistito per avere il controllo su brothers.
   Una minaccia vuota e assurda, ovviamente, perché la Warner Brothers, come i fratelli Marx, sapeva
che nessun tribunale avrebbe mai dato seguito a una richiesta talmente stupida. Questo estremismo era
irrilevante per le libertà reali di cui ciascuno godeva (compresa la Warner Brothers).
   Su Internet, tuttavia, non esiste un controllo sulle regole stupide, perché sempre più spesso le norme
non sono applicate da un essere umano ma da una macchina: sempre più spesso le regole della legge sul
copyright, per come le interpreta il titolare di tale diritto, vengono integrate nella tecnologia che diffonde
il materiale tutelato. È il codice, non la legge, a governare. E il problema delle regole del codice è che,
contrariamente alla legge, lui non prova imbarazzo. Il codice non può capire l’ironia dei fratelli Marx. E
le conseguenze non sono affatto divertenti.
   Prendiamo il comportamento del mio Adobe eBook Reader.
   Un e-book è un libro in formato elettronico. Un Adobe eBook non è un libro pubblicato dalla Adobe,
la quale produce semplicemente il software che gli editori usano per distribuire gli e-book. L’azienda
fornisce la tecnologia, e l’editore diffonde i contenuti usando tale tecnologia.
   Qui di seguito, ecco l’immagine di una vecchia versione del mio Adobe eBook Reader.




   Come si può vedere, ho una piccola raccolta di e-book nella relativa biblioteca. Alcuni di essi
riproducono materiale di pubblico dominio: è il caso, per esempio, di Middlemarch23. Altri riproducono
materiale che non è di pubblico dominio: il libro che ho scritto, The Future of Ideas, non lo è ancora.
   Consideriamo prima Middlemarch. Facendo clic sulla copia dell’e-book, si vede una gradevole
copertina e poi in basso un pulsante chiamato Permissions [Permessi]. Facendo clic su di esso, compare
un elenco di permessi che l’editore dichiara di garantire su questo libro.
   Secondo il mio eBook Reader, ho il permesso di copiare nella memoria del computer dieci selezioni
dal testo ogni dieci giorni. (Finora non ne ho copiata nessuna.) Ho anche il permesso di stampare dieci
pagine del libro, sempre ogni dieci giorni. Infine, ho il permesso di usare il pulsante Read Aloud [Leggi
ad alta voce] per ascoltare la lettura di Middlemarch dalla voce del computer.
   Ecco qui a fianco l’e-book di un’altra opera di pubblico dominio (compresa la traduzione): la Politica
di Aristotele.




                                                      89
   I relativi permessi (sotto) dicono che non sono consentite stampe o copie. Ma per fortuna si può usare
il pulsante Read Aloud per ascoltarne la lettura.
   Infine (con mio grande imbarazzo), ecco (alla pagina seguente) i permessi per la versione originale e-
book del mio ultimo libro, The Future of Ideas.




   Niente copia, niente stampa e non ci si azzardi a tentare di ascoltarlo! Ora, l’Adobe eBook Reader
definisce “permessi” questi controlli - come se l’editore avesse il potere di controllare il modo in cui
l’utente usa queste opere. Per i lavori protetti da copyright, sicuramente il titolare ne ha il potere - entro i
limiti della legge sul copyright. Ma per opere che non lo sono non esistono poteri analoghi24. Quando il
mio e-book di Middlemarch dice che ho il permesso di copiare nella memoria del computer soltanto dieci
selezioni dal testo ogni dieci giorni, quello che in realtà vuole dire è che l’eBook Reader ha consentito
all’editore di limitare l’uso del libro sul computer, ben al di là del controllo che gli assegnerebbe la legge.
   Il controllo viene invece dal codice - dalla tecnologia all’interno della quale “vive” l’e-book.
Nonostante quest’ultimo sostenga che si tratta di permessi, non sono il tipo di “permessi” che intende la
maggior parte di noi. Quando un’adolescente ottiene il “permesso” di star fuori fino a mezzanotte, sa che
può tornare entro le due (a meno che, non sia Cenerentola), ma che subirà una punizione se viene
beccata. Quando però l’Adobe eBook Reader dice che ho il permesso di fare dieci copie del testo nella
memoria del computer, ciò significa che dopo aver raggiunto la decima, il computer non ne farà più. Lo
stesso per le limitazioni sulla stampa: dopo dieci pagine, l’eBook Reader non ne stamperà più. E lo stesso
per la stupida restrizione per cui non si può usare il pulsante Read Aloud per leggere il libro che ho
scritto - l’azienda non vi denuncerà se ci provate; piuttosto, facendo clic sul relativo pulsante, la
macchina semplicemente non leggerà ad alta voce.




   Questi sono controlli, non permessi. Immaginiamo un mondo in cui i Marx Brothers vendessero un
elaboratore di testi che, quando si tenta di digitare “Warner Brothers,” cancellasse “Brothers” dalla frase.



                                                      90
   Questo è il futuro della legge sul copyright: più che legge, si tratta di codice sul copyright. I controlli
sull’accesso ai contenuti non saranno ratificati dai tribunali; saranno controlli inseriti dai programmatori
tramite il codice. E, mentre i controlli introdotti per legge sono sempre verificati da un giudice, quelli
inseriti nella tecnologia sono sprovvisti di analoghi riscontri.
   Che cosa significa tutto ciò? Non è forse sempre possibile aggirare i controlli inseriti nella tecnologia?
Di solito il software veniva venduto con tecnologie che limitavano la capacità degli utenti di copiarlo, ma
si trattava di protezioni semplici da superare. Perché non sarebbe altrettanto semplice in questo caso?
   Abbiamo appena scalfito la superficie della questione. Torniamo all’Adobe eBook Reader.
   Quando diffuse inizialmente questo prodotto, la Adobe si trovò a vivere in un incubo, per quanto
concerne le pubbliche relazioni. Tra i libri che era possibile scaricare gratuitamente dal sito della Adobe
c’era Alice nel paese della meraviglie (Alice's Adventures in Wonderland). Questo libro meraviglioso è
di pubblico dominio. Eppure, facendo clic sui relativi permessi, compariva il seguente avviso:




   Ecco un libro per bambini, di pubblico dominio, che non era possibile copiare, prestare, regalare e che,
come indicavano i “permessi”, non si poteva “leggere ad alta voce”!
   L’incubo fu causato da quest’ultimo permesso. Perché il testo non diceva che non si poteva usare il
pulsante Read Aloud; diceva che non si aveva il permesso di leggere il libro ad alta voce. Ciò indusse
alcuni a pensare che la Adobe stesse limitando il diritto dei genitori, per esempio, di leggere il libro ai
figli, fatto che sembrava quantomeno assurdo.
   La Adobe rispose prontamente che era assurdo pensare che stesse cercando di limitare il diritto di
leggere un libro ad alta voce. Ovviamente stava solo vietando la possibilità di usare il relativo pulsante.
Ma la domanda a cui l’azienda non diede mai risposta è questa: sarebbe stata d’accordo a riconoscere a
un consumatore la libertà di usare un software in grado di superare le restrizioni inserite nell’eBook
Reader? Se qualche azienda (chiamiamola Elcomsoft) avesse sviluppato un programma per disattivare le
protezioni tecnologiche inserite nell’Adobe eBook in modo che, per esempio, una persona cieca avesse
potuto usare il computer per ascoltare la lettura ad alta voce, la Adobe sarebbe stata d’accordo sulla
legittimità di un simile utilizzo dell’eBook Reader? L’azienda non rispose perché la risposta, per quanto
assurdo possa sembrare, era no.
   Il mio scopo non è dare addosso alla Adobe. Anzi, si tratta di una delle società più innovative nello
sviluppo di strategie atte a stabilire un equilibrio fra il libero accesso ai contenuti e gli incentivi
all’innovazione. Ma la tecnologia di Adobe consente il controllo, e l’azienda è motivata a difenderlo. Si
tratta di un incentivo comprensibile, eppure spesso quel che ne deriva è folle.
   Per valutare la questione in un contesto particolarmente assurdo, prendiamo una delle mie storie
favorite che insiste sullo stesso punto.
   Consideriamo il cane robot costruito dalla Sony e chiamato “Aibo”. Aibo è in grado di imparare dei
trucchetti, di fare le coccole e di seguirci. Si nutre soltanto di elettricità e così non sporca (almeno a casa
nostra).

                                                      91
   Aibo è costoso e popolare. In ogni parte del mondo i suoi fan hanno creato club per condividerne le
avventure. Un appassionato in particolare ha realizzato un sito Web per consentire la condivisone di
notizie su Aibo. Si chiama aibopet.com (c’è anche aibohack.com, che però rimanda allo stesso sito) e
fornisce informazioni su come insegnare ad Aibo altri trucchi oltre a quelli previsti da Sony.
   “Insegnare” qui ha un significato particolare. Gli Aibo non sono altro che graziosi computer. A un
computer si insegna a fare qualcosa programmandolo in un certo modo. Perciò sostenere che
aibopet.com dà informazioni su come insegnare nuovi trucchi equivale a dire che aibopet.com spiega agli
utenti di Aibo come smanettare (“hack”) sul proprio computer “cane”, per fargli eseguire nuovi giochi
(da cui, aibohack.com).
   Se non siete un programmatore o non ne conoscete qualcuno, il termine “hack” ha una connotazione
decisamente poco amichevole. Se non riguarda lo sviluppo di software, “hack” vuol dire “fare a pezzi”
erbe o cespugli. Nei film dell’orrore indica anche di peggio. Ma per i programmatori, o autori di codice
come li definisco io, hack è un termine assai più positivo. Sta a indicare la manipolazione del codice per
consentire al programma di fare qualcosa che originariamente non era previsto. Se compriamo una nuova
stampante per un vecchio computer, possiamo scoprire che questo non ha il “driver” per gestirla. In
questo caso, saremmo contenti di trovare su Internet che qualcuno ha scritto un “hack” che riguarda
proprio il driver per la stampante appena acquistata.
   Alcuni “hack” sono programmi semplici. Altri incredibilmente difficili. Alla comunità degli hacker
piace sfidarsi fra loro e con altri su obiettivi sempre più ardui. Esiste un certo rispetto per il talento di chi
sa creare un buon “hack”. Un rispetto ben meritato, se il talento è associato alla volontà di creare “hack”
in modo etico.
   Il fan di Aibo mostrò entrambe le caratteristiche quando manipolò il programma e offrì al mondo il
codice che avrebbe consentito ad Aibo di ballare a ritmo di jazz. Il cane non era programmato per questo.
Fu un’ingegnosa manipolazione quella che trasformò il cane in una creatura dotata di un talento
maggiore di quanto avesse previsto Sony.
   Ho raccontato questa storia in vari contesti, negli Stati Uniti e all’estero. Una volta una persona
perplessa, fra il pubblico, mi chiese: “È consentito a un cane ballare il jazz negli Stati Uniti?”
Dimentichiamo che certe storie sul nostro passato fanno ancora il giro del mondo. Cerchiamo perciò di
essere chiari prima di proseguire: non esiste (ancora) un luogo in cui ballare il jazz sia reato. Né lo è
insegnarlo al proprio cane. Né dovrebbe esserlo insegnare a ballare il jazz al proprio cane robot (anche se
di casi del genere non abbiamo molta esperienza). Ballare a ritmo di jazz è un’attività assolutamente
legale. Si immagina che il proprietario di aibopet.com abbia pensato: “Quale problema potrebbe mai
creare insegnare a ballare a un cane robot?”
   Mettiamo da parte il cane per un attimo, e passiamo a un altro argomento - la relazione che un
accademico di Princeton di nome Ed Felten aveva preparato per una conferenza. Si tratta di un professore
ben conosciuto e rispettato. Fu ingaggiato dal governo nel caso Microsoft per valutare le affermazioni
dell’azienda su ciò che si poteva e non si poteva fare con il suo codice. In quel processo, si dimostrò
brillante e abile. Sotto il pesante incalzare degli avvocati di Microsoft, Ed Felten rimase fermo sulle
proprie posizioni. Non era tipo da farsi zittire su qualcosa che conosceva assai bene.
   Ma la bravura di Felten venne veramente messa alla prova nell’aprile del 200225. Assieme a un gruppo
di colleghi, stava lavorando alla relazione da presentare alla conferenza. La ricerca mirava a illustrare la
debolezza del sistema di crittografia in corso di sviluppo da parte della Secure Digital Music Initiative
(SDMI), come tecnica per controllare la distribuzione di musica.
   Il consorzio SDMI aveva come obiettivo una tecnologia che consentisse ai proprietari di esercitare un
controllo molto più avanzato sui propri materiali di quanto potesse garantire loro Internet, per come
operava nella sua struttura originaria. Usando la crittografia, la SDMI sperava di sviluppare uno standard

                                                       92
grazie al quale i titolari di contenuti avrebbero potuto dire: “Questa musica non può essere copiata”,
facendo in modo che il computer rispettasse quell’ordine. La tecnologia doveva far parte di un “sistema
affidabile” di controllo, che avrebbe convinto i proprietari ad affidarsi con maggior convinzione a
Internet.
   Quando la SDMI ritenne di essere vicina a uno standard, bandì un concorso. Ai partecipanti veniva
fornito il codice relativo a un contenuto cifrato dalla SDMI, ed essi dovevano cercare di infrangerlo e, in
caso di successo, spiegare i problemi al consorzio.
   Felten e il suo gruppo decifrarono rapidamente il sistema. Individuarono il punto debole di questo tipo
di soluzione: parecchi sistemi di cifratura hanno gli stessi problemi, e Felten e colleghi ritennero che
valesse la pena sottolineare questo punto a coloro che studiano sistemi di questo tipo.
   Analizziamo ciò che stava facendo Felten. Ripeto, ci troviamo negli Stati Uniti. Dove vige il principio
della libertà d’espressione. Non soltanto perché lo impone la legge, ma anche perché è davvero un’ottima
idea. Una tradizione fortemente tutelata di libertà d’espressione può probabilmente incoraggiare critiche
di ogni tipo. Queste ultime, a loro volta, migliorano i sistemi, le persone o le idee criticate.
   Quello che Felten e colleghi stavano facendo era pubblicare una ricerca che illustrava le debolezze di
una tecnologia. Non distribuivano musica gratuita, né costruivano e diffondevano una tecnologia. La
relazione era un saggio accademico, incomprensibile per la maggior parte della gente. Spiegava però con
chiarezza il punto debole del sistema della SDMI, e perché non avrebbe avuto successo, così come era
stato realizzato.
   Ciò che le due situazioni, aibopet.com e Felten, hanno in comune sono le lettere che entrambi
ricevettero. Il primo se ne vide recapitare una dalla Sony sulla sua attività di hacker. Anche se in un cane
che balla a ritmo di jazz non c’e nulla di illegale, così scriveva la Sony:
  Il suo sito contiene informazioni che forniscono i mezzi per aggirare il protocollo di tutela contro la copia del software
  di AIBO, in violazione alle norme del Digital Millennium Copyright Act.26

  E, sebbene una ricerca accademica che descrive il punto debole di un sistema di cifratura dovrebbe
essere perfettamente legale, anche Felten ricevette una lettera dall’avvocato della RIAA in cui si leggeva:
  Qualsiasi tipo di diffusione di informazioni ottenute dai partecipanti al Concorso Pubblico esula dalle attività consentite
  dal relativo accordo e può provocare azioni legali nei confronti suoi e del suo gruppo di ricerca in base al Digital
  Millennium Copyright Act (DMCA).

   In entrambi i casi, si invocava questa legge stranamente orwelliana, creata per controllare la diffusione
di informazioni. Il Digital Millennium Copyright Act aveva trasformato in un reato questa diffusione.
   Il DMCA fu emanato per rispondere al timore iniziale dei titolari di copyright nei confronti del
ciberspazio. Si temeva che il controllo del copyright di fatto fosse morto; la risposta fu quella di trovare
tecnologie che potessero porre rimedio a questa situazione. Queste nuove tecnologie avrebbero dunque
riguardato la tutela del copyright - dovevano controllare la riproduzione e la distribuzione di materiale
protetto. Vennero progettate sotto forma di codice capace di modificare quello originario di Internet, allo
scopo di ristabilire una certa protezione per i titolari di copyright
   Il DMCA faceva parte di una legislazione mirata a dare sostegno a questo codice progettato per
tutelare il materiale sotto copyright. Possiamo dire che si trattava di codice legale teso a rafforzare il
codice del software, che a sua volta era inteso a sostegno del codice legale del copyright.
   Ma il DMCA non prevedeva la mera protezione delle opere sotto copyright nei limiti in cui le tutelava
la legge. Ovvero, la sua protezione non terminava sulla linea tracciata dalla legge sul copyright. Il
DMCA regolava gli apparecchi destinati ad aggirare le misure di tutela. Era progettato per vietare tali
apparecchi, a prescindere dal fatto che l’uso di materiale sotto copyright reso possibile dalla loro azione
costituisse o meno una violazione.


                                                             93
   Aibopet.com e Felten rientrano in questo caso. L’azione dell’hack per Aibo violava un sistema di
tutela del copyright allo scopo di consentire al cane di ballare. Senza dubbio questa capacità riguardava
l’uso di materiale sotto copyright. Poiché tuttavia il sito aibopet.com non aveva fini commerciali e
quell’uso non comportava successive violazioni del copyright, non c’è dubbio che l’opera di aibopet.com
costituisse un uso legittimo del materiale sotto il copyright della Sony. Eppure il “fair use” non è una
giustificazione per il DMCA. Il punto non è se l’uso di materiale sotto copyright costituisca una
violazione. Il punto è se un sistema di tutela del diritto d’autore sia stato violato o meno.
   La minaccia contro Felten era più velata, ma seguiva la stessa linea di ragionamento. Con la
pubblicazione di una ricerca che descriveva il modo per violare un sistema di protezione del copyright,
suggeriva il legale della RIAA, era lo stesso Felten a distribuire la tecnologia per la violazione. Perciò,
anche se lui non stava personalmente violando nessun copyright, la sua relazione accademica poteva
consentire ad altri di commettere violazioni del diritto d’autore.
   La stranezza di queste tesi fu colta da Paul Conrad in una vignetta del 1981. A quel tempo, un
tribunale californiano aveva sentenziato che si poteva proibire il videoregistratore perché si trattava di
una tecnologia per la violazione del copyright: consentiva ai consumatori di copiare un film senza il
permesso del titolare dello stesso. Esistevano certamente usi legali di questo apparecchio: Fred Rogers,
noto come “Mr. Rogers”, per esempio, aveva testimoniato di volere che la gente si sentisse libera di
registrare Mr. Rogers' Neighborhood27.
   Alcune stazioni televisive pubbliche, come anche altre commerciali, programmano “Neighborhood” in orari in cui i
   bambini non possono seguirla. Credo che sia un vero servizio per le famiglie la possibilità di registrare tali programmi,
   per farli vedere ai bambini in orari appropriati. Ho sempre creduto che, con l’avvento di tutta questa nuova tecnologia
   che consente alla gente di registrare “Neighborhood”, e mi riferisco a quest’ultimo perché è una trasmissione che
   produco io, la gente possa disporre di uno strumento che le permette di programmare la vita televisiva in famiglia.
   Molto francamente, sono contrario a una programmazione imposta da altri. Il mio approccio alla produzione è stato
   sempre del tipo: “Sei una persona importante per quello che sei. Sei in grado di fare scelte positive”. Forse esagero, ma
   sento che qualsiasi cosa permetta a qualcuno di avere un maggiore controllo sulla propria vita, un controllo positivo,
   sia importante.28

   Anche se si poteva usare l’apparecchio in modo perfettamente legale, per solo il fatto che potevano
esistere usi illegali il tribunale ritenne responsabili le aziende produttrici di videoregistratori.
   La sentenza ispirò a Conrad la vignetta che riportiamo, e che si può adattare anche al DMCA.




  Su quale articolo il tribunale ha stabilito che i produttori e i rivenditori vanno considerati responsabili
per aver fornito lo strumento?

                                                             94
   Nessuna delle mie argomentazioni è più efficace di questa immagine, ma vorrei proporvele comunque.
L’obiettivo delle norme anti-violazione del DMCA erano le tecnologie per aggirare i controlli. Esse
possono essere impiegate per fini diversi. Si possono usare, per esempio, per piratare in modo massiccio
materiale sotto copyright - un fine negativo; oppure si possono utilizzare per rendere possibile l’uso di
specifici materiali protetti da copyright secondo modalità che si dovrebbero considerare uso legittimo -
un obiettivo positivo.
   Una pistola può essere usata per sparare a un poliziotto o a un bambino. Siamo quasi tutti d’accordo
che sarebbe un cattivo uso. Oppure una pistola può essere usata per fare pratica di tiro o per proteggersi
contro un intruso. Alcuni definirebbero questi impieghi positivi. Si tratta quindi di una tecnologia che
può avere utilizzi buoni o cattivi.
   L’ovvio significato della vignetta di Conrad è la stranezza di un mondo dove le pistole sono legali,
nonostante il danno che possono arrecare, mentre i videoregistratori (e le tecnologie che servono ad
aggirare le misure di protezione del copyright) sono illegali. Notizia flash: nessuno è mai morto a causa
di violazioni del copyright. Eppure la legge vieta nel modo più assoluto tali tecnologie, a prescindere dai
loro potenziali usi positivi, ma permette le pistole, nonostante gli ovvi e tragici danni che possono
provocare.
   Gli esempi di Aibo e della RIAA dimostrano come i titolari del copyright stiano modificando
l’equilibrio garantito dalla relativa legge. Grazie al codice, i titolari del copyright limitano l’uso
legittimo; grazie al DMCA, puniscono coloro che tentano di superare le restrizioni sull’uso legittimo
imposte tramite il codice. La tecnologia diviene un mezzo per eliminare il “fair use” e le norme del
DMCA danno sostegno a questa tendenza.
   È così che il codice diventa legge. I controlli inseriti nelle tecnologie di protezione contro la copia e
l’accesso divengono una regola la cui violazione è altresì una violazione della legge. In tal modo, il
codice estende la legge - ampliandone il potere di regolamentazione, anche se ciò che essa regola (attività
che altrimenti rientrerebbero chiaramente nell’uso legittimo) è al di là del raggio di azione della legge
stessa. Il codice diviene legge; il codice estende la legge; così il codice espande il controllo esercitato dai
titolari del copyright - almeno da quei titolari che hanno alle spalle avvocati capaci di scrivere lettere di
minaccia come quelle ricevute da Felten e da aibopet.com.
   C’è un ultimo aspetto nell’interazione tra architettura e legge che contribuisce a dare forza alla
regolamentazione sul copyright. Si tratta della facilità con cui si possono scoprire le violazioni. Perché,
contrariamente ai luoghi comuni diffusi alla nascita del ciberspazio, secondo cui su Internet nessuno può
sapere se sei un cane grazie alle tecnologie per il cambiamento di identità in Rete, è facile scoprire il
cane che ha trasgredito la legge. Le tecnologie di Internet sono aperte ai ficcanaso come a chi pratica
attività di condivisione, e i primi riescono sempre meglio a scovare l’identità di coloro che violano le
regole.
   Per esempio, immaginiamo di far parte di un fan club di Star Trek. Ci riuniamo ogni mese per
chiacchierare un po’ e magari per mettere in scena una replica dello spettacolo. Uno impersona Spock,
un altro Captain Kirk. I personaggi partiranno dalla trama di una storia vera, poi proseguiranno
improvvisando29.
   Prima di Internet, un’attività del genere era totalmente non regolata. A prescindere da ciò che accadeva
nella stanza del club, non ci sarebbe stata alcuna interferenza da parte degli ispettori del copyright. In
quello spazio si era liberi di fare tutto ciò che si voleva relativamente a quella specifica sfera creativa.
Era possibile costruirci sopra senza il timore di controlli legali.
   Ma spostiamo il club su Internet, rendendo così possibile l’aggregazione di altre persone, e la storia
diventa diversa. I bot che scorazzano sulla Rete alla ricerca di violazioni ai danni dei marchi registrati e
del copyright scoverebbero rapidamente il nostro sito. I testi creati dai fan, a seconda del proprietario

                                                      95
della serie a cui ci si ispira, potrebbero tranquillamente attirare le minacce di un avvocato. E ignorare
simili minacce potrebbe davvero costare salato. La legislazione sul copyright è estremamente efficiente.
Le sanzioni sono severe, e il processo è rapido.
   Questa trasformazione nell’applicazione concreta della legge è provocata da un mutamento che facilita
tale applicazione. Anche questo provoca un radicale spostamento nell’equilibrio della normativa. È come
se la nostra automobile trasmettesse i dati sulla sua velocità in ogni momento del percorso; il passo
immediatamente successivo sarebbe l’imposizione di multe da parte dello stato, in base ai dati trasmessi.
Questo, in effetti, è ciò che sta accadendo.


                          Mercato: la concentrazione
   Così la durata del copyright si è enormemente estesa - negli ultimi trent’anni è triplicata. E di pari
passo si è ampliato il suo raggio di azione - dalla regolamentazione dei soli editori praticamente a quella
di chiunque. Ed è mutata la portata del copyright, poiché ogni azione diventa una copia che quindi va
presumibilmente regolata. E man mano che le tecnologie trovano modalità migliori per controllare l’uso
dei contenuti e che il copyright viene sempre più sostenuto dalla tecnologia, se ne trasforma anche la
forza. È più facile scoprire e controllare gli abusi. Questa regolamentazione del processo creativo, che
iniziò come un aspetto limitato per governare una minima frazione del mercato delle opere creative, è
divenuta l’unico significativo strumento di governo della creatività esistente. È una massiccia espansione
del raggio di azione del controllo governativo sull’innovazione e sulla creatività; risulterebbe del tutto
irriconoscibile per coloro che diedero vita al controllo sul copyright.
   Eppure, dal mio punto di vista, tutte queste trasformazioni non avrebbero grande importanza se non
fosse per un ulteriore sviluppo che dobbiamo altresì considerare. Si tratta di un cambiamento che in un
certo senso è il più familiare, sebbene il suo significato e la sua portata non siano ben compresi. Ed è il
motivo per cui bisogna preoccuparsi degli altri cambiamenti di cui ho parlato.
   Si tratta della trasformazione della concentrazione e dell’integrazione dei media. Negli ultimi
vent’anni, la natura della proprietà dei mezzi d’informazione ha subito un radicale mutamento, causato
dalle modifiche apportate alle norme legali che regolano i media. Prima di questo cambiamento, i vari
tipi di media erano di proprietà di aziende separate. Oggi, sempre più spesso, sono posseduti da un pugno
di società. Anzi, dopo le modifiche annunciate dalla Federal Communications Commission nel giugno
del 2003, molti prevedono che entro pochi anni vivremo in un mondo dove appena tre conglomerate
controlleranno l’85 per cento dei media.
   Questi mutamenti sono di due tipi: riguardano la portata e la natura della concentrazione.
   I primi sono i più facili da illustrare. Riprendendo la sintesi del Senatore John McCain sui dati
elaborati nell’analisi della FCC sulla proprietà dei media, “cinque società hanno in mano l’85 per cento
delle nostre fonti d’informazione30 ”. Le cinque etichette discografiche di Universal Music Group, BMG,
Sony Music Entertainment, Warner Music Group e EMI controllano l’84,8 per cento del mercato
statunitense della musica31. Le “cinque aziende più grandi di TV via cavo forniscono i programmi al 74
per cento degli abbonati nazionali32.”
   Perfino più drammatica la situazione della radio. Prima della deregulation, la maggiore conglomerata
radiofonica del paese possedeva meno di settantacinque stazioni. Oggi una sola società ne possiede oltre
1200. Durante quel periodo di consolidamento, il numero totale dei proprietari di emittenti è sceso del 34
per cento. Oggi, nella maggior parte dei mercati, le due maggiori emittenti controllano il 74 per cento
delle entrate del proprio mercato. Nel complesso, sono appena quattro le aziende che controllano il 90
per cento delle entrate pubblicitarie radiofoniche a livello nazionale. Anche la proprietà dei giornali sta
diventando più concentrata. Oggi negli Stati Uniti esistono seicento quotidiani in meno rispetto a

                                                    96
ottant’anni fa, e dieci aziende controllano metà del circuito nazionale. Negli Stati Uniti operano venti
grossi editori di quotidiani. I dieci studi cinematografici più importanti incamerano il 99 per cento di tutti
i relativi guadagni. Le prime dieci aziende di TV via cavo intascano l’85 per cento di tutte le entrate del
settore. Questo è un mercato ben lontano dalla stampa libera che gli estensori della Costituzione
volevano tutelare. Anzi, è un mercato decisamente ben protetto - dal mercato stesso.
   Il livello della concentrazione è soltanto un aspetto. Il cambiamento più spiacevole riguarda la natura
di tale concentrazione. Come spiega il giornalista James Fallows in un recente articolo su Rupert
Murdoch,
   oggi le società di Murdoch costituiscono un sistema di produzione senza rivali nella sua integrazione. Forniscono i
   contenuti - la Fox produce film, spettacoli TV, eventi sportivi esclusivi, più giornali e libri. Vendono i contenuti al
   pubblico e agli inserzionisti - sui quotidiani, sulle reti televisive, sui canali della TV via cavo. E gestiscono il sistema
   della distribuzione fisica attraverso la quale il materiale raggiunge i consumatori. I sistemi satellitari di Murdoch ora
   distribuiscono i contenuti della News Corp. in Europa e in Asia; se Murdoch diviene il maggior azionista di DirecTV,
   questo sistema avrà la stessa funzione negli Stati Uniti.33

   Lo schema di Murdoch è quello dei media moderni. Non soltanto grandi società che dispongono di
stazioni radio, ma poche aziende che possiedono quante più testate è possibile. L’immagine qui sopra
descrive questo schema meglio di quanto possano fare mille parole.
   È importante questa concentrazione? Avrà influenza su ciò che si produce o su ciò che si distribuisce?
Oppure è semplicemente un modo più efficace per produrre e distribuire contenuti?
   Il mio punto di vista era che la concentrazione non avrebbe avuto importanza. Credevo che fosse solo
una struttura finanziaria più efficiente. Ma ora, dopo aver letto e ascoltato una valanga di autori che
cercavano di convincermi del contrario, sto iniziando a cambiare opinione.
   Ecco un esempio che può suggerire qual è l’importanza di questa integrazione.
   Nel 1969, Norman Lear creò un programma pilota per la serie All in the Family. Lo presentò alla
ABC. Alla rete TV non piacque. Era troppo d’avanguardia, dissero a Lear. Rifallo. Lear ne fece un
secondo, più tagliente del primo. La ABC era esasperata. Non hai capito nulla, gli dissero. Lo vogliamo
meno dissacrante, non di più.
   Anziché adeguarsi, Lear mostrò lo spettacolo altrove. La CBS fu felice di acquistare la serie; la ABC
non riuscì a bloccare Lear. I copyright di cui era titolare gli assicuravano l’indipendenza dal controllo
della rete televisiva34.
   Quest’ultima non poteva agire su quei diritti perché la legge vietava alle reti il controllo dei contenuti
che trasmettevano. La legge imponeva la separazione tra le reti televisive e i produttori di contenuti; tale
separazione garantì la libertà di Lear. E fino al 1992, grazie a queste norme, la maggioranza dei
programmi televisivi in prima serata - il 75 per cento - era “indipendente” dalle reti TV.
   Nel 1994, la FCC abbandonò le regole che imponevano questa indipendenza. Dopo la modifica,
l’equilibrio del settore subì un rapido spostamento. Nel 1985 esistevano venticinque studi di produzione
televisiva indipendenti; nel 2002 ne rimanevano appena cinque. “Nel 1992 soltanto il 15 per cento delle
nuove serie furono prodotte per una rete TV da una società sotto il suo diretto controllo. Lo scorso anno,
la percentuale di spettacoli prodotti da aziende di questo tipo è cresciuta di oltre cinque volte, fino a
raggiungere il 77 per cento.” “Nel 1992, vennero prodotte 16 nuove serie al di fuori del controllo delle
conglomerate, l’anno scorso [2002] ce ne fu soltanto una.”35 Nel 2002, il 75 per cento dei programmi
televisivi in prima serata era di proprietà delle rispettive reti. “Nei dieci anni compresi tra il 1992 e il
2002, la quantità di ore settimanali trasmesse in prima serata e prodotte dagli studi delle reti TV registrò
un incremento superiore al 200 per cento, mentre il numero delle ore settimanali prodotte dagli studi
indipendenti diminuì del 63 per cento.”36



                                                                 97
  Oggi un altro Norman Lear con un nuovo All in the Family scoprirebbe di avere due alternative:
annacquare il suo spettacolo o essere licenziato: sempre più spesso, i contenuti dei programmi realizzati
per una rete sono di sua proprietà.
  Mentre il numero dei canali è cresciuto notevolmente, la loro proprietà si è sempre più ristretta a
pochissimi nomi. Come spiegò Barry Diller a Bill Moyers,
  beh, se abbiamo aziende che producono, che finanziano, che mandano in onda i propri canali e poi distribuiscono a
  livello mondiale quel che passa nel loro sistema controllato di distribuzione, allora a questo processo prenderanno parte
  sempre meno voci. Avevamo decine e decine di prospere società indipendenti che producevano programmi televisivi.
  Ora ne abbiamo meno di una manciata.37

   Questa riduzione ha effetto su quel che viene realizzato. Il prodotto di queste reti grandi e concentrate
è sempre più omogeneo. Sempre più prudente. Sempre più asettico. Il materiale informativo è sempre più
tagliato su misura per il messaggio che la rete vuole diffondere. Non siamo ancora al partito comunista
sovietico, anche se forse dall’interno potrebbe sembrare così. Nessuno può mettere in discussione
qualcosa senza rischiare delle conseguenze - non necessariamente l’esilio in Siberia, ma una punizione
comunque. I punti di vista indipendenti, critici, differenti vengono schiacciati. Non è certo un
cambiamento che favorisca la democrazia.
   L’economia stessa offre un parallelo che spiega perché questa integrazione produce effetti sulla
creatività. Clay Christensen ha scritto a proposito del “dilemma dell’innovatore”: le aziende tradizionali
e di ampie proporzioni considerano razionale ignorare le tecnologie nuove e dirompenti che entrano in
concorrenza con la loro attività commerciale principale. La stessa analisi può contribuire a spiegare
perché le grandi aziende mediatiche tradizionali trovino razionale ignorare le nuove tendenze culturali38.
I pesanti e statici giganti non soltanto non possono, ma non dovrebbero, darsi allo sprint. Eppure, se il
campo rimane aperto solo ai giganti, resterà ben poco quanto a velocità e scatto.
   Non credo che ne sappiamo abbastanza sull’economia del mercato dei media per stabilire con certezza
quel che comporteranno la concentrazione e l’integrazione. Il rendimento è importante, e l’effetto sulla
cultura è difficile da misurare.
   Ma c’è un esempio sostanzialmente ovvio che suggerisce con forza una certa preoccupazione.
   Oltre alla guerra del copyright, ci troviamo nel bel mezzo della guerra alla droga. La politica
governativa attacca con forza i cartelli della droga; i tribunali penali e civili sono sommersi dalle
conseguenze di questa battaglia.
   Consentitemi qui di dichiararmi poco qualificato per qualsiasi possibile impiego in ambito
governativo, poiché credo che questa guerra sia un grande errore. Anzi, vengo da una famiglia distrutta
dalle droghe - anche se quelle che l’hanno mandata rovina erano tutte assolutamente legali. Ritengo che
questa guerra sia un profondo errore, perché i danni collaterali che ne derivano sono talmente grandi da
rendere folle l’idea di dichiararla. Quando si sommano tra loro il carico sul sistema giudiziario, la
disperazione di generazioni di ragazzi le cui uniche vere opportunità economiche vengono loro offerte in
quanto guerrieri della droga, la rovina delle tutele costituzionali a causa della costante sorveglianza che
questa guerra impone e, più profondamente, la totale distruzione del sistema giuridico di parecchie
nazioni sud-americane, grazie al potere dei cartelli della droga locali, ritengo impossibile credere che il
beneficio marginale costituito da un minore consumo di droga da parte degli americani possa avere
maggior peso di questi costi.
   Forse non vi ho convinto. È giusto. Viviamo in una democrazia, ed è attraverso il voto che scegliamo
le politiche operative. Ma per farlo, dipendiamo in maniera fondamentale dalla stampa, che contribuisce
a informare gli americani su questi temi.
   A partire dal 1998, l’ufficio della National Drug Control Policy ha lanciato una campagna
d’informazione come parte della “guerra alla droga”. La campagna ha prodotto una serie di brevi

                                                             98
sequenze cinematografiche sulle droghe illegali. In una di queste serie (quella di Nick e Norm), due
uomini in un bar discutono sulla legalizzazione della droga, per evitare alcuni dei danni collaterali
derivanti dalla guerra. Uno dei due è a favore della legalizzazione. L’altro risponde in maniera forte ed
efficace contro questa tesi. Alla fine è il primo personaggio a cambiare opinione (beh, siamo pur sempre
in televisione). Il risultato finale è un pesante attacco alla campagna pro-legalizzazione.
   È senz’altro una pubblicità ben fatta. Non sostiene argomenti assolutamente sbagliati. Comunica bene
il messaggio. È un intervento corretto e ragionevole.
   Noi però non lo riteniamo un messaggio giusto, e vorremmo mettere in circolazione un’inserzione di
segno opposto. Diciamo che vorremmo diffondere una serie di annunci che cerchino di dimostrare gli
straordinari danni collaterali derivanti dalla guerra alla droga. Possiamo farlo?
   Prima di tutto, ovviamente, questi annunci costano parecchio. Supponiamo di poter mettere insieme i
soldi necessari. Immaginiamo che un gruppo di cittadini preoccupati doni tutto il denaro del mondo per
aiutarci a diffondere quel messaggio. Possiamo allora essere certi che tale messaggio troverà ascolto?
   No. Non possiamo. Le stazioni televisive seguono la politica di evitare gli annunci “controversi”. Le
inserzioni sponsorizzate dal governo non vengono considerate controverse; quelle in disaccordo sì.
Questa selettività potrebbe apparire poco coerente con il Primo Emendamento, ma la Corte Suprema ha
stabilito che le emittenti hanno il diritto di scegliere che cosa trasmettere. Perciò i principali canali dei
media commerciali rifiuteranno a una delle parti di un dibattito di estrema importanza l’opportunità di
presentare la propria posizione. E i tribunali tuteleranno il diritto delle stazioni TV a essere così di
parte39.
   Anch’io sarei felice di difendere i diritti delle reti TV - se vivessimo in un mercato dei media che fosse
veramente diversificato. Ma la concentrazione fa dubitare di questa condizione. Se è un pugno di società
a controllare l’accesso ai mezzi d’informazione, e a loro spetta decidere quali posizioni politiche si
possano diffondere sui propri canali, allora la concentrazione ha un peso, ovvio e importante. Può darsi
che le posizioni scelte da un pugno di aziende siano di vostro gradimento. Ma non dovrebbe piacervi un
mondo in cui spetta a pochi decidere su quali questioni il resto di noi verrà informato o meno.


                                              Insieme
   C’è qualcosa di innocente e scontato nella posizione dei guerrieri del copyright, che ritengono che il
governo dovrebbe “tutelare la proprietà”. In astratto, ovviamente, è vero e, in genere, non c’è niente di
male. Nessuna persona sana di mente, che non sia un anarchico, non sarebbe d’accordo.
   Ma quando consideriamo il modo drastico in cui è cambiata questa “proprietà” - quando riconosciamo
come oggi essa possa interagire sia con la tecnologia sia con i mercati, il che significa quanto diversa sia
in concreto la restrizione della libertà di coltivare la nostra cultura - quella posizione inizia ad apparire
meno innocente e scontata. Considerato (1) il potere della tecnologia nell’integrare il controllo della
legge e (2) il potere della concentrazione dei mercati di indebolire le opportunità per il dissenso, se la
stretta applicazione dei diritti di “proprietà” garantiti dal copyright, così massicciamente ampliati, altera
in maniera fondamentale la libertà, nell’ambito di questa cultura, di coltivare il passato e usarlo per
creare cose nuove, allora dobbiamo chiederci se questa proprietà non debba essere ridefinita.
   Non rigidamente. O in modo assoluto. Non penso che si debba abolire il copyright oppure tornare al
XVIII secolo. Sarebbe un errore enorme, disastroso per le più importanti imprese creative della cultura
attuale.
   Ma tra zero e uno esiste uno spazio, nonostante la cultura di Internet. E queste massicce alterazioni
nell’effettivo potere della regolamentazione sul copyright, legato alla maggiore concentrazione
dell’industria produttrice di contenuti e all’affidarsi a una tecnologia che aumenterà sempre più il

                                                     99
controllo sull’uso della cultura, dovrebbero portarci a prendere in considerazione la necessità di un
ulteriore accomodamento. Non una modifica che estenda il potere del copyright. Neppure un’intesa che
ne estenda i termini. Piuttosto, un aggiustamento che ristabilisca l’equilibrio che ha tradizionalmente
caratterizzato la regolamentazione del copyright - un indebolimento della regolamentazione per
rafforzare la creatività.
   La legislazione sul copyright non è mai stata la rocca di Gibilterra. Non è una serie di rigide
imposizioni di cui, per qualche misteriosa ragione, adolescenti e appassionati di informatica ora vogliono
farsi beffe. Al contrario, il potere del copyright è cresciuto in maniera notevole in un breve periodo di
tempo, contemporaneamente alla trasformazione delle tecnologie per la distribuzione e la creatività, e
alla spinta da parte dei lobbisti per assegnare un maggior controllo ai titolari del copyright. I
cambiamenti del passato in risposta alle trasformazioni della tecnologia suggeriscono che potrebbero
rendersi necessari mutamenti analoghi in futuro. E questi cambiamenti devono andare verso la riduzione
del raggio di azione del copyright, per contrastare lo straordinario aumento del controllo attivato dalla
tecnologia e dal mercato.
   Infatti, il punto che viene ignorato in questa guerra ai pirati è quello che balza agli occhi soltanto dopo
aver analizzato la portata di tali cambiamenti. Quando facciamo la somma dell’effetto della modifica
delle leggi, della concentrazione dei mercati e della trasformazione tecnologica, giungiamo a una
conclusione incredibile: mai come ora nella nostra storia così pochi soggetti hanno avuto il diritto legale
di controllare a un livello tanto esteso lo sviluppo della cultura.
   Non quando il copyright era perpetuo, perché in quel caso copriva soltanto una specifica opera
creativa. Non quando soltanto gli editori avevano gli strumenti per pubblicare, perché allora il mercato
era assai più differenziato. Non quando esistevano appena tre reti televisive, perché perfino allora
giornali, studi cinematografici, emittenti radiofoniche ed editori erano indipendenti da loro. Il copyright
non ha mai tutelato una simile estensione di diritti, contro una serie talmente vasta di soggetti, per una
durata che fosse neppure lontanamente così lunga. Questa forma di normativa - una minima
regolamentazione di una piccola parte dell’energia creativa di una nazione ai suoi albori - oggi
rappresenta la massiccia regolamentazione dell’intero processo creativo. La legge più la tecnologia più il
mercato ora interagiscono per trasformare questa normativa storicamente benigna nella più significativa
regolamentazione della cultura che la nostra società libera abbia mai conosciuto40. È stato un lungo
capitolo. Possiamo ora riassumerne i punti principali.
   All’inizio del libro, ho fatto una distinzione fra cultura commerciale e cultura non commerciale. Nel
corso di questo capitolo, ho fatto una distinzione fra la copia e la trasformazione di un’opera. Adesso
dobbiamo integrare queste due distinzioni e tracciare la mappa precisa dei mutamenti subiti dalla
legislazione sul copyright.
   Nel 1790, la legge appariva così:
                                               Pubblicazione                     Trasformazione

Commerciale                           ©                                Libera

Non commerciale                       Libera                           Libera

   La pubblicazione di mappe, grafici e libri era regolata dalla legge sul copyright. Nient’altro lo era. Le
trasformazioni erano libere. E il copyright esisteva unicamente dietro registrazione, e soltanto coloro che
intendevano beneficiarne commercialmente registravano un’opera; la copia, tramite la pubblicazione di
opere non commerciali, era ugualmente libera.
   Al termine del XIX secolo, la legge era cambiata nel modo seguente:
                                               Pubblicazione                     Trasformazione


                                                     100
                                                  Pubblicazione                   Trasformazione

Commerciale                            ©                                ©

Non commerciale                        Libera                           Libera

   Le opere derivate venivano regolate dalle norme sul diritto d’autore - se pubblicate, il che, come ho già
spiegato, considerate le condizioni economiche dell’editoria dell’epoca, significa che lo erano se erano
rese disponibili sul mercato. Ma la pubblicazione a fini non commerciali e la trasformazione rimanevano
sostanzialmente libere.
   Nel 1909 la legge mutò per regolare le copie, non la pubblicazione, e in seguito a questa modifica la
portata della normativa fu collegata alla tecnologia. Con la diffusione della tecnologia della copia, si
estese la portata della legge. Così, nel 1975, con la diffusione sempre maggiore delle macchine
fotocopiatrici, possiamo dire che la legge iniziò a trasformarsi come segue:
                                                  Pubblicazione                   Trasformazione

Commerciale                            ©                                ©

Non commerciale                        ©/Libera                         Libera

   La legge venne interpretata in modo da raggiungere la copia non commerciale tramite, diciamo, le
fotocopiatrici, ma buona parte delle copie al di fuori del mercato commerciale rimaneva comunque
libera. Tuttavia, l’emergere delle tecnologie digitali, soprattutto nel contesto delle reti digitali, comporta
il seguente cambiamento legislativo:
                                                  Pubblicazione                   Trasformazione

Commerciale                            ©                                ©

Non commerciale                        ©                                ©

   Ogni settore è governato dalla legge sul copyright, laddove prima, per la creatività, non era così. Ora la
legge regola l’intero ambito creativo - commerciale o meno, di trasformazione o meno - con le stesse
regole previste per regolamentare l’editoria commerciale.
   Ovviamente il nemico non è la legge sul copyright. Il nemico è una regolamentazione che non produce
effetti positivi. Quindi la domanda che dovremmo porci ora è se l’estensione delle regolamentazioni della
legge in ciascuno di questi domini produca effettivamente qualche beneficio.
   Non ho alcun dubbio che ne produca nel regolamentare la copia a fini commerciali. Ma non ho
ugualmente dubbi sul fatto che faccia più male che bene nel regolamentare (come accade ora) la copia
non commerciale e soprattutto la trasformazione non commerciale. E sempre più, per le ragioni
accennate in particolare nei capitoli 7 e 8, ci si potrebbe chiedere se non produca più danni che vantaggi
alla trasformazione commerciale. Se i diritti derivati fossero delineati con maggiore accuratezza, si
realizzerebbe un numero molto maggiore di opere commerciali di trasformazione.
   La questione perciò non è semplicemente se il copyright sia o non sia una proprietà. Ovviamente è un
tipo di “proprietà” e, naturalmente, come avviene per ogni proprietà, lo stato deve tutelarlo. Ma,
nonostante le prime impressioni, storicamente questo diritto di proprietà (come tutti i diritti di proprietà41
) è stato organizzato allo scopo di stabilire un equilibrio fra l’importante necessità di offrire incentivi ad
autori e artisti e il bisogno, parimenti importante, di assicurare l’accesso alle opere creative. Questo
equilibrio è stato sempre raggiunto alla luce delle nuove tecnologie. E, per quasi metà della nostra
tradizione, il “copyright” non controllava affatto la libertà di trasformare un lavoro creativo o di costruire
su di esso. La cultura americana è nata libera, e per quasi 180 anni il nostro paese ha tutelato con
coerenza una cultura libera ricca e vitale.

                                                       101
   Abbiamo ottenuto tale libertà di cultura perché la legge rispettava importanti limitazioni sulla portata
degli interessi tutelati dalla “proprietà”. Fu la stessa nascita del “copyright” come diritto legale a
riconoscere tali limitazioni, garantendo ai titolari dello stesso la tutela per un periodo di tempo limitato
(come illustrato del capitolo 6). La tradizione del “fair use” è animata dall’analoga preoccupazione che
esso sia sempre più a rischio, man mano che si fanno inevitabilmente alte le spese per esercitare qualsiasi
uso legittimo (la storia del capitolo 7). L’aggiunta di diritti imposti dalla legge laddove i mercati possono
bloccare l’innovazione è un’altra nota limitazione al diritto di proprietà rappresentato dal copyright
(capitolo 8). E garantire agli archivi e alle biblioteche l’ampia libertà di raccogliere materiale, nonostante
le rivendicazioni di proprietà, è un elemento fondamentale nel garantire l’anima della cultura (capitolo
9). Le culture libere, come i liberi mercati, si costruiscono grazie alla proprietà. Ma la natura della
proprietà che dà vita alla cultura libera è assai diversa dalla visione estremista che domina il dibattito
odierno.
   Sempre più spesso, la cultura libera è la vittima di questa guerra alla pirateria. In risposta a una
minaccia reale, seppur non ancora quantificata, che le tecnologie di Internet rappresentano per i modelli
imprenditoriali del XX secolo nella produzione e nella distribuzione della cultura, la legge e la tecnologia
subiscono trasformazioni che mineranno alla base la nostra tradizione di cultura libera. Quel diritto di
proprietà che è il copyright non è più il diritto equilibrato che era una volta, o che si intendeva dovesse
essere. È diventato squilibrato, sbilanciato tutto da una parte. L’opportunità di creare e di trasformare
risulta indebolita in un mondo dove ogni creazione deve chiedere il permesso e dove la creatività ha
bisogno di consultare un avvocato.




                                                     102
                             Parte III


                           Enigmi



                        In questa parte
Capitolo 11 - Chimera
Capitolo 12 - Danni
Capitolo 13 - Eldred




                               103
                                                Capitolo 11


                                            Chimera


   In un noto racconto breve di H. G. Wells, uno scalatore di nome Nunez scivola (lungo un canalone
ghiacciato) in una valle sconosciuta e isolata delle Ande peruviane1. La valle è incredibilmente bella, con
“acque chiare, pascoli, un clima temperato, pendii di fertile terreno bruno con intricate macchie di arbusti
che producono ottimi frutti”. Ma gli abitanti del villaggio sono tutti ciechi. Nunez considera questo fatto
un’opportunità. “Nel paese dei ciechi,” dice a se stesso, “chi ha un occhio solo è il re.” Decide così di
vivere con loro per provare una vita da re.
   Le cose non vanno però come aveva previsto. Cerca di spiegare agli abitanti del villaggio il concetto di
vista. Non capiscono. Spiega loro che sono “ciechi”. La parola cieco non fa parte del loro vocabolario.
Credono che lui sia soltanto un po’ duro di comprendonio. In effetti, man mano che notano le cose non sa
fare (sentire il suono dell’erba che viene calpestata, per esempio), fanno in modo di tenerlo sempre più
sotto controllo. E la sua frustrazione aumenta. “Voi non capite,” urla con una voce che voleva sembrare
forte e risoluta, ma che gli uscì invece spezzata. “Voi siete ciechi e io posso vedere. Lasciatemi in pace!”
   Gli abitanti del villaggio non lo lasciano in pace. E non riescono neppure a vedere (si fa per dire) le
virtù del suo potere particolare. Neppure l’obiettivo supremo del suo affetto, una giovane donna che a lui
sembra “la cosa più stupenda di tutto il creato”, riesce a comprendere la bellezza della vista. La
descrizione fatta da Nunez di quel che vede “le appare la più poetica delle fantasie, e ascolta la sua
descrizione delle stelle e delle montagne e della sua stessa bellezza dolce e luminosa con un
atteggiamento di colpevole benevolenza”.
   “Non ci credeva”, ci dice Wells, e “poteva capire soltanto a metà, ma ne era misteriosamente
affascinata.”
   Quando Nunez annuncia il desiderio di sposare il suo amore così “misteriosamente affascinato”, il re e
il villaggio si oppongono. “Ascolta, mia cara”, le spiega il padre, “quest’uomo è un idiota. Soffre di
qualche fissazione. Non riesce a far nulla per bene.” Portano Nunez dal dottore del villaggio.
   Dopo un’attenta visita, il dottore emette il responso: “Il suo cervello è malato”, sentenzia.
   “Qual è la causa?” chiede il padre. “Quelle strane cose chiamate occhi ... sono malate ... a tal punto da
colpire il cervello.”
   Il dottore prosegue: “Credo di poter dire con ragionevole certezza che, per poterlo guarire
completamente, basta una operazione chirurgica semplice e tranquilla - ovvero, rimuovere quei corpi
irritanti [gli occhi]”.
   “Ringraziamo il cielo per la scienza!” dice il padre al dottore. Nunez viene così informato della
condizione necessaria perché gli sia concesso di sposarsi. (Per sapere come va a finire dovete leggere
l’opera originale. Sono sì un sostenitore della cultura libera, ma non rivelo mai il finale di un racconto.)
   Talvolta succede che le uova di due gemelli si fondano nell’utero della madre. Questa fusione produce
una “chimera”. Si tratta di un’unica creatura dotata di due sequenze di DNA. Il DNA del sangue, per
esempio, può essere diverso da quello della pelle. Questa possibilità è un elemento ancora poco sfruttato
dagli autori di romanzi gialli:. “Ma il DNA dimostra con una certezza del 100 per cento che non era lei la
persona il cui sangue è stato rinvenuto sulla scena del delitto ...”



                                                    104
   Prima di leggere qualcosa sulle chimere, le avrei ritenute creature impossibili. Un’unica persona non
può avere due sequenze di DNA. L’idea stessa del DNA è che sia il codice che caratterizza un singolo
individuo. Eppure, in realtà, non soltanto due individui possono avere la medesima sequenza di DNA
(gemelli identici), ma una persona può averne due sequenze diverse (chimera). La nostra comprensione
di una “persona” dovrebbe riflettere questa realtà.
   Più mi do da fare per comprendere l’attuale scontro sul copyright e sulla cultura, che ho definito in
modo talvolta scorretto e altre volte non abbastanza scorretto “guerre del copyright”, più credo che
abbiamo a che fare con una chimera. Per esempio, per quanto riguarda la domanda “che cosa vuol dire
condivisione p2p?” hanno ragione e torto entrambe le parti in causa. Una fazione sostiene: “Il file sharing
significa soltanto due ragazzi che registrano e si scambiano musica - quello che abbiamo fatto tutti negli
ultimi trent’anni senza problemi”. È vero, almeno in parte. Quando consiglio ai miei amici di ascoltare
un CD che ho comprato, ma anziché farglielo avere li rimando al mio server p2p, sotto vari aspetti non
faccio nulla di diverso da ciò che sicuramente faceva da ragazzo ogni dirigente di qualsiasi etichetta
discografica: condividere musica.
   Ma questa descrizione è anche falsa. Quando il mio server p2p si trova su una rete, tramite la quale
chiunque può avere accesso alla mia musica, sono certamente compresi i miei amici; ma il significato di
“amici” va ben oltre quello comunemente inteso, se si sostiene che possono avervi accesso “i miei
diecimila migliori amici”. Che sia vero o no che condividere la musica con il nostro migliore amico è una
cosa che “ci è sempre stata permessa”, non è detto che questo valga anche per i “nostri diecimila migliori
amici”.
   Analogamente, quando l’altra fazione sostiene: “Il file sharing è proprio come entrare in un negozio,
prendere un CD e portarselo via”, anche questo è vero, almeno in parte. Se, quando Lyle Lovett
(finalmente) pubblica un nuovo album, invece di acquistarlo vado su Kazaa e ne trovo una copia da
scaricare, mi comporto più o meno come se la rubassi in un negozio.
   Però, non è esattamente così. Dopo tutto, quando prendo un CD in un negozio, ne resta uno in meno da
vendere. E io, a mia volta, ne ricavo un po’ di plastica, una copertina e qualcosa da mettere in mostra sui
miei scaffali. (E, visto che ci siamo, potremmo anche notare che quando mi approprio di un CD, la multa
massima che potrebbe venirmi comminata, almeno in base alla normativa californiana, è di 1000 dollari.
Secondo la RIAA, invece, se scarico un CD con dieci canzoni sono passibile di danni per 1.500.000 di
dollari.)
   Non si può dire che le cose non stiano come le descrivono le due parti in causa. La questione è che
entrambe le interpretazioni sono valide - come le presenta la RIAA e come le propone Kazaa. Si tratta di
una chimera. E anziché limitarsi a negare la posizione della parte opposta, dobbiamo pensare al modo
giusto di gestire questa chimera. Quali norme dovrebbero governarla?
   Potremmo rispondere facendo semplicemente finta che non si tratti di una chimera. Potremmo
decidere, in accordo con la RIAA, che ogni azione di file sharing sia un reato grave. Potremmo
perseguire le famiglie per milioni di dollari di danni soltanto perché il file sharing è avvenuto sul
computer di casa. E possiamo obbligare le università a controllare tutto il traffico informatico, in modo
da essere certi che nessun computer venga usato per commettere simili reati. Si tratta di risposte estreme,
ma tutte sono state proposte o messe in atto concretamente2.
   In alternativa, potremmo reagire al file sharing come fanno molti ragazzi, che si comportano come se
noi avessimo già dato una risposta. Potremmo legalizzarlo del tutto. Eliminiamo qualsiasi responsabilità
sul copyright, sia civile che penale, per chi rende disponibile in Rete il materiale coperto dal diritto
d’autore. Equipariamo il file sharing al pettegolezzo: regolato, quando lo è, da norme sociali ma non
dalla legge.


                                                   105
   Entrambe queste risposte sono plausibili. Ma penso che entrambe siano sbagliate. Piuttosto che
abbracciare uno di questi due estremi, dovremmo optare per una soluzione che riconosca la verità di
entrambi. E, anche se chiudo questo libro con un abbozzo di sistema che va proprio in tale direzione, il
mio obiettivo, nel capitolo seguente, è quello di dimostrare quanto sarebbe disastroso adottare l’estremo
della tolleranza zero. Penso che entrambi gli estremismi sarebbero peggiori di un’alternativa ragionevole.
Credo però che la soluzione della tolleranza zero sarebbe il peggiore dei due.
   Eppure, questa è sempre più la scelta politica del nostro governo. Nel bel mezzo del caos creato da
Internet, stiamo assistendo a un incredibile tentativo di accaparrarsi il territorio. La legge e la tecnologia
subiscono trasformazioni tali da fornire ai titolari di contenuti un tipo di controllo sulla cultura mai avuto
prima. E in questa posizione radicale andranno perdute molte opportunità per l’innovazione e la
creatività.
   Non mi riferisco alle possibilità offerte ai ragazzi di “rubare” musica. Mi concentro invece
sull’innovazione commerciale e culturale che troverà la morte in questa guerra. Non abbiamo mai visto
una forza innovativa così ampiamente diffusa tra i cittadini, e abbiamo appena iniziato a percepire le
nuove potenzialità liberate da tale forza. Eppure Internet ha già visto il passaggio di un ciclo di
innovazione riguardante le tecnologie per la distribuzione di contenuti. La legge ne è responsabile. Come
spiega il vicepresidente per le politiche globali di uno di questi soggetti innovatori, eMusic.com,
criticando l’ulteriore protezione imposta dal DMCA sul materiale coperto da copyright,
   eMusic si oppone alla pirateria musicale. Siamo distributori di materiale protetto da copyright, e vogliamo tutelare
   questi diritti.

   Ma costruire una fortezza tecnologia dove mettere sotto chiave il potere delle maggiori etichette discografiche non è
   assolutamente l’unico modo per proteggere gli interessi del diritto d’autore, né necessariamente il migliore.
   Semplicemente, è troppo presto per rispondere a questa domanda. Può davvero darsi che le forze del mercato che
   operano in maniera naturale producano un modello industriale totalmente diverso.

   Questo è un punto fondamentale. Le scelte che i settori industriali compiono rispetto a questi sistemi daranno
   direttamente forma, sotto molti aspetti, al mercato dei media digitali e alla modalità con cui questi verranno distribuiti.
   Ciò a sua volta influenzerà in modo diretto le opzioni disponibili per i consumatori, per quanto riguarda sia la facilità
   con cui potranno accedere ai media digitali sia le apparecchiature necessarie per farlo. Scelte inadeguate fatte all’inizio
   del gioco potrebbero ritardare la crescita di questo mercato, danneggiando gli interessi di tutti.3

   Nell’aprile del 2001, eMusic.com fu acquisita da Vivendi Universal, una delle “maggiori etichette
discografiche”. Ora la sua posizione su queste questioni è cambiata.
   Capovolgere la nostra tradizione di tolleranza oggi finirà per schiacciare non soltanto la pirateria.
Richiederà il sacrificio di valori importanti per questa cultura, e distruggerà delle opportunità che
potrebbero avere uno straordinario valore.




                                                              106
                                                Capitolo 12


                                                Danni


   Per combattere la “pirateria,” per tutelare la “proprietà”, i produttori di contenuti hanno dichiarato una
guerra. L’attività di lobbying e il contributo di numerose campagne ora vi hanno trascinato anche il
governo. Come ogni guerra, anche questa produrrà danni diretti e collaterali. Come in ogni guerra
proibizionista, sarà la maggior parte di noi a subire tali danni.
   Finora il mio obiettivo è stato descrivere le conseguenze di questa guerra, in particolare le
conseguenze per la “cultura libera”. Ma adesso il mio scopo è approfondire questa descrizione per farla
diventare una vera e propria tesi. Questa guerra ha qualche giustificazione?
   Dal mio punto di vista, no. Non esistono buone ragioni perché questa volta, per la prima volta, la legge
debba difendere il vecchio contro il nuovo, proprio quando il potere di ciò che chiamiamo “proprietà
intellettuale” ha raggiunto il punto più alto nella nostra storia.
   Eppure il “senso comune” non la vede così. Il senso comune sta ancora dalla parte dei Causby e
dell’industria che produce contenuti. Le posizioni estreme a favore del controllo in nome della proprietà
trovano ancora eco; il rifiuto acritico della “pirateria” è tuttora vincente.
   Continuare questa guerra avrà numerose conseguenze. Voglio descriverne soltanto tre, tutte - si può
pensare - non volute. Sono quasi certo che questo valga per la terza. Lo sono un po’ meno per le prime
due. Esse tutelano le moderne RCA, ma non esiste alcun Howard Armstrong pronto a combattere contro
gli attuali monopolisti della cultura.


                                   Vincolare gli autori
   Nei prossimi dieci anni assisteremo a un’esplosione di tecnologie digitali, le quali consentiranno quasi
a chiunque di catturare e condividere materiali. Il che, ovviamente, è ciò che gli esseri umani hanno fatto
fin dall’alba dell’umanità. È questo il modo in cui impariamo e comunichiamo. Ma catturare e
condividere tramite la tecnologia digitale è diverso. La fedeltà e la potenza sono differenti. Potremo
inviare un messaggio di posta elettronica per raccontare una barzelletta vista su Comedy Central, oppure
spedire la sequenza video. Potremo scrivere un saggio sull’incoerenza delle argomentazioni dei politici
che apprezziamo o detestiamo, oppure realizzare un breve filmato che ne metta a confronto le
affermazioni. Potremo scrivere una poesia per esprimere il nostro amore, o mettere insieme alcune
canzoni del nostro artista favorito formando un collage che renderemo disponibile in Rete.
   Questo “catturare e condividere” digitale è in parte un’estensione dell’analoga pratica che ha fatto
sempre parte integrante della cultura, e in parte qualcosa di nuovo. Continua la tradizione della Kodak,
ma fa esplodere i limiti delle tecnologie del tipo Kodak. La tecnologia del “catturare e condividere”
digitale promette una creatività straordinariamente variegata che si può condividere in maniera ampia e
semplice. E, applicando tale creatività alla democrazia, consentirà a una vasta gamma di cittadini di usare
la tecnologia per esprimersi, criticare la cultura che li circonda e contribuirvi.
   La tecnologia così ci ha dato la possibilità di fare, con la cultura, cose che in precedenza erno possibili
soltanto a individui appartenenti a piccoli gruppi, isolati dagli altri. Pensiamo a un anziano che racconta
una storia ad alcuni vicini in una piccola città. Immaginiamo ora la stessa storia raccontata a tutto il
mondo.

                                                     107
   Eppure tutto ciò è possibile soltanto se questa attività è considerata legale. Nell’attuale regime di
regolamentazione giuridica, non lo è. Dimentichiamo per un momento il file sharing. Pensiamo a quegli
incredibili siti che più amiamo in Rete. Siti Web che offrono la sintesi delle trame di spettacoli televisivi
dimenticati; siti che archiviano i cartoni animati degli anni ’60; siti che mescolano immagini e suoni per
criticare politici o aziende; siti che raccolgono articoli di giornali su lontani argomenti scientifici o
culturali. Su Internet esiste un’enorme quantità di materiale creativo. Tuttavia, per come oggi viene
concepita la legge, è tutto presumibilmente illegale.
   Questa assunto porterà al crescente congelamento della creatività, mentre continueranno a proliferare
gli esempi di pene severe per violazioni poco chiare. È impossibile avere un’idea precisa di ciò che è
consentito e di ciò che non lo è, e nello stesso tempo le sanzioni per aver varcato il limite sono
incredibilmente pesanti. I quattro studenti presi di mira dalla RIAA (Jesse Jordan, di cui ho parlato nel
capitolo 3, era uno di loro) furono minacciati con una denuncia da 98 miliardi di dollari per aver
realizzato motori di ricerca che consentivano la copia di canzoni. Eppure la World-Com - che ha
defraudato gli investitori di 11 miliardi, provocando una perdita, per chi aveva investito nella
capitalizzazione di mercato, superiore a 200 miliardi - ha subito una multa di appena 750 milioni di
dollari1. In base alla legislazione attualmente in discussione al Congresso, un chirurgo colpevole di aver
tagliato la gamba sbagliata verrebbe ritenuto responsabile per danni non superiori ai 250.000 dollari per
il dolore e la sofferenza inflitti2. Può il senso comune riconoscere l’assurdità di un mondo in cui la multa
massima per aver scaricato due canzoni da Internet sia superiore alla multa comminata a un medico per
aver macellato un paziente a causa della sua negligenza?
   La conseguenza dell’incertezza della legge, legata a queste sanzioni estremamente elevate, è che
un’incredibile quantità di creatività non verrà mai esercitata, o non lo sarà alla luce del sole. Quando
definiamo “pirati” i Walt Disney dell’era moderna, spingiamo nella clandestinità questo processo
creativo. Rendiamo impossibile per le aziende commerciali affidarsi al pubblico dominio, perché i suoi
limiti sono progettati per essere poco chiari. Non c’è nulla che convenga di più che pagare per il diritto di
creare, e da qui deriva che soltanto coloro che possono pagare si vedono autorizzati a creare. Come è
accaduto nell’Unione Sovietica, anche se per ragioni molto diverse, assisteremo alla nascita di un mondo
di arte clandestina - non perché il messaggio sia necessariamente politico, o perché il tema sia
problematico, ma perché la creazione artistica in sé può diventare onerosa dal punto di vista legale. Già
ora circolano negli Stati Uniti mostre di “arte illegale”3. In che cosa consiste la loro “illegalità”? Nel
mescolare la cultura che ci circonda con un modo di esprimersi critico o riflessivo.
   Il motivo di questo timore dell’illegalità ha a che fare, in parte, con la trasformazione della legge. Nel
capitolo 10 ho illustrato questo argomento nei dettagli. Ma una parte ancora maggiore dipende dalla
crescente facilità con cui vengono individuate le violazioni. Come scoprirono nel 2002 gli utenti dei
sistemi di file sharing, è una cosa da nulla per i titolari del copyright ottenere le ingiunzioni per imporre
ai provider di servizi Internet di rivelare quale materiale possiede ciascun utente. È come se il nostro
registratore a cassette trasmettesse l’elenco delle canzoni che abbiamo ascoltato nell’intimità di casa
nostra, in modo che chiunque possa sintonizzarsi e ottenere quell’elenco per un motivo qualsiasi.
   Storicamente non è mai successo che un pittore debba preoccuparsi se quanto dipinge possa violare
l’opera di qualcun altro; ma il pittore dell’era moderna, usando gli strumenti di Photoshop, condividendo
materiale sul Web, deve cautelarsi ogni volta. Siamo completamente circondati da immagini, ma le
uniche che si possono utilizzare con sicurezza nell’atto creativo sono quelle comprate da Corbis o da
un’altra agenzia fotografica. E con l’acquisto, avviene la censura. Per le matite esiste il libero mercato;
non dobbiamo preoccuparci del loro effetto sulla creatività. Ma per le icone culturali esiste un mercato
altamente regolamentato, monopolizzato; il diritto di coltivarle e trasformarle non è ugualmente libero.


                                                    108
   Raramente gli avvocati notano quest’aspetto, perché di rado gli avvocati sono empirici. Come ho
illustrato nel capitolo 7, a proposito della vicenda di Jon Else, parecchi avvocati mi hanno tenuto la loro
lezione, dimostrando che l’attività di Else rientrava nel “fair use”, e che quindi sbaglio nel sostenere che
la legge regolamenta un simile utilizzo.
   Ma in America l’uso legittimo comporta semplicemente il diritto ad assumere un avvocato per
difendere il nostro diritto a creare. E come gli avvocati tendono a dimenticare, il sistema per la difesa di
diritti come l’uso legittimo è incredibilmente malfatto - praticamente in ogni contesto, ma soprattutto qui.
Costa troppo, procede con eccessiva lentezza e spesso quanto delibera ha scarso collegamento con la
giustizia alla base del caso specifico. Il sistema legale può essere tollerabile per i più ricchi. Per quanto
riguarda tutti gli altri, è una fonte di imbarazzo per una tradizione che si vanta delle proprie norme
giuridiche.
   Giudici e avvocati possono raccontare a se stessi che l’uso legittimo permette un adeguato spazio di
manovra tra la regolamentazione della legge e l’accesso che questa dovrebbe consentire. Il fatto però che
qualcuno possa crederlo è la misura di come il nostro sistema legale sia andato fuori controllo. Le norme
che gli editori impongono agli scrittori, quelle che i distributori dettano ai cineasti, quelle che i giornali
ingiungono ai giornalisti - queste sono le norme concrete che governano la creatività. E tali norme hanno
poco a che fare con la “legge” con cui i giudici consolano se stessi.
   Perché in un mondo che minaccia 150.000 dollari di multa per ogni violazione del diritto d’autore, che
richiede di sborsare decine di migliaia di dollari soltanto per difendersi contro l’accusa di violazione e
che non ha l’obbligo di rimborsare alla persona ingiustamente accusata le spese affrontate per tutelare il
proprio diritto a esprimersi - in quel mondo, le regolamentazioni incredibilmente estese che passano sotto
il nome di “copyright” mettono a tacere la libertà di espressione e la creatività. E in quel mondo ci vuole
una cecità calcolata per continuare a credere che la gente viva in un cultura libera.
   Come mi disse Jed Horovitz, l’imprenditore che sta dietro Video Pipeline,
   stiamo perdendo opportunità [creative] a destra e a manca. Le persone creative sono costrette a non esprimersi. Il
   pensiero non viene manifestato. E pur essendo [ancora] possibile creare molte cose nuove, esse non vengono
   distribuite. Anche se si realizza qualcosa ... i grandi media non vogliono distribuirlo, a meno che non sia accompagnato
   dalla nota di un avvocato che affermi: “I diritti su quest’opera sono tutti a posto”. Senza questo tipo di permesso, non si
   arriva neppure alla televisione pubblica. Possono controllarti fino a questo punto.



                                    Vincolare gli innovatori
   Il contenuto dell’ultima sezione tende un po’ a sinistra - creatività schiacciata, artisti impossibilitati a
esprimersi, e così via. Forse la cosa non vi attira gran che. Forse credete che circolino abbastanza
stramberie artistiche in giro, che esistano sufficienti manifestazioni di critica più o meno su tutto. E se la
pensate così, forse credete che questa storia offra ben poco di cui dobbiate preoccuparvi.
   Tuttavia c’è un aspetto di questa vicenda che non si può ritenere affatto di sinistra. Si tratta anzi di una
questione che potrebbe essere trattata dal teorico più estremista del libero mercato. E se appartenete a
questa categoria (ma siete veramente speciali, dato che avete letto ... un libro come questo), allora sarete
in grado di notare questo aspetto, se sostituirete “cultura libera”, ogni volta che l’espressione compare,
con “libero mercato”. La questione è identica, anche se gli interessi che influiscono sulla cultura sono più
fondamentali.
   La posizione che sostengo sulla regolamentazione della cultura è la stessa che i fautori del libero
mercato difendono rispetto alla regolamentazione del mercato. Naturalmente tutti ammettono che
quest’ultima sia necessaria in una certa misura - come minimo, occorrono regole sulla proprietà e sui
contratti, e tribunali che le applichino. Analogamente, in questo dibattito sulla cultura tutti accettano che


                                                              109
venga imposta almeno una struttura generale sul copyright. Ma entrambi i punti di vista insistono con
calore che, per il solo fatto che una certa regolamentazione è necessaria, non vuol dire che si debbano
imporre regolamentazioni sempre più estese. Ed entrambi gli schieramenti seguono con costante
attenzione le modalità con cui queste regole non fanno altro che consentire alle potenti industrie di oggi
di proteggere se stesse contro i rivali di domani.
   Questo è l’effetto più significativo dei cambiamenti nella strategia di regolamentazione che ho
illustrato nel capitolo 10. Come conseguenza di questa imponente minaccia di responsabilità legali legata
agli oscuri confini della legge sul copyright, coloro che vogliono proporre innovazioni in questo ambito
possono farlo con sicurezza soltanto se ottengono il nulla-osta delle industrie dominanti dell’ultima
generazione. La lezione è stata impartita tramite una serie di casi progettati e condotti proprio per
insegnarla agli investitori. La lezione - quel che l’ex-responsabile di Napster, Hank Barry, definisce una
“cappa nucleare” che ha colpito Silicon Valley - è stata appresa.
   Per ribadire questo punto, consideriamo un esempio, una vicenda di cui ho narrato l’inizio in The
Future of Ideas e che si è evoluta in un modo che neppure io (eccezionale pessimista) avrei mai potuto
prevedere.
   Nel 1997, Michael Roberts fondò un’azienda chiamata MP3.com, impaziente di cambiare faccia
all’industria musicale. Il suo obiettivo non era soltanto facilitare nuove modalità d’accesso ai materiali.
Puntava anche a rendere più semplice la creazione di contenuti nuovi. Contrariamente alle maggiori
etichette discografiche, MP3.com offriva agli autori un canale di distribuzione della loro creatività senza
chiedere in cambio un impegno esclusivo.
   Per far funzionare questo sistema, tuttavia, MP3.com aveva bisogno di una procedura affidabile per
proporre la musica agli utenti. L’idea alla base di questa proposta alternativa era di far leva sulle
preferenze espresse dagli ascoltatori per raccomandare loro nuovi artisti. Se seguite Lyle Lovett, è
probabile che vi piaccia anche Bonnie Raitt. E così via.
   Quest’idea aveva bisogno di un modo semplice per raccogliere i dati sulle preferenze degli utenti.
MP3.com mise a punto, a questo scopo, un sistema particolarmente ingegnoso. Nel gennaio del 2000,
l’azienda lanciò un servizio chiamato my.mp3.com. Grazie a un software fornito da MP3.com, l’utente
avrebbe potuto aprire un account e poi inserire un CD nel suo computer. Il software lo avrebbe
identificato per poi consentire l’accesso al relativo contenuto. Così, per esempio, se avevamo inserito un
CD di Jill Sobule, ovunque ci trovassimo - a casa o al lavoro - avremmo potuto accedere a quella musica
grazie al nostro account. Il sistema era, insomma, una specie di cassetto musicale chiuso a chiave.
   Indubbiamente qualcuno avrebbe potuto usare quel sistema per copiare illegalmente del materiale. Ma
quest’opportunità esisteva con o senza MP3.com. Lo scopo del servizio my.mp3.com era offrire agli
utenti un accesso ai propri contenuti e, di conseguenza, scoprire il materiale che già possedevano, in
modo da dedurre quali fossero i loro gusti.
   Perché questo sistema funzionasse, tuttavia, MP3.com doveva copiare su un server 50.000 CD. (In
linea di principio, sarebbe toccato all’utente caricare la musica, ma l’operazione avrebbe richiesto
parecchio tempo e fornito un prodotto di dubbia qualità.) Così MP3.com comprò 50.000 CD e diede
inizio alla procedura di copia. Come ho già detto, il servizio non avrebbe offerto il contenuto di quelle
copie a nessun altro se non a coloro che dimostravano di essere già in possesso di una copia del CD a cui
volevano accedere. Così, pur trattandosi di 50.000 copie, queste servivano a fornire ai clienti qualcosa
che avevano già acquistato.
   Nove giorni dopo il lancio del servizio, cinque delle maggiori etichette discografiche, capeggiate dalla
RIAA, presentarono denuncia contro MP3.com. Questa trovò un accordo con quattro delle cinque
etichette. Nove mesi più tardi, un giudice federale decretò la colpevolezza di MP3.com per violazione
intenzionale dei diritti della quinta. Applicando la legge alla lettera, il giudice impose all’azienda una

                                                   110
sanzione pari a 118 milioni di dollari. In seguito MP3.com si accordò con la querelante, Vivendi
Universal, e sborsò oltre 54 milioni. Circa un anno dopo Vivendi Universal acquistò MP3.com
   Fin qui la parte della vicenda che ho già narrato. Vediamone ora la conclusione. Dopo essere stata
acquisita da Vivendi, MP3.com ha presentato querela per scorrettezza professionale contro gli avvocati
che le avevano consigliato di basare la linea di difesa sulla buona fede, poiché il servizio che volevano
offrire sarebbe stato considerato legale in base alla legge sul copyright. La querela sosteneva che,
ovviamente, i tribunali avrebbero considerato illegale quel comportamento; l’azione intentata da
MP3.com/Vivendi, quindi, intendeva punire qualsiasi avvocato si fosse azzardato a suggerire che la legge
fosse meno restrittiva di quanto pretendevano le etichette discografiche.
   L’evidente obiettivo di questa azione legale (che si chiuse con un accordo tra le parti per una cifra che
non conosco, poco tempo dopo che la vicenda smise di apparire sulla stampa) era inviare un messaggio
inequivocabile agli avvocati che consigliavano i propri clienti in quest’ambito: non saranno soltanto
questi ultimi a soffrire se l’industria punta loro la pistola contro. Ci andrete di mezzo anche voi. Perciò se
pensate che la legge debba essere meno restrittiva, dovete rendervi conto che una simile posizione
costerà cara a voi e al vostro studio legale.
   Questa strategia non si limitava solo agli avvocati. Nell’aprile del 2003, Universal e EMI sporsero
denuncia contro Hummer Winblad, la società d’investimenti che aveva finanziato Napster in una certa
fase del progetto, il suo co-fondatore (John Hummer) e il partner commerciale (Hank Barry)4. Anche qui,
si sosteneva che la società investitrice avrebbe dovuto riconoscere il diritto dell’industria produttrice di
contenuti a controllare le modalità del proprio sviluppo. Avrebbe dovuto essere ritenuta responsabile per
aver finanziato un’azienda la cui attività commerciale si scoprì poi essere al di fuori della legge. Ancora
una volta, lo scopo della denuncia è trasparente: qualsiasi società di venture capital si deve ora rendere
conto che, se finanzia un’azienda la cui attività non è approvata dai dinosauri, rischia non soltanto sul
mercato ma anche nelle aule di giustizia. L’investimento porta non solo un’azienda ma, a volte, anche
un’azione legale. L’ambiente è divenuto talmente estremizzato che perfino i costruttori automobilistici
hanno timore delle tecnologie che toccano i contenuti. In un articolo sulla rivista Business 2.0, Rafe
Needleman descrive una discussione con la BMW:
   Chiesi perché, con tutta la capacità di memoria e la potenza del computer dell’autovettura, non era possibile leggere i
   file MP3. Mi venne risposto che gli ingegneri della BMW in Germania avevano allestito un nuovo veicolo in cui era
   possibile ascoltare gli MP3 tramite il sistema audio interno, ma l’ufficio marketing e l’ufficio legale dell’azienda non se
   la sentivano di includere quell’opzione nelle autovetture in vendita negli USA. Ancora oggi, negli Stati Uniti non viene
   venduta alcuna automobile dotata di lettore MP3 di serie ...5

   Questo è il mondo della mafia - che offre scelte tipo “o la borsa o la vita”, governato non dai tribunali
ma dalle minacce che la legge consente di esercitare ai titolari del copyright. È un sistema che
ovviamente e necessariamente soffoca l’innovazione. È già abbastanza difficile avviare un’azienda. Lo
diventa in modo impossibile, se tale azienda si trova sotto la costante minaccia di vertenze legali.
   Non sostengo che gli imprenditori debbano avere il diritto di avviare attività illegali. Il punto è la
definizione di “illegale”. La legge è un groviglio di incertezze. Non abbiamo alcun modo sicuro per
sapere come si debba applicarla alle nuove tecnologie. Eppure, ribaltando la tradizione di rispetto per la
giustizia e abbracciando le sanzioni assurdamente alte che impone la legge sul copyright, adesso tale
incertezza conduce a una realtà che è molto più conservatrice di quanto sia giusta. Se la legge decretasse
la pena di morte per una multa per divieto di sosta, non soltanto diminuirebbero le multe, ma si userebbe
molto meno l’auto. Lo stesso principio va applicato all’innovazione. Se questa viene costantemente
tenuta sotto controllo da una simile incertezza e da responsabilità legali senza limiti, la vitalità innovativa
e la creatività finiranno per diminuire parecchio.



                                                              111
   C’è un parallelismo fra questo punto e quello relativo al “fair use”. Qualunque sia la legge “reale”,
l’effetto concreto di tale legge è lo stesso in entrambi i contesti. Questo sistema di regole selvaggiamente
punitivo penalizzerà sistematicamente la creatività e l’innovazione. Proteggerà alcune industrie e alcuni
autori, ma danneggerà l’industria e la creatività in generale. Il libero mercato e la cultura libera
dipendono da una competizione vitale. L’effetto della legge attuale è invece proprio quello di soffocare
questo tipo di competitività. È quello di produrre una cultura super-regolata, così come l’effetto di un
eccessivo controllo sul mercato è quello di provocare un mercato esageratamente regolamentato.
   La costruzione di una cultura del permesso, in opposizione a quella libera, è il primo modo
significativo in cui i cambiamenti che ho illustrato peseranno sull’innovazione. Cultura del permesso
significa cultura degli avvocati - dove la capacità creativa richiede l’assistenza di un legale. Ribadisco,
non ho niente contro gli avvocati, almeno quando stanno nel posto giusto. Sicuramente non sono
contrario alla legge. Ma la nostra professione ha perso il senso del limite. E i suoi leader hanno perso il
senso dei costi elevati che tale professione impone agli altri. L’inefficienza della legge è motivo di
disagio per la nostra tradizione. E, mentre ritengo che la nostra professione debba fare tutto il possibile
per rendere più efficiente la legge, dovrebbe fare almeno quanto è in suo potere per limitarne il raggio di
azione, quando questa non produce nulla di buono. I costi di transazione sepolti all’interno della cultura
del permesso sono sufficienti a seppellire un’ampia gamma di creatività. Qualcuno dovrà faticare
parecchio per giustificare un simile risultato.
   L’incertezza della legge è uno dei fardelli che pesano sull’innovazione. Ce n’è un secondo che agisce
in maniera più diretta. È il tentativo di molti, nell’industria produttrice di contenuti, di usare la legge per
regolamentare direttamente la tecnologia di Internet in modo da proteggere meglio tali contenuti.
   Il motivo è ovvio. Internet consente un’efficace diffusione di materiale. L’efficienza infatti è una
caratteristica insita nel suo design. Ma dal punto di vista dell’industria tale caratteristica è un difetto.
L’efficacia nella diffusione dei contenuti rende difficile il controllo ai relativi distributori. Un’ovvia
risposta a questa efficienza sarebbe perciò rendere Internet meno efficace. Se la Rete rende possibile la
“pirateria,” allora dovremmo spezzarle le gambe.
   Esistono numerosi esempi di questa forma di legislazione. Sotto la pressione dell’industria dei
contenuti, alcuni membri del Congresso hanno minacciato normative che imporrebbero ai computer di
determinare se il materiale a cui hanno accesso sia tutelato o meno, e di disattivare la diffusione di
contenuti coperti dal diritto d’autore6. Il Congresso ha già avviato le procedure per studiare un “marchio
di trasmissione” obbligatorio, da impiantare in ogni apparecchio in grado di trasmettere video digitali
(per esempio, il computer), che bloccherebbe la copia di qualsiasi contenuto contrassegnato con quel
marchio. Altri membri del Congresso hanno proposto di non considerare responsabili i fornitori di
contenuti per l’eventuale implementazione di tecnologie mirate a localizzare chi commette infrazioni al
copyright e a disattivarne le macchine7.
   In un certo senso, queste soluzioni appaiono ragionevoli. Se il problema è il codice, perché non
regolamentarlo per eliminare il problema? Ma qualsiasi regolamentazione dell’infrastruttura tecnica sarà
sempre mirata a una specifica tecnologia corrente. Le imporrà pesi e costi significativi, ma
probabilmente sarà eclissata dai successivi sviluppi progettati per aggirare esattamente i suoi controlli.
   Nel marzo del 2002, un’ampia coalizione di aziende tecnologiche, capeggiata da Intel, tentò di
mostrare al Congresso il danno che avrebbe causato una simile legislazione8. Ovviamente non
sostenevano che non si dovesse tutelare il copyright. Piuttosto, sostenevano, qualunque protezione non
dovrebbe causare danni maggiori dei problemi che risolve.
   Questa guerra ha danneggiato l’innovazione anche in un altro modo evidente - ancora una volta, un
argomento ben noto a chi sostiene il libero mercato.


                                                     112
   Il copyright può essere una proprietà, ma come tutte le proprietà è anche una forma di
regolamentazione. Di un genere che rappresenta un vantaggio per alcuni e un danno per altri. Quando è
corretta, giova agli autori e nuoce alle sanguisughe. Quando non lo è, i potenti la usano per far fuori i
rivali.
   Come ho spiegato nel capitolo 10, nonostante questa caratteristica del copyright di rappresentare una
regolamentazione e di essere soggetto alle importanti condizioni delineate da Jessica Litman nel libro
Digital Copyright9, complessivamente questa storia del diritto d’autore non è del tutto negativa. Come
illustra in dettaglio il capitolo 10, con l’avvento delle nuove tecnologie, il Congresso ha raggiunto un
equilibrio per assicurare che il nuovo fosse protetto dal vecchio. Le licenze regolate dalla legge hanno
rappresentato una parte di questa strategia. Il libero uso (come nel caso del videoregistratore) un’altra.
   Ma ora quel modello di rispetto nei confronti delle nuove tecnologie si è modificato con l’ascesa di
Internet. Anziché raggiungere un equilibrio tra l’affermazione di una nuova tecnologia e i legittimi diritti
degli autori di contenuti, sia i tribunali che il Congresso hanno imposto restrizioni legali che avranno
l’effetto di soffocare il nuovo per avvantaggiare il vecchio.
   La risposta dei tribunali è stata praticamente universale10. Ne sono il riflesso le azioni minacciate e
messe in atto concretamente dal Congresso. Non ne farò qui l’elenco11. Ma c’è un esempio che ne coglie
l’essenza. È la storia della fine della radio via Internet.
   Come ho descritto nel capitolo 4, quando una stazione radio trasmette una canzone, il cantante non
viene compensato per questa “esecuzione radiofonica”, a meno che non ne sia anche l’autore. Perciò, se
per esempio Marilyn Monroe avesse registrato una versione di “Happy Birthday” - per ricordare la sua
famosa interpretazione davanti al Presidente Kennedy al Madison Square Garden - ogni volta che questa
registrazione venisse mandata in onda i detentori dei diritti del brano riceverebbero un compenso, ma
non Marilyn Monroe.
   Il ragionamento che sottende questo equilibrio raggiunto dal Congresso ha un senso. Si considerava la
radio una sorta di pubblicità. L’artista che aveva registrato la canzone beneficiava dal fatto che venisse
trasmessa, l’emittente contribuiva alla vendita dei suoi dischi. Per cui l’artista guadagnava a sua volta,
anche se soltanto in maniera indiretta. Probabilmente questo ragionamento badava meno al risultato che
al potere delle stazioni radio: i loro lobbisti furono piuttosto bravi a bloccare ogni tentativo del
Congresso di imporre una ricompensa per gli artisti che registravano canzoni di altri autori.
   Eccoci alla radio via Internet. Come le normali emittenti, si tratta di una tecnologia che diffonde i
contenuti da chi trasmette a chi ascolta. La trasmissione viaggia su Internet, non attraverso l’etere. Così
possiamo “sintonizzarci” su un’emittente Internet di Berlino standocene seduti a San Francisco, mentre
non potremmo farlo su una comune emittente poco oltre l’area metropolitana di San Francisco.
   Questa caratteristica dell’architettura della radio via Internet significa che potenzialmente esiste una
quantità illimitata di emittenti che un utente può ricevere tramite il computer, mentre nell’attuale
architettura della radio c’è un ovvio limite al numero di emittenti e di segnali puliti. Di conseguenza la
radio via Internet potrebbe essere più competitiva di quella normale; potrebbe fornire una gamma di
scelte più ampia. E poiché il pubblico potenziale è il mondo intero, le emittenti di nicchia potrebbero
facilmente sviluppare e commercializzare i contenuti per un numero relativamente elevato di ascoltatori a
livello mondiale. Secondo alcune stime, oltre ottanta milioni di utenti nel mondo hanno seguito questo
nuovo tipo di radio.
   La radio via Internet è dunque il corrispettivo di quella FM nei confronti della radio AM. Si tratta di
un miglioramento potenzialmente assai più significativo di quello della radio FM rispetto a quella AM,
poiché non soltanto la tecnologia è migliore, ma lo è anche la competitività. Esiste anzi un parallelo
diretto fra la battaglia per implementare la radio FM e quella per tutelare la radio via Internet. Cito la
descrizione, fatta da uno scrittore, della lotta di Howard Armstrong per dar vita alla radio FM:

                                                    113
   Nelle onde corte era possibile avere un numero pressoché illimitato di stazioni FM, ponendo così fine alle restrizioni
   innaturali imposte alla radio nelle affollate onde lunghe. Se la radio FM si fosse sviluppata liberamente, il numero di
   emittenti sarebbe stato contenuto soltanto dalla concorrenza e da questioni economiche anziché da limitazioni tecniche
   ... Armstrong paragonava la situazione venutasi a creare nella radiofonia a quella che seguì l’invenzione della macchina
   per la stampa, quando i governi e gli interessi al potere cercarono di controllare questo nuovo strumento per la
   comunicazione di massa imponendo licenze restrittive. Questa tirannia fu spezzata soltanto quando divenne possibile
   per la gente acquistare e usare liberamente queste macchine. In questo senso la radio FM fu un’invenzione importante
   tanto quanto i torchi di stampa, perché offriva alla radio l’opportunità di spezzare le proprie catene.12

   Questo potenziale offerto dalla radio FM non si concretizzò mai - non perché Armstrong si fosse
sbagliato su questa tecnologia, ma perché aveva sottovalutato il potere di “interessi, abitudini, usi e
normative ormai acquisiti”13 nel ritardare la crescita di questa tecnologia competitiva.
   Oggi un’identica condizione può valere anche per la radio via Internet. Perché, anche in questo caso,
non esistono limiti tecnici in grado di frenare il numero delle emittenti su Internet. Le uniche restrizioni
sono quelle imposte dalle leggi. Una di queste è il copyright. Perciò la prima domanda che dovremmo
porci è: quali norme sul copyright dovrebbero governare la radio via Internet?
   Ma qui il potere dei lobbisti rovescia la situazione. La radio via Internet è un’industria nuova. Gli
artisti che registrano musica di altri compositori, d’altra parte, hanno una lobby assai potente, la RIAA.
Così quando il Congresso considerò il fenomeno della radiofonia su Internet nel 1995, i lobbisti avevano
imbeccato i parlamentari perché adottassero una normativa differente da quella applicata alla radio
terrestre. Mentre quest’ultima non deve pagare la nostra ipotetica Marilyn Monroe quando manda in
onda l’ipotetica registrazione di “Happy Birthday”, la radio via Internet deve farlo. La legge non è
imparziale - impone maggiori costi alla radio via Internet di quanto non faccia con quella terrestre.
   Questo peso finanziario non è cosa da poco. Secondo le stime di William Fisher, professore di legge a
Harvard, se un’emittente su Internet distribuisse musica di successo senza inserzioni pubblicitarie a
(mediamente) diecimila ascoltatori, per ventiquattro ore al giorno, i diritti che dovrebbe pagare agli
artisti, complessivamente ammonterebbero a oltre un milione di dollari l’anno14. Una normale stazione
radio che trasmettesse il medesimo materiale non sarebbe soggetta a tariffe equivalenti.
   Il peso non è soltanto finanziario. In base alle regole originariamente proposte, un’emittente radio su
Internet (ma non una terrestre) dovrebbe raccogliere i seguenti dati relativi a ciascuna transazione
d’ascolto:
  1.   nome del servizio;
  2.   canale del programma (le stazioni AM/FM usano il rispettivo nome);
  3.   tipo di programma (archiviato/circuito chiuso/dal vivo);
  4.   data di trasmissione;
  5.   orario di trasmissione;
  6.   fuso orario del luogo d’origine della trasmissione;
  7.   designazione numerica del luogo dove viene registrato il sonoro all’interno del programma;
  8.   durata della trasmissione (arrotondata al secondo);
  9.   titolo della registrazione sonora;
 10.   codice numerico di registrazione (ISRC, International Standard Recording Code);
 11.   anno di pubblicazione dell’album riportato sull’avviso di copyright e, nel caso di raccolte, anno di
       pubblicazione dell’album e data del copyright del pezzo;
 12.   artisti presenti nella registrazione;
 13.   titolo dell’album in commercio;
 14.   etichetta discografica;
 15.   numero di codice dell’album in commercio (UPC, Universal Product Code)

                                                            114
 16.   numero di catalogo;
 17.   informazioni sul titolare del copyright;
 18.   genere musicale del canale o del programma (formato dell’emittente);
 19.   nome del servizio o dell’entità;
 20.   canale o programma;
 21.   data e orario in cui l’utente si è collegato (nel fuso orario dell’utente);
 22.   data e orario in cui l’utente si è scollegato (nel fuso orario dell’utente);
 23.   fuso orario dove è stato ricevuto il segnale (utente);
 24.   identificativo univoco dell’utente;
 25.   paese in cui l’utente ha ricevuto le trasmissioni.
   Successivamente il responsabile della Biblioteca del Congresso sospese la comunicazione di questi
requisiti, in attesa di ulteriori indagini. E modificò anche le tariffe iniziali stabilite dall’apposito gruppo
d’arbitrato. Ma rimane la differenza fondamentale tra la radio via Internet e quella terrestre: la prima
deve pagare un tipo di tariffa sul copyright che non si applica alla seconda.
   Perché? Che cosa giustifica questa differenza? Esisteva qualche studio sulle conseguenze economiche
della radio via Internet che potesse giustificare simili diversità? Il motivo era forse quello di tutelare gli
artisti contro la pirateria?
   In un raro momento di franchezza, un esperto della RIAA ammise quel che allora parve ovvio a tutti.
Come mi riferì Alex Alben, vicepresidente responsabile delle politiche pubbliche di Real Networks,
   la RIAA, che rappresentava le etichette discografiche, presentò alcune testimonianze su quanto si riteneva che un
   possibile acquirente avrebbe pagato a un potenziale rivenditore, e la cifra era molto alta. Era dieci volte superiore a
   quanto paga un’emittente radiofonica per trasmettere le stesse canzoni nello stesso lasso di tempo. E così gli avvocati
   che rappresentavano le emittenti Web chiesero alla RIAA: “Come fate ad arrivare a una tariffa talmente superiore?
   Come mai la radio via Internet vale più della radio normale? Perché qui abbiamo centinaia di migliaia di radio che
   vogliono trasmettere sul Web e sono pronte a pagare, ed è questo che dovrebbe stabilire la tariffa sul mercato, e se voi
   fissate una cifra così elevata, farete fallire le emittenti più piccole...”

   E gli esperti della RIAA risposero: “Beh, un modello industriale con migliaia di emittenti Web non è esattamente
   quello che ci immaginiamo; pensiamo a un’industria con cinque o al massimo sette grandi società in grado di pagare
   tariffe elevate, e così avremo un mercato stabile, prevedibile”. (Corsivo aggiunto.)

   Traduzione: l’obiettivo è usare la legge per eliminare la competizione, in modo che questa piattaforma
con potenzialità di competizione immense, che potrebbe causare un’esplosione per la diversità e
l’ampiezza di materiale disponibile, non faccia del male ai dinosauri del vecchio sistema. Non dovrebbe
esserci nessuno, di destra o di sinistra, che sostenga un simile utilizzo della legge. E tuttavia non esiste
praticamente nessuno, di destra o di sinistra, che stia facendo qualcosa di concreto per impedirlo.


                                    Corrompere i cittadini
   L’eccesso di regolamentazione soffoca la creatività. Danneggia l’innovazione. Offre ai dinosauri
un’opzione di veto sul futuro. Spreca un’eccezionale opportunità di creatività democratica resa possibile
dalla tecnologia digitale.
   Oltre a questi danni sostanziali, ce n’è ancora uno che era importante per i padri fondatori, ma che
oggi sembra dimenticato. Un’eccessiva regolamentazione corrompe i cittadini e indebolisce l’autorità
legislativa.
   La guerra dichiarata oggi è una guerra di proibizione. Come succede in questi casi, essa vuole colpire
il comportamento di un numero assai alto di cittadini. Secondo il New York Times nel maggio del 2002,
43 milioni di americani avevano scaricato musica15. Secondo la RIAA, il comportamento di questi 43

                                                            115
milioni di americani è un reato grave. Così abbiamo una serie di norme che trasformano in criminali il 20
per cento degli americani. Mentre la RIAA sporge denunce non soltanto contro i Napster e i Kazaa del
mondo, ma contro studenti che sviluppano motori di ricerca e, sempre più spesso, contro semplici utenti
che scaricano materiale, le tecnologie di condivisione diventeranno sempre più sofisticate, per tutelare e
nascondere l’uso illegale. È una corsa alle armi o una guerra civile, in cui gli estremisti di una fazione
invitano l’altra a una reazione ancora più estrema.
   Le tattiche dell’industria produttrice di contenuti approfittano delle pecche del sistema giuridico
americano. Quando la RIAA querelò Jesse Jordan, sapeva di aver trovato in lui un capro espiatorio, non
un imputato. La minaccia di dover pagare tutto il denaro del mondo per risarcire i danni (15.000.000 di
dollari) oppure quasi tutto il denaro del mondo per difendersi (250.000 dollari di spese legali) convinse
Jordan a scegliere di pagare tutto il denaro che aveva al mondo (12.000 dollari), per fare archiviare la
denuncia. Identica strategia anima le citazioni della RIAA contro singoli utenti. Nel settembre del 2003,
la RIAA querelò 261 persone - compresa una dodicenne che viveva in una casa popolare e un settantenne
che non aveva la minima idea di che cosa fosse il file sharing16. Come questi capri espiatori hanno
dimostrato, costerà sempre più caro difendersi contro queste denunce piuttosto che trovare
semplicemente un accordo. (La dodicenne, per esempio, come fece Jesse Jordan, pagò i 2.000 dollari che
aveva in banca per chiudere il caso.) La nostra legislazione è un sistema terribile per quanto riguarda la
difesa dei diritti. È una vergogna per la nostra tradizione. E le conseguenze sono che i potenti possono
usarla per schiacciare qualsiasi diritto si opponga loro.
   Le guerre proibizioniste non sono affatto nuove in America. Questa non è altro che la più estrema di
tutte le altre viste in passato. Abbiamo iniziato con il proibizionismo contro l’alcol, in un’epoca in cui se
ne consumavano quasi sei litri all’anno pro capite. Inizialmente questa guerra ridusse il consumo di
alcolici ad appena il 30 per cento di quello antecedente il proibizionismo, ma alla fine si era risaliti al 70
per cento. Gli americani consumavano alcol quasi quanto prima, con la differenza che molti di loro erano
diventati dei criminali17. Abbiamo dichiarato guerra alle droghe con l’obiettivo di ridurre il consumo dei
narcotici legalizzati, oggi usati dal 7 per cento degli americani (16 milioni)18. Si tratta di una
diminuzione, rispetto al 14 per cento della popolazione registrato nel 1979. Regolamentiamo l’uso
dell’automobile a tal punto che la maggioranza degli americani viola quotidianamente la legge. Abbiamo
un sistema fiscale talmente complesso che gran parte delle aziende lo truffano regolarmente19. Ci
vantiamo della nostra “società libera”, ma un’enorme gamma di comportamenti comuni sono
regolamentati al suo interno. E, come risultato, una quantità enorme di americani viola almeno qualche
legge.
   Questa situazione non è priva di conseguenze. È un problema particolarmente rilevante per chi, come
me, fa l’insegnante, e ha il compito di insegnare agli studenti di giurisprudenza l’importanza dei “valori
etici”. Come disse in una lezione il mio collega di Stanford, Charlie Nesson, ogni anno le facoltà di
giurisprudenza accettano migliaia di studenti che hanno scaricato musica, consumato alcol e talvolta
droghe, lavorato senza pagare le tasse, guidato macchine, il tutto illegalmente. Si tratta di ragazzi per i
quali il comportamento illegale è sempre più spesso la norma. E poi noi, i loro professori di legge,
dovremmo insegnare loro il rispetto dell’etica professionale - dire di no alle bustarelle, tenere separati i
fondi bancari dei clienti, oppure onorare la richiesta di presentare un documento che comporterà la
chiusura del caso. Generazioni di americani - in modo più significativo in alcune aree rispetto ad altre,
ma comunque in ogni parte dell’America di oggi - non possono vivere in un modo che sia normale e
legale insieme, perché “normale” implica un certo grado di illegalità.
   La risposta a questa illegalità diffusa è applicare la legge più severamente oppure modificarla. In
quanto società, abbiamo imparato come operare questa scelta in un modo più razionale. Per decidere la
sensatezza o meno di una legge si considera, almeno in parte, se i costi, previsti e collaterali, superano i

                                                     116
benefici. Se è così, allora la norma va modificata. Oppure, se i costi del sistema vigente sono parecchio
superiori a quelli di un eventuale sistema alternativo, allora abbiamo una buona ragione per prendere in
considerazione quest’ultimo.
   La mia argomentazione non è semplicistica: solo perché la gente viola una legge, allora dovremmo
cancellarla. Ovviamente, potremmo ridurre notevolmente le statistiche degli omicidi legalizzandoli ogni
mercoledì e venerdì. Ma ciò non avrebbe alcun senso, perché l’omicidio è un crimine tutti i giorni della
settimana. La società fa bene a vietare l’assassinio sempre e ovunque.
   La mia idea è piuttosto qualcosa che le democrazie hanno compreso per generazioni, ma che
recentemente hanno imparato a dimenticare. L’autorità delle leggi dipende dal fatto che la gente le
rispetti. Se, come cittadini, ci troviamo a violare la legge sempre più spesso, e sempre più ripetutamente,
finiamo per rispettarla meno. Naturalmente, nella maggioranza dei casi, ciò che conta è la legge, non il
fatto che la si rispetti. Non mi interessa se lo stupratore rispetta o meno la legge; voglio catturarlo e
sbatterlo in prigione. Però mi preme che i miei studenti la rispettino. E mi importa se le norme seminano
una crescente mancanza di rispetto, a causa dell’estrema regolamentazione che impongono. Venti milioni
di americani sono diventati maggiorenni da quando Internet ha introdotto questa idea diversa di
“condivisione”. Abbiamo bisogno di poter chiamare questi venti milioni di americani “cittadini”, non
“criminali”.
   Quando almeno quarantatré milioni di cittadini scaricano materiali da Internet, e quando usano
strumenti che manipolano quei materiali in modo non autorizzato dai titolari del copyright, la prima
domanda che ci dovremmo porre non è come coinvolgere l’FBI nel modo più efficace. Dovrebbe essere
piuttosto se questa specifica proibizione sia davvero necessaria per raggiungere i fini a cui mira la legge
sul copyright. Esiste un altro modo per assicurare il debito compenso agli artisti senza trasformare in
criminali quarantatré milioni di americani? Non sarebbe sensato trovare modalità diverse per garantire
che gli autori vengano pagati, senza trasformare l’America in un paese di criminali?
   Questo discorso astratto può essere chiarito da un esempio concreto. Tutti noi possediamo dei CD.
Molti possiedono ancora dischi in vinile. Questi pezzi di plastica codificano la musica che in un certo
senso abbiamo acquistato. La legge tutela il nostro diritto a comprare e rivendere quella plastica: non
commettiamo alcuna infrazione al copyright se rivendiamo tutti i nostri dischi di musica classica a un
negozio di dischi usati e in sostituzione ne acquistiamo altri di jazz. Un simile “uso” della registrazione è
libero.
   Ma, come ha dimostrato l’esplosione dell’MP3, c’è un altro uso dei dischi che in effetti è libero.
Poiché queste registrazioni sono state eseguite senza le tecnologie di protezione dalla copia, siamo
“liberi” di copiare la musica di quei dischi di vinile nel disco rigido del computer. Anzi, la Apple
Corporation si è spinta fino a suggerire che quella “libertà” era un diritto: in una serie di inserzioni
pubblicitarie (“Rip, Mix, Burn”, digitalizza, mescola, brucia), la Apple ha dato sostegno alle potenzialità
delle tecnologie digitali.
   Questo “uso” dei nostri dischi torna certamente utile. A casa ho iniziato l’impegnativo procedimento
di copiare tutti i CD miei e di mia moglie, per organizzarli in un archivio. Poi, usando iTunes della
Apple, o un meraviglioso programma chiamato Andromeda, possiamo mettere insieme varie raccolte
della nostra musica: Bach, barocco, canzoni d’amore - il potenziale è infinito. E, riducendo i costi del
missaggio dei pezzi, queste tecnologie aiutano a costruire raccolte creative, che costituiscono qualcosa di
valido e indipendente. Le raccolte di canzoni sono creative e significative in quanto tali.
   Questo utilizzo è possibile grazie ai supporti non protetti - CD o dischi. Ma tali supporti consentono
anche il file sharing. Il quale minaccia (o almeno così ritiene l’industria produttrice di contenuti) la
possibilità degli autori di ricavare i giusti proventi della propria creatività. E così molti hanno iniziato a
sperimentare tecnologie atte a eliminare i supporti non protetti. Queste tecnologie, per esempio,

                                                     117
potrebbero produrre CD che non possono essere copiati. Oppure attivare programmi spia per identificare
i contenuti copiati sui computer della gente.
   Se tali tecnologie dovessero decollare, allora diverrà piuttosto difficile realizzare grandi archivi della
propria musica. Frequentando qualche giro di hacker sarà possibile acquisire tecnologie per disattivare la
protezione dei contenuti. Lo scambio di tali tecnologie è illegale, ma forse non ce ne importa granché.
Comunque, per moltissime persone, simili tecnologie di protezione distruggerebbero praticamente la
possibilità di archiviare i CD. La tecnologia, in altri termini, ci riporterebbe tutti al passato, nel mondo in
cui ascoltavamo la musica manipolando pezzi di plastica oppure facevamo parte di un sistema
estremamente complicato di “gestione dei diritti digitali”.
   Se l’unico modo per assicurare agli artisti il giusto compenso fosse l’eliminazione della possibilità di
spostare i contenuti liberamente, allora queste tecnologie che interferiscono con tale libertà sarebbero
giustificate. Ma che cosa accadrebbe, se esistesse un’altra possibilità per assicurare che gli artisti
vengano pagati, senza mettere sotto chiave i contenuti? Se, in altre parole, un diverso sistema potesse
assicurare la remunerazione agli artisti preservando nello stesso tempo la libertà di spostare facilmente i
contenuti?
   Il mio scopo, per adesso, non è provare l’esistenza di tale sistema. Ne offro una versione nel capitolo
conclusivo del libro. Per ora, l’unica questione, relativamente controversa, è questa: se un sistema
differente raggiunge i medesimi obiettivi legittimi offerti dall’attuale sistema del copyright, lasciando
però molto più liberi consumatori e autori, allora avremo un ottimo motivo per aspirare a questa
alternativa - vale a dire, la libertà. La scelta, in altri termini, non sarebbe tra proprietà e pirateria; si
potrebbe scegliere tra i diversi sistemi di proprietà e la libertà che ciascuno di questi concederebbe.
   Credo che esista un modo per compensare gli artisti senza criminalizzare quarantatré milioni di
americani. Ma la caratteristica essenziale di questa alternativa è che darebbe vita a un mercato assai
diverso per la produzione e la distribuzione della creatività. I pochi che dominano, che oggi controllano
la grande maggioranza della distribuzione dei contenuti nel mondo, non eserciterebbero più questo
controllo così estremo. Al contrario, il loro controllo si restringerebbe, come se salissero su un calesse a
cavalli.
   A parte il fatto che i costruttori di calessi di questa generazione hanno già messo la sella al Congresso,
e stanno cavalcando la legge per tutelare se stessi contro questa nuova forma di competizione. Per loro la
scelta è criminalizzare quarantatré milioni di americani o sopravvivere.
   Si capisce il perché della loro scelta. Non si capisce invece perché noi, come democrazia, continuiamo
a fare scelte del genere. Jack Valenti è affascinante; ma non fino al punto da giustificare l’abbandono di
una tradizione così profonda e importante come quella della cultura libera.
   C’è un ulteriore aspetto di questa corruzione che è particolarmente importante per le libertà civili, e
che discende direttamente da ogni guerra proibizionista. Come spiega Fred von Lohmann, avvocato della
Electronic Frontier Foundation, questo è il “danno collaterale” che “si verifica ogni volta che viene
criminalizzata una percentuale così ampia di popolazione”. È il danno collaterale che colpisce le libertà
civili in generale.
   “Se possiamo trattare chiunque come un potenziale trasgressore della legge”, dice von Lohmann,
   allora improvvisamente molte delle protezioni fondamentali garantite delle libertà civili, entro certi limiti, si dileguano
   ... Se si viola il copyright, come si può sperare di avere diritto alla riservatezza? Se si viola il copyright, come si può
   sperare di essere al sicuro dal sequestro del computer? Come si può sperare di continuare a poter accedere a Internet? ...
   La nostra sensibilità cambia non appena iniziamo a pensare: “Oh, beh, ma quello è un criminale, uno che infrange la
   legge”. Già, la conseguenza di questa campagna contro il file sharing è stata quella di trasformare una notevole
   percentuale degli utenti americani di Internet in persone che “infrangono la legge”.




                                                              118
   E la conseguenza di questa trasformazione dei cittadini americani in criminali è che si considera
questo fatto insignificante, come se eliminare gran parte di quella riservatezza che molti ritenevano
scontata fosse un procedimento conveniente.
   Gli utenti di Internet iniziarono a notarlo in generale nel 2003, quando la RIAA lanciò la campagna
per costringere i provider di servizi Internet a rivelare i nomi degli utenti che, secondo lei, stavano
violando la legge sul copyright. Verizon si oppose a quella richiesta e perse la causa. Con una semplice
richiesta al giudice, e senz’alcun avviso al diretto interessato, l’identità di un utente di Internet viene
rivelata.
   Successivamente la RIAA estese la campagna, annunciando la strategia generale di denunciare gli
utenti sospettati di aver scaricato musica protetta da copyright dai sistemi di file sharing. Ma, come
abbiamo visto, i danni potenziali di queste denunce sono astronomici: se si usa il computer di casa per
scaricare l’equivalente di un solo CD musicale, l’intera famiglia potrebbe essere citata per danni pari a 2
milioni di dollari. Ciò non impedì alla RIAA di denunciare un certo numero di famiglie, così come aveva
fatto con Jesse Jordan20.
   Ma questo è niente rispetto all’attività di spionaggio condotta dalla RIAA. Un rapporto della CNN
dell’estate del 2003 descriveva la strategia adottata dalla RIAA per scoprire gli utenti di Napster21.
Usando un sofisticato algoritmo, la RIAA rilevò quel che in effetti è l’impronta digitale di ogni canzone
presente nel catalogo di Napster. Ogni copia di uno di quei file MP3 avrà la medesima “impronta
digitale”.
   Consideriamo allora il seguente scenario tutt’altro che irreale: immaginiamo che un amico regali un
CD a nostra figlia - una raccolta di canzoni proprio come le cassette che eravate soliti fare da ragazzi.
Non sappiamo, né lo sa nostra figlia, da dove provengano queste canzoni. Ma lei decide di copiarle sul
computer. Poi porta con sé il computer al college e lo collega alla rete interna, e se questa “coopera” con
lo spionaggio della RIAA, e lei non ha protetto adeguatamente i contenuti del computer dalla rete (voi
sapreste come fare?), allora la RIAA potrà identificare vostra figlia. E, in base alle regole che le
università stanno iniziando ad applicare22, vostra figlia potrebbe perdere il diritto a usare la rete
informatica dell’università. In qualche caso, potrebbe essere espulsa.
   Naturalmente lei avrà il diritto di difendersi. Potete assumere un avvocato (a 300 dollari l’ora, se siete
fortunati) e lei potrà spiegare che non sapeva nulla sulla provenienza delle canzoni o che venivano da
Napster. E potrà anche darsi che l’università le creda. Ma potrebbe anche non crederle. Potrebbe
considerare questo “contrabbando” come presunzione di colpevolezza. E, come parecchi studenti di
college hanno già avuto modo di scoprire, la nostra presunzione di innocenza scompare nella furia di una
guerra proibizionista. Questa guerra non è affatto diversa.
   Sostiene von Lohmann:
   Perciò quando parliamo di cifre tipo quaranta-sessanta milioni di americani che sostanzialmente hanno violato il
   copyright, si crea una situazione in cui le libertà civili sono in grave pericolo in senso generale. [Non] credo [esista]
   una situazione analoga in cui sia possibile scegliere a caso una persona qualsiasi, che cammina per la strada, e ritenere
   che stia commettendo un atto contro la legge, che possa incastrarlo con l’accusa di un potenziale reato penale, oppure
   con una multa di centinaia di milioni di dollari per responsabilità civili. Sicuramente tutti noi guidiamo oltre i limiti di
   velocità, ma questo non è il tipo di azione per la quale di solito perdiamo le libertà civili. Alcuni fanno uso di droghe, e
   credo che questa sia la situazione più vicina, [ma] molti hanno fatto notare che la guerra contro le droghe ha eroso tutte
   le libertà civili, perché ha trattato come criminali un così alto numero di americani. Beh, credo sia corretto dire che il
   file sharing interessi un numero di americani molto maggiore di quello che fa uso di droghe ... Se da quaranta a
   sessanta milioni di americani stanno violando la legge, allora stiamo davvero scivolando lungo una china che porta alla
   perdita di gran parte delle libertà civili per tutti quei milioni di persone.

  Quando milioni di americani vengono considerati “criminali” a norma di legge, e quando la legge
potrebbe raggiungere lo stesso obiettivo - assicurare i diritti agli autori - senza bisogno di considerare

                                                              119
“criminali” milioni di persone, chi è il cattivo della situazione? Gli americani o la legge? Che cos’è
americano, la guerra continua contro i nostri stessi concittadini oppure uno sforzo organizzato della
nostra democrazia per modificare la legge?




                                                    120
                                                Capitolo 13


                                               Eldred


   Nel 1995 un padre si sentiva frustrato perché le figlie non sembravano apprezzare Nathaniel
Hawthorne. Senza dubbio di padri come lui ce n’erano parecchi, ma almeno uno decise di fare qualcosa.
Eric Eldred, programmatore in pensione residente nel New Hampshire, decise di mettere Hawthorne sul
Web. Una versione elettronica, pensò Eldred, con link a immagini e a note, poteva rendere più viva
l’opera del romanziere ottocentesco.
   La cosa non funzionò - almeno per le sue figlie, che non trovarono Hawthorne più interessante di
prima. Ma l’esperimento di Eldred diede vita a un nuovo hobby e questo hobby a sua volta generò un
impegno: Eldred avrebbe costituito una biblioteca di opere di pubblico dominio copiandole con lo
scanner e rendendole disponibili gratuitamente.
   La biblioteca di Eldred non era costituita semplicemente da copie di opere di dominio pubblico, anche
se una semplice copia era comunque preziosa per chi nel mondo non aveva la possibilità di accedere alle
versioni stampate. In realtà, Eldred produceva opere derivate da quelle di dominio pubblico. Proprio
come Disney era riuscito a rendere più accessibili ai ragazzi del XX secolo le fiabe dei fratelli Grimm,
Eldred trasformò Hawthorne, e molti altri autori, rendendoli più accessibili dal punto di vista tecnico.
   La libertà che Eldred si prese con l’opera di Hawthorne aveva le stesse origini di quella di Disney. Il
romanzo di Hawthorne, La lettera scarlatta (Scarlet Letter), era divenuto di pubblico dominio nel 1907.
Chiunque poteva appropriarsene liberamente senza il permesso degli eredi di Hawthorne. Diverse case
editrici, come la Dover Press e la Penguin Classics, scelgono opere di dominio pubblico e ne stampano
varie edizioni, rivendendole poi in tutte le librerie del paese. Altri, come la Disney, si ispirano a queste
trame per trasformarle in cartoni animati, talvolta con successo (Cenerentola) e altre volte meno (Il
gobbo di Notre-Dame, Treasure Planet). Si tratta di pubblicazioni commerciali di opere di dominio
pubblico.
   Internet ha creato la possibilità di pubblicare opere di dominio pubblico in ambito non commerciale.
Eldred è soltanto un esempio, perché ne esistono altre migliaia. In ogni parte del mondo, centinaia di
migliaia di persone hanno scoperto questo sistema e ora lo utilizzano per condividere opere che, a norma
di legge, sono liberamente a disposizione di chiunque voglia ripubblicarle. Tutto questa ha dato vita a
quella che potremmo definire “l’industria editoriale non commerciale” che, prima dell’avvento di
Internet, era limitata a persone dotate di un ego molto marcato oppure dedite a cause sociali o politiche,
ma che, con l’avvento di Internet, ha finito per coinvolgere una vasta gamma di individui e di gruppi che
si dedicano alla diffusione della cultura in generale1.
   Come dicevo, Eldred vive nel New Hampshire. Nel 1998, la raccolta di poesie di Robert Frost
intitolata New Hampshire era prossima a diventare di pubblico dominio ed Eldred voleva inserirla nella
sua libera biblioteca pubblica. Ma ci si mise di mezzo il Congresso. Come ho illustrato nel capitolo 10,
nel 1998, per l’undicesima volta in quarant’anni, il Congresso prorogò la durata del copyright - questa
volta di vent’anni. Fino al 2019 Eldred non avrebbe potuto aggiungere alla sua collezione nessuna opera
che fosse più recente del 1923. Infatti nessun lavoro tutelato da copyright sarebbe diventato di pubblico
dominio fino a quell’anno (e neppure allora, se il Congresso decidesse di prolungare nuovamente la



                                                    121
scadenza). Per contrasto, nello stesso periodo più di un milione di brevetti sarebbe diventato di pubblico
dominio.
   Si trattava del Sonny Bono Copyright Term Extension Act, promulgato in memoria del parlamentare
ed ex cantante Sonny Bono, il quale, come ricorda la vedova Mary Bono, sosteneva che “il diritto
d’autore deve durare per sempre2.”
   Eldred decise di combattere questa legge. In un primo momento ricorse alla disobbedienza civile. In
una serie di interviste annunciò che avrebbe continuato le sue pubblicazioni, come previsto, nonostante
l’approvazione del Sonny Bono Copyright Term Extension Act. Ma una seconda legge passata nel 1990,
il NET (No Electronic Theft Act), avrebbe trasformato in reato grave continuare quel tipo di
pubblicazioni - indipendentemente dalla presentazione di eventuali querele. Era una strada pericolosa per
un programmatore disabile.
   Fu a questo punto che venni coinvolto nella sua battaglia. In veste di studioso della Costituzione
americana, ciò che mi appassionava maggiormente era la sua interpretazione. E sebbene nessun corso di
diritto costituzionale approfondisca l’articolo riguardante il progresso, questo mi aveva sempre colpito
per la sua unicità. Secondo la Costituzione:
   il Congresso ha il potere di promuovere il progresso della scienza ... assicurando per periodi di tempo limitato agli
   Autori ... i diritti esclusivi sui loro ... scritti ...

   Come ho detto, questo punto è unico nell’ambito dell’Articolo I, sezione 8 della nostra Costituzione,
riguardante l’assegnazione dei poteri. Tutti gli altri articoli che conferiscono autorità al Congresso
affermano semplicemente che quest’organo ha il potere di fare qualcosa - ad esempio, “regolare il
commercio tra diversi Stati” o “dichiarare guerra”. Ma in tal caso, si tratta di qualcosa di più specifico:
“promuovere ... il progresso” tramite determinati mezzi, ossia “assicurando” i “diritti esclusivi” (cioè, il
copyright) “per periodi di tempo limitato”.
   Negli ultimi quaranta anni il Congresso ha adottato la pratica di prolungare i termini in vigore per la
tutela del copyright. Ciò che mi lascia perplesso è il fatto che, se il Congresso ha il potere di prorogare la
durata, allora il requisito costituzionale che prescrive che i periodi di tempo debbano essere “limitati”
non ha alcun effetto pratico. Se ogni volta che un copyright sta per scadere, il Congresso ha l’autorità di
estenderlo, allora esso può permettere ciò che viene espressamente proibito dalla Costituzione - la durata
perpetua del copyright “con un piano di acquisto rateale”, secondo l’azzeccata definizione del professor
Peter Jaszi.
   Come studioso, la mia prima reazione fu quella di mettermi immediatamente a consultare i libri.
Ricordo di aver fatto le ore piccole nel mio studio, cercando tra i database online testi che analizzassero
seriamente la questione. Nessuno aveva mai contestato la pratica del Congresso di estendere i termini
correnti. Questa mancanza può in parte spiegare il motivo per cui il Congresso non dava segni di
preoccupazione per una simile abitudine. Inoltre tale pratica era diventata piuttosto redditizia. Il
Congresso sa che gli autori sono disposti a sborsare fior di quattrini per vedersi prorogare la durata del
copyright. Ed è naturalmente ben contento che tale cuccagna continui.
   È proprio questo il cuore della corruzione dell’attuale sistema di governo. “Corruzione” non nel senso
classico che vede i rappresentanti accettare tangenti. Piuttosto nel senso che il sistema induce chi trae
benefici dalle norme congressuali a raccogliere fondi e a donarli al Congresso, incoraggiandolo ad agire
in questa direzione. Il tempo è scarso e il Congresso non può deliberare più che tanto. Perché allora non
limitarsi alle deliberazioni davvero necessarie - e a quelle che portano benefici economici? Una di queste
è l’estensione della durata del diritto d’autore.
   Se il meccanismo non vi fosse ancora chiaro, prendiamo in considerazione il seguente scenario.
Poniamo il caso che siate uno di quei pochi ma fortunati titolari di copyright che continuano a ricevere
utili cento anni dopo l’assegnazione. Un buon esempio è quello degli eredi patrimoniali di Robert Frost.

                                                           122
Egli morì nel 1963. Le sue poesie continuano a essere molto vendute. Gli eredi traggono parecchi
vantaggi da qualsiasi proroga del copyright, poiché nessuna casa editrice, se si potessero pubblicare
gratuitamente le poesie di Frost, pagherebbe loro dei diritti.
   Poniamo allora che gli eredi guadagnino 100.000 dollari l’anno da tre delle sue opere. E supponiamo
anche che il relativo copyright stia per scadere. Immaginiamo che facciate parte del Consiglio
d’amministrazione degli eredi patrimoniali di Robert Frost. Il vostro consigliere finanziario presenta alla
riunione di Consiglio una relazione decisamente cupa:
   “L’anno prossimo,” annuncia il consigliere, “scadrà il copyright per le opere A, B e C. Questo
significa che dal prossimo anno non riceveremo più l’assegno annuale di 100.000 dollari da parte dei loro
editori.
   “C’è però un disegno di legge presentato al Congresso”, prosegue il consulente, “che potrebbe
cambiare le cose. Alcuni parlamentari hanno avanzato una proposta che estenderebbe il diritto d’autore
per altri vent’anni. È una proposta di eccezionale importanza per noi. Speriamo quindi che il disegno di
legge venga approvato.”
   “Sperare?” interviene un membro del consiglio. “Non si può far niente perché venga approvato?”
   “Sì, certo che si può”, replica il consulente. “Potremmo contribuire alla campagna elettorale di un
certo numero di parlamentari per cercare di assicurarci il loro sostegno alla proposta di legge.”
   Odiate la politica. Odiate dare contributi per le campagne elettorali. Perciò volete sapere se vale la
pena di procedere con questa pratica disgustosa. “Quanto guadagneremmo se la proroga venisse
approvata?”, chiedete quindi al consigliere. “Quanto varrebbe?”
   “Beh,” è la sua risposta, “se siete sicuri che continuerete a ricavare almeno 100.000 dollari l’anno da
questi copyright, e se vi basate sul ‘tasso di interesse’ utilizzato per valutare gli investimenti immobiliari
(6 per cento), questa legge potrebbe portare agli eredi 1.146.000 dollari.”
   Rimanete un po’ scioccato dalla cifra, ma arrivate rapidamente alla conclusione giusta: “Quindi lei sta
dicendo che varrebbe la pena di investire più di 1.000.000 di dollari in contributi alle campagne elettorali
se fossimo sicuri che possano garantire l’approvazione del disegno di legge?”
   “Certamente”, risponde il consigliere. “Vi conviene contribuire con una somma che raggiunga il
‘valore attuale’ degli utili che prevedete di guadagnare da questi copyright. Che in questo caso significa
oltre un milione di dollari.”
   Afferrate subito la situazione - come membro del Consiglio d’amministrazione e, sicuramente, come
semplice lettore. Ogni volta che il diritto d’autore sta per scadere, gli eredi di Robert Frost si trovano
davanti alla stessa scelta: se possono contribuire all’approvazione di una legge per estendere i termini del
copyright ne ricaveranno grossi benefici. E così, ogni volta che ci si approssima alla scadenza, si scatena
una massiccia campagna di lobby per prorogare la durata del diritto d’autore.
   Ecco allora la macchina congressuale dal moto perpetuo: finché è possibile comprare la legge (anche
se indirettamente), ci saranno tutti gli incentivi del mondo per comprare le ulteriori estensioni del
copyright.
   Nell’attività di lobby che portò all’approvazione del Sonny Bono Copyright Term Extension Act,
questa “teoria” sugli incentivi si dimostrò reale. Dieci dei tredici sponsor originari della proposta di legge
alla Camera ricevettero il massimo dei contributi elettorali dal comitato per gli interventi politici della
Disney; al Senato otto dei dodici sponsor ottennero anch’essi delle sovvenzioni3. Si stima che la RIAA e
la MPAA abbiano speso oltre 1,5 milioni di dollari per esercitare pressioni politiche sul ciclo elettorale
del 1998. Hanno sborsato più di 200.000 dollari di contributi per le campagne elettorali4. Sempre nel
ciclo elettorale del 1998, si stima che la Disney abbia contribuito con oltre 800.000 dollari alle campagne
di rielezione5.


                                                     123
   Il diritto costituzionale non ignora ciò che è ovvio. O almeno, non ha bisogno di farlo. Così quando
presi in considerazione il caso di Eldred, questa realtà degli incentivi senza fine per la proroga del
copyright era già al centro dei miei pensieri. A mio parere, un tribunale pragmatico che s’impegna a
interpretare e ad applicare la Costituzione nel senso inteso dai suoi estensori, dovrebbe notare che, se il
Congresso ha il potere di prorogare il termine esistente, allora non ci sarebbe nessun requisito
costituzionale capace di garantire una durata “limitata”. Se questa può essere estesa una volta, lo si può
fare più e più volte ancora.
   A mio giudizio, inoltre, questa Corte Suprema non avrebbe permesso al Congresso di procedere a una
simile estensione. Come è risaputo da chiunque abbia familiarità con il suo modo di operare, questa
Corte è sempre stata pronta a limitare l’autorità del Congresso ogniqualvolta ha giudicato che il suo
modo di procedere travalicasse i poteri conferiti dalla Costituzione. Tra i costituzionalisti è noto che
l’esempio più famoso di tale tendenza fu la decisione della Corte Suprema del 1995 di annullare una
legge che proibiva il possesso di armi da fuoco vicino alle scuole.
   Dal 1937 la Corte Suprema ha interpretato i poteri conferiti al Congresso in maniera assai ampia; così,
mentre la Costituzione assegna al Congresso l’autorità di regolare solo “il commercio tra diversi stati”
(cioè “il commercio interstatale”), secondo l’interpretazione della Corte Suprema questo comprendeva il
potere di regolamentare qualsiasi attività avesse anche il minimo effetto su tale commercio.
   Con la crescita economica il significato di tale interpretazione portò sempre più a sostenere che non
esistevano limiti al potere di regolamentazione del Congresso, dal momento che quasi ogni attività, se
considerata su scala nazionale, influenzava il commercio fra stati. Quindi una Costituzione, che era stata
concepita per limitare l’autorità del Congresso, finiva invece per essere interpretata in modo da non
imporre alcun limite.
   Sotto la direzione del suo presidente, Rehnquist, la Corte Suprema cambiò questo scenario
occupandosi del caso United States v. Lopez. Il governo aveva sostenuto che il possesso di armi da fuoco
nei pressi di istituti scolastici aveva effetti sul commercio interstatale. La presenza di armi da fuoco
vicino alle scuole porta a un incremento dei reati, il crimine abbassa il valore degli immobili, e così via.
Durante il dibattimento, il presidente chiese al governo se esistesse una qualsiasi attività che non
influenzasse il commercio interstatale, in base alle argomentazioni proposte dal governo stesso.
Quest’ultimo rispose che non ne esistevano; se il Congresso dichiara che un’attività influisce sul
commercio interstatale, allora così stanno le cose. La Corte Suprema, sosteneva il governo, non era nella
posizione di giudicare il Congresso con il senno di poi.
   “Facciamo una pausa per considerare le implicazioni delle argomentazioni governative”, scrisse il
presidente6. Se tutto ciò che il governo definisce commercio interstatale va considerato tale, allora non
esistono limiti all’autorità del Congresso. La decisione sul caso Lopez venne confermata cinque anni più
tardi nel caso United States v. Morrison.7
   Se qui si ragiona in base a un principio, allora dovrebbe applicarsi all’articolo sul progresso come alla
questione del commercio8. E se lo si applica all’articolo sul progresso, quel principio porta a concludere
che il Congresso non può estendere una durata già definita. Se al Congresso fosse consentito farlo, non
esisterebbe un punto in cui bloccare questo potere di proroga, sebbene la Costituzione preveda
espressamente l’esistenza di un limite. Quindi lo stesso principio applicato al potere di garanzia del
copyright dovrebbe comportare la negazione del permesso al Congresso di estenderne la durata.
   Se così stanno le cose, il principio annunciato nel caso Lopez diventava un principio costituzionale.
Molti ritenevano invece che si trattasse di una decisione politica - una Corte Suprema di indirizzo
conservatore, che credeva nei diritti dei singoli stati e che usava il proprio potere sul Congresso per
sostenere le proprie preferenze politiche. Ma io ho sempre rifiutato questa posizione sulla decisione della
Corte Suprema. Infatti, poco dopo la sentenza, scrissi un articolo che dimostrava la “fedeltà” di tale

                                                    124
interpretazione della Costituzione. L’idea che la Corte Suprema deliberasse in base al proprio indirizzo
politico mi sembrava estremamente banale. Non avrei dedicato la mia vita all’insegnamento del diritto
costituzionale se questi nove giudici non fossero stati altro che meschini politicanti.
   Facciamo ora una breve pausa per assicurarci di aver compreso a che cosa non si riferiva la
discussione sul caso Eldred. Insistendo sui limiti costituzionali imposti al copyright, ovviamente Eldred
non appoggiava la pirateria. Anzi, era evidente che si opponeva a un certo tipo di pirateria - quella ai
danni del pubblico dominio. Quando Robert Frost aveva scritto quelle poesie e Walt Disney aveva creato
Mickey Mouse, la durata massima del copyright era di appena cinquantasei anni. A causa dei
cambiamenti avvenuti successivamente, Frost e Disney avevano già goduto di una tutela di
settantacinque anni sulle rispettive opere. Avevano cioè usufruito dei benefici previsti dalla Costituzione:
in cambio di un monopolio protetto di cinquantasei anni avevano continuato a creare nuovi lavori. Ma
ora questi enti stavano utilizzando il loro potere - espresso attraverso il potere del denaro dei lobbisti -
per ottenere un altro boccone pari a vent’anni di monopolio. Questi vent’anni sarebbero stati sottratti al
dominio pubblico. Eric Eldred lottava contro una forma di pirateria che colpisce tutti noi.
   Alcuni considerano il pubblico dominio con disprezzo. Nella memoria depositata presso la Corte
Suprema, la Nashville Songwriters Association scrisse che il pubblico dominio non è altro che una forma
di “pirateria legale”9. Ma non si tratta di pirateria quando è la legge a consentirlo, e nel nostro sistema
costituzionale è proprio essa a stabilirlo. A qualcuno non piacciono i dettati costituzionali, ma ciò non
rende la Costituzione uno statuto di pirati.
   Come abbiamo visto, il sistema costituzionale prevede limiti sul copyright in modo da garantire che i
titolari del diritto d’autore non esercitino un’influenza troppo pesante sullo sviluppo e sulla diffusione
della cultura. Eppure, come Eldred scoprì, abbiamo costruito un sistema che permette di estendere
all’infinito la durata del copyright. Abbiamo creato una trappola perfetta per il pubblico dominio. I diritti
d’autore non sono scaduti né lo saranno mai finché il Congresso sarà nel mirino di compratori di ulteriori
estensioni.
   La causa di simili prolungamenti dei termini sono i copyright più importanti: Mickey Mouse e
“Rhapsody in Blue” di Gorge Gershwin. Queste opere sono troppo preziose per chi ne detiene i diritti e
non possono essere ignorate. Ma il vero danno arrecato alla società dall’estensione del copyright non è
che Mickey Mouse rimanga proprietà della Disney. Lasciamo stare Mickey. Dimentichiamo Roberty
Frost. Dimentichiamoci le opere degli anni ’20 e ’30, che continuano ad avere un valore commerciale. Il
vero danno non proviene da queste opere famose. Il danno lo subiscono i lavori sconosciuti, che non
sono sfruttati commercialmentee e che di conseguenza non risultano più disponibili.
   Consideriamo le opere create nei primi vent’anni su cui ha agito il Sonny Bono Copyright Term
Extension Act, cioè dal 1923 al 1942: appena il 2 per cento ha un valore commerciale che continua nel
tempo. Sono stati i titolari del diritto d’autore di quel 2 per cento a premere per l’approvazione di tale
Extension Act. Ma la legge e i suoi effetti non si limitano a quel 2 per cento. La normativa ha esteso la
durata del copyright a tutti10.
   Pensiamo a quali possano essere le conseguenze di questa proroga - dal punto di vista pratico di un
imprenditore, non di un avvocato in cerca di lavoro. Nel 1930 sono stati pubblicati 10.047 libri [negli
Stati Uniti]. Nel 2000, soltanto 174 venivano ancora ristampati. Facciamo finta di essere Brewster Kahle
e di voler rendere disponibili a tutto il mondo i rimanenti 9873 libri, pubblicandoli nel nostro progetto
iArchive. Che cosa dobbiamo fare?
   Beh, prima di tutto dovremmo stabilire quali di questi 9873 libri sono ancora protetti da copyright.
Bisogna pertanto andare in biblioteca (questi dati non si trovano online) a sfogliare pile di tomi,
confrontando i titoli e gli autori con i dati sulla registrazione e il rinnovo del copyright per le opere
pubblicate nel 1930. Arriveremo così a stilare un elenco di libri ancora sotto copyright.

                                                    125
   Per ogni volume di questa lista occorre poi localizzare l’attuale detentore dei diritti. E come si fa a
scoprirlo?
   Molti pensano che da qualche parte esista un elenco dei titolari di quei diritti. Le persone pratiche
ragionano così. Com’è possibile che esistano migliaia e migliaia di monopoli approvati dal governo
senza che ce ne sia nemeno un elenco?
   Eppure l’elenco non esiste. Si potrebbe trovare un nome per il 1930, e poi per il 1959, della persona
che aveva registrato il copyright. Ma pensate a come sia incredibilmente difficile a livello pratico andare
a rintracciare migliaia di registrazioni simili - soprattutto perché la persona che ha effettuato la
registrazione non è necessariamente l’attuale titolare del copyright. E stiamo parlando soltanto dell’anno
1930!
   “Se non esiste una lista di chi possiede una proprietà in generale”, obiettano i sostenitori del sistema,
“perché mai dovrebbe esserci quella dei titolari del diritto d’autore?”
   Beh, in realtà, a ben pensarci, esistono numerosi elenchi dei proprietari e delle relative proprietà.
Pensiamo agli atti rogatori degli immobili o all’immatricolazione degli autoveicoli. E dove non si trova
un elenco, il codice del mondo reale è di grande aiuto nel suggerirci chi potrebbe essere il proprietario di
un bene. (Un’altalena che sta nel vostro giardino è probabile sia di vostra proprietà.) Pertanto, in modo
formale o informale, abbiamo a disposizione un buon sistema per localizzare il proprietario di un bene
tangibile.
   Se state camminando per strada e notate una casa, potrete scoprirne il proprietario controllando
l’apposito registro al catasto. Se vedete un’automobile, normalmente c’è una targa che rimanda al
proprietario. Se vi cade l’occhio su un mucchio di giocattoli sparsi sul prato davanti a una casa, è
abbastanza facile stabilire di chi sono. E se vi capita di notare una palla da baseball in una cunetta, basta
guardarsi attorno un momento per capire se ci sono dei ragazzini che giocano a baseball. Se non ne
vedete nessuno, allora va bene: ecco un bene di cui non sarà facile determinare il proprietario. È
l’eccezione che conferma la regola: di solito sappiamo bene chi possiede una certa proprietà.
   Riportiamo questa storia nell’ambito dei beni intangibili. Andiamo in una biblioteca. Quest’ultima è
proprietaria dei libri ivi contenuti. Ma chi è il titolare del copyright? Come ho già scritto, non ne esiste
alcun elenco. Ci sono i nomi degli autori, naturalmente, ma il copyright potrebbe essere stato trasferito, o
passato in eredità come i vecchi gioielli della nonna. Si dovrebbe assumere un investigatore privato per
scoprirlo. Per farla breve: non è affatto facile localizzare i detentori dei diritti d’autore. E in un regime
come il nostro, in cui si commette un reato grave quando si utilizza una proprietà di questo tipo senza
l’autorizzazione del legittimo detentore, succede che la proprietà non viene utilizzata.
   Per i vecchi libri, la conseguenza è che non verranno digitalizzati, e quindi finiranno per marcire sugli
scaffali. Ma la conseguenza per altre opere creative è molto più grave.
   Consideriamo la vicenda di Michael Agee, presidente degli Hal Roach Studios, titolari del copyright
per i film di Laurel e Hardy [Stanlio e Ollio]. Agee è uno dei diretti beneficiari del Bono Act. I film di
Laurel e Hardy furono girati tra il 1921 e il 1951. Soltanto uno di questi film, The Lucky Dog, non è
attualmente sotto copyright. Se non fosse stato per il Copyright Term Extension Act, i film girati dopo il
1923 sarebbero diventati di pubblico dominio. Poiché Agee controlla i diritti esclusivi di questi film tanto
popolari, ne ricava un mucchio di soldi. Secondo una stima, “Roach ha venduto circa 60.000
videocassette e 50.000 DVD dei film muti della coppia”11.
   Eppure Agee si oppose al Copyright Term Extension Act. Il suo ragionamento dimostrò una virtù rara
nella nostra cultura: l’altruismo. Egli depose una memoria presso la Corte Suprema in cui sosteneva che
il Sonny Bono Copyright Term Extension Act avrebbe distrutto, se lasciato inalterato, tutta una
generazione di film del cinema americano.


                                                    126
   Il suo ragionamento è lineare. Soltanto una minima parte di queste opere ha un valore commerciale
duraturo. Il resto - quelle pellicole che sono riuscite in qualche modo a sopravvivere - è archiviato nei
sotterranei dove si copre di polvere. Può darsi che alcuni di questi lavori, ora privi di un valore
commerciale, verranno giudicati preziosi dai proprietari di quei sotterranei. Perché ciò possa accadere,
tuttavia, occorre che i ricavi, in termini commerciali, derivanti da quelle opere siano superiori ai costi
necessari per immetterle nel circuito distributivo.
   Non conosciamo i benefici, mentre siamo molto informati sui costi. Per lo più, nella storia del cinema,
i costi di restauro delle pellicole sono stati sempre molto alti; la tecnologia digitale li ha fatti diminuire in
misura notevole. Mentre nel 1993 il restauro di una pellicola in bianco e nero di 90 minuti superava i
10.000 dollari, oggi digitalizzare un’ora di una pellicola da 8 mm può costare soltanto 100 dollari12.
   I costi di restauro però non sono l’unica spesa, e neppure la più importante. Gli avvocati sono
anch’essi una spesa, e sempre più cospicua. Oltre alla conservazione della pellicola, il distributore deve
anche assicurarsi i diritti sull’opera. E, se un film è protetto da copyright, bisogna localizzarne il titolare.
   O per essere più precisi, i titolari. Come abbiamo visto, non esiste un unico copyright associato a un
film; ce ne sono vari. Perciò non si tratta di contattare un’unica persona, ma tutte quelle che controllano i
vari diritti, un numero che potrebbe rivelarsi estremamente alto. Così le spese per risolvere la questione
dei diritti d’autore per questi film diventano eccezionalmente elevate.
   “Ma non si può semplicemente restaurare la pellicola, distribuirla e poi pagare il titolare del copyright
quando si fa vivo?” Certo, se vogliamo commettere un reato grave. E se anche l’idea di un reato non
dovesse preoccuparci, quando il titolare si farà vivo avrà il diritto di perseguirci per tutti gli utili che
abbiamo ricavato. Quindi, se il film avrà successo, possiamo star sicuri di ricevere una telefonata da
qualche avvocato. E se invece non avrà successo, non avremo guadagnato abbastanza per coprire le spese
legali. In ogni caso, occorre consultare un avvocato. E questo significa, sempre più spesso, che non
avremo guadagnato proprio nulla.
   Per alcuni film, i guadagni nel distribuire la pellicola potrebbero essere maggiori dei costi. Ma per lo
più le spese legali sono di gran lunga superiori ai ricavi. Così, per gran parte dei vecchi film, sosteneva
Agee, la pellicola non sarà restaurata e distribuita fino alla scadenza del copyright.
   Ma quando ciò avverrà, anche la pellicola sarà scaduta. Questi film venivano girati su pellicole a base
di nitrato, e tale sostanza si dissolve con il passare degli anni. Le pellicole spariranno, e nei contenitori
metallici in cui sono conservate ci sarà soltanto polvere.
   Di tutte le opere creative prodotte dal genere umano nel mondo intero, soltanto una piccolissima
percentuale ha un valore commerciale duraturo. Per questa minima percentuale il copyright è un
dispositivo legale di importanza fondamentale; crea inoltre degli incentivi per produrre e distribuire il
lavoro creativo; agisce infine come un “motore per la libertà d’espressione”.
   Ma persino per questa minima percentuale, il periodo di tempo in cui l’opera creativa ha realmente un
valore commerciale è estremamente breve. Come ho accennato, la maggior parte dei libri va fuori
catalogo nel giro di un anno. Lo stesso dicasi per la musica e i film. La cultura commerciale è una lotta
tra squali. Deve essere in continuo movimento. E quando un’opera creativa perde il favore dei circuiti
distributivi, la sua vita commerciale finisce.
   Eppure questo non significa che la vita dell’opera creativa sia giunta al termine. Non si creano
biblioteche per fare concorrenza a Barnes & Noble, e non abbiamo cineteche perché ci aspettiamo che la
gente scelga di trascorrere il venerdì sera a guardare un film appena uscito oppure un documentario del
1930. La vita non commerciale della cultura è importante e preziosa - come intrattenimento, ma anche e
soprattutto per imparare e conoscere. Per capire chi siamo e da dove veniamo e come siamo arrivati a
compiere certi errori, dobbiamo avere accesso a questa parte della storia.


                                                      127
   In un simile contesto il copyright non rappresenta il motore della libertà d’espressione. In quest’ambito
non esiste la necessità di diritti esclusivi. Qui i diritti d’autore non hanno alcuna utilità.
   Eppure, per quasi l’intero corso della storia, tali diritti non hanno neppure provocato grossi danni.
Quando un’opera esauriva la propria vita commerciale, non esisteva nessun uso associato al copyright
che potesse essere proibito da un diritto esclusivo. Quando un libro andava fuori catalogo, non era più
possibile acquistarlo dall’editore. Ma lo si poteva ancora trovare in una libreria dell’usato e, in questo
caso, almeno in America, non si deve nulla al titolare del copyright. Quindi, il normale utilizzo di un
libro al termine della sua vita commerciale era un uso indipendente dalla legge sul copyright.
   Lo stesso valeva in pratica anche per il cinema. A causa degli alti costi di restauro delle pellicole - le
spese vere e proprie, non quelle per gli avvocati -, non era assolutamente possibile conservarle o
restaurarle. Come gli avanzi di una bellissima cena, quando è finita è finita. Una volta che un film
esauriva la sua vita commerciale, poteva essere messo in archivio per un po’, ma quella era la fine della
sua esistenza, finché il mercato non aveva altro da offrire.
   In altri termini, pur essendo stato di breve durata per gran parte della sua storia, il copyright non
avrebbe avuto importanza per le opere che avevano perso valore commerciale anche se fosse stato lungo.
Né avrebbe interferito con alcunché.
   Ma ora questa situazione è cambiata.
   Una conseguenza d’importanza fondamentale della nascita delle tecnologie digitali è la possibilità di
dar vita all’archivio sognato da Brewster Kahle. Oggi queste tecnologie rendono possibile conservare
tutti i tipi di conoscenza e accedervi. Una volta che un libro va fuori catalogo, possiamo pensare di
renderlo digitale e metterlo a disposizione di tutti, per sempre. Quando un film non viene più distribuito,
se ne può fare la versione digitale e renderlo disponibile a tutti, per sempre. Le tecnologie digitali danno
nuova vita al materiale protetto dal copyright, una volta conclusa la sua esistenza commerciale. Adesso è
possibile conservare e assicurare un accesso universale a tale conoscenza e a tale cultura, mentre prima
non lo era.
   Ed è a questo punto che la legge sul copyright diventa un intralcio. Ogni passo nella costruzione di
questo archivio digitale della cultura viola il diritto esclusivo del copyright. Per avere la versione digitale
di un libro bisogna copiarlo. Per farlo, occorre il permesso del relativo titolare. Lo stesso con la musica, i
film o qualsiasi altro aspetto della cultura tutelato dal diritto d’autore. Il tentativo di rendere tutto questo
disponibile per la storia, oppure per i ricercatori, o per coloro che desiderano semplicemente esplorarlo,
oggi è impedito da una serie di regole scritte per un contesto radicalmente diverso.
   Ecco il punto centrale del danno che deriva dall’estensione dei termini: ora che la tecnologia ci
consente di ricostruire la biblioteca di Alessandria, vi si frappone la legge. E non lo fa per uno scopo utile
al copyright, per consentire l’esistenza del mercato commerciale che diffonde la cultura. No, qui stiamo
parlando della cultura dopo che ha esaurito la sua vita commerciale. Per quanto riguarda la diffusione
della cultura, il copyright non ha nessuna utilità. In tale ambito, il copyright non è un motore per la
libertà d’espressione. È un freno.
   Ci si potrebbe chiedere: “Ma se le tecnologie digitali portano a una riduzione delle spese per Brewster
Kahle, non potrebbero farlo anche per una grande casa editrice come Random House? Perché allora
quest’ultima non opera come Brewster Kahle per la diffusione della cultura su vasta scala?”
   Forse. Un giorno. Ma non sembra proprio che l’offerta degli editori possa essere completa come quella
delle biblioteche. Se Barnes & Noble consentisse di prendere libri in prestito a un prezzo conveniente,
questo eliminerebbe forse la necessità delle biblioteche? Solo se pensiamo che l’unico ruolo di una
biblioteca sia quello di offrire ciò che richiede “il mercato”. Se però crediamo che tale ruolo sia più
ampio - archiviare la cultura, che ci sia o meno la richiesta per un determinato settore - allora non
possiamo contare sul mercato commerciale per adempiere lo stesso compito di una biblioteca.

                                                      128
   Sono il primo a dichiararmi d’accordo sul fatto che il mercato debba fare semplicemente quello che
può: dovremmo affidarci ad esso per diffondere e agevolare la cultura per quanto possibile. Il mio
messaggio non è assolutamente anti-mercato. Ma laddove notiamo che questo non svolge il suo compito,
allora dovremmo garantire a forze esterne la libertà di colmarne il vuoto. Secondo le stime di un
ricercatore sulla cultura americana, il 94 per cento dei film, libri e musica prodotti tra il 1923 e il 1946
non è più disponibile a livello commerciale. Per quanto si possa apprezzare il mercato, se la possibilità di
accesso ha qualche valore, allora il 6 per cento rappresenta un fallimento13.
   Nel gennaio del 1999, presentammo istanza legale per conto di Eric Eldred presso il tribunale
distrettuale federale di Washington, D.C. per chiedere un giudizio sull’incostituzionalità del Sonny Bono
Copyright Term Extension Act. Le due posizioni di fondo da noi sostenute erano (1) che l’estensione dei
termini correnti violava il dettato costituzionale della “durata limitata” e (2) che l’estensione della durata
dei diritti di ulteriori vent’anni violava il Primo Emendamento.
   Il tribunale distrettuale rigettò quelle istanze senza neppure ascoltare le nostre argomentazioni. Lo
stesso fecero alcuni membri della Corte d’Appello della circoscrizione del D.C. [District of Columbia],
anche se dopo una lunga udienza. Ma quella decisione almeno sollevò un parere contrario da parte di uno
dei giudici più conservatori di quel tribunale. Fu quel parere contrario a dare linfa alle nostre
rivendicazioni.
   Il giudice David Sentelle affermò che il Copyright Term Extension Act violava soltanto la norma che
decretava che il copyright dovesse avere una “durata limitata”. La sua tesi era elegante quanto semplice:
se il Congresso può estendere i termini correnti, allora non esiste alcun freno alla sua autorità per quanto
riguarda l’articolo sul copyright. L’autorità di prorogare la durata corrente significa che il Congresso non
è tenuto a garantire che i termini siano “limitati”. Dunque, sosteneva il giudice Sentelle, la Corte doveva
interpretare correttamente il significato di “durata limitata”. E l’interpretazione migliore, secondo lo
stesso magistrato, sarebbe stata quella di negare al Congresso il potere di estendere i termini esistenti.
   Chiedemmo alla Corte d’Appello della Circoscrizione del D.C. al completo di esaminare il caso.
Normalmente i casi vengono esaminati in giurie composte da tre magistrati, eccetto quelli importanti che
sollevano questioni specifiche per la circoscrizione nel suo insieme, dove la corte siede al completo.
   La Corte d’Appello respinse la nostra richiesta. Stavolta al giudice Sentelle si aggiunse il membro più
liberale della Circoscrizione del D.C., il giudice David Tatel. Il giudice più conservatore e quello più
liberale di quella Circoscrizione ritennero che il Congresso avesse travalicato i propri limiti.
   Ci aspettavamo che il caso Eldred v. Ashcroft fosse ormai concluso, poiché raramente la Corte
Suprema ritorna su una decisione di una corte di appello. (Prende in esame circa un centinaio di casi
l’anno su oltre cinquemila appelli.) E praticamente non prende mai in considerazione una decisione che
si basi su una legge, qualora nessun altro tribunale non abbia ancora riesaminato quella legge.
   Ma nel febbraio del 2002, la Corte Suprema sorprese il mondo accogliendo la nostra richiesta a
riprendere in esame il giudizio della Circoscrizione del D.C. La seduta fu fissata per il mese di ottobre
del 2002. Avremmo trascorso l’estate scrivendo la difesa e preparandoci per la discussione.
   È passato più di un anno ed è ancora incredibilmente dura. Se conoscete qualcosa di questa vicenda,
saprete che abbiamo perso l’appello. E se avete seguito qualcosa di più del minimo indispensabile,
probabilmente penserete che non c’era nessuna possibilità di vincere. Dopo la sconfitta, ricevetti migliaia
di missive da parte di sostenitori e di simpatizzanti che mi ringraziavano per aver lavorato a sostegno di
questa causa, nobile ma destinata alla sconfitta. E nessun messaggio fu per me più significativo della e-
mail ricevuta dal mio cliente, Eric Eldred.
   Ma Eldred e gli altri amici sbagliavano. Avremmo potuto vincere questo caso. Avremmo dovuto
vincere. Anche se con insistenza cerco di ripetermi il contrario, non posso evitare l’idea che fu un mio
errore a farci perdere.

                                                     129
   Commisi quell’errore nella fase iniziale, anche se divenne evidente soltanto alla fine. Fin dall’inizio il
nostro caso fu appoggiato da un avvocato eccezionale, Geoffrey Stewart, e dallo studio legale a cui era
associato, Jones, Day, Reavis e Pogue. Lo studio subì forti rimostranze dai suoi clienti protezionisti per
averci sostenuto. Ignorò queste pressioni (pochi studi legali oggi lo farebbero) e per tutta la durata del
caso offrì tutto l’aiuto possibile.
   Erano coinvolti tre avvocati molto importanti dello studio. Geoff Stewart fu il primo, ma poi
arrivarono anche Dan Bromberg e Don Ayer. Questi ultimi in particolare avevano la stessa opinione sulla
strategia da adottare per vincere il caso: avremmo vinto, mi ripetevano, se fossimo riusciti a far apparire
la questione “importante” per la Corte Suprema. Doveva sembrare che il danno causato alla libertà di
espressione e alla cultura libera fosse molto grave; altrimenti, quei giudici non avrebbero mai votato
contro “i media più potenti al mondo”.
   Odio questa concezione della legge. Ovviamente ritenevo che il Sonny Bono Act stesse causando un
danno enorme alla libertà d’espressione e di cultura. Naturalmente lo credo ancora. Ma l’idea che la
Corte Suprema possa deliberare sulla legge in base alla sua opinione sull’importanza delle varie
questioni è proprio sbagliata. Potrebbe essere “giusta” in quanto è “vera”, così pensavo, ma è “sbagliata”
nel senso che “le cose non dovrebbero andare in questo modo”. Poiché ritenevo che qualsiasi
interpretazione fedele dell’opera degli estensori della Costituzione avrebbe portato alla conclusione che il
Copyright Term Extension Act fosse incostituzionale, e poiché credevo che qualunque interpretazione
fedele del significato del Primo Emendamento avrebbe portato alla conclusione che il potere di estendere
i termini esistenti del copyright fosse incostituzionale, non ero convinto che avremmo dovuto vendere il
caso come una saponetta. Proprio come una legge che vieta la svastica è incostituzionale non perché alla
Corte piacciano o meno i nazisti, ma perché tale legge violerebbe la Costituzione, così, secondo me, la
Corte avrebbe deciso se la normativa del Congresso fosse costituzionale o meno sulla base della
Costituzione stessa, non sul fatto che gradisse o meno i valori inseriti in quel testo dagli estensori
originari.
   In ogni caso, pensavo, la Corte avrebbe già dovuto notare il pericolo e il danno provocati da questa
legge. Altrimenti perché mai avrebbe concesso la revisione? Non ci sarebbe stato un motivo di dibattere
il caso davanti alla Corte Suprema se i giudici non fossero convinti dei danni causati da questa
regolamentazione. Perciò, dal mio punto di vista, non avevamo bisogno di convincerli che si trattava di
una cattiva legge, dovevamo semplicemente dimostrarne l’incostituzionalità.
   C’era un ambito, tuttavia, dove percepivo l’importanza della politica e dove credevo fosse necessario
dare una risposta. Ero convinto che la Corte non avrebbe ascoltato le nostre argomentazioni se le avesse
ritenute le idee di un gruppo di folli simpatizzanti di sinistra. Questa Corte Suprema non si sarebbe
impegnata in una nuova revisione giuridica se avesse avuto l’impressione che tale revisione fosse
appoggiata semplicemente da una piccola minoranza politica. Nonostante il mio obiettivo non fosse tanto
quello di dimostrare gli aspetti negativi del Sonny Bono Act, quanto piuttosto la sua incostituzionalità,
speravo di sostenere questa tesi su una base difensiva che copriva l’intero spettro delle opinioni politiche.
Per dimostrare che la mia azione contro il Copyright Term Extension Act era fondata sul diritto e non
sulla politica, tentammo allora di raccogliere il maggior numero possibile di critiche credibili - credibili
non perché fatte da persone ricche e famose, ma perché, prese nel loro insieme, dimostravano
l’incostituzionalità della norma al di là delle idee politiche dei singoli.
   Il primo passo avvenne spontaneamente. L’organizzazione di Phyllis Schlafly, la Eagle Forum, si era
opposta alla legge per l’estensione dei termini fin dall’inizio. Per la signora Schlafly si trattava di una
svendita completa fatta dal Congresso. Nel novembre del 1998, scrisse un pungente editoriale che
attaccava il Congresso Repubblicano per aver permesso che la norma passasse. Così scriveva: “Talvolta
ci chiediamo perché questi disegni di legge che costituiscono un colpo di fortuna per ristretti interessi

                                                    130
particolari scivolano facilmente tra le maglie dell’intricato processo legislativo, mentre proposte che
arrecano benefici a tutti sembrano impantanarsi”. La risposta, come documenta l’editoriale, sta nel potere
del denaro. Schlafly elencava i contributi della Disney a membri chiave delle commissioni. Fu il denaro,
non la giustizia - sosteneva la Schlafty - a permettere alla Disney altri vent’anni di controllo su Mickey
Mouse.
   Nell’aula della Corte d’Appello, la Eagle Forum era impaziente di presentare una memoria a sostegno
della nostra posizione. Il documento ribadiva la tesi che sarebbe divenuta fondamentale per la Corte
Suprema: se il Congresso può estendere i termini dell’attuale copyright, non c’è limite al suo potere di
stabilirne la durata. Questa tesi fortemente conservatrice aveva convinto un magistrato fortemente
conservatore, il giudice Sentelle.
   Davanti alla Corte Suprema, le memorie della nostra parte si presentavano estremamente diversificate.
Comprendevano un documento, straordinario a livello storico, curato dalla Free Software Foundation
(quella del progetto GNU, che rese possibile GNU/Linux) e un’eloquente nota di Intel sui costi
dell’incertezza. C’erano le testimonianze di due professori di legge, un esperto del copyright e uno
studioso del Primo Emendamento. C’era un testo esauriente e incontrovertibile firmato dagli esperti
mondiali sulla storia dell’articolo sul progresso. E, naturalmente, c’era il documento della Eagle Forum a
ribadire e a rafforzare l’argomentazione.
   Queste memorie difensive inquadravano la tesi legale, a sostegno della quale c’era poi una serie di
documentate mozioni curate da biblioteche e archivi, tra cui l’Internet Archive, la American Association
of Law Libraries e la National Writers Union.
   Ma due documenti coglievano al meglio lo spirito dell’argomentazione. Uno ribadiva la critica che ho
già illustrata: la memoria degli Hal Roach Studios sosteneva che se quella legge non fosse stata
cancellata, un’intera generazione del cinema americano sarebbe scomparsa. L’altro chiariva in modo
netto l’aspetto economico.
   Quest’ultimo era firmato da diciassette economisti, compresi cinque vincitori di Premi Nobel, ovvero
Ronald Coase, James Buchanan, Milton Friedman, Kenneth Arrow e George Akerlof. Come dimostra
questo elenco, gli economisti coprivano l’intero spettro politico. Le loro conclusioni erano assai
convincenti: non esisteva alcuna prova plausibile che l’estensione dei termini del copyright avrebbe
contribuito ad aumentare l’incentivo a creare. Simili proroghe non erano altro che un “tentativo di
ottenere una rendita” - questa la colorita espressione usata dagli economisti per descrivere le sfrenate
normative che favoriscono interessi particolari.
   Un identico sforzo di mantenere un equilibrio si rifletteva nella squadra legale che avevamo messo
insieme per stilare le mozioni. Gli avvocati dello studio Jones Day erano stati con noi fin dall’inizio. Ma
quando il caso arrivò alla Corte Suprema, ne aggiungemmo altri tre, perché ci aiutassero a organizzare le
argomentazioni per questa Corte: Alan Morrison, avvocato di Public Citizen, gruppo di Washington che
aveva contribuito alla storia della Costituzione con una serie di vittorie davanti alla Corte Suprema sulla
difesa dei diritti individuali; la mia collega e preside di facoltà, Kathleen Sullivan, che aveva discusso
diversi casi davanti alla Corte e che in precedenza ci aveva dato consigli sulla strategia riguardante il
Primo Emendamento; e infine, l’ex procuratore generale Charles Fried.
   L’acquisizione di Fried fu una nostra vittoria particolare. Tutti gli altri ex procuratori generali erano
stati ingaggiati dal fronte opposto per difendere il potere del Congresso di offrire ai grandi media il
vantaggio dell’estensione dei termini del copyright. Fried fu l’unico a rifiutare quell’incarico redditizio,
per difendere invece una causa in cui credeva. Era stato il presidente della Corte Suprema sotto Ronald
Reagan. Aveva contribuito a impostare i casi che limitavano il potere del Congresso per quanto
riguardava l’articolo sul commercio. E pur avendo sostenuto davanti alla Corte Suprema posizioni con


                                                    131
cui mi trovavo personalmente in disaccordo, il fatto che si fosse unito alla causa era un segno di fiducia
verso la nostra tesi.
   Anche il governo, nella difesa delle sue norme, aveva un gruppo di amici. Fu significativo, tuttavia, il
fatto che tra questi “amici” non fosse presente nessuno storico o economista. Le note riguardanti il caso
erano scritte esclusivamente da membri di grandi società dei media, parlamentari e titolari di copyright.
   Non sorprendeva la presenza di aziende della comunicazione. Erano loro a guadagnare di più dalla
legge. Nessuna meraviglia neppure per i parlamentari - stavano difendendo il loro potere e,
indirettamente, la ricchezza dei contributi generati da tale potere. E, naturalmente, non destava sorpresa il
fatto che i titolari del copyright difendessero l’idea di continuare ad avere il diritto di vigilare su
chiunque volesse utilizzare il materiale che volevano tenere sotto controllo.
   I rappresentanti legali del Dr. Seuss (famoso scrittore per bambini, N.d.T.), ad esempio, sostennero che
fosse meglio che gli eredi controllassero l’utilizzo delle sue opere - piuttosto che consentirne il passaggio
nel pubblico dominio - perché, in tal caso, la gente avrebbero potuto usarle per “esaltare le droghe o per
creare pornografia14 ”. Un identico motivo fu addotto dagli eredi di George Gershwin, i quali difesero la
loro “tutela” sulle sue opere. Così rifiutano il diritto di allestire Porgy and Bess a chiunque rifiuti di
inserire nel cast attori afro-americani15. Questo era il loro punto di vista su come si dovesse controllare
una parte della cultura americana, e volevano che la legge li aiutasse a esercitare tale controllo.
   Tale argomentazione rese chiaro un tema che raramente viene notato nel nostro dibattito. Quando il
Congresso decide di estendere la durata del copyright, compie una scelta su quali soggetti intende
favorire. I titolari di copyright famosi e amati, come gli eredi di Gershwin e del Dr. Seuss, vanno al
Congresso e dicono: “Dateci ancora vent’anni per controllare quello che si dice su queste due icone della
cultura americana. Sappiamo come comportarci meglio di chiunque altro”. Naturalmente al Congresso
piace gratificare chi è popolare e famoso, dandogli quello che vuole. Ma quando il Congresso assegna a
qualcuno il diritto esclusivo a esprimersi in un determinato modo, questo è proprio ciò che
tradizionalmente il Primo Emendamento intende impedire.
   Sostenemmo questo punto di vista nella memoria conclusiva, oltre all’argomentazione che, secondo il
Copyright Term Extension Act, non ci sarebbero stati limiti all’autorità del Congresso di estendere i
termini del copyright - il che avrebbe provocato un’ulteriore concentrazione del mercato; inoltre, tramite
questa legge sul diritto d’autore, non ci sarebbero stati limiti al potere del Congresso di fare favoritismi,
scegliendo chi ha il diritto di esprimersi.
   Tra febbraio e ottobre, oltre alla preparazione del caso, non mi occupai di altro. In precedenza, come
ho detto, ne avevo delineato la strategia.
   La Corte Suprema era divisa in due importanti fazioni. Una era da noi definita “i conservatori”. L’altra
“il resto”. Tra i primi rientravano il presidente Rehnquist e i giudici O'Connor, Scalia, Kennedy e
Thomas. Questi cinque erano stati i più coerenti nel limitare l’autorità del Congresso. Erano coloro che
avevano appoggiato la serie di casi Lopez/Morrison, in base ai quali si era stabilito che i poteri enumerati
andassero interpretati in modo da assicurarsi che l’autorità del Congresso avesse dei limiti.
   “Il resto” erano i quattro che si erano fortemente opposti alla limitazione dell’autorità del Congresso.
Questi quattro - i giudici Stevens, Souter, Ginsburg e Breyer - avevano sostenuto ripetutamente che la
Costituzione assegnava al Congresso un’ampia discrezionalità nel decidere come utilizzare nel modo
migliore i propri poteri. Un caso dopo l’altro, questi magistrati avevano ribadito che la posizione della
Corte avrebbe dovuto essere deferente verso il Congresso. Sebbene il voto di questi quattro giudici fosse
quello che più avrei gradito, era anche quello che avevamo poche probabilità di ottenere.
   In particolare, il più improbabile era quello del giudice Ginsburg. Oltre alla sua posizione di estremo
rispetto nei confronti del Congresso (tranne quando si trattava di questioni di genere), essa si era
dimostrata particolarmente deferente sul tema della tutela della proprietà intellettuale. Lei e la figlia

                                                    132
(un’ottima e nota studiosa della proprietà intellettuale) seguono la stessa scuola di pensiero. Ci
aspettavamo che si sarebbe mantenuta in linea con gli scritti della figlia: il Congresso aveva l’autorità di
operare come meglio credeva, anche se le sue decisioni avevano poco senso.
   Dopo il giudice Ginsburg ce n’erano altri due, che consideravamo alleati poco probabili, ma con la
possibilità di qualche sorpresa. Il giudice Souter mostrava una profonda deferenza nei confronti del
Congresso, come pure il giudice Breyer. Ma entrambi erano altresì molto sensibili ai problemi della
libertà d’espressione. E, come era nostra profonda convinzione, la libertà d’espressione costituiva un
importante argomento contro queste proroghe.
   L’unico voto su cui potevamo contare con fiducia era quello del giudice Stevens. Egli passerà alla
storia come uno dei giudici più importanti di questa Corte. Di norma i suoi voti sono eclettici, il che
significa semplicemente che è impossibile dire da che parte starà sulla base di un’ideologia. Ma aveva
sostenuto con coerenza la necessità di limiti nel campo della proprietà intellettuale in generale. Eravamo
piuttosto fiduciosi che in questo caso avrebbe riaffermato tali limiti.
   L’analisi de “il resto” dimostrava chiaramente dove dovevamo concentrarci: sui giudici d’indirizzo
conservatore. Per vincere il caso, dovevamo convincere questi cinque e ottenere almeno la maggioranza.
Perciò l’unico argomento significativo della nostra posizione si basava sulla più importante innovazione
giurisprudenziale dei conservatori - l’argomentazione, sostenuta dal giudice Sentelle alla Corte
d’Appello, secondo cui i poteri enumerati16 andavano interpretati in modo che l’autorità del Congresso
avesse dei limiti.
   Era dunque questo il fulcro della nostra strategia - la cui responsabilità spettava al sottoscritto.
Avremmo indotto la Corte a considerare che, proprio come nel caso Lopez, secondo la tesi del governo, il
Congresso avrebbe sempre avuto un’autorità illimitata di estendere i termini esistenti. Se c’era una cosa
chiara sul potere del Congresso nell’articolo sul progresso, era che si dovesse ritenere “limitata” tale
autorità. Il nostro obiettivo sarebbe stato quello di spingere la Corte a stabilire un parallelo fra il caso
Eldred e il caso Lopez: se il potere del Congresso di regolamentare il commercio aveva dei limiti, allora
doveva averne anche la sua autorità nel regolamentare il copyright.
   L’argomentazione del governo si riduceva a questo: il Congresso lo aveva già fatto, quindi poteva farlo
ancora. Il governo ribadiva che, fin dall’inizio, il Congresso aveva prorogato la durata del copyright.
Perciò, insisteva, la Corte non avrebbe dovuto affermare che si trattava di una pratica incostituzionale.
   C’era qualcosa di vero nella posizione del governo, ma non molto. Eravamo certamente d’accordo sul
fatto che il Congresso aveva esteso i termini correnti nel 1831 e nel 1909. E, naturalmente, nel 1962 il
Congresso iniziò a estenderli con regolarità - undici volte in quarant’anni.
   Tuttavia questa sua “coerenza” andava valutata in prospettiva. Il Congresso aveva esteso una volta la
durata in vigore nei primi cento anni della Repubblica. Poi lo aveva fatto un’altra volta nei successivi
cinquanta. Queste rare proroghe sono in contrasto con la regolare pratica odierna. Anche se in passato il
Congresso aveva avuto qualche freno, ora non ne aveva più. Adesso ci trovavamo in una fase di
estensioni e non c’era ragione di aspettarsi che si chiudesse. La Corte non aveva esitato a intervenire su
un’analoga tendenza. Non c’era motivo perché non dovesse farlo anche in questo caso.
   La discussione orale era in calendario per la prima settimana di ottobre. Arrivai a Washington due
settimane prima, nel corso delle quali mi esercitai in “sedute fittizie” con gli avvocati che si erano offerti
di aiutarmi nel caso. Si trattava sostanzialmente di sessioni dove facevamo pratica, con i presunti giudici
che bersagliavano di domande i presunti vincitori.
   Ero convinto che, per vincere, avrei dovuto tenere la Corte concentrata su un unico punto: se si
consentono le proroghe, allora non esistono più limiti all’autorità di fissare i termini. Sostenere la
posizione del governo avrebbe significato in concreto una durata illimitata. Stare dalla nostra parte


                                                     133
avrebbe imposto al Congresso una linea precisa: non estendere i termini correnti. Quelle sedute fittizie si
dimostrarono una pratica utile; trovai diversi modi per ricondurre ogni domanda a quest’idea di fondo.
   Una sessione si svolse davanti agli avvocati di Jones Day. Don Ayer era scettico. Aveva lavorato nel
Dipartimento di Giustizia sotto Reagan con il Procuratore Generale Charles Fried. Aveva affrontato
parecchi casi di fronte alla Corte Suprema. E, in un’analisi della seduta fittizia, espresse la sua
preoccupazione:
   “Ho paura che, se i giudici non si renderanno conto dei danni, non vorranno modificare questa pratica
che il governo sostiene sia durata duecento anni. Devi fare in modo che si rendano conto dei danni - devi
farglieli notare con passione. Perché, se non comprendono questo aspetto, non abbiamo nessuna
probabilità di vittoria.”
   Forse ha affrontato molti casi davanti a questa Corte, pensai, ma non ne ha capito l’anima. Quando ero
un assistente, avevo visto i giudici fare la cosa giusta - non per ragioni politiche ma perché era giusto.
Come professore di legge, avevo trascorso la vita a insegnare agli studenti che la Corte Suprema decide
secondo giustizia - non per ragioni politiche ma perché è giusto. Mentre ascoltavo l’esortazione di Ayer a
spingere con passione sul tasto politico, compresi le sue ragioni e le rifiutai. La nostra tesi era giusta.
Sarebbe stata sufficiente. Spettava ai politici vedere che era anche vantaggiosa.
   La sera precedente l’udienza, iniziò a formarsi una fila di persone davanti all’edificio della Corte
Suprema. Il caso era al centro dell’attenzione della stampa e del movimento per la cultura libera.
Centinaia di persone stavano in fila per avere la possibilità di seguire il dibattito. Molte avevano
trascorso la notte sui gradini dell’edificio per esser certe di potersi sedere in aula.
   Non tutti devono mettersi fila. Coloro che conoscono i giudici possono chiedere dei posti riservati. (Io,
per esempio, ne feci richiesta al giudice Scalia per i miei genitori.) I membri del tribunale della Corte
Suprema possono sistemarsi in una sezione speciale. Anche i senatori e i deputati hanno una loro zona. E
infine, ovviamente, la stampa siede in un’apposita galleria, come pure gli assistenti che lavorano per i
giudici della Corte. Quando entrammo in aula quella mattina, non c’era un posto vuoto. La seduta era
dedicata alla legge sulla proprietà intellettuale, eppure le varie sezioni erano tutte occupate. Mentre
prendevo posto davanti alla Corte, vidi i miei genitori seduti sulla sinistra. Sedendomi a mia volta al
tavolo, notai Jack Valenti nella sezione speciale normalmente riservata ai familiari dei giudici.
   Quando il presidente mi chiamò per aprire il dibattito, iniziai dal punto a cui volevo attenermi: il
problema dei limiti all’autorità del Congresso. Questo caso riguardava i poteri enumerati, dissi, e se tali
poteri dovessero avere delle limitazione.
   Il giudice O'Connor mi fermò dopo meno di un minuto. Quella storia le dava fastidio.
   GIUDICE O'CONNOR: Il Congresso ha esteso i termini così spesso nel corso degli anni, e se lei avesse ragione, non
   corriamo forse il rischio di stravolgere le precedenti proroghe? Intendo dire che questa è una pratica iniziata proprio
   con la prima legislazione.

   Sembrava propensa a concedere che “si trattava di una sfida diretta a quel che avevano in mente gli
estensori della Costituzione”. Ma ancora una volta la mia risposta puntò a sottolineare i limiti del potere
del Congresso.
   LESSIG: Beh, se questo rappresenta una sfida al pensiero degli estensori, allora la domanda è: esiste un’interpretazione
   delle loro parole che renda evidente il loro pensiero? La risposta è sì.

  C’erano due punti, nel dibattito, verso i quali, avrei dovuto notarlo, si sarebbe diretta l’attenzione della
Corte. Il primo fu una domanda del giudice Kennedy, che osservò:
   GIUDICE KENNEDY: Suppongo sia implicito nell’argomentazione che anche la legge del '76 avrebbe dovuto essere
   dichiarata nulla, per aver provocato distruzioni e per aver impedito in tutti questi anni il progresso della scienza e delle
   arti. Però non vedo nessuna prova pratica di tutto ciò.



                                                              134
  E qui chiaramente sbagliai. Come un professore che corregge uno studente, risposi:
   LESSIG: Giudice, non stiamo affatto sostenendo una posizione pratica. Nulla nella nostra argomentazione riguardante
   l’articolo sul copyright sostiene che abbia provocato un intralcio al progresso. L’unica nostra tesi è che questa
   limitazione strutturale sia necessaria ad assicurare che ciò che diventerebbe in pratica una durata perpetua non venga
   consentito in base alla normativa sul copyright.

   Era una risposta corretta, ma non una risposta giusta. La risposta giusta sarebbe invece stata che
esisteva un danno ovvio e profondo. Era il tema di molte argomentazioni. Il giudice voleva sentirne
parlare. E questo era il momento in cui mi sarebbe tornato utile il consiglio di Don Ayer. Era una palla
facile; ma la mia risposta l’aveva mancata.
   Il secondo punto fu evidenziato dal presidente, per il quale era stato costruito l’intero caso. Poiché era
stato lui ad elaborare la sentenza su Lopez, speravamo che avrebbe visto l’affinità fra i due casi.
   Fu invece chiaro dalla sua domanda che non era affatto dalla nostra parte. Per lui eravamo
semplicemente una banda di anarchici. Mi chiese:
   PRESIDENTE: Ma voi volete di più. Volete il diritto di fare copie integrali dei libri altrui, non è così?

   LESSIG: Vogliamo il diritto di fare copie integrali di opere che dovrebbero essere e che sarebbero di pubblico dominio
   se non fosse per una norma che non può essere giustificata in base a una normale analisi del Primo Emendamento o a
   un’adeguata lettura delle limitazioni previste nell’articolo sul copyright.

  Le cose si misero meglio per noi quando toccò al governo; per il momento la Corte stava verificando il
punto essenziale della nostra posizione. Il giudice Scalia chiese al Procuratore Generale Olson:
   GIUDICE SCALIA: Lei sostiene che l’equivalente funzionale di un periodo illimitato costituirebbe una violazione
   [della Costituzione], ma questo è precisamente la posizione sostenuta dal ricorrente, che un periodo di tempo limitato
   suscettibile di estensione equivale, in pratica, a una durata illimitata.

   Quando Olson ebbe finito, fu il turno della mia arringa conclusiva. Le battute di Olson avevano
risvegliato la mia rabbia. Ma questa si rivolgeva ancora all’aspetto accademico, non a quello pratico. Il
governo parlava come se fosse il primo caso in cui veniva affrontata la questione dei limiti all’autorità
del Congresso nel campo dell’articolo sul copyright e sui brevetti. Come professore e non come attivista,
chiusi sottolineando la lunga storia dell’azione della Corte nell’imporre limiti al Congresso su questo
tema - anzi, proprio il primo caso in cui si dichiarò che una legge superava uno specifico potere
enumerato si basava su quell’articolo. Tutto vero. Ma non avrebbe portato la Corte dalla mia parte.
   Quando lasciai l’aula quel giorno, sapevo che c’erano altri cento punti importanti che avrei voluto
sottolineare. C’era un centinaio di domande a cui avrei desiderato aver risposto in modo diverso. Ma
c’era una riflessione che mi lasciava ottimista.
   Al governo era stato chiesto ripetutamente: qual è il limite? Ripetutamente, aveva risposto che non ne
esisteva nessuno. Questa era esattamente la risposta che volevo che la Corte ascoltasse. Perché non
potevo immaginare che essa, dopo aver capito che il governo riteneva illimitata l’autorità del Congresso
per quanto riguarda i termini sul copyright, potesse difenderne la posizione. Il Procuratore Generale
aveva abbracciato la mia stessa tesi. Ci ho provato, ma non sono mai riuscito a capire come mai la Corte
ritenesse limitato il potere del Congresso per quanto riguarda l’articolo sul commercio, ma illimitato per
quanto riguarda quello sul copyright. Nei rari momenti in cui mi dicevo che avremmo vinto, fu perché
pensavo che questa Corte - in particolare i conservatori - si sarebbe sentita vincolata dalla norma che
aveva stabilito altrove.
   La mattina del 15 gennaio 2003 arrivai in ufficio con cinque minuti di ritardo e mancai la telefonata
delle 7 da parte dell’assistente alla Corte Suprema. Ascoltando il messaggio capii in un attimo che
portava cattive notizie. La Corte Suprema aveva sostenuto la decisione della Corte d’Appello. Sette
giudici avevano votato a favore. C’erano stati due dissenzienti.


                                                              135
    Dopo qualche secondo, la motivazione della sentenza arrivò via posta elettronica. Staccai il telefono,
inserii un annuncio sul blog e mi sedetti a riflettere sugli errori del mio modo di ragionare.
    Il mio modo di ragionare. Ecco un caso in cui tutti i soldi del mondo erano in competizione con le
argomentazioni razionali. Ed ecco l’ultimo ingenuo professore di legge che leggeva quelle pagine alla
ricerca di un ragionamento sensato.
    Diedi una prima scorsa alla motivazione, cercando il modo in cui la Corte aveva distinto il principio
alla base di questo caso da quello in Lopez. Non ce n’era traccia. Quel caso non era neanche citato. La
tesi centrale della nostra argomentazione non compariva neppure nella motivazione della Corte.
    Il giudice Ginsburg aveva semplicemente ignorato la questione dei poteri enumerati. Coerente con la
sua opinione che in genere l’autorità del Congresso non era mai stata limitata, pensava che non dovesse
esserlo neppure questa volta.
    La sua opinione appariva perfettamente ragionevole - la sua, e quella del giudice Souter. Nessuno dei
due credeva nella sentenza Lopez. Sarebbe stato troppo attendersi che manifestassero un’opinione che
riconoscesse, e tanto meno spiegasse, la dottrina per sconfiggere la quale avevano lavorato così
duramente.
    Tuttavia, man mano che capivo che cosa era successo, non riuscivo a credere a ciò che stavo leggendo.
Avevo detto che in nessun modo questa Corte avrebbe potuto conciliare i poteri limitati dell’articolo sul
commercio con quelli senza limiti dell’articolo sul progresso. Non mi era mai venuto in mente che
avrebbe potuto farlo semplicemente ignorando quell’argomentazione. Non c’era incoerenza, perché
tenevano separate le due situazioni. Quindi non veniva riconosciuto nessun principio che derivasse dal
caso Lopez: in quel contesto l’autorità del Congresso sarebbe stata limitata, ma non in questo.
    Eppure, con quale diritto avevano potuto scegliere quale dei valori espressi dagli estensori della
Costituzione avrebbe dovuto essere rispettato? Con quale diritto avevano potuto - i cinque silenziosi
giudici - scegliere la parte della Costituzione che intendevano applicare in base ai valori che ritenevano
importanti? Eravamo tornati alla tesi che all’inizio dicevo di odiare: non ero riuscito a convincerli che il
problema era importante, e non ero riuscito a capire che, per quanto io possa odiare un sistema in cui
spetta alla Corte scegliere quali valori costituzionali rispetterà, questo è il sistema che abbiamo.
    I giudici Breyer e Stevens espressero con forza il loro dissenso. La motivazione di Stevens era
inquadrata all’interno della legge: sosteneva che la tradizione della legge sulla proprietà intellettuale non
avrebbe dovuto sostenere questa ingiustificata estensione dei termini. La sua argomentazione era basata
sull’analisi parallela della legge che aveva regolato il contesto dei brevetti (come avevamo fatto noi). Ma
il resto della Corte non tenne conto dell’analogia - senza spiegare in che modo le identiche parole
contenute nell’articolo sul progresso assumevano un significato totalmente diverso secondo che si
riferissero ai brevetti o al copyright. La Corte lasciò senza risposta la provocazione del giudice Stevens.
    La motivazione del giudice Breyer, forse la migliore che abbia mai scritto, era esterna alla
Costituzione. Affermava che il termine del copyright era diventato talmente lungo da essere praticamente
illimitato. Noi avevamo detto che, in base alla durata attuale, il copyright assegnava all’autore il 99,8 per
cento del valore di una durata perpetua. Breyer spiegò che avevamo sbagliato, la cifra reale era il
99,9997 per cento. In ogni caso, il punto era chiaro: se la Costituzione sosteneva che la durata doveva
essere “limitata”, e quella corrente era talmente estesa da risultare di fatto illimitata, allora era
incostituzionale.
    I due giudici avevano compreso tutte le argomentazioni che avevamo presentato. Ma poiché nessuno
dei due credeva nel caso Lopez, nessuno dei due l’aveva considerato un motivo per negare l’estensione.
Il caso fu deciso senza che nessuno avesse preso in considerazione la tesi che avevamo ripreso dal
giudice Sentelle. Fu Amleto senza il Principe.


                                                    136
   La sconfitta provoca depressione. E quando questa si trasforma in rabbia è un segno di buona salute.
La rabbia arrivò rapidamente, ma non riuscì a guarire la depressione. Era un rabbia di due tipi.
   Il primo era diretto contro i cinque “conservatori”. Avrebbero potuto spiegare perché il principio del
caso Lopez non veniva applicato al nostro caso. Non poteva certo essere un’argomentazione molto
convincente; me ne ero reso conto dopo averla letta espressa da altri e dopo avere tentato di costruirla io
stesso. Ma almeno sarebbe stato un atto d’integrità. Questi giudici in particolare hanno ripetutamente
sostenuto che il modo appropriato di interpretare la Costituzione è “l’originalismo”17 - prima di tutto
bisogna capire il testo degli estensori e interpretarne il contesto, alla luce della struttura della stessa
Costituzione. Quel metodo aveva prodotto Lopez e molte altre sentenze “originaliste”. Dov’era finito
adesso il loro “originalismo”?
   Quei giudici avevano dato una motivazione che neppure una volta aveva provato a spiegare che cosa
intendessero gli estensori quando avevano concepito l’articolo sul progresso; si erano trovati d’accordo
su un parere che neppure una volta aveva cercato di chiarire quale sarebbe stata l’influenza di
quell’articolo sull’interpretazione del potere del Congresso. E avevano firmato un giudizio che non aveva
neppure provato a spiegare perché veniva garantito un potere illimitato, laddove nell’articolo sul
commercio quel potere era limitato. In breve, avevano raggiunto una conclusione comune che non si
poteva applicare al loro stesso metodo di interpretazione della Costituzione, ed era incoerente con esso.
Tale conclusione avrà anche prodotto un risultato positivo, secondo loro. Ma non aveva prodotto una
motivazione coerente con i loro stessi principi.
   La rabbia contro i conservatori lasciò rapidamente il posto a quella contro me stesso. Perché avevo
lasciato che una concezione della legge che mi piaceva interferisse con una visione della legge così come
è.
   La maggior parte degli avvocati e dei professori di giurisprudenza sopporta poco l’idealismo a
proposito dei tribunali in generale e di questa Corte Suprema in particolare. Di solito ha un punto di vista
assai più pragmatico. Quando Don Ayer sosteneva che avrei potuto vincere se fossi riuscito a convincere
i giudici che i valori degli estensori della Costituzione erano importanti, io mi opposi all’idea, perché non
volevo che fosse quello il modo di decidere della Corte. Insistetti nel condurre questo caso come se
dovesse essere l’applicazione univoca di una serie di principi. La mia argomentazione seguiva una
logica. Non avevo bisogno di perdere tempo a dimostrare che poteva anche essere popolare.
   Mentre rileggo la trascrizione di quella seduta di ottobre, noto un centinaio di passaggi dove le risposte
avrebbero potuto portare la conversazione in direzioni diverse, dove si sarebbe potuta mostrare ai giudici
la verità sul danno che questo potere incontrollato avrebbe causato. In buona fede, il giudice Kennedy
voleva che la si mostrasse. Io, stupidamente, avevo corretto la sua domanda. Il giudice Souter voleva, in
buona fede, che si chiarissero i punti contrari al Primo Emendamento. Io, come un insegnante di
matematica, avevo riformulato la domanda per attenermi alla logica. Avevo mostrato loro il modo di
annullare questa legge del Congresso, se avessero voluto. C’erano centinaia di punti in cui avrei potuto
aiutarli a farlo, eppure la mia testardaggine, il rifiuto di mollare, mi avevano bloccato. Me ne ero stato lì,
di fronte a centinaia di persone, cercando di persuaderle; ma mi ero rifiutato di tentare di persuadere quel
pubblico con la passione che avevo usato in altre occasioni. Non erano quelle le basi su cui un tribunale
avrebbe dovuto decidere in un caso del genere.
   Sarebbe stato diverso se avessi affrontato il caso in un altro modo? Sarebbe andata diversamente se
l’avesse presentato Don Ayer? Oppure Charles Fried? O Kathleen Sullivan?
   Gli amici mi si strinsero intorno insistendo che non avrebbe fatto differenza. La Corte non era pronta,
essi ribadivano. Era una sconfitta inevitabile. Occorreva molto di più per dimostrare alla società perché
gli estensori della Costituzione avevano ragione. E solo quando lo avessimo fatto, saremmo stati in grado
di dimostrarlo anche alla Corte.

                                                     137
   Forse, ma ne dubito. Questi giudici non hanno interessi economici che li spingano a decidere qualcosa
di ingiusto. Non subiscono le pressioni delle lobby. Non hanno motivi per opporsi a ciò che è giusto. Non
posso fare a meno di pensare che se avessi abbandonato questa piacevole immagine di una giustizia priva
di passione, sarei riuscito a convincerli.
   E anche se non ce l’avessi fatta, ciò non giustifica comunque quanto avvenne in gennaio. Infatti,
quando iniziai a occuparmi di questo caso, uno dei professori più importanti in America nel campo della
proprietà intellettuale aveva dichiarato pubblicamente che la mia decisione di portarlo avanti era un
errore. “La Corte non è pronta”, aveva affermato Peter Jaszi; e fino a quando non lo sarà, non è il caso di
sollevare questo problema.
   Dopo il dibattito e dopo la sentenza, Peter mi disse, pubblicamente, di aver avuto torto. Ma se davvero
non era possibile convincere la Corte, allora questa è una prova che invece Peter aveva ragione. O io non
ero pronto a discutere questo caso in modo da ottenere un risultato positivo, o la Corte non era pronta ad
ascoltare il caso in modo positivo. Comunque sia, la decisione di portare avanti il caso - decisione che
avevo preso quattro anni prima - era sbagliata.
   Mentre la reazione al Sonny Bono Act fu negativa in modo quasi unanime, quella alla sentenza della
Corte fu mista. Nessuno, almeno per quanto riguarda la stampa, tentò di sostenere che l’estensione dei
termini del copyright fosse una buona idea. Avevamo vinto la battaglia sulle idee. I giornali che lodavano
tale decisione erano quelli che in altri casi si erano mostrati scettici sull’attivismo della Corte. Il rispetto
era una buona cosa, anche se lasciava in vigore una legge sciocca. Ma quando la sentenza veniva
attaccata, il motivo era che lasciava in vigore una legge sciocca e dannosa. Così scriveva un editoriale del
New York Times:
   In effetti, la decisione della Corte Suprema rende probabile ciò che si può considerare l’inizio della fine per il pubblico
   dominio e la nascita del copyright perpetuo. Il pubblico dominio è stato un esperimento grandioso, che non si dovrebbe
   lasciare morire. La capacità di utilizzare liberamente l’intera produzione creativa dell’umanità è una delle ragioni per
   cui viviamo in un’epoca di tale fertile fermento creativo.

  Le risposte migliori vennero dai fumetti umoristici. Ci fu un fiorire di immagini divertenti - con
Mickey Mouse in galera e simili. La migliore, secondo me, fu la striscia di Ruben Bolling, riprodotta
nella pagina successiva. La frase “per proteggere la gente ricca e potente” è leggermente scorretta. Ma il
pugno in faccia che abbiamo ricevuto è stato altrettanto forte.
  L’immagine che mi rimarrà sempre scolpita nella mente è quella evocata dalla citazione del New York
Times. Quel “grandioso esperimento” che chiamiamo “pubblico dominio” è finito? Quando voglio fare
una battuta, penso: “Tesoro, mi si è ristretta la Costituzione”. Ma raramente riesco a scherzarci sopra. La
nostra Costituzione conteneva l’impegno a sostenere la cultura libera. Nel caso che ho patrocinato, in
pratica la Corte Suprema ha rinunciato a quell’impegno. Un avvocato migliore li avrebbe convinti a
vedere le cose diversamente.




                                                              138
139
                                                 Parte IV


                                            Equilibri


   Ecco il quadro: ci troviamo su un lato della strada. La nostra automobile è in fiamme. Siamo arrabbiati
e contrariati perché in parte siamo stati noi a provocare l’incendio. Ora non sappiamo come fare a
spegnerlo. Lì di fianco c’è un secchio, pieno di benzina che, ovviamente, non servirà a nulla.
   Mentre riflettiamo su questo disastro, si avvicina una persona. In un attacco di panico, eccola prendere
il secchio. Prima che possiamo dirle di fermarsi - o prima che comprenda perché mai dovrebbe fermarsi -
lancia il contenuto del secchio. La benzina sta per arrivare sull’auto in fiamme. E il fuoco, che così verrà
alimentato si estenderà a tutto quello che la circonda.
   La guerra sul copyright infuria intorno a noi - e siamo tutti concentrati sull’elemento sbagliato. Senza
dubbio le attuali tecnologie minacciano le attività commerciali esistenti. Certamente possono costituire
una minaccia per gli artisti. Ma le tecnologie cambiano. L’industria e i tecnici hanno molti modi per
usare la tecnologia per proteggersi contro le attuali minacce di Internet. Questo è un fuoco che, se
lasciato in pace, finirà per spegnersi da solo.
   Tuttavia i legislatori non vogliono lasciarlo stare. Imbottiti dal cospicuo denaro dei lobbisti, sono
pronti a intervenire per eliminare il problema. Ma il problema, come lo intendono loro, non è la vera
minaccia alla nostra cultura. Perché, mentre guardiamo quel piccolo fuoco che brucia in un angolo,
tutt’attorno si sta verificando una massiccia trasformazione della cultura stessa.
   Dobbiamo trovare a tutti i costi il modo per rivolgere l’attenzione verso questo problema ben più
importante e fondamentale. In ogni caso occorre trovare il modo per evitare di spargere benzina su
quest’incendio.
   Non lo abbiamo ancora trovato. Sembriamo invece intrappolati in una visione più semplicistica.
Sebbene siano numerose le persone che vorrebbero affrontare questo dibattito in un contesto più ampio, è
la visione semplicistica, unilaterale che prevale. Allunghiamo il collo per guardare l’incendio quando
dovremmo tenere gli occhi sulla strada.
   Questa sfida ha occupato la mia vita negli ultimi anni. Ed è stata anche un fallimento. Nei due capitoli
che seguono descrivo un paio di piccoli tentativi, finora andati a vuoto, di rimettere a fuoco il dibattito.
Dobbiamo comprendere tali fallimenti se vogliamo capire che cosa occorre per ottenere il successo.


                                      In questa parte
      Capitolo 14 - Eldred II




                                                    140
                                                 Capitolo 14


                                              Eldred II


   Il giorno in cui fu deciso il caso Eldred, il destino volle che mi trovassi in viaggio verso Washington,
D.C. (Il giorno in cui venne negata la richiesta di un’ulteriore discussione - il che significava la definitiva
chiusura del caso - stavo andando invece a presentare una relazione a un gruppo di tecnologi al Disney
World.) Fu un viaggio particolarmente lungo per raggiungere la città che meno mi piace. A causa del
traffico, il viaggio dall’aeroporto di Dulles procedeva a rilento, così tirai fuori il computer e scrissi un
editoriale.
   Era un atto di pentimento. Per l’intera durata del volo da San Francisco a Washington, aveva
continuato a risuonarmi nella testa il consiglio di Don Ayer: devi dimostrare loro perché è importante. E
a quella frase si alternava l’affermazione del giudice Kennedy, il quale aveva detto che, se la legge aveva
“impedito in tutti questi anni il progresso della scienza e delle arti”, lui non vedeva “ nessuna prova
pratica di tutto ciò”.
   E così, non essendo riuscito a sostenere il principio costituzionale, passavo ora a una discussione
politica.
   Il pezzo venne pubblicato dal New York Times. Questa volta proponevo una soluzione semplice: a
cinquant’anni dalla pubblicazione di un’opera, il titolare del copyright avrebbe dovuto registrarla e
pagare una piccola quota. Se pagava, l’opera avrebbe ottenuto tutti i benefici del copyright. Se non lo
faceva, sarebbe diventata pubblico dominio.
   Lo chiamammo Eldred Act, ma era solo per dargli un nome. Eric Eldred fu abbastanza gentile da
lasciare che si usasse nuovamente il suo nome, ma, come affermò subito, la proposta non sarebbe passata
se non ne avessimo trovato un altro.
   O altri due. Perché, a seconda dei punti di vista, questo è il “Public Domain Enhancement Act” oppure
il “Copyright Term Deregulation Act”. In ogni modo, l’idea nella sua sostanza è chiara e ovvia: eliminare
il copyright quando non fa altro che bloccare l’accesso alla conoscenza e la sua diffusione; e mantenerlo
finché il Congresso lo consente per quelle opere che valgono almeno un dollaro. Altrimenti, lasciamo che
i contenuti siano liberi.
   La reazione a questa idea fu incredibilmente forte. Steve Forbes la appoggiò in un editoriale. E
ricevetti una valanga di e-mail e di lettere di sostegno. Quando si punta sul problema della creatività che
va perduta, la gente riesce a vedere quanto sia insensato il sistema del copyright. Come direbbe un buon
repubblicano, in questo caso la regolamentazione del governo è semplicemente un intralcio
all’innovazione e alla creatività. E, come sosterrebbe un buon democratico, in questo caso il governo sta
bloccando l’accesso alla conoscenza e la sua diffusione senza alcuna ragione. Su tale argomento non
esiste infatti alcuna differenza tra Democratici e Repubblicani. Chiunque può riconoscere quanto sia
stupidamente dannoso l’attuale sistema.
   Anzi, sono in molti a rendersi conto dell’ovvio beneficio che porterebbe l’obbligo di registrazione.
Perché, una delle maggiori difficoltà imposte dall’attuale sistema a coloro che vogliono ottenere una
licenza su determinati contenuti, è che non esiste un luogo dove reperire i detentori di un copyright. Dato
che non viene richiesta la registrazione, dato che non occorre contrassegnare il contenuto con il marchio
© e dato che non s’impone alcuna formalità, spesso è mostruosamente arduo localizzare i proprietari per


                                                     141
chiedere l’autorizzazione all’uso di un’opera. Il nostro sistema farebbe diminuire tali difficoltà, dando
vita quantomeno a un’anagrafe dove sia possibile identificare i titolari del diritto d’autore.
   Come ho detto nel capitolo 10, le formalità furono eliminate nel 1976, quando il Congresso seguì la
decisione europea di abbandonare qualsiasi requisito formale1. Si ritiene che gli europei considerino il
copyright un “diritto naturale”. I diritti naturali non hanno bisogno di formalità per esistere. Le tradizioni
come quella anglo-americana che impongono ai titolari del copyright alcune formalità per tutelarne i
diritti, non rispettavano, secondo gli europei, la dignità dell’autore. Il mio diritto come autore è dovuto
alla mia creatività, non a un particolare favore del governo.
   Questa è grande retorica. Suona meravigliosamente romantico. Ma è una politica assurda per il
copyright. Lo è soprattutto per gli autori, perché un mondo senza formalità danneggia chi crea. La
capacità di diffondere la “creatività alla Walt Disney” viene distrutta quando non esiste un modo
semplice per sapere cosa è tutelato e cosa non lo è.
   La battaglia contro le formalità ottenne la prima vera vittoria a Berlino nel 1908. In quell’anno, gli
avvocati internazionali specializzati nel campo del copyright emendarono la Convenzione di Berna,
imponendo una durata pari alla vita dell’autore più cinquant’anni, e inoltre l’abolizione delle relative
formalità. Che erano molto mal viste, perché le storie di perdite involontarie divenivano sempre più
frequenti. Era come se un personaggio di Charles Dickens girasse per tutti gli uffici del copyright, e la
dimenticanza del puntino su una i o del trattino di una t causasse a una vedova la perdita della sua unica
fonte di reddito.
   Queste lamentele erano vere e ragionevoli. E il rigore delle formalità, soprattutto negli Stati Uniti, era
assurdo. La legge dovrebbe sempre prevedere dei modi per emendare errori innocenti. E non c’è un
motivo per cui non dovrebbe farlo anche la normativa sul copyright. Anziché eliminare del tutto le
formalità, a Berlino la risposta avrebbe dovuto essere l’adozione di un sistema di registrazione più equo.
   Ma anche questo avrebbe incontrato resistenza, perché nel XIX e nel XX secolo la registrazione
costava comunque piuttosto cara. Era anche un bell’impiccio burocratico. L’abolizione delle formalità
prometteva non soltanto di salvare le vedove che morivano di fame, ma anche di alleggerire gli autori di
un inutile peso.
   Nel 1908, oltre alle lamentele di ordine pratico degli autori, si discusse anche di una rivendicazione
morale. Non c’era motivo per considerare la proprietà creativa una forma di proprietà di seconda classe.
Se un falegname costruisce un tavolo, i suoi diritti su di esso non dipendono dalla compilazione di un
apposito modulo per le autorità governative. Il diritto di proprietà su quel tavolo gli appartiene
“naturalmente” e può esercitarlo contro chiunque abbia intenzione di rubarlo, che abbia informato o
meno il governo di quella proprietà.
   Questa tesi è corretta, ma le sue implicazioni sono fuorvianti. Perché l’argomento a favore delle
formalità non dipende dal fatto che la proprietà creativa sia una forma di proprietà di seconda classe, ma
riguarda i particolari problemi che proprio la proprietà creativa pone. Le norme sulle formalità
rispondono alla specifiche leggi fisiche di quella proprietà, per assicurarne una diffusione efficace e
corretta.
   Nessuno ritiene, per esempio, che un terreno sia una proprietà di seconda classe soltanto perché
occorre registrarne il passaggio di proprietà presso un notaio se si vuole che la sua vendita sia valida. E
pochi penserebbero che un’automobile sia una proprietà di seconda classe soltanto perché bisogna
immatricolarla e mettervi una targa. In entrambi i casi, c’è un motivo importante per procedere alla
registrazione - perché rende più efficiente il mercato e perché garantisce i diritti del proprietario. Senza
un sistema di registrazione per i terreni, i proprietari dovrebbero sorvegliare costantemente ciò che
possiedono. Grazie alla registrazione, basta presentare alle autorità l’atto di compravendita. Se non ci
fosse un sistema di registrazione per le automobili, sarebbe assai più semplice rubarle. Invece, con il

                                                     142
sistema in vigore, per un ladro è più difficile rivendere una macchina rubata. Qualche difficoltà ricade sul
proprietario, ma il risultato è un sistema migliore per la tutela della proprietà in generale.
   Analogamente, sono le particolari caratteristiche fisiche a rendere importanti le formalità nella
legislazione sul copyright. Contrariamente al tavolo del falegname, in natura non esiste nulla che renda
palese chi sia il titolare di una specifica proprietà creativa. Si può trovare una copia dell’ultimo album di
Lyle Lovett in un milione di posti diversi, senza che ci sia nulla a collegarla necessariamente a uno
specifico proprietario. E, come per un’automobile, non c’è un modo per acquistare e vendere con fiducia
una proprietà creativa, se non esiste una semplice procedura per autenticarne l’autore e stabilire quali
siano i suoi diritti. In un mondo privo di formalità non ci sono più transazioni semplici. Al loro posto
troviamo transazioni complesse, costose, mediante avvocati.
   Questa era la visione del problema relativo al Sonny Bono Act, che tentammo di dimostrare alla Corte
Suprema. E questa fu la parte che non capirono. Siccome viviamo in un sistema privo di formalità, non
esiste un modo semplice per usare la cultura del passato e costruire su di essa. Se la durata del copyright
fosse “breve”, come il giudice Story ritiene che dovrebbe essere, allora la cosa non avrebbe grande
importanza. In base al sistema impostato dagli estensori della Costituzione, l’opera resterebbe sotto
controllo per quattordici anni. Dopo di che, presumibilmente, rimarrebbe senza controllo.
   Ma ora che il copyright può durare quasi un secolo, l’impossibilità di sapere cosa è tutelato e cosa non
lo è diventa un peso enorme e inevitabile che grava sul processo creativo. Se l’unica soluzione, per una
biblioteca che voglia presentare in Internet una mostra sul New Deal, è assumere un avvocato per
risolvere la questione dei diritti su ogni immagine e suono, allora il sistema del copyright rappresenta un
enorme onere per la creatività, proprio perché non esistono formalità.
   L’Eldred Act è stato progettato per risolvere esattamente questo problema. Se un’opera vale un dollaro
per l’autore, allora basta che lui la registri e chieda la durata massima. Gli altri sapranno come contattarlo
e, di conseguenza, come ottenere l’autorizzazione qualora vogliano usarla. E l’autore avrà anche il
beneficio dell’estensione della durata del copyright.
   Se l’autore decide che non vale la pena di registrarla per ottenere l’estensione dei termini, allora non
conviene neppure al governo difendere il suo monopolio su quell’opera. Essa diventerebbe di pubblico
dominio, e chiunque potrebbe copiarla o collocarla in un archivio oppure ricavarci un film. Se non vale
nemmeno un dollaro per l’autore, diventa libera.
   Qualcuno si preoccupa degli oneri che ricadrebbero sugli autori. L’obbligo di registrare l’opera non
significa che il valore di un dollaro sia in realtà fuorviante? Il rompicapo della procedura non vale forse
più di un dollaro? Non è questo il problema reale della registrazione?
   Lo è. È una procedura tremenda. Il sistema attuale è orribile. Sono completamente d’accordo sul fatto
che il Copyright Office abbia fatto un brutto lavoro (senza dubbio per la vergognosa scarsità di fondi) per
quanto riguarda la semplicità e i costi di registrazione. Qualsiasi soluzione concreta al problema delle
formalità deve affrontare la vera questione di fondo dei governi, al centro di ogni sistema burocratico. In
questo libro, offro una possibile soluzione. Che prevede sostanzialmente di riorganizzare il Copyright
Office. Per esempio, poniamo che sia Amazon a gestire il sistema di registrazione. Immaginiamo che per
registrare un’opera basti un semplice clic del mouse. L’Eldred Act proporrebbe un analogo sistema di
registrazione, con un semplice clic, da attivare cinquant’anni dopo la pubblicazione dell’opera. In base a
dati storici, tale sistema farebbe diventare di pubblico dominio, nel giro di cinquant’anni, fino al 98 per
cento dei lavori destinati al mercato che hanno esaurito la loro vita commerciale. Che ve ne pare?
   Quando Steve Forbes appoggiò l’idea, qualcuno a Washington iniziò a prestarvi attenzione. Molta
gente mi contattò segnalandomi i parlamentari che potevano essere interessati a presentare in aula
l’Eldred Act. E qualcuno di loro sembrava avere l’intenzione di fare il primo passo.


                                                     143
   Un deputato, Zoe Lofgren della California, arrivò fino al punto di stilare una bozza del disegno di
legge. Il testo risolveva ogni problema riguardante le norme internazionali. Imponeva ai titolari del
copyright la procedura più semplice possibile. Nel maggio del 2003, sembrava che la proposta fosse sul
punto di essere presentata. Il 16 maggio scrissi sul blog dell’Eldred Act: “Manca poco”. Nella comunità
del blog si aveva la sensazione che potesse uscirne qualcosa di buono.
   Ma a questo punto intervennero i lobbisti. Jack Valenti e il consigliere generale della Motion Picture
Association of America (MPAA) si recarono nell’ufficio della deputata per illustrare la loro posizione.
Assistiti dal loro avvocato, come mi riferì Valenti, la informarono che la MPAA si sarebbe opposta
all’Eldred Act. Le motivazioni erano inconsistenti in modo imbarazzante. E la loro inconsistenza fa
chiarezza su quale sia realmente il punto focale di questo dibattito.
   Primo, la MPAA sostenne che il Congresso aveva “fermamente rifiutato il concetto di fondo della
proposta di legge” - che il copyright si debba rinnovare. Vero ma irrilevante, poiché il “fermo rifiuto” da
parte del Congresso era avvenuto molto tempo prima che Internet rendesse assai più probabile che
un’opera potesse essere riutilizzata. Secondo, dissero che la proposta avrebbe danneggiato i titolari di
copright meno abbienti - quelli che non potevano permettersi di pagare la tariffa di un dollaro. Terzo,
ribadirono che il Congresso aveva stabilito che l’estensione del termine del copyright avrebbe
incoraggiato il lavoro di restauro. Forse ciò era possibile nel caso della piccola percentuale di opere
protette da copyright che conservano ancora un valore commerciale, ma, come ho già detto, il punto era
irrilevante dato che la proposta non avrebbe eliminato l’estensione della durata, purché si pagasse la
quota di un dollaro. Quarto, la MPAA disse che il disegno di legge avrebbe imposto costi “enormi”, dato
che un sistema di registrazione richiede delle spese. Ciò è abbastanza vero, ma tali spese sono
sicuramente inferiori a quelle necessarie per risolvere la questione dei diritti su un copyright di cui non si
conosce il titolare. Quinto, erano preoccupati per i possibili rischi per il copyright se un’opera da cui si
era tratto un film diventasse di pubblico dominio. Ma quali rischi? Se l’opera è di pubblico dominio,
allora il film ne è un valido uso derivato.
   Infine, la MPAA sosteneva che le leggi vigenti permettevano ai titolari del copyright di usare, se
volevano, quella stessa procedura. Ma il fatto è che ci sono migliaia di titolari che non sanno neppure di
avere un copyright. Che siano liberi o meno di regalarlo - faccenda comunque controversa - se non sanno
di possederlo, è improbabile che lo facciano.
   All’inizio del libro ho raccontato due vicende riguardanti il modo in cui la legge reagisce alle
trasformazioni tecnologiche. Nella prima, il senso comune riuscì a prevalere. Nella seconda, non fu così.
La differenza tra le due storie sta nel potere dell’opposizione - la forza della fazione che scende in campo
per difendere lo status quo. In entrambi i casi, una nuova tecnologia minacciava vecchi interessi. Ma in
un solo caso tali interessi ebbero la forza di difendersi contro la nuova minaccia che faceva loro
concorrenza.
   Ho usato questi due casi per dipingere un quadro della guerra che costituisce il tema del libro. Perché
anche in questo caso una nuova tecnologia sta costringendo la legge a reagire. E, anche in questo caso,
dovremmo chiederci se la legge debba adeguarsi oppure opporsi al senso comune. Se è il senso comune a
dare sostegno alla legge, come lo si può negare?
   Quando il problema è la pirateria, è giusto che la legge tuteli i titolari del copyright. La pirateria
commerciale che ho descritto è illegale e dannosa, e la legge dovrebbe eliminarla. Quando il problema è
la condivisione p2p, è facile capire perché la legge continui a restare dalla parte dei proprietari: gran
parte di questa condivisione è illegale, pur essendo innocua. Quando il problema è la durata del copyright
per i Mickey Mouse del mondo, si può ancora comprendere perché la legge favorisca Hollywood: la
maggior parte della gente non riesce a comprendere i motivi per limitare la durata del copyright; è ancora
possibile vedere una certa buona fede in questa resistenza.

                                                     144
    Ma quando i titolari del diritto d’autore si oppongono a una proposta come l’Eldred Act, ecco allora,
finalmente, un esempio che mette a nudo gli interessi personali che muovono questa guerra. La nostra
norma libererebbe una straordinaria quantità di materiale che altrimenti rimarrebbe inutilizzato. Non
interferirebbe con il desiderio dei titolari di continuare a esercitare un controllo sulla propria opera. Non
farebbe altro che liberare quel che Kevin Kelly definisce “i contenuti oscuri” che riempiono gli archivi di
tutto il mondo. Perciò, quando ci si oppone a una modifica come questa, dovremmo porci una semplice
domanda: che cosa vuole davvero l’industria?
    Agli interessati basterebbe uno sforzo molto piccolo per proteggere il loro materiale. Quindi il
tentativo di bloccare l’Eldred Act non riguarda in realtà la tutela dei loro contenuti. Si tratta di una lotta
per assicurarsi che più nulla divenga di pubblico dominio. È un ulteriore passo per essere sicuri che il
pubblico dominio non possa far loro concorrenza, che non si faccia uso di materiale che non sia possibile
controllare commercialmente e che non esistano utilizzazioni commerciali di contenuti per i quali non si
debba chiedere prima la loro autorizzazione.
    L’opposizione all’Eldred Act rivela quanto sia estremista l’altra fazione. La lobby più potente, sexy e
amata non ha come obiettivo reale la tutela della “proprietà”, ma il rifiuto di una tradizione. Il loro scopo
non è semplicemente proteggere ciò che posseggono. L’obiettivo è assicurarsi che tutto ciò che esiste sia
di loro proprietà.
    Non è difficile comprendere questa posizione. Non è difficile vedere quanto sarebbe vantaggioso per
queste persone se la concorrenza del pubblico dominio legata a Internet venisse schiacciata. Proprio
come la RCA temeva la concorrenza della FM, esse temono quella di un pubblico dominio e di un
pubblico che ora dispone dei mezzi per creare a partire da questo e per condividere le proprie creazioni.
    Quel che rimane difficile da comprendere è perché la gente faccia sua questa posizione. È come se la
legge accusasse gli aeroplani di sconfinare illegalmente. La MPAA sta dalla parte dei Causby e pretende
il rispetto di diritti di proprietà remoti e inutili, in modo che i titolari di copyright lontani e dimenticati
possano bloccare il progresso altrui.
    Tutto ciò sembra derivare da una supina accettazione del concetto tradizionale di “proprietà”
nell’ambito della proprietà intellettuale. Il senso comune sta da questa parte e, finché la cose stanno così,
verranno colpite sempre di più le tecnologie di Internet. La conseguenza sarà una “società del permesso”
sempre più forte. Si può coltivare un’opera del passato se si può identificarne il proprietario e ottenere
l’autorizzazione a costruire sul suo lavoro. Il futuro sarà controllato dalla mano morta (e spesso
introvabile) del passato.




                                                     145
                                                Conclusione




   Nel mondo ci sono oltre 35 milioni di persone affette dal virus dell’AIDS. Venticinque milioni di loro
vivono nell’Africa sub-sahariana. Diciassette milioni sono già morte. In percentuale diciassette milioni di
africani equivalgono a sette milioni di americani. Cosa importante, si tratta di diciassette milioni di
africani.
   Non esiste cura per l’AIDS, ma esistono medicine che rallentano il progredire del male. Queste terapie
antiretrovirali sono tuttora in fase di sperimentazione, ma hanno già avuto notevoli effetti. Negli Stati
Uniti i malati di AIDS che assumono regolarmente un cocktail di questi farmaci vedono aumentare le
loro aspettative di vita da dieci a venti anni. Per alcuni, questi farmaci rendono la malattia quasi
inavvertita.
   Si tratta di medicine costose. Quando vennero introdotte per la prima volta negli Stati Uniti, costavano
tra i 10.000 e i 15.000 dollari l’anno a persona. Oggi alcune raggiungono i 25.000 dollari. A simili
prezzi, nessuna nazione africana può permettersi questi farmaci: 15.000 dollari equivalgono a trenta volte
il prodotto nazionale lordo pro capite dello Zimbabwe. Dunque, tali medicine sono irraggiungibili1.
   I prezzi non sono così alti a causa del costo degli ingredienti, ma perché le medicine sono coperte dai
brevetti. Le industrie farmaceutiche che producono questi cocktail salvavita godono di un monopolio di
almeno venti anni per le loro invenzioni e usano questo potere per ricavare il massimo guadagno
possibile dal mercato. Tale potere, a sua volta, viene utilizzato per tenere alti i prezzi.
   Molta gente considera con scetticismo i brevetti, soprattutto quelli sulle medicine. Io no. Anzi, fra tutti
i settori della ricerca che si basano sui brevetti, penso che la ricerca sui farmaci sia il caso più evidente
della loro necessità. Essi garantiscono a un’azienda farmaceutica che, se inventerà una nuova sostanza
per la cura di una malattia, potrà recuperare l’investimento e anche di più. A livello sociale si tratta di un
incentivo estremamente prezioso. Io sono l’ultimo a sostenere che la legge debba abolirlo, almeno senza
ulteriori modifiche.
   Ma una cosa è sostenere la necessità dei brevetti, anche quelli sulle medicine, e un’altra è stabilire
come gestire una crisi nel modo migliore. E quando i leader africani iniziarono a rendersi conto della
devastazione prodotta dall’AIDS, cercarono strade alternative per importare i farmaci contro l’HIV a
costi decisamente inferiori al prezzo corrente del mercato.
   Nel 1997, il Sud Africa fece un tentativo. Approvò una legge che consentiva l’importazione di
medicine brevettate che fossero state prodotte o vendute in un’altra nazione con il consenso del titolare
del brevetto. Per esempio, se le medicine erano vendute in India, potevano essere importate in Africa da
quel paese. Questo procedimento viene definito “importazione parallela”, è generalmente consentito
dalle norme dei trattati internazionali sul commercio ed è in particolare permesso all’interno dell’Unione
Europea2.
   Tuttavia il governo degli Stati Uniti si oppose al decreto. Anzi, fece di più. Secondo l’Associazione
Internazionale sulla Proprietà Intellettuale, “il governo USA esercitò pressioni sul Sud Africa ... affinché
non permettesse licenze regolate dalla legge o importazioni parallele3”. Tramite l’Ufficio del
rappresentante commerciale (Office of the United States Trade Representative), il governo chiese al Sud
Africa di modificare la legge - e, per rendere più pressante quella richiesta, nel 1998 l’Ufficio inserì il


                                                     146
Sud Africa nell’elenco dei paesi passibili di sanzioni commerciali. Nello stesso anno oltre quaranta
società farmaceutiche iniziarono azioni legali nei tribunali sud-africani per contrastare la decisione
governativa. Agli Stati Uniti si aggiunsero poi altri governi dell’Unione Europea. La loro opinione, e
quella delle società farmaceutiche, era che il Sud Africa stesse violando gli obblighi sottoscritti in base
alle norme internazionali, operando discriminazioni contro un particolare tipo di brevetti - quelli
farmaceutici. Tali governi, con in testa gli Stati Uniti, chiedevano che il Sud Africa rispettasse quei
brevetti come faceva con tutti gli altri, indipendentemente dalle conseguenze sulla cura dell’AIDS nel
paese4.
   L’intervento degli Stati Uniti va visto nel giusto contesto. Senza dubbio non sono i brevetti la ragione
più importante per cui gli africani non hanno accesso alle medicine. Contano di più la povertà e la totale
assenza di un’efficace infrastruttura per l’assistenza sanitaria. Ma, che i brevetti rappresentino o meno il
motivo principale, il prezzo dei farmaci ha effetto sulla domanda, e i brevetti sul prezzo. E così, la
conseguenza dell’intervento del nostro governo, massiccia o marginale che fosse, fu di impedire il flusso
di farmaci verso l’Africa.
   Bloccando il flusso dei farmaci contro l’HIV verso l’Africa, il governo degli Stati Uniti non li
conservava per i cittadini statunitensi. Non stiamo parlando di grano (“se lo mangiano loro, non ce n’è
per noi”); al contrario, quello che la manovra statunitense aveva bloccato era, in effetti, un flusso di
conoscenze: informazioni su come utilizzare sostanze chimiche reperibili in Africa e trasformarle in
medicine che avrebbero salvato da 15 a 30 milioni di vite.
   L’intervento degli Stati Uniti non mirava neppure a tutelare i profitti delle società farmaceutiche
statunitensi - almeno, non in modo sostanziale. Infatti questi paesi non avevano la possibilità di
acquistare le medicine al prezzo imposto dalle aziende. Come ho già detto, gli africani sono troppo
poveri per potersi permettere tali sostanze al prezzo a cui vengono offerte. Bloccare l’importazione
parallela delle medicine non avrebbe aumentato in modo sostanziale le vendite delle aziende USA.
   Piuttosto, la motivazione principale della restrizione di questo flusso di informazioni, necessario per
salvare la vita a milioni di persone, era il concetto che la proprietà è sacra5. Dal momento che sarebbe
stata violata la “proprietà intellettuale”, questi farmaci non dovevano circolare in Africa. Fu un principio
riguardante l’importanza della “proprietà intellettuale” a guidare il governo nell’intervento contro la
risposta sud-africana all’AIDS.
   Facciamo una breve riflessione. Ci sarà un momento in cui, fra trent’anni, i nostri figli ci guarderanno
e ci chiederanno come abbiamo potuto permettere che tutto questo accadesse. Perché mai abbiamo
consentito che si perseguisse una politica il cui costo diretto sarebbe stato affrettare la morte di 15-30
milioni di africani, e il cui unico beneficio era quello di riaffermare la “santità” di un’idea? Quale
giustificazione ci può essere per una decisione che provoca tanti morti? Che nome potremmo dare a una
follia che permette che tante persone muoiano per un’idea astratta?
   Alcuni accusano le società farmaceutiche. Io non lo faccio. Si tratta di corporation. Per legge, i
dirigenti sono obbligati a far guadagnare la loro azienda. Non spingono una determinata politica sui
brevetti per seguire un ideale, ma perché essa consente loro di guadagnare molto denaro. E la causa è una
certa corruzione all’interno del nostro sistema - di cui sicuramente le società farmaceutiche non sono
responsabili.
   La corruzione dipende dalla mancanza di integrità degli uomini politici. Infatti le società
farmaceutiche preferirebbero - così dicono almeno, e io ci credo - vendere le medicine a prezzi più bassi
nei paesi africani e altrove. Esse devono risolvere il problema di assicurarsi che i farmaci non rientrino
negli Stati Uniti, ma si tratta semplicemente di questioni tecniche, che si possono affrontare.
   C’è, tuttavia, un altro problema, che non si può risolvere. È il timore che un importante uomo politico
possa convocare i presidenti delle aziende farmaceutiche davanti alla Camera o al Senato e chiedere loro:

                                                    147
“Come mai vendete questa medicina per l’HIV soltanto a 1 dollaro a pillola in Africa, mentre a un
americano costa 1.500 dollari?” Una risposta semplice a una domanda del genere avrebbe come
conseguenza la regolamentazione dei prezzi in America. Le aziende farmaceutiche non entrano in questa
spirale, evitando di fare il primo passo. Sostengono l’idea che la proprietà intellettuale sia sacra.
Adottano una strategia razionale in un contesto irrazionale, con la conseguenza non voluta che milioni di
persone forse moriranno. E quella strategia razionale viene inquadrata nei termini di un ideale - la
sacralità di un concetto chiamato “proprietà intellettuale”.
   Così quando dovremo fare i conti con il buon senso dei nostri figli, che cosa diremo loro? Quando il
buon senso di una generazione si ribellerà contro ciò che abbiamo fatto, come ci giustificheremo? Quali
argomenti troveremo?
   Una politica sensata potrebbe appoggiare e sostenere il sistema dei brevetti senza comportarsi
esattamente allo stesso modo con chiunque in qualsiasi paese. Come una politica sensata potrebbe
appoggiare e sostenere il sistema del copyright senza regolamentare la circolazione della cultura in modo
definitivo e per sempre, così una politica sensata sui brevetti potrebbe appoggiare e sostenere il relativo
sistema senza bloccare la diffusione di farmaci in un paese che non è abbastanza ricco da potersi
permettere i prezzi imposti dal mercato. Un’azione politica sensata, in altri termini, dovrebbe essere
anche equilibrata. E in gran parte della nostra storia sia la politica sul copyright sia quella sui brevetti
sono state equilibrate.
   Ma la nostra cultura ha perso questo equilibrio. Abbiamo smarrito il senso critico che ci aiuta a vedere
la differenza tra verità ed estremismo. Oggi nella nostra cultura regna una concezione fondamentalista
della proprietà, che non ha legami con la tradizione - qualcosa di anomalo, che avrà conseguenze più
gravi, rispetto alla circolazione delle idee e della cultura, di qualsiasi altra decisione che prenderà la
nostra democrazia.
   È un’idea semplice quella che ci acceca, e nel buio avvengono cose che la maggior parte di noi
rifiuterebbe se riuscisse a vederle. Accettiamo in maniera così acritica il concetto di proprietà delle idee,
che non ci rendiamo neppure conto di quanto sia mostruoso negare le idee a un popolo che senza di esse
sta morendo. Accogliamo in maniera così acritica il concetto di proprietà della cultura che non facciamo
obiezioni quando il controllo di tale proprietà elimina la nostra capacità, come popolo, di sviluppare
democraticamente la cultura. La cecità sostituisce il senso comune. E la sfida per chiunque voglia
reclamare il diritto di coltivare la cultura è trovare il modo di aprire gli occhi a questo senso comune.
   Per ora il senso comune dorme. Non si ribella. Non riesce ancora a vedere a che cosa ci si dovrebbe
ribellare. L’estremismo che oggi domina questo dibattito si adegua a idee che sembrano naturali, e questo
adeguamento viene rafforzato dalle RCA dei nostri giorni. Le quali si lanciano in una frenetica guerra per
combattere la “pirateria” e devastare la cultura della creatività. Difendono il concetto di “proprietà
creativa”, mentre trasformano i veri creatori in mezzadri dell’era moderna. Si ritengono insultate
dall’idea che i diritti debbano essere equilibrati, anche se ognuno dei protagonisti di questa guerra sui
contenuti ha tratto benefici da un ideale più equilibrato. L’ipocrisia puzza. Eppure in una città come
Washington, l’ipocrisia non viene neppure notata. Lobby potenti, questioni complesse e un livello
d’attenzione simile a quello di MTV producono una “tempesta perfetta” per la cultura libera.
   Nell’agosto del 2003, negli Stati Uniti scoppiò un putiferio a causa della decisione della World
Intellectual Property Organization (WIPO) di cancellare un incontro6. Su richiesta di un ampio gruppo di
soggetti interessati, il WIPO aveva indetto una riunione per discutere “progetti aperti e collaborativi per
la creazione di beni pubblici”. Si trattava di progetti che erano riusciti a realizzare beni pubblici senza
affidarsi esclusivamente all’uso proprietario della proprietà intellettuale. Gli esempi comprendevano
Internet e il World Wide Web, entrambi sviluppati sulla base di protocolli di pubblico dominio. Emergeva
anche la tendenza a sostenere riviste accademiche aperte, tra cui il progetto della Public Library of

                                                    148
Science, che illustro nella postfazione. C’era anche un progetto per lo sviluppo di polimorfismi dei
singoli nucleotidi, ritenuto molto significativo per la ricerca biomedica. (Questo progetto non-profit
vedeva coinvolto un consorzio formato dal Wellcome Trust e da aziende farmaceutiche e tecnologiche,
tra cui Amersham Biosciences, AstraZeneca, Aventis, Bayer, Bristol-Myers Squibb, Hoffmann-La
Roche, Glaxo-SmithKline, IBM, Motorola, Novartis, Pfizer e Searle.) C’era il Global Positioning
System, che Ronald Reagan rese libero all’inizio degli anni ’80. E vi rientrava anche “il software libero e
open source”.
   Scopo della riunione era considerare quest’ampia gamma di progetti da una prospettiva comune:
nessuno di loro poggiava sull’estremismo della proprietà intellettuale. Al contrario, in ognuno di essi la
proprietà intellettuale era controbilanciata da accordi atti a mantenere aperto l’accesso o a imporre
limitazioni all’utilizzo delle rivendicazioni proprietarie.
   Dal punto di vista di questo libro, dunque, la conferenza era perfetta7. I progetti che intendeva
discutere comprendevano lavori commerciali e non-commerciali. Essi riguardavano principalmente la
scienza, ma da vari punti di vista. E il WIPO era il contesto ideale per questa discussione, poiché era
l’ente internazionale più in vista fra quelli che si occupano di questioni inerenti la proprietà intellettuale.
   Anzi, una volta venni rimproverato pubblicamente per non aver riconosciuto questa prerogativa
dell’organizzazione. Nel febbraio del 2003, presentai una relazione a una conferenza preparatoria per il
Summit mondiale sulla società dell’informazione (WSIS, World Summit on the Information Society).
Durante la conferenza stampa precedente l’intervento, mi venne chiesto che cosa avrei detto. Risposi che
avrei anche parlato brevemente dell’importanza dell’equilibrio nella proprietà intellettuale per lo
sviluppo della società dell’informazione. La moderatrice dell’evento intervenne prontamente per
informare me e i giornalisti presenti che non si sarebbe discusso al Summit su nessuna questione relativa
alla proprietà intellettuale, poiché questi problemi erano dominio esclusivo della World Intellectual
Property Organization. Nell’intervento che avevo preparato, in realtà il tema della proprietà intellettuale
era abbastanza marginale. Ma, dopo questa incredibile dichiarazione, lo feci diventare l’unico argomento
della relazione. Non era possibile discutere sulla “Società dell’Informazione” senza parlare anche della
percentuale di informazione e cultura che sarebbe stata libera. Il mio intervento non risultò molto gradito
alla moderatrice non troppo moderata. La quale aveva ragione quando sosteneva che la portata delle
protezioni sulla proprietà intellettuale era normalmente una materia che riguardava il WIPO. Ma dal mio
punto di vista, non si sarebbe potuto discutere su quanto fosse necessaria la proprietà intellettuale, dato
che era andata perduta l’idea stessa di equilibrio nella proprietà intellettuale.
   Non so se il Summit potesse discutere o meno dell’equilibrio nella proprietà intellettuale, davo però
per scontato che il WIPO avrebbe potuto e dovuto farlo. E quindi la riunione sui “progetti aperti e
collaborativi per la creazione di beni pubblici” sembrava perfettamente appropriata all’agenda
dell’organizzazione.
   Ma in quell’elenco di temi in discussione c’era un progetto estremamente controverso, almeno tra i
lobbisti. Quello riguardante “il software open source e libero”. La Microsoft in particolare è molto cauta
nel discutere sull’argomento. Dal suo punto di vista, una conferenza per parlare di software libero e open
source potrebbe apparire simile a un incontro per discutere sul sistema operativo della Apple. Il software
open source e quello libero sono infatti in concorrenza con quello della Microsoft. E in ambito
internazionale numerosi governi hanno iniziato a esplorare la possibilità di servirsi, per usi interni, del
software libero anziché di quello “proprietario”.
   Non intendo affrontare in questa sede un simile dibattito. È solo importante chiarire che la distinzione
non è tra software commerciale e non-commerciale. Ci sono molte aziende importanti che
sostanzialmente si appoggiano al software open source e libero, la più rilevante delle quali è l’IBM. Essa
mostra un crescente interesse per il sistema operativo GNU/Linux, la componente più famosa del

                                                     149
“software libero” - e l’IBM è chiaramente una società commerciale. Quindi sostenere il “software open
source e libero” non significa opporsi alle imprese commerciali. Vuol dire piuttosto sostenere una
modalità di sviluppo del software diversa da quella della Microsoft8.
   E, soprattutto, sostenere questo tipo di software non significa opporsi al copyright. Il “software open
source e libero” non è di pubblico dominio. Piuttosto, come avviene per quello della Microsoft, i titolari
del copyright per il software libero e open source insistono perché i termini della licenza del loro
software siano rispettati da chi lo adotta. Indubbiamente sono termini diversi da quelli della licenza per il
software proprietario. Il software libero rilasciato con la General Public License (GPL), per esempio,
impone che il codice sorgente sia messo a disposizione di chiunque intenda modificare e ridistribuire i
programmi. Ma questo requisito è efficace soltanto se esiste un copyright a governare il software. Se non
fosse così, il software libero non potrebbe imporre questi stessi requisiti a chi lo adotta. Esso dipende
perciò dalla legge sul copyright proprio come quello della Microsoft.
   Quindi era comprensibile che la Microsoft, essendo una società che sviluppa software proprietario, si
sarebbe opposta alla riunione della World Intellectual Property Organization, e che si sarebbe servita dei
suoi lobbisti per far sì che vi si opponesse anche il governo degli Stati Uniti. E infatti questo è
esattamente ciò che si dice sia accaduto. Secondo Jonathan Krim del Washington Post, i lobbisti della
Microsoft riuscirono a convincere il governo statunitense a porre il veto alla conferenza9. Poiché venne a
mancare il sostegno degli Stati Uniti, l’incontro venne cancellato.
   Non biasimo la Microsoft perché fa il possibile per tutelare i propri interessi, nel rispetto della legge. E
fare pressione sui governi non trasgredisce alcuna legge. Non ci fu nulla di strano in questa azione di
lobby e nulla di straordinario nel fatto che il tentativo del più potente produttore di software degli Stati
Uniti abbia avuto successo.
   Sorprese tuttavia il motivo addotto dal governo statunitense per opporsi alla riunione. Come ha scritto
Krim, Lois Boland, responsabile delle relazioni internazionali dell’Ufficio USA dei brevetti e dei marchi
registrati (U.S. Patent and Trademark Office), spiegò che il “software open-source è contrario alla
missione del WIPO, che è quella di promuovere i diritti sulla proprietà intellettuale”. Riportiamo una sua
frase: “Organizzare un incontro che abbia l’obiettivo di disconoscere o abbandonare tali diritti ci sembra
contrario agli scopi della World Intellectual Property Organization”.
   Queste dichiarazioni sono incredibili sotto diversi aspetti.
   Primo, sono chiaramente sbagliate. Come ho detto, la maggior parte del software open source e libero
si basa in modo sostanziale sul diritto di proprietà intellettuale chiamato “copyright”. Senza copyright, i
limiti imposti da quelle licenze non funzionerebbero. Perciò, dire che questo software “si oppone” alla
missione di promuovere i diritti sulla proprietà intellettuale rivela una straordinaria mancanza di
comprensione - il tipo di errore che si può perdonare a uno studente del primo anno di giurisprudenza,
ma che è imbarazzante se viene commesso da un alto funzionario governativo che si occupa di questioni
relative alla proprietà intellettuale.
   Secondo, chi ha mai detto che il solo obiettivo del WIPO sia quello di “promuovere" al massimo
livello la proprietà intellettuale? Come ho detto (e sono stato per questo rimproverato alla conferenza
preparatoria al WSIS), il WIPO deve mirare non soltanto a tutelare nel modo migliore la proprietà
intellettuale, ma anche a trovare l’equilibrio più adatto a questo scopo. Come sanno bene gli economisti e
gli avvocati, il punto più difficile delle norme sulla proprietà intellettuale è raggiungere tale equilibrio.
Ma dovrebbero esserci dei limiti, almeno così pensavo. Verrebbe da chiedere alla Signora Boland: “I
farmaci generici (che derivano da preparati il cui brevetto è scaduto) sono contrari alla missione del
WIPO? Il pubblico dominio indebolisce forse la proprietà intellettuale? Sarebbe stato forse meglio se i
protocolli di Internet fossero stati brevettati?”


                                                     150
   Terzo, anche se si pensa che lo scopo del WIPO sia quello di sostenere al massimo grado i diritti della
proprietà intellettuale, si deve tenere presente che essi sono tradizionalmente posseduti da singole
persone e da aziende. Spetta a loro decidere che cosa fare di quei diritti, perché sono loro a possederli. Se
li vogliono “abbandonare” oppure “disconoscere”, questo è del tutto coerente con la nostra tradizione.
Quando Bill Gates dona oltre 20 miliardi di dollari in beneficenza, non è in disaccordo con gli obiettivi
del sistema proprietario. Al contrario, è proprio questo il senso di tale sistema: offrire ai singoli il diritto
di decidere che cosa fare della loro proprietà.
   Quando la Signora Boland sostiene che c’è qualcosa che non va in una riunione “che abbia l’obiettivo
di disconoscere o abbandonare tali diritti”, dice che la World Intellectual Property Organization ha
interesse a interferire con le scelte dei singoli detentori dei diritti di proprietà intellettuale; che in un certo
senso lo scopo del WIPO dovrebbe essere quello di impedire ai singoli di “abbandonare” o
“disconoscere” un diritto di proprietà intellettuale; e che l’interesse dell’organizzazione non sia soltanto
quello di sostenere in massimo grado i diritti di proprietà intellettuale, ma anche di assicurarsi che essi
vengano esercitati nella maniera più estrema e restrittiva possibile.
   È esistito in passato un sistema proprietario di questo tipo, ben noto alla tradizione anglo-americana. Si
chiamava “feudalesimo”. Sotto il feudalesimo non soltanto la proprietà era nelle mani di un numero
relativamente ristretto di individui e di entità. E non soltanto i diritti connessi a quella proprietà erano
potenti ed estesi. Ma il sistema feudale aveva un forte interesse ad assicurarsi che i titolari della proprietà
all’interno di quel sistema non lo indebolissero affrancando le persone o le proprietà sotto il loro
controllo e rendendole disponibili per il mercato libero. Il feudalesimo si fondava su livelli di controllo e
di concentrazione spinti al massimo livello. E si opponeva a ogni libertà che potesse interferire con tale
controllo.
   Come spiegano Peter Drahos e John Braithwaite, questa è precisamente la scelta che stiamo facendo
oggi a proposito della proprietà intellettuale10. La nostra sarà una società dell’informazione. Questo è
sicuro. Ma ora dobbiamo scegliere se tale società debba essere libera o feudale. La tendenza è verso
quest’ultima.
   Quando scoppiò questa discussione, ne scrissi sul mio blog. Nello spazio riservato ai commenti si
sviluppò un acceso dibattito. La Signora Boland aveva un certo numero di sostenitori che tentarono di
dimostrare la sensatezza delle sue dichiarazioni. Ci fu però un commento per me particolarmente
deprimente. Un utente anonimo scrisse,
   George, hai frainteso Lessig: sta parlando del mondo come dovrebbe essere (“l’obiettivo del WIPO, e di ogni governo,
   deve essere quello di favorire il giusto equilibrio dei diritti di proprietà intellettuale, non soltanto di promuovere tali
   diritti”), non come è. Se stessimo parlando del mondo così come è, ovviamente Boland non avrebbe detto nulla di
   sbagliato. Ma nel mondo che piacerebbe a Lessig, allora sì che sarebbe sbagliato. Bisogna sempre stare attenti a
   distinguere tra il mondo di Lessig e il nostro.

   A prima vista non ne compresi l’ironia. Lo lessi velocemente e pensai che la tesi dell’autore fosse che
il governo dovesse cercare un equilibrio. (Naturalmente, la mia critica alla Signora Boland non
riguardava la sua posizione a proposito dell’equilibrio; dicevo che i suoi commenti tradivano un errore da
studente al primo anno di giurisprudenza. Non mi faccio illusioni sull’estremismo del nostro governo,
Repubblicano o Democratico che sia. La mia sola illusione riguarda il problema se il governo debba dire
o meno la verità.)
   Ovviamente, però, l’autore del commento non era d’accodo. Al contrario, trovava ridicola l’idea stessa
che nel mondo reale, “l’obiettivo” di un governo debba essere quello di “favorire il giusto equilibrio”
della proprietà intellettuale. Evidentemente gli sembrava un’idea sciocca, che tradiva, così riteneva lo
scrivente, la stupidità della mia utopia. “Tipica di un accademico”, avrebbe potuto aggiungere.



                                                              151
   Capisco la critica alle utopie degli accademici. Anch’io le ritengo sciocche, e sono il primo a farmi
gioco degli ideali assurdamente irreali sostenuti dagli accademici nel corso della storia (e non soltanto di
quella del nostro paese).
   Ma quando appare stupida l’idea che il ruolo del governo debba essere quello di “cercare l’equilibrio”,
allora consideratemi pure uno sciocco, perché questo significa che ci troviamo di fronte a un problema
serio. Se tutti trovassero ovvio il fatto che il governo non debba cercare l’equilibrio, il fatto che esso sia
semplicemente uno strumento nelle mani dei lobbisti più potenti, e se tutti pensassero che l’idea che il
governo lavori all’altezza di standard più alti sia assurda e che la pretesa che il governo dica la verità sia
infantile, allora che cosa siamo diventati, noi, la più potente democrazia del mondo?
   Forse è una follia aspettarsi che un alto funzionario governativo dica la verità. È una follia aspettarsi
che la politica del governo non sia al servizio degli interessi dei potenti o sostenere che sia nostro dovere
conservare una tradizione che per lungo tempo è appartenuta alla nostra storia - la cultura libera.
   Se tutto questo è follia, allora speriamo che la follia aumenti. Presto.
   Ci sono momenti di speranza in questa lotta. E momenti sorprendenti. Quando la Federal
Communications Commission stava considerando l’idea di allentare le regole sulla proprietà delle testate,
il che avrebbe incrementato ulteriormente la concentrazione nella proprietà dei media, si formò
un’eccezionale coalizione bipartisan per combattere questo cambiamento. Forse per la prima volta nella
storia, interessi completamente diversi come quelli di National Rifle Association, di American Civil
Liberties Union, di Moveon.org, di William Safire, di Ted Turner e di CodePink Women for Peace, si
organizzarono per opporsi a questo mutamento nella politica della FCC. La quale ricevette un’incredibile
quantità di lettere, 700.000, che richiedevano ulteriori dibattiti e un risultato diverso.
   Quest’attivismo non fermò la FCC, ma poco tempo dopo una vasta coalizione al Senato votò per
ribaltare la decisione. L’ostile seduta che portò al voto evidenziò proprio quanto fosse divenuto potente
quel movimento. Non ci fu alcun appoggio sostanziale alla decisione della FCC, e si manifestò una vasta
e diffusa opposizione a una maggiore concentrazione dei media.
   Ma anche questo movimento trascura un pezzo importante del puzzle. Tale concentrazione non è in se
stessa negativa. La libertà non è minacciata solo perché qualcuno diventa molto ricco, o perché esiste
soltanto un pugno di grandi protagonisti. La scarsa qualità dei prodotti di McDonald’s non significa che
non sia possibile acquistare un buon hamburger altrove.
   Il pericolo non deriva dalla concentrazione dei media, quanto piuttosto dal feudalesimo che questa
concentrazione, associata alla trasformazione del copyright, produce. Il problema non è che poche
aziende potenti controllino una fetta in continua espansione dei media; è che questa concentrazione possa
provocare una quantità ugualmente sproporzionata di diritti - i diritti di proprietà in una forma
storicamente estrema - che la rendono nociva.
   È perciò significativo il fatto che tante persone manifestino in favore della competizione e di una
maggiore diversità. Tuttavia, se queste manifestazioni sono solo contro le dimensioni della
concentrazione, non risultano così sorprendenti. Noi americani vantiamo una lunga storia nell’opporci al
“grande”, che sia saggio o no. La nostra motivazione a combattere ancora una volta contro il “grande”
non rappresenta una novità.
   Sarebbe qualcosa di nuovo, e di molto importante, se un ugual numero di persone manifestasse per
opporsi al crescente estremismo insito nel concetto di “proprietà intellettuale”. Non perché l’equilibrio
sia estraneo alla nostra tradizione; anzi, come ho già detto, l’equilibrio è la nostra tradizione. Ma perché
il pensiero critico riguardante il raggio di azione di tutto ciò che chiamiamo “proprietà” non verrebbe più
esercitato all’interno di questa tradizione.
   Se fossimo Achille, questo sarebbe il nostro tallone; sarebbe il teatro della nostra tragedia.


                                                     152
   Mentre scrivo queste parole conclusive, i telegiornali non parlano d’altro che delle querele sporte dalla
RIAA contro quasi trecento persone11. Eminem è stato appena denunciato per aver “citato” un brano di
musica di un altro autore12. La storia di Bob Dylan che ha “rubato” a un autore giapponese ha fatto il giro
del mondo13. Qualcuno da Hollywood - che insiste a voler rimanere anonimo - riferisce di “un’incredibile
conversazione con persone che lavorano negli studi cinematografici. Essi hanno del (vecchio) materiale
veramente eccezionale che vorrebbero usare, ma non possono farlo, perché non riescono a sistemare la
faccenda dei diritti. Hanno tanti ragazzi capaci di fare cose incredibili con quei contenuti, ma ci
vorrebbero prima squadre di avvocati per risolvere la questione delle autorizzazioni”. I membri del
Congresso stanno discutendo se ricorrere ai virus informatici per bloccare i computer che si ritiene
violino la legge. Le università minacciano di espellere i ragazzi che usano il computer per condividere
contenuti.
   Eppure, dall’altro lato dell’Atlantico, la BBC ha appena annunciato la realizzazione di un “archivio
creativo” dal quale i cittadini britannici potranno scaricare materiali della BBC e poi manipolarli a
piacere14. E in Brasile, il ministro della cultura, Gilberto Gil, egli stesso un eroe popolare della musica
brasiliana, si è unito alle Creative Commons per diffondere contenuti e licenze libere in quel paese
dell’America Latina15.
   Ho raccontato una storia a tinte fosche. La verità è più sfumata. La tecnologia ci ha portato una nuova
libertà. Lentamente, qualcuno ha iniziato a comprendere che questa libertà non deve significare anarchia.
Possiamo portare la cultura libera nel XXI secolo, senza danni per gli artisti e senza distruggere le
potenzialità della tecnologia digitale. Bisognerà rifletterci sopra e, cosa più importante, ci vorrà un po’ di
buona volontà per trasformare le RCA dei nostri giorni nei coniugi Causby.
   Il buon senso deve ribellarsi. Deve agire per liberare la cultura. Presto, se si vuole che il suo potenziale
venga realizzato.




                                                     153
                                                 Postfazione




   Almeno qualche lettore fra quelli che sono arrivati fino a questo punto sarà d’accordo con me che
occorre fare qualcosa per cambiare la strada che abbiamo imboccato. La visione equilibrata di questo
libro offre una mappa di ciò che si può fare.
   Ho diviso questa mappa in due parti: ciò che può fare ciascuno di noi e ciò che richiede l’aiuto dei
legislatori. Se c’è una lezione che possiamo trarre dai tentativi di modificare il senso comune, è che
bisogna modificare il modo in cui molte persone arrivano a riflettere sulla questione.
   Ciò significa che il movimento deve iniziare nelle strade e deve raccogliere un numero significativo di
genitori, insegnanti, bibliotecari, autori, musicisti, cineasti, scienziati - tutti pronti a raccontare questa
storia con parole proprie, a spiegare ai vicini perché questa battaglia è così importante.
   Una volta che il movimento abbia prodotto qualche effetto nelle strade, avrà qualche speranza di
ottenere la stessa cosa a Washington. Viviamo ancora in una democrazia. Ciò che pensa la gente è
importante. Non è così importante come dovrebbe, almeno quando dall’altra parte c’è una RCA, ma
conta ancora qualcosa. Perciò, più avanti, abbozzerò i cambiamenti che il Congresso potrebbe mettere in
atto per assicurare l’esistenza di una cultura libera.


                                     Nella postfazione
      Noi, ora
      Loro, presto




                                                     154
                                                   Noi, ora




   Il senso comune è dalla parte dei guerrieri del copyright perché finora il dibattito è stato visto come
una lotta tra due estremi - come un grande aut aut: la proprietà o l’anarchia, il controllo totale o nessun
compenso per l’artista. Se l’alternativa fosse veramente questa, allora la vittoria spetterebbe ai guerrieri.
   L’errore, in questo caso, è escludere la via di mezzo. Esistono posizioni estreme in questo dibattito, ma
c’è dell’altro. Ci sono coloro che credono in un’estensione massima del copyright- “tutti i diritti
riservati” - e coloro che lo rifiutano completamente - “nessun diritto riservato”. I primi ritengono che si
dovrebbe sempre chiedere il permesso prima di “usare” un’opera protetta da copyright. I secondi credono
invece che si dovrebbe fare quel che si vuole dei contenuti, con o senza l’autorizzazione.
   Quando Internet fece la sua comparsa, in pratica l’architettura iniziale andava nella direzione del
“nessun diritto riservato”. Era possibile copiare i contenuti in modo perfetto ed economico; non era facile
verificare i diritti. Così, indipendentemente dalla volontà precisa di qualcuno, di fatto il sistema del
copyright nella struttura originaria di Internet era “nessun diritto riservato”. Ci si “appropriava” dei
contenuti a prescindere dai diritti. In pratica, i diritti non venivano tutelati.
   Questa caratteristica iniziale provocò una reazione (contraria, ma non proprio uniforme) da parte dei
titolari del copyright. Tale reazione è stata l’argomento di questo libro. Tramite la legge, le azioni legali e
i cambiamenti nella progettazione della Rete, i titolari del copyright sono riusciti a modificare la
caratteristica essenziale dell’ambiente originario di Internet. Se l’architettura iniziale aveva praticamente
come impostazione predefinita “nessun diritto riservato”, quella del futuro sarà “tutti i diritti riservati”.
L’architettura e le leggi relative alla struttura di Internet produrranno in modo crescente un ambiente
dove qualsiasi utilizzo dei contenuti imporrà la richiesta di un permesso. Il mondo del “taglia e incolla”
che caratterizza l’Internet di oggi diventerà quello del “chiedi l’autorizzazione per il taglia e incolla”, che
è l’incubo di chi crea.
   Bisogna trovare una via di mezzo: né “tutti i diritti riservati” né “nessun diritto riservato,” ma “alcuni
diritti riservati” - un modo per rispettare il copyright, consentendo però agli autori di rendere liberi i
contenuti quando lo ritengano opportuno. In altre parole, dobbiamo trovare un modo per ripristinare
quelle libertà che in passato davamo per scontate.


     Ricostruire le libertà che in passato davamo per
                      scontate: esempi
   Se facciamo un passo indietro rispetto alla battaglia che ho illustrato, riconosceremo questo problema
in altri contesti. Prendiamo la privacy. Prima di Internet, la maggior parte di noi non doveva preoccuparsi
che informazioni sulla sua vita privata venissero diffuse in tutto il mondo. Se entravamo in una libreria e
sfogliavamo un’opera di Marx, non dovevamo preoccuparci di spiegare le nostre preferenze ai vicini o al
capoufficio. La “riservatezza” sui nostri gusti in fatto di libri era assicurata.
   Che cosa la garantiva?
   Se riflettiamo sulle modalità descritte nel capitolo 10, la privacy veniva assicurata da un’architettura
poco efficiente, per quanto riguardava la raccolta dei dati, e dal conseguente vincolo imposto dal mercato


                                                     155
(il costo) a chiunque volesse acquisirli. Se fossimo sospettati di essere una spia della Corea del Nord,
mentre lavoriamo per la CIA, senza dubbio la nostra privacy non verrebbe garantita. Infatti la CIA
(speriamo) riterrebbe utile spendere il denaro necessario per seguire le nostre tracce. Ma per la maggior
parte di noi (speriamo ancora), lo spionaggio non paga. L’inefficienza delle strutture del mondo reale
(almeno in questo ambito) significa che tutti noi godiamo di un livello decisamente notevole di privacy.
La riservatezza ci viene garantita da questa difficoltà. Non ci viene garantita tanto dalla legge (non esiste
alcuna legislazione che tuteli la privacy nei luoghi pubblici) e, in molti ambiti, neppure dalle norme
sociali (è proprio divertente curiosare e spettegolare), quanto piuttosto dai costi che deve affrontare
chiunque voglia spiare.
   Quando entriamo in Internet, il costo per tenere traccia del materiale sfogliato è diventato decisamente
minimo. Se siamo clienti di Amazon, quando ne visitiamo le pagine il sito raccoglie le informazioni su
ciò che abbiamo visto. Ce ne accorgiamo, perché su un lato della pagina compare un elenco delle pagine
visitate di recente. Ora, grazie all’architettura della Rete e alla funzione dei cookie, è più facile
raccogliere i dati che evitare di farlo. La difficoltà è scomparsa, e così sparisce anche la privacy che
questa proteggeva.
   Il problema, naturalmente, non è Amazon. Ma le biblioteche potrebbero diventarlo. Se siete uno di
quei fanatici di sinistra che pensano che la gente debba avere il “diritto” di curiosare in una biblioteca
senza che il governo sappia quali libri sta sfogliando (anch’io mi considero uno di loro), allora questa
trasformazione della tecnologia di monitoraggio potrebbe preoccuparvi. Se, negli spazi elettronici,
diventa semplice raccogliere e classificare i dati su chiunque entri e faccia qualcosa, allora scompare la
riservatezza del passato indotta dalle difficoltà operative.
   È questa realtà che spiega la pressione esercitata da molti per delineare i termini della privacy su
Internet. Ci si rende conto che la tecnologia può toglierci quello che in passato la difficoltà operativa ci
garantiva e quindi molti di noi premono per ottenere leggi di regolamentazione1. Che si sia o meno a
favore di tali leggi, l’importante qui è il modello. Dobbiamo agire attivamente per assicurare quel tipo di
libertà che prima ci veniva fornita passivamente. Il cambiamento della tecnologia costringe ora coloro
che credono nella privacy ad agire in modo propositivo, mentre prima la riservatezza era considerata
un’impostazione predefinita.
   Potremmo raccontare una storia simile sulla nascita del movimento per il software libero. Quando i
computer dotati di software comparvero per la prima volta sul mercato commerciale, il software - sia i
codici sorgente sia i file binari - era libero. Non era possibile far girare un programma scritto per un
computer della Data General su una macchina dell’IBM, e quindi nessuna delle due aziende si
preoccupava di controllare i rispettivi programmi.
   Questo era il mondo in cui nacque Richard Stallman. Mentre era ricercatore al MIT iniziò ad amare
quella comunità di sviluppatori, in un’epoca in cui si era liberi di esplorare e manipolare il software.
Essendo un tipo ingegnoso e un programmatore di talento, Stallman si abituò sempre più alla libertà di
arricchire o di modificare il lavoro altrui.
   Nell’ambiente accademico, quantomeno, questa non è un’idea particolarmente radicale. Nel
dipartimento di matematica chiunque era libero di intervenire su una dimostrazione di un altro. Se
qualcuno credeva di aver trovato un modo migliore di dimostrare un teorema, modificava ciò che un altro
aveva proposto. Nel dipartimento di lettere classiche, se pensavate che la traduzione fatta da un collega
di un testo recentemente scoperto fosse lacunosa, eravate liberi di migliorarla. Così, a Stallman sembrò
ovvio che chiunque potesse essere libero di manipolare e di perfezionare il codice che faceva girare un
computer. Anche questa era conoscenza. Perché non avrebbe dovuto essere aperta alle critiche come
qualsiasi altra materia?


                                                    156
   Nessuno rispose alla domanda. Ma, nel frattempo, l’architettura commerciale in campo informatico si
trasformò. Man mano che fu possibile importare programmi da un sistema all’altro, divenne
economicamente conveniente (almeno da un certo punto di vista) nascondere il codice del programma.
Lo stesso avvenne quando le aziende iniziarono a vendere periferiche per i mainframe. Se qualcuno
avesse potuto prendere il driver di una stampante e copiarlo, allora per lui sarebbe stato più semplice
vendere la stampante.
   Cominciò così a diffondersi la pratica del codice proprietario, e all’inizio degli anni ’80 Stallman se ne
trovò circondato.
   Il mondo del software libero era stato sradicato da una trasformazione dell’economia in ambito
informatico. Ed egli riteneva che se non avesse fatto qualcosa, allora la libertà di modificare e di
condividere il software sarebbe stata indebolita in maniera sostanziale.
   Di conseguenza, nel 1984 Stallman avviò il progetto di costruzione di un sistema operativo libero. In
tal modo sopravvisse almeno un filone di software libero. Quella fu la nascita del progetto GNU, al quale
venne poi aggiunto il kernel “Linux” di Linus Torvalds, che produsse il sistema operativo GNU/Linux.
   La tecnica di Stallman consisteva nell’usare la legge sul copyright per realizzare un ambiente in cui il
software avrebbe dovuto rimanere libero. Il software tutelato dalla General Public License della Free
Software Foundation non può essere modificato e distribuito senza rendere disponibile anche il relativo
codice sorgente. Così, chiunque aggiunga qualcosa al software tutelato da tale licenza dovrebbe rendere
libere anche le aggiunte. Questo procedimento avrebbe assicurato, così riteneva Stallman, lo sviluppo di
un’ecologia del codice. Quest’ultimo rimaneva libero in modo che altri potessero farvi ulteriori
interventi. L’obiettivo fondamentale era la libertà; il codice innovativo e creativo fu un prodotto
collaterale.
   Stallman faceva così per il software ciò che oggi fanno per la privacy i suoi sostenitori. Egli cercava
un modo per ricostruire quel tipo di libertà che prima veniva data per scontata. Tramite l’uso di licenze
che vincolavano il codice sotto copyright, Stallman reclamava in maniera propositiva uno spazio in cui il
software libero sarebbe sopravvissuto. Tutelava in modo attivo quel che prima veniva garantito in modo
passivo.
   Consideriamo infine un caso recente che concerne più direttamente le vicende di questo libro. Si tratta
del cambiamento avvenuto nel processo produttivo delle pubblicazioni accademiche e scientifiche.
   Con lo sviluppo delle tecnologie digitali, per molti sta diventando ovvio che stampare migliaia di
copie di riviste ogni mese e spedirle alle biblioteche forse non è il modo più efficace per far circolare la
conoscenza. Le pubblicazioni stanno diventando in misura sempre maggiore elettroniche, e agli utenti
delle biblioteche se ne offre l’accesso tramite siti protetti da password. Qualcosa di analogo è avvenuto
per quasi trent’anni in campo giuridico: [in USA] Lexis e Westlaw hanno messo a disposizione degli
abbonati ai propri servizi le versioni elettroniche delle sentenze giudiziarie. Anche se le sentenze della
Corte Suprema non sono protette da copyright, e chiunque è libero di andare in una biblioteca e leggerle,
Lexis e Westlaw sono ugualmente liberi di imporre delle tariffe agli utenti per il privilegio di avere
accesso a quelle sentenze tramite i rispettivi servizi.
   In generale non c’è nulla di errato in questa pratica, e, anzi, la possibilità di far pagare l’accesso
perfino a materiale di pubblico dominio rappresenta un incentivo allo sviluppo di modalità innovative di
diffusione della conoscenza. Poiché la legge si è dichiarata d’accordo, Lexis e Westlaw hanno avuto la
possibilità di svilupparsi. E se non c’è nulla di illegale a vendere materiale di pubblico dominio, allora lo
stesso dovrebbe valere, in linea di principio, per la vendita dell’accesso a materiale non di pubblico
dominio.
   Ma che cosa succederebbe se l’unico modo per accedere alle informazioni sociali e scientifiche fosse
quello offerto dai servizi proprietari, se l’unica possibilità di consultare quei dati fosse pagare un

                                                    157
abbonamento?
   Come molti incominciano a notare, questa è sempre più la realtà dell’editoria scientifica. Quando tali
pubblicazioni venivano distribuite in formato cartaceo, le biblioteche le mettevano a disposizione di
chiunque. Così i pazienti colpiti da un cancro potevano documentarsi sulla loro malattia grazie
all’accesso fornito dalla biblioteca. Oppure i pazienti che cercavano di capire i rischi di una certa cura
potevano condurre ricerche specifiche leggendo tutti gli articoli disponibili sull’argomento. Questa
libertà era una funzione dell’istituzione bibliotecaria (norme) e della tecnologia delle riviste cartacee
(architettura) - soprattutto perché era molto difficile controllare l’accesso a tali pubblicazioni.
   Con il passaggio alle riviste elettroniche, tuttavia, gli editori richiesero alle biblioteche di non metterle
a disposizione del pubblico. Ciò significa che le libertà garantite dalle pubblicazioni cartacee nelle
biblioteche pubbliche iniziarono a diminuire. Ovvero, come avviene per la privacy e per il software, un
cambiamento nella tecnologia e nel mercato limita una libertà considerata acquisita.
   Questo cambiamento ha spinto molti a impegnarsi in concreto per ripristinare la libertà perduta. La
Public Library of Science (PLoS), per esempio, è una corporation non-profit che rende disponibili le
ricerche scientifiche a chiunque abbia una connessione Web. Gli autori presentano i loro lavori scientifici
alla Public Library of Science, dove sono poi sottoposti alla valutazione dei colleghi. Se sono accettati,
vengono depositati in un archivio elettronico pubblico, e resi disponibili in modo permanente e gratuito.
PLoS vende anche la versione stampata delle ricerche, ma il copyright che la tutela non inibisce il diritto
a ridistribuire il lavoro gratuitamente.
   Questo è uno dei numerosi tentativi di ripristinare una libertà data per scontata in passato, ma ora
minacciata dal mutamento della tecnologia e dei mercati. Non c’è dubbio che tutto ciò entri in
competizione con gli editori tradizionali e con i loro sforzi di guadagnare attraverso una distribuzione
esclusiva dei materiali. Ma nella nostra tradizione si ritiene che la competizione sia un fatto positivo -
specialmente quando aiuta la diffusione della conoscenza e della scienza.


                  Ricostruire la cultura libera: un’idea
   Si potrebbe applicare la stessa strategia alla cultura, come reazione al crescente controllo imposto dalla
legge e dalla tecnologia.
   E qui arriva Creative Commons. Si tratta di una corporation non-profit registrata in Massachusetts ma
di casa presso la Stanford University. Il suo obiettivo è realizzare un livello di copyright ragionevole, al
di là degli estremi che regnano oggi. Essa cerca di facilitare la creazione di opere sulla base di lavori
altrui, rendendo semplice agli autori sostenere che altri siano liberi di attingere al loro lavoro e di creare
su di esso. Tutto grazie a semplici tag [nel codice HTML], legati a descrizioni che le persone possono
leggere e vincolati a licenze a prova di bomba.
   Semplice non vuol dire senza mediatori o senza avvocati. Sviluppando una serie di licenze libere che
la gente può vincolare ai propri contenuti, le Creative Commons puntano a contrassegnare una gamma di
materiali su cui sia possibile costruire in modo facile e affidabile. Questi tag, o contrassegni, vengono poi
collegati alle versioni delle licenze che il computer è in grado di leggere e che gli permettono di
identificare automaticamente il contenuto per cui è possibile la condivisione. L’insieme di questi tre
elementi - una licenza legale, una descrizione che le persone possono leggere e tag che la macchina può
leggere - costituiscono una licenza Creative Commons. La quale rappresenta una garanzia per la libertà
di chiunque vi abbia accesso e, cosa più importante, un’espressione del fatto che la persona associata a
quella licenza crede in qualcosa di diverso dagli estremi del “tutto” o “niente”. Il contenuto viene
contrassegnato dal marchio CC, che non sta a significare l’eliminazione del copyright, ma la concessione
di determinate libertà.

                                                      158
   Tali libertà vanno al di là di quelle permesse dal “fair use”. I loro limiti dipendono dalle scelte operate
dall’autore: egli può scegliere una licenza che consenta qualsiasi utilizzo, purché venga citata la
paternità; può optare per una licenza che permetta soltanto l’uso non-commerciale; può sceglierne una
che conceda qualsiasi utilizzo purché le medesime libertà siano riconosciute agli utenti successivi,
oppure che consenta qualsiasi uso con l’esclusione di quello derivato; o ancora, che permetta ogni
impiego possibile all’interno delle nazioni in via di sviluppo; o che permetta l’utilizzo di estratti parziali,
purché non se ne ricavino copie integrali; o infine, che accordi qualunque utilizzo in campo didattico.
   Queste opzioni stabiliscono così, oltre all’impostazione predefinita della legge sul copyright, una serie
di libertà. Accordano altresì delle libertà che vanno al di là dell’uso legittimo tradizionale. E, fatto più
importante, esprimono queste libertà attraverso una procedura che gli utenti possono utilizzare e su cui
possono fare affidamento senza la necessità di ricorrere a un avvocato. Le Creative Commons puntano
perciò a costruire un ordine di contenuti, governato da un livello ragionevole di normativa sul copyright,
sul quale altri possano costruire. Le scelte volontarie di individui e di autori renderanno disponibile
questo materiale. Il quale a sua volta ci permetterà di ricostruire il pubblico dominio.
   Questo è soltanto uno dei molti progetti attivati all’interno delle Creative Commons, che non sono,
naturalmente, l’unica organizzazione che persegua simili libertà. Ma c’è un punto che distingue le
Creative Commons dalle altre: noi non siamo interessati soltanto a discutere del pubblico dominio o a
fare sì che i legislatori contribuiscano a realizzarlo. Il nostro obiettivo è dare vita a un movimento di
consumatori e di produttori (“gestori di contenuti”, come li definisce l’avvocato Mia Garlick), che
contribuiscano alla costruzione del pubblico dominio e, con il loro impegno, ne dimostrino l’importanza
per la creatività altrui.
   Lo scopo non è combattere contro i sostenitori del “tutti i diritti riservati”. Piuttosto è quello di essere
complementari ad essi. I problemi che la normativa crea per la nostra cultura sono prodotti dalle
conseguenze folli e involontarie di leggi scritte secoli fa, applicate a tecnologie che soltanto Jefferson
avrebbe potuto immaginare. Le regole potevano avere un senso nel contesto di tecnologie che risalgono a
secoli addietro, ma non lo hanno più nell’ambito di quelle digitali. Occorrono nuove regole - con libertà
differenti, espresse in modo che la gente comune possa usarle senza l’aiuto di avvocati. Le Creative
Commons offrono una modalità efficace per iniziare a costruire queste regole.
   Perché gli autori dovrebbero partecipare a questa procedura per l’abbandono del controllo totale?
Alcuni lo fanno per diffondere meglio i propri materiali. Cory Doctorow, per esempio, è uno scrittore di
fantascienza. Il suo primo romanzo, Down and Out in the Magic Kingdom, è stato distribuito
gratuitamente online con una licenza Creative Commons, lo stesso giorno in cui è stato messo in vendita
in libreria.
   Perché una casa editrice dovrebbe essere d’accordo con una simile iniziativa? Ho il sospetto che il suo
editore abbia ragionato così: ci sono due gruppi di persone: (1) quelle che compreranno comunque il
libro di Cory, indipendentemente dalla sua presenza su Internet, e (2) quelli che non saprebbero mai nulla
del libro se esso non fosse disponibile gratuitamente su Internet. Qualcuno appartenente al gruppo (1)
scaricherà il libro di Cory anziché acquistarlo. Chiamiamoli (1)-cattivi. Alcuni che fanno parte del
gruppo (2) lo scaricheranno, lo troveranno bello e poi decideranno di comprarlo. Chiamiamoli (2)-buoni.
Se i (2)-buoni sono più numerosi degli (1)-cattivi, la strategia di diffondere gratuitamente online il libro
di Cory probabilmente ne farà aumentare le vendite in libreria.
   L’esperienza dell’editore ha portato chiaramente a quest’ultima conclusione. La prima tiratura è andata
esaurita mesi prima di quanto avesse previsto l’editore. Così questo primo romanzo di uno scrittore di
fantascienza ha ottenuto pieno successo.
   L’idea che contenuti liberi possano aumentare il valore dei materiali non liberi ha trovato conferma
nell’esperienza di un altro autore. Peter Wayner, che ha scritto un libro sul movimento del software libero

                                                     159
intitolato Free for All, ne ha reso disponibile online una versione elettronica gratuita, tutelata da una
licenza Creative Commons, dopo che il libro era uscito dal catalogo. Ha deciso poi di seguire
l’andamento del prezzo del libro nelle librerie dell’usato. Come previsto, di pari passo con l’incremento
delle copie scaricate, è aumentato anche il prezzo del libro usato.
   Questi sono esempi di utilizzo di licenze Creative Commons per diffondere meglio i contenuti
proprietari. Lo ritengo un uso ottimo e normale. Altri usano le licenze Creative Commons per motivi
diversi. Molti scelgono la “sampling license” (utilizzo di estratti parziali), perché qualsiasi altra opzione
sarebbe ipocrita. Questa licenza dice che gli altri sono liberi di appropriarsi di una parte dell’opera, a
scopo commerciale o non-commerciale; però non sono liberi di copiarla per intero e di metterla a
disposizione di altre persone. È un atteggiamento coerente con la produzione artistica di questi autori -
anch’essi infatti estraggono parti dei contenuti altrui. Poiché le spese legali per queste operazioni sono
molto alte (Walter Leaphart, manager del gruppo rap Public Enemy, che nacque riprendendo pezzi della
musica di altri autori, ha affermato che non “consente” più ai Public Enemy questa operazione, proprio a
causa delle spese legali2), questi artisti diffondono nel loro ambiente materiali su cui altri possono
costruire, in modo da sviluppare così una propria forma di creatività.
   Ci sono infine molti autori che contrassegnano i loro materiali con una licenza Creative Commons,
soltanto perché vogliono dimostrare l’importanza di un equilibrio in questo dibattito. Se si segue
semplicemente il sistema così com’è, in concreto si dichiara di credere nel modello “tutti i diritti
riservati”; un modello buono per qualcuno, ma non per molti. Parecchi pensano che questa norma, pur
essendo appropriata per Hollywood e per artisti stravaganti, non esprima adeguatamente il modo in cui la
maggior parte degli autori considera i diritti associati ai propri contenuti. La licenza Creative Commons
dà corpo a un modello “alcuni diritti riservati” e offre a molti autori la possibilità di comunicarlo agli
altri.
   Nei primi sei mesi dell’esperimento delle Creative Commons, più di un milione di lavori sono stati
contrassegnati con queste licenze della cultura libera. Il passo successivo è la costituzione di partnership
con i provider middleware, per aiutarli a inserire nelle loro tecnologie modalità semplici che consentano
ai loro utenti di contrassegnare i materiali con le licenze delle Creative Commons. A quel punto, un
ulteriore passo sarà individuare e apprezzare gli autori che realizzano opere basate su contenuti resi
liberi.
   Questi sono i primi passi verso la ricostruzione del pubblico dominio. Non si tratta di semplici
argomentazioni teoriche; si tratta di azioni concrete. Costruire un pubblico dominio è il primo passo per
dimostrare la sua importanza per la creatività e per l’innovazione. Le Creative Commons si fondano, per
raggiungere questo scopo, su interventi decisi volontariamente. Contribuiranno così a creare un mondo in
cui diventerà possibile qualcosa di più della libera volontà di poche persone.
   Le Creative Commons sono soltanto un esempio dello sforzo messo in atto volontariamente da singoli
individui e da autori per cambiare l’insieme dei diritti che oggi governano l’ambito creativo. Il progetto
non è in competizione con il copyright: ne è un complemento. Il suo obiettivo non è eliminare i diritti
degli autori, ma facilitare ai creatori l’esercizio dei propri diritti in un modo più flessibile e meno
oneroso. Questo impegno, così crediamo, faciliterà la diffusione della creatività.




                                                    160
                                                Loro, presto




   Non possiamo pretendere di ottenere una cultura libera soltanto attraverso interventi individuali. Sono
necessarie anche importanti riforme legislative. Dobbiamo fare parecchia strada prima che i politici
diano ascolto a queste idee e mettano in atto queste riforme. Ma ciò significa anche che abbiamo tempo
per costruire una consapevolezza dei cambiamenti di cui abbiamo bisogno.
   In questo capitolo provo a delineare cinque tipi di modifiche: quattro generali, e una che si riferisce in
particolare alla battaglia più calda del giorno, la musica. Ognuna rappresenta un mezzo, non un fine. Ma
ogni passaggio ci renderà molto più vicino l’obiettivo finale.


                                       1. Più formalità
   Se acquistiamo una casa, dobbiamo registrare l’acquisto presso un notaio. Se compriamo un terreno
sul quale costruire una casa, questo va regolarmente registrato. Se acquistiamo un’automobile, dobbiamo
immatricolarla. Se compriamo un biglietto aereo, sopra c’è scritto il nostro nome.
   Si tratta di formalità associate alla proprietà. Sono requisiti che tutti noi dobbiamo rispettare se
vogliamo che la nostra proprietà sia tutelata.
   Al contrario, secondo l’attuale legge del copyright, la tutela viene ottenuta automaticamente, che si
proceda o meno a qualsiasi formalità. Non occorre effettuare alcuna registrazione. Non bisogna neppure
porre un marchio sull’opera. L’impostazione predefinita è il controllo, e le “formalità” vengono bandite.
   Perché?
   Come ho suggerito nel capitolo 10, c’era un buon motivo per abolire le formalità. Nel mondo
precedente alle tecnologie digitali, le formalità imponevano un onere ai titolari del diritto d’autore senza
offrire troppi benefici. Fu perciò un passo avanti quando la legge allentò i requisiti formali imposti ai
titolari per proteggere e assicurare i loro lavori. Quelle formalità stavano diventando un intralcio.
   Ma Internet ha cambiato il quadro. Ora le formalità non sono più un fardello. Piuttosto, è il mondo
senza formalità che finisce per pesare sulla creatività. Oggi non esiste un modo per sapere rapidamente
chi possiede qualcosa o chi interpellare per usare un lavoro creativo altrui e costruire su di esso. Non
esistono archivi, non c’è alcun sistema che conservi i dati - non è possibile sapere con facilità come
chiedere l’autorizzazione. Eppure visto il notevole ampliamento del raggio d’azione delle regole sul
copyright, ottenere il permesso è un passo necessario per qualsiasi opera che voglia costruire sul passato.
E così, l’assenza di formalità costringe al silenzio molti che altrimenti si esprimerebbero.
   La legge dovrebbe perciò modificare questo requisito1 - ma non tornando al vecchio sistema superato.
Dovremmo imporre delle formalità, stabilendo però un sistema che preveda degli incentivi che ne
riducano al minimo l’onere.
   Le formalità importanti sono tre: contrassegnare le opere tutelate dal copyright, registrarle e rinnovare
la richiesta di copyright. Tradizionalmente, della prima si occupava il titolare del copyright; le altre due
spettavano al governo. Ma la revisione del sistema eliminerebbe dal processo il governo, il quale
dovrebbe soltanto approvare gli standard sviluppati da altri.




                                                     161
                               Registrazione e rinnovo
   Con il vecchio sistema, il titolare del diritto d’autore doveva presentare una domanda presso l’Ufficio
del Copyright per registrarlo o rinnovarlo. All’atto della presentazione, pagava una certa tariffa. Come
per la maggioranza delle agenzie governative, l’Ufficio del Copyright aveva scarso interesse a ridurre
l’onere della registrazione e a diminuire la cifra dovuta. E poiché quell’Ufficio non rientra fra i maggiori
interessi delle politiche governative, storicamente ha sempre ricevuto stanziamenti assai ridotti. Perciò
quando le persone che conoscono tale procedura sentono parlare di quest’idea delle formalità, la prima
reazione è il panico - non ci potrebbe essere niente di peggio che costringere la gente ad avere a che fare
con il caos dell’Ufficio del Copyright.
   Eppure rimango sempre meravigliato dal fatto che noi, provenienti da una tradizione di straordinaria
innovazione nel campo della progettualità governativa, non siamo più capaci di concepire in maniera
innovativa le modalità funzionali del governo. Anche se il ruolo governativo ha un obiettivo pubblico,
non ne consegue che il governo debba amministrare in concreto quel ruolo. Occorre invece creare degli
incentivi affinché organismi privati servano il pubblico, seguendo gli standard impostati dal governo.
   Nel contesto della registrazione, un modello ovvio è Internet. Esistono almeno 32 milioni di siti Web
registrati in tutto il mondo. I proprietari dei relativi nomi di dominio devono pagare una quota per
mantenere attiva la registrazione. Nei domini di massimo livello (.com, .org, .net), esiste un’anagrafe
centralizzata. Le registrazioni vere e proprie, tuttavia, vengono eseguite da diverse società concorrenti.
La competizione fa abbassare il costo della registrazione, e, cosa più importante, influisce sulla facilità
della procedura.
   Dovremmo adottare un modello analogo per la registrazione e il rinnovo dei copyright. L’Ufficio del
Copyright potrebbe funzionare come anagrafe centrale, senza però occuparsi della registrazione.
Dovrebbe piuttosto mettere a punto un database e una serie di standard per i soggetti che si occuperanno
delle registrazioni; e dare l’approvazione agli enti che rispettano tali standard. Poi gli enti sarebbero in
concorrenza tra loro per offrire i sistemi più semplici ed economici per la registrazione e il rinnovo dei
copyright. La competizione ridurrebbe in maniera sostanziale l’onere di questa formalità - consentendo al
contempo la realizzazione di un database che faciliterebbe l’acquisizione di licenze sul materiale.


                                         Contrassegno
   In passato la mancanza della nota di copyright su un lavoro creativo stava a significare la revoca del
diritto d’autore. Era una pesante sanzione per chi non aveva adempiuto a una norma - equivalente nel
mondo dei diritti creativi all’imposizione della pena di morte per aver trasgredito a un divieto di
parcheggio. Non c’è alcun motivo per applicare in questo modo il requisito sul contrassegno. Fatto più
importante, non esiste alcuna ragione per cui tale requisito venga applicato nello stesso modo a tutti i
mezzi espressivi.
   Lo scopo del marchio è quello di indicare al pubblico che l’opera è sotto copyright e che l’autore vuole
affermare i propri diritti. Inoltre, il marchio facilita l’individuazione del titolare per ottenere il permesso a
fare uso del suo lavoro.
   Uno dei problemi del sistema del copyright, evidenziatosi fin dall’inizio, fu che opere differenti
dovevano essere contrassegnate in modo diverso. Non era chiaro come o dove apporre il marchio su una
statua, su un disco o su una pellicola cinematografica. Un nuovo tipo di requisito risolverebbe questi
problemi riconoscendo le differenze dei vari supporti e permettendo al sistema del contrassegno di
evolversi assieme alle tecnologie. Il sistema potrebbe attivare una segnalazione riguardante la mancanza



                                                      162
del marchio - la conseguenza non sarebbe la perdita del copyright, ma quella del diritto di punire
qualcuno per non aver richiesto un permesso.
   Partiamo da quest’ultimo punto. Se il titolare di un copyright consentisse la pubblicazione della sua
opera priva della relativa nota, la conseguenza di questa mancanza non dovrebbe essere la privazione del
diritto d’autore. Dovrebbe invece essere il fatto che chiunque avrebbe il diritto all’uso di tale opera fino a
quando il titolare protestasse e dimostrasse che si tratta di un suo lavoro su cui non ha concesso alcun
permesso2. Il significato di un’opera priva di marchio sarebbe perciò che “l’uso è consentito a meno che
qualcuno reclami”. Se ciò avvenisse, allora bisognerebbe bloccarne l’utilizzo in ogni nuova creazione da
quel momento in poi, anche se nessuna sanzione verrebbe applicata agli utilizzi precedenti. Tale norma
costituirebbe un forte incentivo affinché i titolari del copyright provvedano ad apporre il marchio alle
loro opere.
   Tale norma solleva anche la domanda sul modo migliore per contrassegnare i lavori. Come ho già
detto, in questo caso il sistema deve adeguarsi all’evoluzione tecnologica. Il modo migliore per
assicurarsi che il sistema possa evolvere è limitare il ruolo dell’Ufficio del Copyright all’approvazione di
standard per contrassegnare il materiale realizzati altrove.
   Per esempio, se un’associazione legata all’industria discografica mettesse a punto un metodo per
apporre il marchio sui CD, potrebbe proporlo all’Ufficio del Copyright. Questo potrebbe organizzare
un’udienza pubblica in cui sarebbe possibile presentare altre proposte. Alla fine l’ufficio selezionerebbe
quella che giudica migliore, basando la scelta unicamente sulla valutazione di quale sia il metodo che si
integra meglio con il sistema di registrazione e di rinnovo. Non chiederemmo al governo un metodo
innovativo, gli chiederemmo solo di mantenere il prodotto dell’innovazione in linea con le sue altre
importanti funzioni.
   Infine, apporre il marchio sui contenuti semplificherebbe chiaramente i requisiti per la registrazione.
Se le fotografie avessero un’indicazione dell’autore e dell’anno, non ci sarebbe motivo per impedire a un
fotografo di registrare di nuovo, per esempio, tutte le fotografie scattate in un certo anno, tramite una sola
rapida procedura. Lo scopo della formalità non è di pesare sull’autore; il sistema in quanto tale dovrebbe
essere semplificato al massimo.
   L’obiettivo delle formalità è di rendere chiare le situazioni. Il sistema attuale non fa nulla in tal senso.
Sembra anzi progettato per confondere le cose.
   Se venissero reintrodotte formalità come la registrazione, si eliminerebbe uno degli aspetti che
rendono più difficile fare affidamento sul pubblico dominio. Sarebbe semplice identificare quali siano i
contenuti presumibilmente liberi; sarebbe facile localizzare chi controlla i diritti di un determinato tipo di
materiale; sarebbe agevole far valere quei diritti, e rinnovarne la validità al momento opportuno.


                                   2. Termini più brevi
   La durata del copyright è passata da quattordici a novantacinque anni, se gli autori sono società, ed è
pari alla vita dell’autore più settant’anni, se si tratta di una persona.
   In The Future of Ideas, avevo proposto un termine di settantacinque anni, garantito attraverso
incrementi di cinque anni, con l’obbligo di fare richiesta di rinnovo ogni cinque anni. All’epoca la mia
proposta appariva abbastanza radicale. Ma dopo che abbiamo perso la causa Eldred v. Ashcroft, le
proposte diventarono ancora più radicali. The Economist ne appoggiò una per una durata di quattordici
anni3. Altri hanno prospettato un termine analogo a quello dei brevetti.
   Concordo con quanti ritengono necessario un cambiamento radicale della durata del copyright. Ma che
sia di quattordici o di settantacinque anni, ci sono quattro principi al riguardo, che è importante tenere a
mente:

                                                     163
   (1) Brevità: la durata dovrebbe essere lunga abbastanza da offrire incentivi a creare, ma non di più. Qualora il termine
   fosse legato a una tutela molto forte per gli autori (in modo da consentire loro di reclamare i diritti dagli editori), si
   potrebbe consentire l’ulteriore estensione dei diritti su quel lavoro (non sulle opere derivate). Il punto chiave è evitare
   di vincolare l’opera con regolamentazioni legali quando non arreca più benefici all’autore.

   (2) Semplicità: la linea di demarcazione tra pubblico dominio e materiale tutelato va mantenuta ben chiara. Agli
   avvocati piace la confusione del “fair use” e la distinzione tra “idee” ed “espressione”. Questo tipo di normativa
   procura loro parecchio lavoro. Ma gli estensori della nostra costituzione avevano in mente un’idea più semplice:
   protezione o non protezione. L’importanza dei termini brevi è che non richiedono di creare eccezioni nell’ambito del
   copyright. Una “zona libera da avvocati” ben delimitata e attiva diminuisce la necessità di navigare tra le complessità
   del “fair use” e della distinzione “idea/espressione”.

   (3) Continuità: il copyright deve essere rinnovato. Specialmente se il termine massimo è lungo, il titolare deve indicare
   periodicamente la volontà che la tutela continui. Non occorre che ciò sia un’incombenza onerosa, ma non c’è ragione
   per cui questa protezione monopolistica debba essere garantita gratuitamente. In media, un ex-combattente impiega
   novanta minuti per compilare la domanda per la pensione4. Se imponiamo quest’onere agli ex-combattenti, non vedo
   perché non potremmo chiedere agli autori di impiegare dieci minuti ogni cinquant’anni per compilare un modulo.

   (4) Prospettiva: qualunque sia la durata del copyright, la lezione più chiara impartita dagli economisti è che il termine,
   una volta deciso, non va esteso. Forse era sbagliata la legge che nel 1923 riconobbe agli autori una durata del copyright
   di soli cinquantasei anni. Non credo, ma può darsi. Se fosse stata un errore, allora la conseguenza sarebbe stata la
   registrazione di un numero minore di creazioni nel 1923. Ma oggi non possiamo correggere quell’errore estendendo la
   durata dei termini. Non importa che cosa decidiamo ora; non potremo comunque aumentare il numero degli scrittori
   del 1923. Naturalmente possiamo aumentare il guadagno degli autori contemporanei (oppure appesantire ulteriormente
   il copyright che oggi soffoca molte opere invisibili). Ma un compenso più alto non farebbe aumentare il livello di
   creatività del 1923. Quel che è fatto è fatto, e adesso non possiamo più cambiarlo.

   L’insieme di queste modifiche determinerebbe un termine medio assai più breve di quello attuale. Fino
al 1976, la durata media era di appena 32,2 anni. Dovremmo puntare a qualcosa di analogo.
   Senza dubbio gli estremisti definiranno “radicali” queste idee. (Non per nulla, li chiamo “estremisti”.)
Ma il termine consigliato da me era più lungo di quello in vigore sotto Richard Nixon. Fino a che punto
si può definire “radicale” la proposta di una legge sul copyright più generosa di quella in vigore durante
la presidenza di Richard Nixon?


                        3. Uso libero contro uso legittimo
   Come ho osservato all’inizio del libro, originariamente la legge sulla proprietà garantiva ai titolari il
diritto di controllare quanto possedevano dalla terra fino al cielo. Poi arrivò l’aeroplano. Il raggio di
azione dei diritti di proprietà cambiò rapidamente. Nessuna agitazione, nessuna sfida costituzionale. Non
aveva più senso garantire un grado di controllo così alto dopo la nascita di quella nuova tecnologia.
   La nostra Costituzione riconosce al Congresso l’autorità di assegnare agli autori il “diritto esclusivo”
sui “propri scritti”. Il Congresso ha riconosciuto loro il diritto esclusivo sui “propri scritti” e inoltre su
ogni opera derivata (creata da altri) che sia sufficientemente vicina all’opera originale. Così, se scrivo un
libro e qualcuno ci fa sopra un film, ho l’autorità di negargli il diritto di far uscire quel film, anche se non
si tratta di un “mio scritto”.
   Il Congresso decretò l’inizio di questo diritto nel 1870, quando ampliò il diritto esclusivo del copyright
aggiungendovi quello sul controllo delle traduzioni e della messa in scena di un’opera5. Da allora i
tribunali lo hanno lentamente esteso attraverso l’interpretazione giuridica. Ecco il commento di uno dei
giudici più importanti della storia [statunitense], Benjamin Kaplan:
   Ci siamo talmente assuefatti all’estensione del monopolio a un’ampia gamma di cosiddette opere derivate che non ci
   accorgiamo più di quanto sia strano accettare un simile ampliamento del copyright, mentre intoniamo l’abracadabra
   dell’idea e dell’espressione.6

                                                              164
   Credo sia giunto il momento di riconoscere che anche in questo campo sono arrivati gli aeroplani e che
l’espansione dei diritti sull’uso derivato non ha più alcun senso. Per essere più precisi, tali diritti non
hanno senso per il periodo di tempo in cui esiste il copyright. E non hanno senso se sono una garanzia
amorfa. Prendiamo in considerazione una limitazione alla volta.
   Durata: se il Congresso vuole riconoscere i diritti su un’opera derivata, allora la loro durata dovrebbe
essere molto più breve. Ha senso tutelare il diritto di John Grisham a vendere i diritti cinematografici sul
suo ultimo romanzo (o almeno suppongo che sia così); ma non ha senso assegnare a quel diritto
l’identica durata del copyright sottostante. Il diritto derivato potrebbe essere importante per stimolare la
creatività; non è più tale una volta portata a termine l’opera creativa.
   Portata: analogamente andrebbe ridotta la portata dei diritti derivati. Ci sono naturalmente alcuni casi
in cui tali diritti sono importanti, e questi dovrebbero essere specificati. Ma la legge dovrebbe tracciare
linee precise che distinguano gli utilizzi regolamentati e non regolamentati del materiale sotto copyright.
Quando ogni “riutilizzo” del materiale creativo rimaneva sotto il controllo delle aziende, forse aveva
senso chiedere agli avvocati di negoziare quelle linee. Ma ora non ha più senso. Pensiamo a tutto il
potenziale di creatività reso possibile dalle tecnologie digitali; e immaginiamo ora di versare melassa nei
computer. Ecco l’effetto di questo obbligo generalizzato di richiedere permessi sul processo creativo. Lo
soffoca.
   Questo era il punto sottolineato da Alben nel descrivere la realizzazione del CD su Clint Eastwood.
Mentre ha senso negoziare per i diritti derivati prevedibili - trasformare un libro in un film o una poesia
nello spartito di una canzone - non ha senso imporre di intavolare trattative per quelli imprevedibili. In
questo caso avrebbe molto più senso un diritto regolamentato dalla legge.
   In ciascuno di questi casi, la legge dovrebbe contrassegnare gli usi tutelati, dando per scontato che gli
altri utilizzi non lo siano. Esattamente il contrario di ciò che propone il mio collega Paul Goldstein7.
Secondo lui la legge dovrebbe richiedere che l’estensione della tutela proceda di pari passo con quella
degli utilizzi.
   L’analisi di Goldstein sarebbe perfettamente sensata se i costi del sistema legale fossero abbordabili.
Ma, come si può notare attualmente nel contesto di Internet, l’incertezza sul raggio di azione della tutela,
e gli incentivi a proteggere le strutture esistenti che regolano il flusso delle entrate, combinati con un
copyright forte, indeboliscono il processo innovativo.
   La legge potrebbe porre rimedio a questo problema eliminando la tutela al di là di una precisa e chiara
linea di demarcazione, oppure garantendo i diritti al riutilizzo in base a determinate condizioni regolate
per legge. In ogni caso, l’effetto sarebbe quello di liberare una grande quantità di cultura perché altri
possano coltivarla. E nell’ambito di un regime di diritti regolati per legge, tale riutilizzo porterebbe
maggiori guadagni agli artisti.


              4. Liberate la musica - ancora una volta
   Lo scontro che ha fatto scoppiare la guerra è stato quella sulla musica, perciò non sarebbe giusto
terminare questo libro senza affrontare la questione che, per la maggior parte di noi, è la più urgente - la
musica. Non esiste un altro tema politico in grado di chiarire meglio la mia posizione di quello relativo
alle lotte scatenate dalla condivisione della musica.
   Il fascino del file sharing musicale è stato come una droga per la crescita di Internet. Ha fatto
aumentare la richiesta di accesso alla Rete di gran lunga più di qualsiasi altra applicazione. È stata la
“killer application” di Internet - in tutti i sensi. Senza dubbio è stata l’applicazione che ha dato impulso
alla domanda di banda larga. Magari si rivelerà anche quella che provocherà l’esigenza di
regolamentazioni che finiranno per uccidere l’innovazione in rete.

                                                    165
   L’obiettivo del copyright, riguardo ai contenuti in generale e alla musica in particolare, è di creare
incentivi per la creazione, per l’esecuzione e, fatto più importante, per la diffusione della musica. A
questo scopo, la legge assegna ai compositori il diritto esclusivo al controllo sulle esecuzioni pubbliche
dei lavori, e ad altri tipi di artisti quello sulle copie delle loro rappresentazioni.
   Le reti di file sharing complicano questo modello consentendo la diffusione di materiali per i quali
l’artista non ha ricevuto alcun compenso. Ma, naturalmente, l’attività di tali reti non si limita a questo.
Come ho scritto nel capitolo 5, esse danno vita a quattro tipi diversi di condivisione:
 A. Alcuni usano le reti di file sharing in sostituzione dell’acquisto di CD.
 B. Altri vi ricorrono per ascoltare delle anteprime, prima dell’acquisto dei CD.
 C. Molti le usano per accedere a materiali non più in vendita ma tuttora sotto copyright, o che sarebbe
    troppo difficile comprare al di fuori di Internet.
 D. Molti, ancora, le utilizzano per accedere a contenuti non protetti da copyright o per i quali il
    titolare del copyright incoraggia apertamente l’accesso.
   Qualsiasi riforma legislativa deve prendere in attenta considerazione questi differenti modi di utilizzo.
Deve evitare di colpire il tipo D, anche se mira a eliminare il gruppo A. L’ansia della legge di liberarsi
del tipo A, inoltre, dovrebbe dipendere da quanto è vasta la categoria B. Come avviene per i
videoregistratori, se l’effetto della condivisione in realtà non è poi così dannoso, la necessità di
regolamentazione si attenua in maniera significativa.
   Come ho spiegato nel capitolo 5, il danno concreto derivante dalla condivisione è discutibile. In questo
capitolo, tuttavia, do per scontato che sia reale. In altre parole, presumo che la condivisione di tipo A sia
molto più diffusa di quella di tipo B e rappresenti l’uso più importante delle reti di file sharing.
   Tuttavia, c’è un elemento essenziale riguardo l’attuale contesto tecnologico che dobbiamo tenere a
mente se vogliamo comprendere quale dovrebbe essere la risposta della legge.
   Oggi il file sharing crea assuefazione. Fra dieci anni non sarà più così. Oggi questo avviene perché il
file sharing è il modo più facile per accedere a una vasta gamma di contenuti. Non lo sarà più fra dieci
anni. Oggi l’accesso a Internet è pesante e lento - negli Stati Uniti siamo fortunati ad avere un servizio a
banda larga a 1,5 Mbps, ma raramente raggiungiamo questa velocità sia in ricezione sia in trasmissione.
Nonostante sia aumentata la diffusione dell’accesso senza fili, la maggior parte di noi ricorre ancora alle
linee terrestri. Per lo più l’accesso avviene tramite un computer dotato di tastiera. L’idea di essere sempre
collegati a Internet rimane in genere soltanto tale.
   Ma diventerà una realtà, e ciò significa che la tecnologia che ci permette di accedere alla Rete è in fase
di transizione. I legislatori non dovrebbero prendere decisioni sulla base di tecnologie in evoluzione, ma
dovrebbero valutare in quale direzione esse stiano dirigendosi. La domanda non dovrebbe essere: in che
modo la legge deve regolamentare la condivisione in questo mondo? Dovrebbe essere: di quali norme
avremo bisogno quando la rete diventerà ciò che sembra destinata a diventare? In quella rete ogni
macchina dotata di elettricità sarà sostanzialmente in Internet; ovunque ci troveremo - ad eccezione forse
del deserto o delle Montagne Rocciose - ci potremo collegare istantaneamente alla Rete. Possiamo
immaginare che Internet avrà la stessa diffusione del miglior servizio di telefonia cellulare, dove basta
premere un pulsante per ritrovarsi online.
   In quel mondo, sarà estremamente facile collegarsi a servizi che offrano accesso al volo - come la
radio via Internet, con i contenuti trasmessi mediante streaming quando l’utente li richieda. Ecco,
dunque, il punto essenziale: quando diventerà estremamente semplice collegarsi a servizi che danno
accesso ai contenuti, sarà più facile comportarsi in tal modo che scaricare e archiviare il materiale sui
numerosi apparecchi per la sua riproduzione di cui disporremo. Sarà più facile, in altri termini,
sottoscrivere degli abbonamenti piuttosto che gestire un database, cosa che deve sostanzialmente fare

                                                    166
chiunque operi nel mondo delle tecnologie “scarica e condividi” di tipo Napster. I servizi che offrono
contenuti saranno in concorrenza con quelli di filesharing, anche se si dovrà pagare per il materiale a cui
danno accesso. In Giappone i servizi di telefonia cellulare offrono già musica (a pagamento) trasmessa
via streaming sul cellulare (amplificata tramite apposite cuffie). I giapponesi pagano per questo
materiale, anche se quello “gratuito” rimane disponibile sul Web sotto forma di file MP38.
   Questa descrizione del futuro intende suggerire una prospettiva del presente, che è in una fase di
estrema transizione. Il “problema” del filesharing - se esiste davvero un problema reale - è che questo
finirà gradatamente per sparire man mano che diventerà più facile collegarsi a Internet. E quindi i
legislatori stanno commettendo un errore enorme nel pretendere di “risolvere” oggi questo problema, alla
luce di una tecnologia che domani sarà obsoleta. La questione non dovrebbe essere in che modo
regolamentare Internet per eliminare il filesharing (sarà Internet stessa a evolvere e a far sparire il
problema). Ci si dovrebbe piuttosto chiedere quale sia il modo per avere la certezza che gli artisti siano
ricompensati in questa fase di transizione tra i modelli imprenditoriali del XX secolo e le tecnologie del
XXI secolo.
   Per rispondere, iniziamo con il renderci conto che esistono “problemi” differenti da risolvere. Partiamo
dai contenuti di tipo D - materiale protetto o meno da copyright che l’artista intende condividere. Il
“problema” in questo caso è di assicurarsi che la tecnologia che serve ad attivare questo tipo di
condivisione non diventi illegale. Facciamo un esempio: senza dubbio, si possono usare i telefoni
pubblici per chiedere il riscatto per un rapimento. Ma molti hanno la necessità di usare questi telefoni
senza avere nulla a che fare con i riscatti. Sarebbe sbagliato dunque vietare i telefoni pubblici per
eliminare i rapimenti.
   I contenuti della categoria C sollevano un diverso “problema”. Si tratta di materiale che è stato
pubblicato e che ora non è più disponibile. Potrebbe dipendere dal fatto che l’artista non vende più
abbastanza per essere ancora distribuito dall’etichetta discografica con cui ha un contratto. Oppure
l’opera potrebbe non essere più in circolazione perché è stata dimenticata. Qualunque sia il caso, scopo
della legge dovrebbe essere quello di facilitare l’accesso a quei contenuti, possibilmente procurando
qualche ritorno all’artista.
   Qui il modello è la libreria dell’usato. Una volta che un libro va fuori catalogo, può ancora essere
reperibile nelle biblioteche e nelle librerie dell’usato. Ma queste non ricompensano il titolare del
copyright quando qualcuno legge o acquista uno di tali libri. La cosa ha senso, ovviamente, perché
qualsiasi altro sistema sarebbe talmente oneroso da eliminare la possibilità stessa dell’esistenza delle
librerie dell’usato. Ma dal punto di vista dell’autore, questa “condivisione” dei suoi contenuti senza
alcuna ricompensa non è certo l’ideale.
   Il modello delle librerie dell’usato suggerisce il fatto che la legge potrebbe semplicemente considerare
la musica fuori catalogo una preda consentita. Se l’editore non ne rende disponibili altre copie, allora i
rivenditori commerciali e non sarebbero liberi, in base a questa regola, di “condividere” quel materiale,
anche se ciò significa farne una copia. La quale, in questo caso, risulterebbe secondaria; in un contesto in
cui si è estinta la pubblicazione commerciale, lo scambio di musica dovrebbe essere libero come quello
dei libri.
   In alternativa, la legge potrebbe creare una licenza regolamentata in base alla quale gli artisti
riceverebbero un compenso per il commercio dei loro lavori. Per esempio, se esistesse una piccola tariffa
regolata dalla legge per la condivisione commerciale di materiale che l’editore non vende più, e se questa
tariffa venisse automaticamente trasferita su un conto fiduciario a beneficio dell’artista, allora potrebbe
svilupparsi un’imprenditoria basata sullo scambio di questo materiale, che sarebbe di giovamento anche
agli artisti.


                                                    167
   Questo sistema creerebbe altresì un incentivo per gli editori a mantenere in circolazione le opere. I
lavori disponibili sul mercato non sarebbero soggetti a tale licenza. Così gli editori potrebbero tutelare il
loro diritto a imporre il prezzo che vogliono sul materiale disponibile a livello commerciale. Ma se non
lo rendono disponibile, e invece sono i computer degli appassionati in ogni parte del mondo a tenerlo
vivo, allora le royalty dovute per questa attività di copia dovrebbero essere molto inferiori a quelle
dovute dall’editore commerciale.
   Il caso difficile è rappresentato dal materiale di tipo A e B, perché anche qui il livello del problema
cambierà con il passare del tempo, seguendo la trasformazione delle tecnologie che offrono accesso ai
contenuti. La soluzione della legge dovrebbe essere flessibile quanto il problema, con la consapevolezza
che ci troviamo in una fase di trasformazione radicale della tecnologia per la diffusione e l’accesso dei
materiali.
   Ecco allora una soluzione che, a prima vista, sembrerà molto strana a entrambi gli schieramenti, ma
che riflettendoci sopra, come suggerisco, dovrebbe avere un senso.
   Spogliata della retorica della sacralità della proprietà, l’affermazione di base dell’industria produttrice
di contenuti è questa: una nuova tecnologia (Internet) ha danneggiato una serie di diritti che assicurano il
copyright. Se occorre tutelare tali diritti, allora l’industria andrebbe rimborsata per quel danno. Come la
tecnologia del tabacco ha rovinato la salute a milioni di americani, o quella dell’amianto ha causato gravi
malattie a migliaia di minatori, così anche la tecnologia delle reti digitali ha danneggiato gli interessi
dell’industria produttrice di contenuti.
   Io adoro Internet, e perciò non mi piace paragonarla al tabacco o all’amianto. Ma l’analogia è corretta
dal punto di vista della legge. E suggerisce una risposta onesta: anziché mirare alla distruzione di
Internet, o delle tecnologie p2p che attualmente stanno danneggiando i fornitori di contenuti sulla Rete,
dovremmo trovare un modo relativamente semplice per ricompensare coloro che subiscono i danni.
   L’idea sarebbe la modifica di una proposta di William Fisher, docente di giurisprudenza a Harvard9,
che suggerisce un modo ingegnoso per aggirare l’attuale impasse di Internet. In base al suo progetto,
tutto il materiale che è possibile trasmettere per via digitale sarebbe (1) contrassegnato con un apposito
marchio digitale (non preoccupiamoci di quanto sia facile aggiralo; come vedremo, manca l’incentivo
per farlo). Una volta contrassegnato il materiale, gli imprenditori svilupperebbero (2) sistemi per
monitorare il numero di esemplari distribuiti di ciascun contenuto. Gli artisti sarebbero poi ricompensati
(3) sulla base di questo numero. Tali compensi verrebbero coperti da (4) una tassazione appropriata.
   La proposta di Fisher è attenta e consapevole. Solleva un milione di domande, alla maggioranza delle
quali egli risponde nel suo libro di prossima pubblicazione, Promises to Keep. La modifica che io le
apporterei è relativamente semplice: Fisher immagina che la proposta sostituisca l’attuale sistema di
copyright. Io la vedo come complemento. L’obiettivo sarebbe quello di semplificare la ricompensa fino
al punto in cui viene dimostrato il danno. Tale ricompensa sarebbe temporanea, mirata a facilitare la
transizione tra i due regimi. E andrebbe rinnovata dopo un certo numero di anni. Se continua ad avere un
senso facilitare il libero scambio del materiale, finanziato da un sistema di tassazione, allora si potrebbe
continuare. Se questa forma di tutela non è più necessaria, allora si ritornerebbe al vecchio sistema,
basato sul controllo dell’accesso.
   Fisher sarebbe contrario all’idea di far decadere il sistema. Il suo scopo non è soltanto quello di
assicurare il compenso agli artisti, ma anche quello di fare sì che il sistema sostenga la più ampia gamma
possibile di “democrazia semiotica”. Ma quest’ultimo obiettivo sarebbe raggiunto se si attuassero le altre
modifiche che ho illustrato - in particolare, i limiti sugli usi derivati. Un sistema che imponga tariffe per
il semplice accesso non peserebbe granché sulla democrazia semiotica se esistessero poche limitazioni al
modo di utilizzare i contenuti stessi.


                                                     168
   Sarebbe indubbiamente difficile calcolare in misura adeguata il “danno” subito da un’industria. Ma la
difficoltà di questi calcoli verrebbe compensata dal beneficio dell’innovazione. Questo sistema di
compensazione non dovrebbe neppure interferire con proposte innovative come il MusicStore della
Apple. Come avevano previsto gli esperti al momento del lancio, il MusicStore poteva avere la meglio
sull’accesso “gratuito” grazie alla maggiore semplicità. Previsione che si è dimostrata corretta: la Apple
ha venduto milioni di canzoni a un prezzo molto alto: 99 centesimi al pezzo. (Questo prezzo è
equivalente a quello di una canzone su un CD, anche se le etichette discografiche non devono pagare i
costi del CD.) La mossa della Apple è stata rilanciata da Real Networks, che offre musica a soli 79
centesimi per canzone. E senza dubbio ci sarà un’accesa concorrenza per l’offerta e la vendita di musica
online.
   Tale competizione è stata già messa in atto per contrastare la musica “gratuita” dei sistemi p2p. Come
ben sanno da trent’anni i venditori della TV via cavo, e quelli dell’acqua imbottigliata da più tempo
ancora, non è impossibile “competere con il gratuito”. Anzi, la concorrenza stimola i rivali a offrire
prodotti nuovi e migliori. Questo è esattamente ciò che si intende con “mercato concorrenziale”. Perciò a
Singapore, dove la pirateria impazza, spesso i cinema sono lussuosi - con poltrone di “prima classe” e
pasti serviti durante la proiezione del film - nel tentativo di trovare modi per competere con successo con
il “gratuito”.
   Questo regime di concorrenza, con una copertura per assicurarsi che non siano gli artisti a rimetterci,
faciliterebbe parecchio l’innovazione nella distribuzione dei contenuti. Esso continuerebbe a far
diminuire la condivisione di tipo A. Ispirerebbe un gran numero di innovatori - gente a cui spetterebbe il
diritto sui contenuti e che non dovrebbe più temere le incertezze e le punizioni barbaramente severe della
legge.
   In sintesi, dunque, questa è la mia proposta:
   Internet è in fase di transizione. E quindi non è il caso di regolamentarne la tecnologia. Dovremmo
invece emanare regole per ridurre al minimo il danno agli interessi colpiti da questa trasformazione
tecnologica, mentre va abilitata e incoraggiata la tecnologia più efficiente che si possa creare.
   Possiamo minimizzare quel danno massimizzando al contempo il beneficio per l’innovazione, nel
modo seguente:
  1. garantendo il diritto a partecipare alla condivisione di tipo D;
  2. permettendo la condivisione non-commerciale di tipo C senza responsabilità legali, e quella
     commerciale, sempre di tipo C, a una tariffa bassa fissata dalle legge;
  3. introducendo, in questa fase di transizione, un sistema di tassazione che compensi la condivisione
     di tipo A, nella misura in cui se ne dimostri il danno concreto.
   Ma, come la metteremmo se la pirateria non scomparisse? Che cosa succederebbe se ci fosse un
mercato competitivo che fornisse contenuti a bassi costi, ma un numero significativo di consumatori
continuasse ad “appropriarsi” dei materiali senza dare nulla in cambio? Allora la legge dovrebbe
intervenire?
   Sì, dovrebbe fare qualcosa. Ma, di nuovo, le misure da prendere dipenderebbero dallo sviluppo dei
fatti. Può darsi che questi cambiamenti non riescano a eliminare la condivisione di tipo A. Ma il
problema non è la limitazione in astratto, è l’effetto sul mercato. È meglio (a) avere una tecnologia sicura
al 95 per cento che produca un mercato di grandezza x, oppure (b) avere una tecnologia affidabile al 50
per cento ma che produca un mercato grande cinque volte x? Se fosse meno sicura porterebbe a una
maggiore condivisione non autorizzata, ma è probabile che produrrebbe anche un mercato assai più
ampio per la condivisione autorizzata. La cosa più importante è garantire un compenso agli artisti senza



                                                    169
danneggiare Internet. Una volta assicurato tale requisito, allora si potrebbero trovare modi appropriati per
scovare gli avidi pirati.
   Ma siamo ben lontani dal poter ridurre il problema a questo sotto-insieme di utenti dediti alla
condivisione di tipo A. E finché non arriveremo a questo punto, non è il caso di cercare modalità per
distruggere Internet. Nel frattempo dovremmo invece dedicarci a garantire un compenso agli artisti,
tutelando quello spazio per l’innovazione e la creatività che è Internet.


                            5. Licenziamo gli avvocati
   Io sono un avvocato. Per vivere faccio l’avvocato. Credo nella legge. Credo nella legislazione sul
copyright. Anzi, ho dedicato la mia vita a lavorare con la legge, non perché a conti fatti si guadagni tanto,
ma perché ci sono ideali che vorrei che continuassero a vivere.
   Eppure per buona parte di questo libro ho criticato gli avvocati o il ruolo che hanno svolto in questo
dibattito. La legge parla di ideali, ma il mio punto di vista è che la nostra professione sia troppo centrata
sul cliente. E in un mondo dove i clienti ricchi hanno posizioni forti, la mancanza di volontà da parte
degli avvocati di mettere in dubbio o di controbattere tali opinioni danneggia la legge.
   La prova di questa tendenza è inconfutabile. Vengo attaccato come “radicale” da molti nell’ambito
professionale, eppure le posizioni che sostengo sono esattamente quelle di alcune delle figure più
moderate e significative nella storia di questa branca della legge. Molti, per esempio, ritennero folle la
nostra sfida lanciata al Copyright Term Extension Act. Tuttavia trent’anni fa, il maggior studioso nel
campo del diritto d’autore, Melville Nimmer, la riteneva ovvia10.
   Però, la mia critica al ruolo sostenuto dagli avvocati in questo dibattito non riguarda soltanto una certa
tendenza della professione. Concerne piuttosto un aspetto ancora più importante: il nostro fallimento nel
calcolare in concreto i costi della legge.
   Si ritiene che gli economisti siano bravi a calcolare costi e benefici. Ma più spesso di quanto si creda,
essi, non avendo alcuna idea su come funzioni realmente il sistema giuridico, presumono semplicemente
che le relative spese di transazione siano basse11. Vedono un sistema che esiste da centinaia di anni e
danno per scontato che funzioni nel modo insegnato loro nelle lezioni di educazione civica alle
elementari.
   Ma il sistema legale non funziona. O, più precisamente, funziona soltanto per coloro che possiedono
grandi risorse. Non perché il sistema sia corrotto. Non credo che il sistema legale statunitense (almeno, a
livello federale) sia corrotto. Credo semplicemente che i costi di tale sistema siano così incredibilmente
elevati che in pratica non si ottiene mai giustizia.
   Questi costi provocano una distorsione della cultura libera in svariati modi. Nei grandi studi legali, il
lavoro di un avvocato viene fatturato a oltre 400 dollari l’ora. Quanto tempo dovrebbe quindi impiegare a
leggere con attenzione i casi, oppure a fare ricerche su punti oscuri? La risposta è una realtà sempre più
diffusa: assai poco. La legge si fonda su un’attenta articolazione e sullo sviluppo della dottrina, ma questi
elementi si basano su un accurato lavoro di preparazione. Tuttavia tale attività costa troppo, eccetto nei
casi più importanti e remunerativi.
   I costi eccessivi, la goffaggine e l’incertezza di questo sistema si fanno beffe della nostra tradizione. E
gli avvocati, come pure gli accademici, dovrebbero considerare un dovere quello di cambiare il modo in
cui opera la legge - o, meglio, quello di modificare la legge in modo che funzioni. È sbagliato il fatto che
il sistema funzioni bene soltanto per l’uno per cento dei clienti, i più importanti. Va reso radicalmente più
efficace, e quindi radicalmente più giusto.
   Ma finché non verrà realizzata una simile riforma, la società dovrebbe tenere la legge lontana da quelle
aree che, come sappiamo, finirà soltanto per danneggiare. E ciò avverrà anche troppo spesso, se buona

                                                     170
parte della cultura verrà lasciata alla sua tutela.
   Pensiamo alle cose incredibili che nostro figlio potrà realizzare grazie alla tecnologia digitale - film,
musica, pagine Web, blog. O consideriamo le cose incredibili che la nostra comunità potrà realizzare più
facilmente tramite la tecnologia digitale. Pensiamo a tutto questo, e poi immaginiamo la fredda melassa
versata sui computer. Questo è ciò che produce ogni regime che obbliga a richiedere permessi. Di nuovo,
questa è la realtà della Russia di Breznev.
   La legge dovrebbe regolamentare determinate aree della cultura - ma dovrebbe farlo soltanto quando
questa regolamentazione fosse un vantaggio. Eppure raramente gli avvocati mettono alla prova il loro
potere, o il potere che sostengono, di fronte a questa semplice domanda: “Farà del bene?” Davanti
all’espansione del raggio d’azione della legge, essi rispondono: “Perché no?”
   Dovremmo invece chiedere: “Perché?” Dimostrami perché sia necessaria la tua regolamentazione
della cultura. Fammi vedere in che modo possa fare del bene. E finché non riesci a dimostrarmi entrambe
le cose, tieni lontani gli avvocati.




                                                    171
                                                    Note




   Nel testo sono presenti riferimenti a link sul World Wide Web. Come sa bene chiunque usi il Web,
questi link possono essere molto instabili. Ho cercato di rimediare a questo inconveniente indirizzando i
lettori alla fonte originale tramite il sito Web associato al libro. Basta quindi andare su http://free-
culture.cc/notes e localizzare la fonte originale facendo clic sul relativo numero. Se il link originale è
ancora attivo, vi sarete indirizzati. Se invece è scomparso, sarete indirizzati al riferimento giusto per quel
materiale.


                                            Prefazione
  1. David Pogue, “Don’t Just Chat, Do Something”, New York Times, 30 gennaio 2000.
  2. N.d.T.: in inglese, diversamente dall’italiano, il termine “free” significa sia “libero” che “gratuito”;
     l’autore sottolinea che in “free culture” il significato è il primo, ben diverso da “birra gratis”, una
     battuta presa a prestito dal fondatore del movimento del software libero (si veda Richard M.
     Stallman, Free Software, Free Society, a cura di Joshua Gay, 2002, p. 57; ed. it. Software libero,
     pensiero libero, Stampa alternativa, due volumi, 2003 e 2004).
  3. William Safire, “The Great Media Gulp”, New York Times, 22 maggio 2003.



                                          Introduzione
  1. St. George Tucker, Blackstone's Commentaries 3, South Hackensack, N.J., Rothman Reprints,
     1969, p. 18.
  2. È così chiamata quella parte del diritto anglosassone, che si basa sul semplice precedente
     giurisprudenziale, contrapposto a un sistema di diritto fondato sui codici.
  3. United States v. Causby, U.S. 328 (1946), pp. 256, 261. La Corte riconobbe che avrebbe potuto
     trattarsi di “appropriazione” se l’uso del terreno da parte del governo avesse effettivamente
     distrutto il valore del terreno dei Causby. Quest’esempio mi è stato suggerito dallo stupendo
     articolo di Keith Aoki “(Intellectual) Property and Sovereignty: Notes Toward a Cultural
     Geography of Authorship”, Stanford Law Review 48, 1996, pp. 1293, 1333. Si veda anche Paul
     Goldstein, Real Property, Mineola, N.Y., Foundation Press, 1984, pp. 1112-13.
  4. Informazione intellettuale o culturale che, come un organismo vivente, sopravvive abbastanza a
     lungo da essere riconosciuta come tale e che si propaga da una mente all’altra. [NdT]
  5. Lawrence Lessing, Man of High Fidelity: Edwin Howard Armstrong, Philadelphia, J. B. Lipincott
     Company, 1956, p. 209.
  6. Si veda “Saints: The Heroes and Geniuses of the Electronic Era”, First Electronic Church of
     America, su www.webstationone.com/fecha, disponibile al link n. 1.
  7. Lessing, op. cit., p. 226.
  8. Lvi, p. 256.


                                                     172
 9. Amanda Lenhart, “The Ever-Shifting Internet Population: A New Look at Internet Access and the
    Digital Divide”, Pew Internet and American Life Project, 15 aprile 2003, 6, disponibile al link n. 2.
10. Questo non è l’unico scopo del diritto d’autore (copyright), nonostante sia ampiamente l’obiettivo
    primario stabilito nella costituzione federale [degli Stati Uniti]. Storicamente le leggi statali sul
    copyright tutelavano non soltanto l’interesse commerciale della pubblicazione, ma anche quello
    della privacy. Riconoscendo agli autori il diritto esclusivo alla prima pubblicazione, le leggi statali
    sul copyright fornivano loro il potere di controllare la diffusione di fatti che li riguardavano. Si
    veda Samuel D. Warren e Louis D. Brandeis, “The Right to Privacy”, Harvard Law Review 4,
    1890, pp. 193, 198-200.
11. Si veda Jessica Litman, Digital Copyright, New York, Prometheus Books, 2001, 3.
12. Amy Harmon, “Black Hawk Download: Moving Beyond Music, Pirates Use New Tools To Turn
    the Net into an Illicit Video Club”, New York Times, 17 gennaio 2002.
13. Neil W. Netanel, “Copyright and a Democratic Civil Society”, Yale Law Journal 106, 1996, p. 283.



                                            Pirateria
 1. Bach v. Longman, 98 Rep. Ingl. 1274, 1777, Mansfield.
 2. Si veda Rochelle Dreyfuss, “Expressive Genericity: Trademarks as Language in the Pepsi
    Generation”, Notre Dame Law Review 65, 1990, p. 397.
 3. Lisa Bannon, “The Birds May Sing, but Campers Can’t Unless They Pay Up”, Wall Street Journal,
    21 agosto 1996, disponibile al link n. 3; Jonathan Zittrain, “Calling Off the Copyright War: In
    Battle of Property vs. Free Speech, No One Wins”, Boston Globe, 24 novembre 2002.
 4. In The Rise of the Creative Class, New York, Basic Books, 2002 (ed. it., L’ascesa della nuova
    classe creativa, Milano, Mondadori, 2003), Richard Florida documenta la trasformazione della
    natura del lavoro, che diviene lavoro creativo. L’opera, tuttavia, non affronta in maniera diretta le
    condizioni legali sotto le quali tale creatività viene consentita o soffocata. Sono sicuramente
    d’accordo con lui sull’importanza e sul significato di questo cambiamento, ma credo anche che le
    condizioni che lo renderanno possibile siano assai più sottili.



                                          Capitolo 2
 1. Leonard Maltin, Of Mice and Magic: A History of American Animated Cartoons, New York,
    Penguin Books, 1987, pp. 34-35.
 2. Sono grato a David Gerstein e alla sua meticolosa storia, descritta al link n. 4. Secondo Dave
    Smith degli Archivi Disney, in Steamboat Willie Disney pagò le royalty per usare la musica di
    cinque canzoni: “Steamboat Bill”, “The Simpleton” (Delille), “Mischief Makers” (Carbonara),
    “Joyful Hurry N. 1” (Baron) e “Gawky Rube” (Lakay). Una sesta canzone, “The Turkey in the
    Straw”, era già di pubblico dominio. Lettera di David Smith a Harry Surden, 10 luglio 2003,
    archiviata dall’autore.
 3. Walt Disney era anche un grande sostenitore del pubblico dominio. Si veda Chris Sprigman, “The
    Mouse that Ate the Pubblic Domain”, Findlaw, 5 marzo 2002, al link n. 5.
 4. Fino al 1976, le norme sul copyright offrivano a un autore la possibilità di due durate: una iniziale
    e una per il rinnovo. Ho calcolato la durata “media” determinando la media delle registrazioni
    totali per ciascun anno, e la proporzione dei rinnovi. Perciò, se nell’anno 1 si registrano 100
    copyright e soltanto 15 vengono rinnovati, e la durata del rinnovo è di 28 anni, allora la durata

                                                   173
    media è di 32,2 anni. Per i dati sul rinnovo e altre informazioni sull’argomento, si veda il sito web
    associato a questo libro, disponibile al link n. 6.
 5. Per un ottimo scorcio storico, si veda Scott McCloud, Reinventing Comics, New York, Perennial,
    2000. (Ed. it., Reinventare il fumetto, Vittorio Pavesio Productions, 2001.)
 6. Si veda Salil K. Mehra, “Copyright and Comics in Japan: Does Law Explain Why All The Comics
    My Kid Watches are Japanese Imports?” Rutgers Law Review 55, 2002, pp. 155, 182. “Forse
    esiste una razionalità economica collettiva che spinge gli artisti manga e anime a dimenticarsi di
    intentare azioni legali per violazione del copyright. Un’ipotesi è quella secondo la quale tutti gli
    artisti manga possono trarre vantaggi a livello collettivo se mettono da parte gli interessi
    individuali e decidono di non perseguire i propri diritti legali. Sostanzialmente questa è la
    soluzione del dilemma del prigioniero.”
 7. Il termine proprietà intellettuale è di origine relativamente recente. Si veda Siva Vaidhyanathan,
    Copyrights and Copywrongs, 11, New York, New York University Press, 2001. Si veda inoltre
    Lawrence Lessig, The Future of Ideas, New York, Random House, 2001, 293 n. 26. Il termine
    descrive accuratamente una serie di diritti di “proprietà” - copyright, brevetti, marchi di fabbrica,
    segreti commerciali - ma la natura di tali diritti è molto diversa.



                                         Capitolo 2
 1.   Reese V. Jenkins, Images and Enterprise, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1975, p. 112.
 2.   Brian Coe, The Birth of Photography, New York, Taplinger Publishing, 1977, p. 53.
 3.   Jenkins, op. cit., p. 177.
 4.   Basato su un diagramma in Jenkins, op. cit., p. 178.
 5.   Coe, op. cit., p. 58.
 6.   Come casi esemplificativi, si vedano, ad esempio, Pavesich v. N.E. Life Ins. Co., 50 S.E. 68 (Ga.
      1905); Foster-Milburn Co. v. Chinn, 123090 S.W. 364, 366 (Ky. 1909); Corliss v. Walker, 64 F.
      280 (Mass. Dist. Ct. 1894).
 7.   Samuel D. Warren e Louis D. Brandeis, “The Right to Privacy”, Harvard Law Review 4, 1890, p.
      193.
 8.   Si veda Melville B. Nimmer, “The Right of Publicity”, Law and Contemporary Problems 19, 1954,
      p. 203; William L. Prosser, “Privacy”, California Law Review 48, 1960, pp. 398-407; White v.
      Samsung Electronics America, Inc., 971 F. 2d 1395 (9. Cir. 1992), certificazione negata, 508 U.S.
      951 (1993).
 9.   N. d. T.
10.   H. Edward Goldberg, “Essential Presentation Tools: Hardware and Software You Need to Create
      Digital Multimedia Presentations”, cadalyst, 1 febbraio 2002, disponibile al link n. 7.
11.   Judith Van Evra, Television and Child Development, Hillsdale, N.J., Lawrence Erlbaum
      Associates, 1990; “Findings on Family and TV Study”, Denver Post, 25 maggio 1997, B6.
12.   Intervista con Elizabeth Daley e Stephanie Barish, 13 dicembre 2002.
13.   Si veda Scott Steinberg, “Crichton Gets Medieval on PCs”, E!online, 4 novembre 2000,
      disponibile al link n. 8; “Timeline”, 22 novembre 2000, disponibile al link n. 9.
14.   Intervista con Daley e Barish.
15.   Ibid.
16.   Il termine “granaio” rimanda al caso dei Causby, di cui si parla nell’Introduzione.
17.   Un “reality show” televisivo, N. d. T.


                                                  174
18. Si veda, per esempio, Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, a cura di Eduardo
    Nolla, Paris, J. Vrin, 1990 (ed. it., La democrazia in America, a cura di Giorgio Candeloro, Milano,
    Rizzoli, 1998), libro 1, 6.
19. Bruce Ackerman e James Fishkin, “Deliberation Day”, Journal of Political Philosophy, 10, 2,
    2002, p. 129.
20. Cass Sunstein, Republic.com, Princeton, Princeton University Press, 2001, pp. 65-80, 175, 182,
    183, 192. (Ed. it., Republic.com, Bologna, Il Mulino, 2003.)
21. Noah Shachtman, “With Incessant Postings, a Pundit Stirs the Pot”, New York Times, 16 gennaio
    2003, G5.
22. Intervista telefonica con Dave Winer, 16 aprile 2003.
23. John Schwartz, “Loss of the Shuttle: The Internet; A Wealth of Information Online”, New York
    Times, 2 febbraio 2003, A28; Staci D. Kramer, “Shuttle Disaster Coverage Mixed, but Strong
    Overall”, Online Journalism Review, 2 febbraio 2003, disponibile al link n. 10.
24. Si veda Michael Falcone, “Does an Editor's Pencil Ruin a Web Log?” New York Times, 29
    settembre 2003, C4. (“Non tutte le testate d’informazione hanno accettato che i dipendenti
    avessero un blog. Kevin Sites, corrispondente della CNN in Iraq, che aprì un blog sui propri
    resoconti della guerra il 9 marzo, smise di aggiornarlo dopo 12 giorni su richiesta dei suoi capi. Lo
    scorso anno Steve Olafson, giornalista dello Houston Chronicle, venne licenziato perché curava un
    Web log personale, pubblicato sotto pseudonimo, che trattava alcune questioni e parlava di persone
    di cui Olafson si occupava per il giornale.”)
25. Si veda, per esempio, Edward Felten e Andrew Appel, “Technological Access Control Interferes
    with Noninfringing Scholarship”, Communications of the Association for Computer Machinery
    43, 2000, p. 9.



                                         Capitolo 3
 1. Si tratta di danni che la corte ritiene adeguati, ma che non corrispondono in realtà ai danni reali.
 2. Tim Goral, “Recording Industry Goes After Campus P-2-P Networks: Suits Alleges $ 97.8 Billion
    in Damages”, Professional Media Group LCC 6 (2003): 5, disponibile a 2003 WL 55179443.
 3. Sondaggio sul lavoro professionale, Ministero del Lavoro USA, 2001 (27-2042 - Musicisti e
    cantanti). Si veda anche, National Endowment for the Arts, More Than One in a Blue Moon
    (2000).
 4. Douglas Lichtman discute una questione analoga in “KaZaA and punishment”, Wall Street Journal,
    10 settembre 2003, A24.



                                         Capitolo 4
 1. Ringrazio Peter DiMauro per avermi indirizzato verso questa storia eccezionale. Si veda anche
    Siva Vaidhyanathan, Copyrights and Copywrongs, cit., pp. 87-93, che illustra in dettaglio le
    “avventure” di Edison con copyright e brevetti.
 2. N. d. T. Le prime sale cinematografiche che proiettavano film per l’intera giornata; nel 1908 se ne
    contavano circa 8.000.
 3. J. A. Aberdeen, Hollywood Renegades: The Society of Independent Motion Picture Producers
    (Cobblestone Entertainment, 2000) e i testi estesi inseriti ne “The Edison Movie Monopoly: The
    Motion Picture Patents Company vs. the Independent Outlaws”, disponibile al link n. 11. Per una

                                                  175
      discussione sulla motivazione economica che ha determinato sia queste limitazioni sia quelle
      imposte dalla Victor ai fonografi, si veda Randal C. Picker, “From Edison to the Broadcast Flag:
      Mechanisms of Consent and Refusal and the Propertization of Copyright” (settembre 2002),
      University of Chicago Law School, James M. Olin Program in Law and Economics, Relazione di
      lavoro n. 159.
 4.   Marc Wanamaker, “The First Studios”, The Silents Majority, archiviato al link n. 12.
 5.   To Amend and Consolidate the Acts Respecting Copyright: audizioni sul S. 6330 e H.R. 19853
      davanti alle commissioni (unificate) sui brevetti, 59.mo Cong. 59, Prima sess. (1906)
      (dichiarazione del senatore Alfred B. Kittredge, del South Dakota, presidente), ristampato in
      Legislative History of the 1909 Copyright Act, E. Fulton Brylawski e Abe Goldman, a cura di,
      South Hackensack, N.J., Rothman Reprints, 1976.
 6.   To Amend and Consolidate the Acts Respecting Copyright, p. 223 (dichiarazione di Nathan
      Burkan, legale della Music Publishers Association).
 7.   To Amend and Consolidate the Acts Respecting Copyright, p. 226 (dichiarazione di Nathan
      Burkan, legale della Music Publishers Association).
 8.   To Amend and Consolidate the Acts Respecting Copyright, p. 23 (dichiarazione di John Philip
      Sousa, compositore).
 9.   To Amend and Consolidate the Acts Respecting Copyright, pp. 283-84 (dichiarazione di Albert
      Walker, rappresentante della Auto-Music Perforating Company of New York).
10.   To Amend and Consolidate the Acts Respecting Copyright, p. 76 (memorandum preparato da
      Philip Mauro, consulente legale sui brevetti della American Graphophone Company Association).
11.   Copyright Law Revision: audizioni sul S. 2499, S. 2900, H.R. 243, e H.R. 11794 davanti alla
      commissione (unificata) sui brevetti, 60.mo Cong., Prima sess., p. 217, 1908 (dichiarazione del
      senatore Reed Smoot, presidente), ristampata in Legislative History of the 1909 Copyright Act, E.
      Fulton Brylawski e Abe Goldman, a cura di, South Hackensack, N.J., Rothman Reprints, 1976.
12.   Copyright Law Revision: relazione di accompagnamento sul H.R. 2512, Commissione giudiziaria
      della Camera, 90.mo Cong., Prima sess., Documento della Camera n. 83, 66, 8 marzo 1967.
      Ringrazio Glenn Brown per aver attirato la mia attenzione su questa relazione.
13.   Si veda 17 United States Code, sezioni 106 e 110. Inizialmente, le aziende discografiche
      stamparono sui dischi la dicitura “Non autorizzato per le trasmissioni radiofoniche" e altri
      messaggi mirati a limitare la possibilità di mandarli in onda. Il giudice Learned Hand respinse la
      tesi secondo la quale un avviso allegato a un disco potesse limitare i diritti della stazione radio. Si
      veda RCA Manufacturing Co. v. Whiteman, 114 F. 2d 86 (2. Cir. 1940). Si veda anche Randal C.
      Picker, “From Edison to the Broadcast Flag: Mechanisms of Consent and Refusal and the
      Propertization of Copyright”, University of Chicago Law Review 70, 2003, p. 281.
14.   Copyright Law Revision - CATV: audizioni sul S. 1006 davanti alla sottocommissione su brevetti,
      marchi di fabbrica e copyright della Commissione giudiziaria del Senato, 89.mo Cong., Seconda
      sess., 78, 1966 (dichiarazione di Rosel H. Hyde, presidente della Federal Communications
      Commission).
15.   Copyright Law Revision - CATV, p. 116 (dichiarazione di Douglas A. Anello, consigliere generale
      della National Association of Broadcasters).
16.   Copyright Law Revision - CATV, p. 126 (dichiarazione di Ernest W. Jennes, consigliere generale
      della Association of Maximum Service Telecasters, Inc.).
17.   Copyright Law Revision - CATV, p. 169 (dichiarazione congiunta di Arthur B. Krim, presidente
      della United Artists Corp., e John Sinn, presidente della United Artists Television, Inc.).


                                                    176
18. Copyright Law Revision - CATV, p. 209 (dichiarazione di Charlton Heston, presidente della
    Screen Actors Guild).
19. Copyright Law Revision - CATV, p. 216 (dichiarazione di Edwin M. Zimmerman, assistente del
    procuratore generale).
20. Si veda, per esempio, National Music Publisher's Association, The Engine of Free Expression:
    Copyright on the Internet - The Myth of Free Information, disponibile al link n. 13. “La minaccia
    della pirateria - l’uso dell’opera creativa altrui senza relativo permesso o compenso - è cresciuta
    con Internet.”



                                          Capitolo 5
 1. Si veda IFPI (International Federation of the Phonographic Industry), The Recording Industry
    Commercial Piracy Report 2003, luglio 2003, disponibile al link n. 14. Si veda inoltre Ben Hunt,
    “Companies Warned on Music Piracy Risk”, Financial Times, 14 febbraio 2003, p. 11.
 2. Si veda Peter Drahos con John Braithwaite, Information Feudalism: Who Owns the Knowledge
    Economy?, New York, The New Press, 2003, pp. 10-13, 209. L’accordo denominato Trade-Related
    Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS) obbliga le nazioni che vi aderiscono a creare
    meccanismi amministrativi e repressivi per i diritti di proprietà intellettuale, una proposta onerosa
    per i paesi in via di sviluppo. Inoltre, i diritti sui brevetti possono portare a prezzi più elevati per
    industrie di base, come l’agricoltura. Coloro che criticano il TRIPS mettono in questione la
    disparità tra il peso imposto ai paesi in via di sviluppo e i benefici derivanti alle nazioni
    industrializzate. Il TRIPS consente ai governi di usare i brevetti per utilizzi pubblici non-
    commerciali senza ottenere il permesso preventivo del titolare del brevetto. I paesi in via di
    sviluppo potranno ricorrere a questa clausola per trarre vantaggio dai brevetti stranieri a prezzi
    ridotti. Si tratta di una promettente strategia per i paesi in via di sviluppo nel contesto del TRIPS.
 3. Per un’analisi sull’impatto economico delle tecnologie della copia, si veda Stan Liebowitz,
    Rethinking the Network Economy, New York, Amacom, 2002, pp. 144-90. “In alcuni casi ...
    l’impatto della pirateria sulla possibilità del titolare del copyright di entrare in possesso del valore
    dell’opera risulterà irrilevante. Una situazione ovvia è il caso in cui chi approfitta della pirateria
    non avrebbe acquistato un originale anche se non esistesse una copia piratata.” Ivi, p. 149.
 4. Bach v. Longman, 98 Eng. Rep. 1274 (1777).
 5. Si veda Clayton M. Christensen, The Innovator's Dilemma: The Revolutionary National Bestseller
    That Changed the Way We Do Business, New York, HarperBusiness, 2000 (ed. it., Il dilemma
    dell’innovatore, Milano, Franco Angeli, 2001). Il professor Christensen esamina i motivi per cui le
    aziende che creano e dominano un’area di produzione spesso sono incapaci di scoprirne gli usi più
    creativi, in grado di modificare il paradigma dei propri prodotti. Di solito questa capacità non
    riguarda gli innovatori, i quali riassemblano la tecnologia esistente con modalità creative. Per una
    discussione delle idee di Christensen, si veda Lawrence Lessig, Future, pp. 89-92, 139.
 6. Si veda Carolyn Lochhead, “Silicon Valley Dream, Hollywood Nightmare”, San Francisco
    Chronicle, 24 settembre 2002, p. A1; “Rock 'n' Roll Suicide”, New Scientist, 6 luglio 2002, p. 42;
    Benny Evangelista, “Napster Names CEO, Secures New Finances”, San Francisco Chronicle, 23
    maggio 2003, p. C1; “Napster Wakes-Up Call”, Economist, 24 giugno 2000, p. 23; John Naughton,
    “Hollywood at War with the Internet”, Times (di Londra), 26 luglio 2002, p. 18.
 7. Si veda Ipsos-Insight, TEMPO: Keeping Pace with Online Music Distribution (settembre 2002):
    secondo questo sondaggio il 28 per cento degli americani dai dodici anni in su ha scaricato musica


                                                   177
      da Internet e il 30 per cento ha ascoltato file di musica digitale archiviati sul proprio computer.
 8.   Amy Harmon, “Industry Offers a Carrot in Online Music Fight”, New York Times, 6 giugno 2003,
      p. A1.
 9.   Si veda Liebowitz, Rethinking the Network Economy, cit., pp. 148-49.
10.   Si veda Cap Gemini Ernst & Young, Technology Evolution and the Music Industry's Business
      Model Crisis, 2003, p. 3. Questa ricerca illustra l’impegno dell’industria musicale nello
      stigmatizzare la pratica di registrare cassette tra amici negli anni ’70, compresa una campagna
      pubblicitaria centrata su un teschio a forma di cassetta e la didascalia “La registrazione casalinga
      sta uccidendo la musica”. Quando la registrazione audio digitale divenne una minaccia, l’Office of
      Technical Assessment, condusse un sondaggio sulle abitudini dei consumatori. Nel 1988, il 40 per
      cento delle persone al di sopra dei dieci anni avevano registrato musica usando delle cassette. U.S.
      Congress, Office of Technology Assessment, Copyright and Home Copying: Technology
      Challenges the Law, OTA-CIT-422 (Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, ottobre
      1989), pp. 145-56.
11.   U.S. Congress, Copyright and Home Copying, p. 4.
12.   Si veda Recording Industry Association of America, 2002 Yearend Statistics, disponibile al link n.
      15. Un rapporto successivo indica perdite ancora maggiori. Si veda Recording Industry
      Association of America, Some Facts About Music Piracy, 25 giugno 2003, disponibile al link n.
      16: “Negli ultimi quattro anni, negli Stati Uniti la diffusione di unità di musica registrata è
      diminuita del 26 per cento, da 1,16 miliardi di unità nel 1999 a 860 milioni nel 2002 (dati basati
      sulle unità distribuite). In termini di vendite, le entrate sono scese del 14 per cento, da 14,6 miliardi
      di dollari nel 1999 a 12,6 miliardi lo scorso anno (dati basati sul valore del dollaro statunitense
      delle unità distribuite). L’industria musicale a livello mondiale è passata da un fatturato di 39
      miliardi di dollari nel 2000 a 32 miliardi nel 2002 (dati basati sul valore del dollaro statunitense
      delle unità distribuite)”.
13.   Jane Black, “Big Music’s Broken Record”, BusinessWeek online, 13 febbraio 2003, disponibile al
      link n. 17.
14.   Ibid.
15.   Una fonte stima che il 75 per cento della musica distribuita dalle maggiori etichette discografiche è
      fuori catalogo. Si veda Online Entertainment and Copyright Law - Coming Soon to a Digital
      Device Near You: audizione davanti alla Commissione giustizia del Senato USA, 107. Congresso,
      prima sess., 3 aprile 2001 (dichiarazione presentata dalla Future of Music Coalition), disponibile al
      link n. 18.
16.   Non esistono stime affidabili sul numero di negozi di dischi usati negli Stati Uniti, ma nel 2002
      esistevano 7198 librerie dell’usato, un incremento del 20 per cento dal 1993. Si veda Book Hunter
      Press, The Quiet Revolution: The Expansion of the Used Book Market (2002), disponibile al link
      n. 19. Nel 2002 le vendite di dischi usati hanno raggiunto i 260 milioni di dollari. Si veda National
      Association of Recording Merchandisers, “2002 Annual Survey Results”, disponibile al link n. 20.
17.   Si vedano le trascrizioni delle sedute in Re: Napster Copyright Litigation, 34-35 (N.D. Cal., 11
      luglio 2001), nos. MDL-00-1369 MHP, C 99-5183 MHP, disponibile al link n. 21. Per un resoconto
      sulla causa legale e le relative conseguenze per Napster, si veda Joseph Menn, All the Rave: The
      Rise and Fall of Shawn Fanning's Napster, New York, Crown Business, 2003, pp. 269-82.
18.   Copyright Infringements (Audio and Video Recorders): Audizioni sul disegno di legge S. 1758
      davanti alla Commissione giustizia del Senato USA, 97. Congresso, prima e seconda sess., p. 459,
      1982 (testimonianza di Jack Valenti, presidente della Motion Picture Association of America, Inc.).
19.   Copyright Infringements, cit., p. 475.

                                                     178
20. Universal City Studios, Inc. v. Sony Corp. of America, 480 F. Supp. 429, 438 (C.D. Cal., 1979).
21. Copyright Infringements, cit., p. 485 (testimonianza di Jack Valenti).
22. Universal City Studios, Inc. v. Sony Corp. of America, 659 F. 2d 963 (9. Cir. 1981).
23. Sony Corp. of America v. Universal City Studios, Inc., 464 U.S. 417, 431 (1984).
24. Questi sono i casi più importanti della nostra storia, ma ne esistono anche altri. La tecnologia della
    registrazione audio digitale (DAT), per esempio, venne regolamentata dal Congresso per ridurre al
    minimo i rischi di pirateria. Il rimedio imposto dal Congresso gravò sui produttori, poiché tassava
    le vendite di nastri DAT e ne controllava la tecnologia. Si veda l’Audio Home Recording Act del
    1992 (Titolo 17 dello United States Code), Pub. L. N. 102-563, 106 Stat. 4237, codificato al 17
    U.S.C. §1001. Ancora una volta, tuttavia, queste norme non eliminarono la possibilità di “fare una
    corsa senza biglietto” nel senso che ho già illustrato. Si veda Lessig, Future, cit., p. 71. Si veda
    anche Picker, “From Edison to the Broadcast Flag”, University of Chicago Law Review 70, 2003,
    pp. 293-96.
25. Sony Corp. of America v. Universal City Studios, Inc., 464 U.S. 417, 432 (1984).
26. John Schwartz, “New Economy: The Attack on Peer-to-Peer Software Echoes Past Efforts”, New
    York Times, 22 settembre 2003, p. C3.



                                           Proprietà
 1. Lettera di Thomas Jefferson a Isaac McPherson (13 agosto 1813) in The Writings of Thomas
    Jefferson, vol. 6 (Andrew A. Lipscomb e Albert Ellery Bergh, a cura di, 1903), pp. 330, 333-34.
 2. Come insegnano i realisti legali alla giurisprudenza americana, tutti i diritti di proprietà sono
    intangibili. Un diritto di proprietà è semplicemente un diritto che un individuo possiede, nei
    confronti del mondo, di fare o non fare certe cose che possono essere o non essere connesse a un
    oggetto fisico. Il diritto in se stesso è intangibile, pur se l’oggetto a cui è (metaforicamente)
    connesso è tangibile. Si veda Adam Mossoff, “What is Property? Putting the Pieces Back
    Together”, Arizona Law Review 45 (2003), pp. 373, 429, n. 241.



                                          Capitolo 6
 1. Jacob Tonson viene ricordato tipicamente perché associato a prominenti figure letterarie del XVIII
    secolo, soprattutto John Dryden, e per le sue ottime “edizioni definitive” di opere classiche. Oltre a
    Romeo e Giulietta, pubblicò un’enorme serie di lavori che rimangono tuttora il cuore del canone
    inglese, comprese le opere scelte di Shakespeare, Ben Jonson, John Milton e John Dryden. Si veda
    Keith Walker, “Jacob Tonson, Bookseller”, American Scholar 61:3 (1992), pp. 424-31.
 2. Lyman Ray Patterson, Copyright in Historical Perspective, Nashville, Vanderbilt University Press,
    1968, pp. 151-52.
 3. Come sostiene efficacemente Siva Vaidhyanathan, è errato definirla una “legge sul copyright.” Si
    veda Vaidhyanathan, Copyrights and Copywrongs, cit., p. 40.
 4. Diritto imposto o riconosciuto dall’autorità governativa, in contrapposizione con il diritto naturale.
 5. Philip Wittenberg, The Protection and Marketing of Literary Property, New York, J. Messner, Inc.,
    1937, p. 31.
 6. A lettert to a Member of Parliament concerning the Bill non depending in the House of Commons,
    for making more effectual an Act in the Eight Year of the Reign of Queen Anne, entitled An Act
    for the Encouragemet of Learning, by Vesting the Copies of Printed Books in the Authors or

                                                  179
      Purchasers of such Copies, during the Times therein mentioned (Londra, 1735), in Brief Amici
      Curiae di Tyler T. Ochoa et al., 8, Eldred v. Ashcroft, 537 U.S. 186 (2003) (No. 01-618).
 7.   Lyman Ray Patterson, “Free Speech, Copyright and Fair Use”, Vanderbilt Law Review 40 (1987):
      p. 28. Per una storia incredibilmente stimolante, si veda Vaidhyanathan, pp. 37-48.
 8.   Per un’interessante resoconto, si veda David Saunders, Authorship and Copyright, London,
      Routledge, 1992, pp. 62-69.
 9.   Mark Rose, Authors and Owners, Cambridge, Harvard University Press, 1993, p. 92.
10.   Ivi, 93.
11.   Lyman Ray Patterson, Copyright in Historical Perspective, p. 167 (cita Borwell).
12.   Howard B. Abrams, “The Historic Foundation of American Copyright Law: Exploding the Myth
      of Commom Law Copyright”, Wayne Law Review 29 (1983): p. 1152.
13.   Ivi, p. 1156.
14.   Rose, cit., p. 97.
15.   Ivi
16.   Si veda Introduzione, nota 4.



                                           Capitolo 7
 1. Il “fair use” è una dottrina legale presente esclusivamente negli Stati Uniti, che permette
    limitazioni ed eccezioni alla tutela legale del copyright. Se l’utilizzo di un lavoro è definito “fair
    use”, il detentore del copyright non ha diritto a controllarlo e non sono necessari licenze e
    permessi. [N.d.T.]
 2. Per un’ottima discussione sul fatto che in questo caso si tratta di “uso legittimo”, ma che gli
    avvocati non lo riconoscono, si veda Richard A. Posner con William F. Patry, “Fair Use and
    Statutory Reform in the Wake of Eldred”, (appunti archiviati dall’autore), University of Chicago
    Law School, 5 agosto 2003.



                                           Capitolo 8
 1. Tecnicamente, i diritti su cui Alben doveva ottenere il nulla-osta erano principalmente quelli legati
    alla pubblicità - il diritto di un artista a controllare lo sfruttamento commerciale della propria
    immagine. Ma anche tali diritti pesano sulla creatività basata sul riutilizzo e la trasformazione,
    come si evince da questo capitolo.
 2. U.S. Department of Commerce Office of Acquisition Management, Seven Steps to Performance-
    Based Services Acquisition, disponibile al link n. 22.
 3. Licenza che consente il riutilizzo di un’opera, purché vengano mantenute le informazioni sul
    copyright.



                                           Capitolo 9
 1. Le tentazioni comunque rimangono. Brewster Kahle segnala che la Casa Bianca modifica senza
    darne notizia i propri comunicati stampa. Uno, datato 13 maggio 2003, riportava: “Concluse le
    operazioni militari in Iraq”, e fu successivamente modificato così: “Concluse le maggiori
    operazioni militari in Iraq”. Da una e-mail di Brewster Kahle, 1 dicembre 2003.


                                                   180
2. Andrew Carnegie (1835-1919) fu un ricco filantropo che creò più di 2500 biblioteche pubbliche,
   perché tutti potessero accedere all’istruzione. [N.d.T.]
3. Nota giornalista della rete televisiva ABC. [N.d.T.]
4. Doug Herrick, “Towards a National Film Collection: Motion Pictures at the Library of Congress”,
   Film Library Quarterly 13 n. 2-3 (1980): 5; Anthony Slide, Nitrate Won't Wait: A History of Film
   Preservation in the United States, Jefferson, N.C., McFarland & Co., 1992, p. 36.
5. Dave Barns, “Fledging Career in Antique Books: Woodstock Landlord, Bar Owner Starts A New
   Chapter by Adopting Business”, Chicago Tribune, 5 settembre 1997, a Metro Lake 1L. Dei libri
   pubblicati tra il 1927 e il 1946, appena il 2,2 per cento erano in catalogo nel 2002. R. Anthony
   Reese, “The First Sale Doctrine in the Era of Digital Networks”, Boston College Law Review 44
   (2003): 593 n. 51.



                                        Capitolo 10
1. Home Recording of Copyrighted Works: udienze sui disegni di legge H.R. 4783, H.R. 4794, H.R.
   4808, H.R. 5250, H.R. 5488 e H.R. 5705, davanti alla Sottocommissione su tribunali, libertà civili
   e amministrazione della giustizia della Commissione giudiziaria presso la Camera, 97. Cong., 2.
   sess. (1982): p. 65 (testimonianza di Jack Valenti).
2. Gli avvocati parlano di “proprietà” non come di qualcosa di assoluto, ma come di un insieme di
   diritti che talvolta sono associati a un particolare oggetto. Così, il “diritto di proprietà” sulla mia
   automobile mi assegna il diritto al suo uso esclusivo, ma non quello di guidarla a 200 all’ora. Il
   tentativo più riuscito di collegare il significato comune di “proprietà” al “gergo degli avvocati” si
   trova nel libro di Bruce Ackerman, Private Property and the Constitution, New Haven, Yale
   University Press, 1977, pp. 26-27.
3. Descrivendo il modo in cui la legge influisce sulle altre tre modalità, non intendo suggerire che
   queste ultime a loro volta non abbiano effetto sulla legge. Ovviamente lo hanno. L’unica differenza
   è che solo la legge appare consapevole di avere il diritto di modificare le altre tre. Il diritto di
   queste ultime si esprime molto più timidamente. Si veda Lawrence Lessig, Code: And Other Laws
   of Cyberspace, New York, Basic Books, 1999, pp. 90-95; Lawrence Lessig, “The New Chicago
   School”, Journal of Legal Studies, giugno 1998.
4. C’è chi solleva obiezioni su questo modo di parlare della “libertà”. Non è d’accordo perché,
   quando considera le limitazioni esistenti in un dato momento, si concentra sulle restrizioni imposte
   esclusivamente dal governo. Per esempio, se un uragano distrugge un ponte, ritiene che non abbia
   senso dire che veniamo privati di qualche libertà. Un ponte è stato distrutto ed è più difficile
   passare da una sponda all’altra. Parlare di questo come di una perdita di libertà, sostiene, significa
   confondere le faccende politiche con i capricci della vita ordinaria.
   Non voglio negare il valore di questa concezione ristretta, che dipende dal contesto della
   questione. Intendo tuttavia ribattere contro l’ostinazione a credere che questa visione limitata sia
   l’unica adeguata in tema di libertà. Come ho sostenuto in Code, veniamo da una lunga tradizione
   di pensiero politico con una portata più ampia del problema limitato di quel che ha fatto il governo
   e quando. John Stuart Mill difese la libertà d’espressione, per esempio, dalla tirannia della
   ristrettezza mentale, non dalla paura della repressione governativa (John Stuart Mill, On Liberty,
   Indiana, Hackett Publishing Co., 1978, p. 19; ed. it. Saggio sulla libertà, Milano, Net, 2002). John
   R. Commons divenne famoso per aver difeso la libertà economica del lavoro dalle costrizioni
   imposte dal mercato (John R. Commons, “The Right to Work”, in Malcom Rutherford e Warren J.


                                                 181
      Samuels, a cura di, John R. Commons: Selected Essays, London, Routledge, 1997, p. 62).
      L’Americans with Disabilities Act accrebbe la libertà delle persone disabili imponendo la modifica
      dell’architettura di certi luoghi pubblici, facilitandone quindi l’accesso; 42 United States Code,
      sezione 12101 (2000). Ognuno di questi interventi, teso a modificare le condizioni esistenti, agisce
      sulla libertà di un determinato gruppo. L’effetto di questi interventi dovrebbe essere tenuto in
      considerazione per comprendere l’effettiva libertà di cui gode ciascun gruppo.
 5.   Si veda Geoffrey Smith, “Film vs. Digital: Can Kodak Build a Bridge?” BusinessWeek online, 2
      agosto 1999, disponibile al link n. 23. Per una analisi più recente della posizione della Kodak nel
      mercato, si veda Chana R. Schoenberger, “Can Kodak Make Up for Lost Moments?”, Forbes.com,
      6 ottobre 2003, disponibile al link n. 24.
 6.   Fred Warshofsky, The Patent Wars, New York, Wiley, 1994, pp. 170-71.
 7.   Primavera silenziosa, Milano, Feltrinelli, 1963 (prima edizione). [N.d.T.]
 8.   Si veda, per esempio, James Boyle, “A Politics of Intellectual Property: Environmentalism for the
      Net?” Duke Law Journal 47 (1997): p. 87.
 9.   William W. Crosskey, Politics and the Constitution in the History of the United States, London,
      Cambridge University Press, 1953, vol. 1, pp. 485-86: “Estinguendo, per la semplice implicazione
      della 'suprema legge della terra', i diritti perpetui che avevano gli autori, o che qualcuno supponeva
      avessero, secondo la ‘common law’” (corsivo aggiunto).
10.   Anche se negli Stati Uniti furono pubblicati 13.000 titoli dal 1790 al 1799, soltanto 556 vennero
      registrati per il copyright; John Tebbel, A History of Book Publishing in the United States, vol. 1,
      The Creation of an Industry, 1630-1865, New York, Bowker, 1972, p. 141. Delle 21.000
      pubblicazioni registrate prima del 1790, appena dodici vennero messe sotto copyright in base alle
      norme del 1790; William J. Maher, Copyright Term, Retrospective Extension and the Copyright
      Law of 1790 in Historical Context, 7-10 (2002), disponibile al link n. 25. Perciò la stragrande
      maggioranza delle opere divenne immediatamente di pubblico dominio. Lo stesso avvenne
      rapidamente anche per i lavori protetti dal copyright, a causa della sua breve durata. Il termine
      iniziale del copyright era di quattordici anni, con l’opzione di rinnovarlo per altri quattordici.
      Copyright Act del 31 maggio 1790, §1, 1 stat. 124.
11.   Pochi titolari di copyright optarono per il rinnovo. Per esempio, dei 25.006 copyright registrati nel
      1883, appena 894 vennero rinnovati nel 1910. Per un’analisi della percentuale dei rinnovi, anno
      per anno, si veda Barbara A. Ringer, “Study n. 31: Renewal of Copyright”, Studies on Copyright,
      vol. 1, New York, Practicing Law Institute, 1963, p. 618. Per un’analisi più recente e completa, si
      veda William M. Landes e Richard A. Posner, “Indefinitely Renewable Copyright”, University of
      Chicago Law Review 70 (2003): pp. 471, 498-501, e le immagini che l’accompagnano.
12.   Si veda Ringer, op. cit., cap. 9, n. 2.
13.   Queste statistiche sono sottovalutate. Tra il 1910 e il 1962 (il primo anno che vide l’estensione del
      termine di rinnovo), la durata media non fu mai superiore ai trentadue anni, e in genere era di
      trent’anni. Si veda Landes and Posner, “Indefinitely Renewable Copyright”, cit.
14.   Si veda Thomas Bender e David Sampliner, “Poets, Pirates and the Creation of American
      Literature”, 29 New York University Journal of International Law and Politics 255 (1997), e James
      Gilraeth, a cura di, Federal Copyright Records, 1790-1800 (U.S. G.P.O., 1987).
15.   Jonathan Zittrain, “The Copyright Cage”, Legal Affairs, luglio/agosto 2003, disponibile al link n.
      26.
16.   Il professor Rubenfeld ha presentato una ferrata tesi costituzionale sulla differenza, che la legge sul
      copyright dovrebbe chiarire (dalla prospettiva del Primo Emendamento), tra le semplici “copie” e


                                                    182
      le opere derivate. Si veda Jed Rubenfeld, “The Freedom of Imagination: Copyright’s
      Constitutionality”, Yale Law Journal 112 (2002): pp. 1-60 (soprattutto pp. 53-59).
17.   Questa è una semplificazione della normativa, ma non troppo. Certamente la legge regola ben più
      che le “copie” - l’esecuzione pubblica di una canzone protetta da copyright, per esempio, è
      regolamentata, anche se in realtà non se ne fa una copia; 17 United States Code, sezione 106(4). E,
      sicuramente, talvolta la legge non regolamenta la “copia”; 17 United States Code, sezione 112(a).
      Ma l’attuale legge (che regolamenta le “copie”; 17 United States Code, sezione 102) dà per
      scontato che se esiste una copia esiste un diritto.
18.   Così, la mia tesi non è che in qualsiasi direzione vadano, le estensioni alla legge sul copyright
      dovrebbero essere eliminate. È, piuttosto, che dovremmo avere un buon motivo per estenderla, e
      che non dovremmo stabilirne il raggio di azione in base a modifiche arbitrarie e automatiche
      causate dalla tecnologia.
19.   Non intendo per “natura”, nel senso che non potrebbe essere diverso, quanto piuttosto che l’attuale
      suo modo di presentarsi comporta la produzione di copie. Le reti ottiche non hanno bisogno di fare
      copie del materiale che trasmettono, e una rete digitale potrebbe essere progettata in modo da
      cancellare tutto ciò che copia, in modo che il numero di copie resti invariato.
20.   Permette al proprietario di vendere o trasferire una copia legalmente acquistata di un’opera
      protetta, senza permessi. Significa che i diritti di distribuzione del detentore del copyright
      finiscono, per quanto riguarda una determinata copia, una volta che questa sia stata venduta.
      [N.d.T.]
21.   Si veda David Lange, “Recognizing the Public Domain”, Law and Contemporary Problems 44
      (1981): pp. 172-73.
22.   Ibid. Si veda anche Vaidhyanathan, Copyrights and Copywrongs, cit., pp. 1-3.
23.   Romanzo della scrittrice inglese George Eliot; ed. it. Middlemarch, Milano, Garzanti, 1999.
      [N.d.T.]
24.   In linea di principio, un contratto potrebbe imporci dei vincoli. Potremmo, per esempio, acquistare
      un libro da qualcuno con annesso un contratto che ci consente di leggerlo soltanto tre volte, o
      potremmo promettere di leggerlo tre volte. Ma tale obbligo (e i limiti per crearlo) deriverebbero
      dal contratto, non dalla legge sul copyright, e gli obblighi contrattuali non passerebbero
      necessariamente a chiunque acquisti il libro in seguito.
25.   Si veda Pamela Samuelson, “Anticircumvention Rules: Threat to Science”, Science 293 (2001):
      pp. 2028; Brendan I. Koerner, “Play Dead: Sony Muzzles Techies Who Teach A Robot Dog New
      Tricks”, American Prospect, 1 gennaio 2002; “Court Dismisses Computer Scientists’ Challenge to
      DMCA”, Intellectual Property Litigation Reporter, 11 dicembre 2001; Bill Holland, “Copyright
      Act Raising Free-Speech Concerns” Billboard, 26 maggio 2001; Janelle Brown, “Is the RIAA
      Running Scared?” Salon.com, 26 aprile 2001; Electronic Frontier Foundation, “Frequently Asked
      Questions sul caso Felten e USENIX v. RIAA”, disponibile al link n. 27.
26.   Si tratta di una legge degli Stati Uniti (passata il 14 maggio 1998), che punisce la produzione e la
      diffusione di tecnologia che possa aggirare le misure per la protezione del copyright, e che
      aumenta le sanzioni per le violazioni del copyright in Internet. [N.d.T.]
27.   Famoso programma televisivo per bambini. [N.d.T.]
28.   Sony Corporation of America v. Universal City Studios, Inc., 464 U.S. 417, 455 f. 27 (1984).
      Rogers non ha mai cambiato opinione sul videoregistratore. Si veda James Lardner, Fast Forward:
      Hollywood, the Japanese, and the Onslaught of the VCR, New York, W. W. Norton, 1987, pp. 270-
      71.


                                                   183
29. Per una prima e lungimirante analisi, si veda Rebecca Tushnet, “Legal Fictions, Copyright, Fan
    Fiction and a New Common Law”, Loyola of Los Angeles Entertainment Law Journal 17 (1997):
    p. 651.
30. FCC Oversight: udienza davanti alla Commissione senatoriale su commercio, scienza e trasporti,
    108. Cong., 1. sess. (22 maggio 2003); dichiarazione del senatore John McCain.
31. Lynette Holloway, “Despite a Marketing Blitz, CD Sales Continue to Slide”, New York Times, 23
    dicembre 2002.
32. Molly Ivins, “Media Consolidation Must Be Stopped”, Charleston Gazette, 31 maggio 2003.
33. James Fallows, “The Age of Murdoch”, Atlantic Monthly, Settembre 2003, p. 89.
34. Leonard Hill, “The Axis of Access”, intervento al Weidenbaum Center Forum, “Entertainment
    Economics: The Movie Industry”, St. Louis, Missouri, 3 aprile 2003 (trascrizione della
    dichiarazione, disponibile al link n. 28; per la storia di Lear, non inclusa in tale dichiarazione, si
    veda il link n. 29).
35. NewsCorp./DirecTV Merger and Media Consolidation: udienza sulla proprietà dei media davanti
    alla Commissione senatoriale per il commercio, 108. Cong., 1. sess. (2003); testimonianza di Gene
    Kimmelman per conto del Sindacato dei consumatori e della Federazione dei consumatori
    americani, disponibile al link n. 30. Kimmelman cita Victoria Riskin, presidente della
    Corporazione degli scrittori americani durante la sua dichiarazione davanti alla FCC, Richmond,
    Virginia, 27 febbraio 2003.
36. Ibid.
37. “Barry Diller Takes on Media Deregulation”, Now with Bill Moyers, Bill Moyers, 25 aprile 2003,
    trascrizione rivista, disponibile al link n. 31.
38. Clayton M. Christensen, The Innovator's Dilemma: The Revolutionary National Bestseller that
    Changed the Way We Do Business, Cambridge, Harvard Business School Press, 1997; ed. it., Il
    dilemma dell’innovatore, Milano, Franco Angeli, 2001. Christensen riconosce che l’idea venne
    suggerita per la prima volta da Dean Kim Clark. Si veda Kim B. Clark, “The Interaction of Design
    Hierarchies and Market Concepts in Technological Evolution”, Research Policy 14 (1985): pp.
    235-51. Per uno studio più recente, si veda Richard Foster e Sarah Kaplan, Creative Destruction:
    Why Companies That Are Built to Last Underperform the Market - and How to Successfully
    Transform Them, New York, Currency/Doubleday, 2001.
39. Il Marijuana Policy Project, nel febbraio del 2003, tentò di piazzare alcune inserzioni, che
    costituivano una risposta diretta alla serie di Nick e Norm, su emittenti comprese nell’area di
    Washington, D.C. La Comcast rifiutò gli annunci perché “contrari alle [loro] politiche operative”.
    L’affiliata locale della NBC, la WRC, li rifiutò senza neppure visionarli. La rete locale della ABC,
    la WJOA, inizialmente si disse d’accordo e accettò il pagamento per trasmetterli, ma poi decise di
    non farlo e restituì il denaro. Intervista a Neal Levine, 15 ottobre 2003.
    Queste restrizioni non sono ovviamente limitate alla politica sulla droga. Si veda, per esempio, Nat
    Ives, “On the issue of an Iraq War, Advocacy Ads Meet with Rejection from TV Netwotrks”, New
    York Times, 13 marzo 2003, C4. Al di fuori della programmazione a ridosso dei periodi elettorali
    c’è davvero poco che la FCC o i tribunali abbiano voglia di fare per pareggiare il campo. Per una
    panoramica generale, si veda Rhonda Brown, “Ad Hoc Access: the Regulation of Editorial
    Adversting on Television and Radio”, Yale Law and Policy Review 6 (1988): pp. 449-79, e per una
    sintesi più recente sulla posizione della FCC e dei tribunali, si veda Radio-Television News
    Directors Association v. FCC, 184 F. 3d 872 (D.C. Cir. 1999). Le istituzioni municipali esercitano
    la stessa autorità delle reti TV. In un recente esempio a San Francisco, la locale municipalità dei
    trasporti rifiutò un annuncio che ne criticava gli autobus diesel. Phillip Matier e Andrew Ross,

                                                  184
    “Anti-diesel Group Fuming After Muni Rejectts Ad”, SFGate.com, 16 giugno 2003, disponibile al
    link n. 32. La motivazione fu che la critica era “eccessivamente controversa.”
40. Siva Vaidhyanathan coglie un aspetto simile ne “le quattro concessioni” della legge sul copyright
    nell’era digitale. Si veda Vaidhyanathan, op. cit., pp. 159-60.
41. Fu il contributo più importante del movimento del realismo legale per dimostrare che tutti i diritti
    di proprietà vengono sempre adattati, in modo da stabilire un equilibrio fra gli interessi pubblici e
    quelli privati. Si veda Thomas C. Grey, “The Disintegration of Property”, in Nomos XXII:
    Property, J. Roland Pennock e John W. Chapman, a cura di, New York, New York University
    Press, 1980.



                                         Capitolo 11
 1. H. G. Wells, “The Country of the Blind” (1904, 1911). Si veda H. G. Wells, The Country of the
    Blind and Other Stories, Michael Sherborne, a cura di, New York, Oxford University Press, 1996.
 2. Per un’ottima sintesi, si veda il rapporto preparato dal GartnerG2 e dal Berkman Center for
    Internet and Society presso la Harvard Law School, “Copyright and Digital Media in a Post-
    Napster World”, 27 giugno 2003, disponibile al link n. 33. I deputati John Conyers Jr. (D-Mich.) e
    Howard L. Berman (D-Calif.) hanno presentato un disegno di legge che considera reato grave la
    copia non autorizzata online, con sanzioni che arrivano a cinque anni di carcere; si veda Jon
    Healey, “House Bill Aims to Up Stakes on Piracy”, Los Angeles Times, 17 luglio 2003,
    disponibile al link n. 34. Attualmente le sanzioni civili sono fissate a 150.000 dollari per ogni
    canzone copiata. Per una recente (e fallita) opposizione legale alla richiesta della RIAA a un
    Internet provider di rivelare l’identità di un utente accusato di avere condiviso oltre 600 canzoni
    tramite il computer di famiglia, si veda RIAA v. Verizon Internet Services (In re. Verizon Internet
    Services), 240 F. Supp. 2d 24 (D.D.C. 2003). Questo utente potrebbe essere ritenuto responsabile
    per danni fino a 90 milioni di dollari. Simili cifre astronomiche forniscono alla RIAA un’arma
    potente per perseguire chi si dedica al file sharing. I patteggiamenti tra i 12.000 e i 17.500 dollari
    con quattro studenti accusati di frequente ricorso al file sharing sulle reti universitarie devono
    sembrare un’inezia di fronte ai 98 miliardi di dollari che la RIAA potrebbe chiedere se la causa
    dovesse finire in tribunale. Si veda Elizabeth Young, “Downloading Could Lead to Fines”,
    redandblack.com, 26 agosto 2003, disponibile al link n. 35. Per un esempio dell’abitudine della
    RIAA di prendere di mira gli studenti, e delle ingiunzioni imposte alle università perché rivelino
    l’identità degli studenti che si dedicano al file sharing, si veda James Collins, “RIAA Steps Up to
    Force BC, MIT to Name Students”, Boston Globe, 8 agosto 2003, D3, disponibile al link n. 36.
 3. WIPO and the DMCA One Year Later: Assessing Consumer Access to Digital Enterteinment on
    the Internet and Other Media: udienza di fronte alla Sottocommissione su telecomunicazioni,
    commercio e tutela dei consumatori, Commissione della Camera sul commercio, 106. Cong. 29
    (1999), (dichiarazione di Peter Harter, vicepresidente, Global Public Policy and Standards,
    EMusic.com), disponibile su LEXIS, Archivio federale delle testimonianze al Congresso.



                                         Capitolo 12
 1. Si veda Lynne W. Jeter, Disconnected: Deceit and Betrayal at WorldCom, Hoboken, N.J., John
    Wiley & Sons, 2003, pp. 176, 204; per ulteriori dettagli sull’accordo, si veda il comunicato stampa


                                                  185
      della MCI, “MCI Wins U.S. District Court Approval for SEC Settlement”, 7 luglio 2003,
      disponibile al link n. 37.
 2.   La proposta, modellata sulla riforma californiana sulle responsabilità civili, fu approvata alla
      Camera ma sconfitta al Senato nel luglio del 2003. Per una panoramica, si veda Tanya Albert,
      “Measure Stalls in Senate: ‘We’ll Be Back,’ Say Tort Reformers”, amednews.com, 28 luglio 2003,
      disponibile al link n. 38, e “Senate Turns Back Malpractice Caps”, CBSNews.com, 9 luglio 2003,
      disponibile al link n. 39. Negli ultimi mesi il Presidente Bush ha continuato a spingere per la
      riforma sulle responsabilità civili.
 3.   Si veda Danit Lidor, “Artists Just Wanna BE free”, Wired, 7 luglio 2003, disponibile al link n. 40.
      Per una panoramica sulla mostra, si veda il link n. 41.
 4.   Si veda Joseph Menn, “Universal, EMI Sue Napster Investor”, Los Angeles Times, 23 aprile 2003.
      Per una discussione parallela relativa agli effetti sull’innovazione nella distribuzione della musica,
      si veda Janelle Brown, “The Music Revolution Will Not Be Digitized”, Salon.com, 1 giugno 2001,
      disponibile al link n. 42. Si veda anche Jon Healey, “Online Music Services Besieged”, Los
      Angeles Times, 28 maggio 2001.
 5.   Rafe Needleman, “Driving in Cars with MP3s”, Business 2.0, 16 giugno 2003, disponibile al link
      n. 43. Sono grato al Dr. Mohammad Al-Ubaydli per questo esempio.
 6.   “Copyright e Digital Media in a Post-Napster World”, GartnerG2 e the Berkman Center for
      Internet and Society at Harvard Law School (2003), pp. 33-35, disponibile al link n. 44.
 7.   Ivi, pp. 26-27.
 8.   Si veda David McGuire, “Tech Execs Square Off Over Piracy”, Newsbytes, 28 febbraio 2002
      (Entertainment).
 9.   Jessica Litman, Digital Copyright, Amherst, N.Y., Prometheus Books, 2001.
10.   L’unica eccezione si trova in Recording Industry Association of America (RIAA) v. Diamond
      Multimedia Systems, 180 F. 3d 1072 (9. Cir. 1999). Qui la corte d’appello della Nona
      Circoscrizione ritenne che i produttori di un lettore MP3 portatile non dovessero essere ritenuti
      responsabili di favorire le violazioni del copyright, poiché l’apparecchio portatile non è in grado di
      registrare o ridistribuire la musica (ma è un dispositivo la cui unica funzione di copia è quella di
      rendere portatile un file musicale già presente sul disco rigido dell’utente). Al livello di tribunali
      distrettuali, l’unica eccezione è reperibile in Metro-Goldwyn-Mayer Studios, Inc. v. Grokster, Ltd.,
      259 F. Supp. 2d 1029 (C.D. Cal., 2003), dove i giudici ritennero troppo debole la connessione tra il
      distributore e la condotta di un utente qualsiasi, per considerare tale distributore corresponsabile
      della violazione in qualità di coadiuvante o delegato.
11.   Per esempio nel luglio del 2002, il deputato Howard Berman presentò il Peer-to-Peer Piracy
      Prevention Act (H.R. 5211), che avrebbe esentato i titolari di copyright dalla responsabilità per
      eventuali danni provocati al computer nel caso avessero usato tecnologie in grado di bloccare le
      violazioni. Nell’agosto del 2002, il deputato Billy Tauzin presentò una proposta di legge che
      imponeva che le tecnologie in grado di ritrasmettere copie digitali di film presentati in TV (per
      esempio, i computer) dovessero rispettare un’apposita opzione che avrebbe disattivato la copia di
      tali film. E nel marzo dello stesso anno, il Senatore Fritz Hollings introdusse il Consumer
      Broadband and Digital Television Promotion Act, che imponeva tecnologie per la tutela del
      copyright in tutti i dispositivi digitali di comunicazione. Si veda GartnerG2, “Copyright e Digital
      Media in a Post-Napster World”, 27 giugno 2003, pp. 33-34, disponibile al link n. 44.
12.   Lessing, op. cit., p. 239.
13.   Ivi, p. 229.


                                                    186
14. Questo esempio proviene dalle tariffe stabilite dal Copyright Arbitration Royalty Panel (CARP),
    ed è tratto da un esempio offerto dal professor William Fisher. Conference Proceedings, iLaw
    (Stanford), 3 luglio 2003, archiviato dall’autore. I professori Fisher e Zittrain presentarono una
    testimonianza per le sedute del CARP, che alla fine venne respinta. Si veda Jonathan Zittrain,
    “Digital Performance Right in Sound Recordings and Ephemeral Recordings”, N. 2000-9, CARP
    DTRA 1 e 2, disponibile al link n. 45. Per un’ottima analisi che arriva a una conclusione analoga,
    si veda Randal C. Picker, “Copyright as Entry Policy: The Case of Digital Distribution”, Antitrust
    Bulletin (estate/autunno 2002), p. 461: “Non c’era da confondersi, queste erano proprio barriere
    vecchio stile contro altri ingressi nel mercato. Le stazioni radio analogiche vengono protette contro
    la concorrenza digitale, riducendo l’entrata di altri soggetti nella radiofonia. Sì, tutto questo
    avviene in nome del pagamento delle royalty ai titolari del copyright, ma, se non ci fossero stati
    potenti interessi, si sarebbe potuto ottenere lo stesso risultato rimanendo neutrali rispetto ai vari
    media”.
15. Mike Graziano e Lee Rainie, “The Music Downloading Deluge”, Pew Internet and American Life
    Project (24 aprile 2001), disponibile al link n.6. Secondo dati del Pew Internet and American Life
    Project, all’inizio del 2001, 37 milioni di americani avevano scaricato file musicali da Internet.
16. Alex Pham, “The Labels Strike Back: N. Y. Girl Settles RIAA Case”, Los Angeles Times, 10
    settembre 2003, Business.
17. Jeffrey A. Miron e Jeffrey Zwiebel, “Alcohol Consumption During Prohibition”, American
    Economic Review 81, n. 2 (1991): p. 242.
18. National Drug Control Policy: udienza davanti alla Commissione per la riforma governativa della
    camera, 108. Cong., 1. sess. (5 marzo 2003) (dichiarazione di John P. Walters, direttore della
    National Drug Control Policy).
19. Si veda James Andreoni, Brian Erard e Jonathon Feinstein, “Tax Compliance”, Journal of
    Economic Literature 36 (1998): p. 818 (sondaggio sui relativi documenti).
20. Si veda Frank Ahrens, “RIAA’s Lawsuits Meet Surprised Target; Single Mother in Calif., 12-Year-
    Old Girl in N. Y. Among Defendants”, Washington Post, 10 settembre 2003, E1; Chris Cobbs,
    “Worried Parents Pull Plug on File ‘Stealing’; With the Music Industry Cracking Down on File
    Swapping, Parents are Yanking Software from Home PCs to Avoid Being Sued”, Orlando Sentinel
    Tribune, 30 agosto 2003, C1; Jefferson Graham, “Recording Industry Sues Parents”, USA Today,
    15 settembre 2003, 4D; John Schwartz, “She says She’s No Music Pirate. No Snoop Fan, Either”,
    New York Times, 25 settembre 2003, C1; Margo Varadi, “Is Brianna a Criminal?” Toronto Star, 18
    settembre 2003, P7.
21. Si veda “Revealed: How RIAA Tracks Downloaders: Music Industry Discloses Some Methods
    Used”, CNN.com, disponibile al link n. 47.
22. Si veda Jeff Adler, “Cambridge: On Campus, Pirates Are Not Penitent”, Boston Globe, 18 maggio
    2003, City Weekly, 1; Frank Ahrens, “Four Students Sued over Music Sites; Industry Group
    Targets File Sharing at Colleges”, Washington Post, 4 aprile 2003, E1; Elizabeth Armstrong,
    “Students ‘Rip, Mix, Burn’ at Their Own Risk”, Christian Science Monitor, 2 settembre 2003, p.
    20; Robert Becker e Angela Rozas, “Music Pirate Hunt Turns to Loyola; Two Students Names Are
    Handed Over; Lawsuit Possible”, Chicago Tribune, 16 luglio 2003, 1C; Beth Cox, “RIAA Trains
    Antipiracy Guns on Universities”, Internet News, 30 gennaio 2003, disponibile al link n. 48;
    Benny Evangelista, “Download Warning 101: Freshman Orientation This Fall to Include Record
    Industry Warnings Against File Sharing”, San Francisco Chronicle, 11 agosto 2003, E11; “Raids,
    Letters Are Weapons at Universities”, USA Today, 26 settembre 2000, 3D.


                                                  187
                                          Capitolo 13
 1. Si può stabilire in questo fenomeno un parallelo con la pornografia, un po’ difficile da descrivere
    ma importante. Uno dei fenomeni creati da Internet è stato quello dei pornografi senza fini
    commerciali - gente che distribuiva materiale pornografico senza però ricavarne denaro
    direttamente o indirettamente. Questa categoria non esisteva prima dell’avvento di Internet, a
    causa dei costi di distribuzione. Eppure questa nuova categoria di distributori ricevette una
    particolare attenzione da parte della Corte Suprema, quando questa mise fuori gioco il
    Communications Decency Act del 1996. In parte fu a causa del peso imposto ai soggetti non-
    commerciali che si ritenne che lo statuto andasse al di là dell’autorità del Congresso. Lo stesso
    argomento avrebbe potuto valere anche per gli editori non-commerciali dopo l’avvento della Rete.
    C’erano ben pochi Eric Eldred al mondo prima di Internet. Per cui si potrebbe ritenere almeno
    altrettanto importante tutelare gli Eldred quanto proteggere i distributori di pornografia senza fini
    di lucro.
 2. Questo il testo integrale: “Sonny [Bono] voleva che i termini della tutela del copyright durassero
    per sempre. Qualcuno mi ha informata che sarebbe una violazione della Costituzione. Invito tutti
    voi a lavorare assieme a me per rafforzare le leggi sul copyright in tutti i modi consentiti. Come
    sapete, c’è anche la proposta di Jack Valenti per una durata infinita meno un giorno. Forse la
    Commissione potrebbe prenderla in considerazione nel prossimo Congresso”, 144 Cong. Rec.
    H9946, 9951-2 (7 ottobre 1998).
 3. Associated Press, “Disney Lobbying for Copyright Extension No Mickey Mouse Effort; Congress
    OKs Bill Granting Creators 20 More Years”, Chicago Tribune, 17 ottobre 1998, p. 22.
 4. Si veda Nick Brown, “Fair Use No More?: Copyright in Information Age”, disponibile al link n.
    49.
 5. Alan K. Ota, “Disney in Washington: The Mouse That Roars”, Congressional Quarterly This
    Week, 8 agosto 1990, disponibile al link n. 50.
 6. United States v. Lopez, 514 U.S. 549, 564 (1995).
 7. United States v. Morrison, 529 U.S. 598 (2000).
 8. Se c’è un principio che riguarda i poteri qui elencati, allora il principio passa da un potere all’altro.
    Il punto che animava il contesto dell’articolo sul commercio era che l’interpretazione proposta dal
    governo gli avrebbe concesso un’autorità senza limiti nella regolamentazione del commercio -
    nonostante la limitazione sul commercio interstatale. Lo stesso vale per il contesto dell’articolo sul
    copyright. Anche in questo caso l’interpretazione del governo avrebbe concesso a quest’ultimo
    un’autorità infinita di regolamentare il copyright - nonostante la restrizione dei “periodi di tempo
    limitato”.
 9. Memoria della Nashville Songwriters Association, Eldred v. Ashcroft, 537 U.S. 186 (2003) (No.
    01-618), n.0, disponibile al link n. 51.
10. La percentuale del 2 per cento è estrapolata da una ricerca del Congressional Research Service,
    alla luce delle percentuali stimate di rinnovi. Si veda la Memoria dei ricorrenti, Eldred v. Ashcroft,
    7, disponibile al link n. 52.
11. Si veda David G. Savage, “High Court Scene of Showdown on Copyright Law”, Los Angeles
    Times, 6 ottobre 2002; David Streitfeld, “Classic Movies, Songs, Books at Stake; Supreme Court
    Hears Arguments Today on Striking Down Copyright Extension”, Orlando Sentinel Tribune, 9
    ottobre 2002.
12. Memoria degli Hal Roach Studios e di Michael Agee a sostegno dei ricorrenti, Eldred v. Ashcroft,
    537 U.S. 186 (2003) (No. 01- 618), p. 12. Si veda anche il documento presentato per conto dei

                                                    188
      ricorrenti dall’Internet Archive, Eldred v. Ashcroft, disponibile al link n. 53.
13.   Jason Schultz, “The Myth of the 1976 Copyright ‘Chaos’ Theory”, 20 dicembre 2002, disponibile
      al link n. 54.
14.   Brief af Amici Dr. Seuss Enterprise et al., Eldred v. Ashcroft, 537 U.S. 186 (2003) (No. 01-618), p.
      19.
15.   Dinitia Smith, “Immortal Words, Immortal royalties? Even Mickey Mouse Joins the Fray”, New
      York Times, 28 marzo 1998, B7.
16.   I poteri stabiliti dalla Costituzione: sono i poteri che un governo può esercitare. [N.d.T.]
17.   Recupero del significato e delle intenzioni originali degli estensori della Costituzione nel momento
      della sua stesura. [N.d.T.]



                                         Capitolo 14
 1. Fino all’Atto di Berlino del 1908, nella Convenzione di Berna, talvolta le legislazioni nazionali sul
    diritto d’autore assegnavano la tutela previo adempimento di formalità quali registrazione,
    deposito e presenza della nota relativa al copyright da parte dell’autore. Tuttavia, a partire dalla
    norma del 1908, ogni testo della Convenzione affermava che “il godimento e l’esercizio” dei diritti
    garantiti dalla Convenzione “non saranno soggetti ad alcuna formalità”. Attualmente il divieto di
    formalità è inserito nell’articolo 5(2) del testo di Parigi, nella Convenzione di Berna. Molti paesi
    continuano a imporre qualche forma di deposito o di registrazione, anche se non come condizione
    per ottenere il copyright. La legislazione francese, per esempio, richiede il deposito di copie delle
    opere in archivi nazionali, in particolare il Museo nazionale. Nel Regno Unito le copie dei libri
    pubblicati devono essere depositate presso la British Library. La legge tedesca sul copyright
    prevede un’anagrafe degli autori dove riportare il vero nome dell’autore nel caso di opere anonime
    o pubblicate sotto pseudonimo. Paul Goldstein, International Intellectual Property Law, Cases and
    Materials, New York, Foundation Press, 2001, pp. 153-54.



                                        Conclusione
 1. Commissione sui diritti di proprietà intellettuale, “Final Report: Integrating Intellectual Property
    Rights and Development Policy” (Londra, 2002), disponibile al link n. 55. Secondo un comunicato
    stampa dell’Organizzazione mondiale per la sanità, diffuso il 9 luglio 2002, soltanto 230.000 dei 6
    milioni di persone che hanno bisogno di medicine nei paesi in via di sviluppo le ricevono - e la
    metà vivono in Brasile.
 2. Si veda Peter Drahos con John Braithwaite, Information Feudalism: Who Owns the Knowledge
    Economy?, New York, The New Press, 2003, p. 37.
 3. Istituto internazionale per la proprietà intellettuale (IIPI), Patent Protection and Access to
    HIV/AIDS Pharmaceuticals in Sub-Saharan Africa, a Report Prepared for the World Intellectual
    Property Organization (Washington, D.C., 2000), 14, disponibile al link n. 56. Per un resoconto di
    prima mano sulla vicenda del Sud Africa, si veda l’udienza davanti alla Sottocommissione su
    giustizia penale, politiche sulla droga e risorse umane, Commissione della Camera sulla riforma
    governativa, 1. sess., Ser. N. 106-126 (22 luglio 1999), 150-57 (dichiarazione di James Love).
 4. Istituto internazionale per la proprietà intellettuale, Patent Protection and Access to HIV/AIDS
    Pharmaceuticals in Sub-Saharan Africa, a Report Prepared for the World Intellectual Property
    Organization (Washington, D.C., 2000), p. 15.

                                                   189
 5. Si veda Sabin Russell, “New Crusade to Lower AIDS Drug Costs: Africa’s Needs at Odds with
    Firms’ Profit Motive”, San Francisco Chronicle, 24 maggio 1999, A1, disponibile al link n. 57 (“le
    licenze regolamentate per legge e il mercato grigio minacciano l’intero sistema di tutela della
    proprietà intellettuale”); Robert Weissman, “AIDS and Developing Countries: Democratizing
    Access to Essential Medecines”, Foreign Policy in Focus 4:23 (agosto 1999), disponibile al link n.
    58 (dove descrive la politica USA); John A. Harrelson, “TRIPS, Pharmaceutical Patents, and the
    HIV/AIDS Crisis: Finding the Proper Balance Between Intellectual Property and Compassion, a
    Synopsis”, Widener Law Symposium Journal (primavera 2001): p. 175.
 6. Jonathan Krim, “The Quite over Open Source”, Washington Post, 21 agosto 2003, E1, disponibile
    al link n. 59; William New, “Globale Group’s Shift on ‘Open Source’ Meeting Spur Stir”, National
    Journal's Technology Daily, 19 agosto 2003, disponibile al link n. 60; William New, “U. S. Official
    Opposes ‘Open Source’ Talks at WIPO”, National Journal's Technology Daily, 19 agosto 2003,
    disponibile al link n. 61.
 7. Dovrei rivelare che io fui tra coloro che chiesero al WIPO di organizzare la riunione.
 8. La posizione della Microsoft sul software libero e open source è più articolata. Come ha dichiarato
    in diverse occasioni, non ha problemi per quanto riguarda il software “open source” o quello di
    pubblico dominio. Microsoft è soprattutto contraria al “software libero” rilasciato con una licenza
    “copyleft”, la quale richiede al licenziatario di adottare gli stessi termini per qualsiasi lavoro
    derivato. Si veda Bradford L. Smith, “The Future of Software: Enabling the Marketplace to
    Decide”, Government Policy Toward Open Source Software, Washington, D.C.: AEI-Brookings
    Joint Center for Regulatory Studies, American Enterprise Institute for Public Policy Research,
    2002, p. 69, disponibile al link n. 62. Si veda anche Craig Mundie, vicepresidente senior della
    Microsoft, The Commercial Software Model, dibattito tenuto alla Stern School of Business della
    New York University (3 maggio 2001), disponibile al link n. 63.
 9. Krim, “The Quiet War over Open Source”, disponibile al link n. 64.
10. Si veda Drahos con Braithwaite, Information Feudalism, pp. 210-20.
11. John Borland, “RIAA Sues 261 File Swappers”, CNET News.com, 8 settembre 2003, disponibile
    al link n. 65; Paul R. La Monica, “Music Industry Sues Snappers”, CNN/Money, 8 settembre 2003,
    disponibile al link n. 66; Soni Sangha e Phyllis Furman con Robert Gearty, “Sued for a Song,
    N.Y.C. 12-Yr-Old Among 261 Cited as Sharers”, New York Daily News, 9 settembre 2003, p. 3;
    Frank Ahrens, “RIAA’s Lawsuits Meet Surprised Targets; Single Mother in Calif., 12-Year-Old
    Girl in N.Y. Among Defendants” Washington Post, 10 settembre 2003, E1; Katie Dean,
    “Schoolgirl Settles with RIAA” Wired News, 10 settembre 2003, disponibile al link n. 67.
12. Jon Wiederhorn, “Eminem Gets Sued ... by a Little Old Lady”, mtv.com, 17 settembre 2003,
    disponibile al link n. 68.
13. Kenji Hall, Associated Press, “Japanese Book May Be Inspiration for Dylan Songs”,
    Kansascity.com, 9 luglio 2003, disponibile al link n. 69.
14. “BBC Plans to Open Up Its Archive to the Public”, comunicato stampa della BBC, 24 agosto
    2003, disponibile al link n. 70.
15. “Creative Commons and Brazil”, Weblog di Creative Commons, 6 agosto 2003, disponibile al link
    n. 71.



                                           Noi ora


                                                 190
1. Si veda, per esempio, Marc Rotenberg, “Fair Information Practices and the Architecture of Privacy
   (What Larry Doesn’t Get),” Stanford Technology Law Review 1 (2001): par. 6-18, disponibile al
   link n. 72 (cita esempi in cui la tecnologia definisce le politiche sulla privacy). Si veda anche
   Jeffrey Rosen, The Naked Crowd: Reclaiming Security and Freedom in an Anxious Age, New
   York, Random House, 2004 (illustra i compromessi tra tecnologia e privacy).
2. Willful Infringement: A Report from the Front Lines of the Real Culture Wars (2003), prodotto da
   Jed Horovitz, diretto da Greg Hittelman, una produzione della Fiat Lucre, disponibile al link n. 72.



                                      Loro, presto
1. La mia proposta si applicherebbe soltanto alle opere americane. Ovviamente, ritengo che sarebbe
   vantaggioso se la stessa idea venisse adottata anche da altri paesi.
2. Qui c’è una complicazione riguardante le opere derivate che non ho risolto. Secondo me, la legge
   su tali opere crea un sistema più complesso di quanto giustifichino gli incentivi marginali che
   produce.
3. “A Radical Rethink”, Economist, 366:8308 (25 gennaio 2003): p. 15, disponibile al link n. 74.
4. Dipartimento degli affari per gli ex-combattenti, Modulo per la richiesta di indennità e/o pensione,
   VA Form 21-526 (Approvazione OMB n. 2900-0001), disponibile al link n. 75.
5. Benjamin Kaplan, An Unhurried View of Copyright, New York, Columbia University Press, 1967,
   p. 32.
6. Ivi, p. 56.
7. Paul Goldstein, Copyright's Highway: From Gutenberg to the Celestial Jukebox, Stanford,
   Stanford University Press, 2003, pp. 187-216.
8. Si veda, ad esempio, “Musicals Media Watch”, The J@pan Inc. Newsletter, 3 aprile 2002,
   disponibile al link n. 76.
9. William Fisher, Digital Music: Problems and Possibilities (ultima revisione: 10 ottobre 2000),
   disponibile al link n. 77; William Fisher, Promises to Keep: Technology, Law, and the Future of
   Entertainment (di prossima pubblicazione), Stanford, Stanford University Press, 2004, capitolo 6,
   disponibile al link n. 78. Il professor Netanel ha proposto un’idea analoga che elimina la
   condivisione non-commerciale dal raggio di azione del copyright e stabilisce un compenso per gli
   artisti allo scopo di equilibrare eventuali perdite. Si veda Neil Weinstock Netanel, “Impose a Non-
   commercial Use Levy to Allow Free P2P File Sharing”, disponibile al link n. 79. Per ulteriori
   proposte, si veda Lawrence Lessig, “Who’s Holding Back Broadband?”, Washington Post, 8
   gennaio 2002, A17; Philip S. Corwin per conto della Sharman Networks, lettera al Senatore Joseph
   R. Biden, Jr., responsabile della Commissione senatoriale sulle relazioni estere, 26 febbraio 2002,
   disponibile al link n. 80; Serguei Osokine, A Quick Case for Intellectual Property Use Fee (IPUF),
   3 marzo 2002, disponibile al link n. 81; Jefferson Graham, “Kazaa, Verizon Propose to Pay Artists
   directly”, USA Today, 13 maggio 2002, disponibile al link n. 82; Steven M. Cherry, “Getting
   Copyright Right”, IEEE Spectrum Online, 1 luglio 2002, disponibile al link n. 83; Declan Mc
   Cullagh, “Verizon’s Copyright Campaign”, CNET News.com, 27 agosto 2002, disponibile al link
   n. 84. La proposta di Fisher è molto simile a quella di Richard Stallman per i DAT (Digital Audio
   Tape). Contrariamente a quella di Fisher, la proposta di Stallman non compenserebbe gli artisti in
   modo esattamente proporzionale, anche se i più popolari guadagnerebbero di più di quelli meno
   noti. Nel modo tipico di Stallman, la sua proposta anticipa l’attuale dibattito di circa un decennio.
   Si veda il link n. 85.

                                                191
10. Lawrence Lessig, “Copyright’s First Amendment” (Melville B. Nimmer Memorial Lecture),
    UCLA Law Review 48 (2001): pp. 1057, 1069-70.
11. Un buon esempio è il lavoro del professor Stan Liebowitz, che si deve lodare per l’attenta
    revisione dei dati sulla violazione, che lo ha portato a mettere in dubbio la sua stessa posizione
    affermata pubblicamente - due volte. Inizialmente aveva sostenuto che scaricare materiali avrebbe
    danneggiato l’industria in maniera sostanziale. Poi riconsiderò questa sua posizione alla luce dei
    dati, e l’ha quindi rivista ancora una volta. Paragoniamo Stan J. Liebowitz, Rethinking the
    Network Economy: The True Forces That Drive the Digital Marketplace, New York, Amacom,
    2002, p. 173 (dove viene riesaminata l’opinione originaria, ma con un certo scetticismo) con Stan
    J. Liebowitz, “Will MP3s Annihilate the Record Industry?”, giugno 2003, disponibile al link n. 86.
    L’attenta analisi di Liebowitz è estremamente preziosa nella valutazione degli effetti della
    tecnologia di filesharing. Secondo me, tuttavia, sottovaluta le spese del sistema legale. Si veda, per
    esempio, Rethinking, pp. 174-76.




                                                  192
                                              Ringraziamenti




   Questo libro è il risultato di una lunga e tuttora vana battaglia, che ebbe inizio quando lessi della
guerra di Eric Eldred per mantenere i libri liberi da vincoli. Il lavoro di Eldred ha contribuito a lanciare
un movimento, il movimento della cultura libera, ed è a lui che dedico questo volume.
   Ho ricevuto aiuto e assistenza da amici e accademici, tra cui Glenn Brown, Peter DiCola, Jennifer
Mnookin, Richard Posner, Mark Rose e Kathleen Sullivan. Mi hanno aiutato nella revisione molti
studenti meravigliosi della Stanford Law School e della Stanford University, tra cui Andrew B. Coan,
John Eden, James P. Fellers, Christopher Guzelian, Erica Goldberg, Robert Hallman, Andrew Harris,
Matthew Kahn, Brian Link, Ohad Mayblum, Alina Ng ed Erica Platt. Sono particolarmente grato a
Catherine Crump e Harry Surden, che li hanno assistiti nelle loro ricerche, e a Laura Lynch, che ha
brillantemente gestito questa truppa e ne ha seguito con occhio critico gran parte dell’attività.
   Yuko Noguchi mi ha aiutato a comprendere la legge e la cultura giapponesi. Sono riconoscente a lei e
alle numerose persone che in Giappone mi hanno aiutato a preparare questo libro: Joi Ito, Takayuki
Matsutani, Naoto Misaki, Michihiro Sasaki, Hiromichi Tanaka, Hiroo Yamagata e Yoshihiro Yonezawa.
Sono grato anche al professor Nobuhiro Nakayama e al Business Law Center della Tokyo University, per
avermi offerto la possibilità di trascorrere un periodo in Giappone, e a Tadashi Shiraishi e a Kiyokazu
Yamagami per la generosa assistenza che mi hanno prestato durante la mia permanenza.
   Questi sono i tipi di aiuto su cui tradizionalmente fanno affidamento gli accademici. Ma, oltre ad essi,
Internet mi ha dato la possibilità di ricevere consigli e rettifiche da molta gente che non ho mai
incontrato. Tra coloro che hanno risposto con consigli estremamente utili alle mie richieste sul blog del
libro, ci sono il Dr. Mohammad Al-Ubaydli, David Gerstein e Peter DiMauro, oltre al lungo elenco di
coloro avevano idee particolari sui vari modi di sviluppare questo argomento. Tra di essi includo Richard
Bondi, Steven Cherry, David Coe, Nik Cubrilovic, Bob Devine, Charles Eicher, Thomas Guida, Elihu M.
Gerson, Jeremy Hunsinger, Vaughn Iverson, John Karabaic, Jeff Keltner, James Lindenschmidt, K. L.
Mann, Mark Manning, Nora McCauley, Jeffrey McHugh, Evan McMullen, Fred Norton, John Pormann,
Pedro A. D. Rezende, Shabbir Safdar, Saul Schleimer, Clay Shirky, Adam Shostack, Kragen Sitaker,
Chris Smith, Bruce Steinberg, Andrzej Jan Taramina, Sean Walsh, Matt Wasserman, Miljenko Williams,
“Wink,” Roger Wood, “Ximmbo da Jazz” e Richard Yanco. (Chiedo scusa se ho dimenticato qualcuno; i
computer a volte hanno problemi, e il crash del mio sistema di posta elettronica ha avuto come
conseguenza la perdita di una serie di ottime risposte.)
   Richard Stallman e Michael Carroll hanno letto le bozze integrali del libro, e mi hanno fornito
correzioni e consigli estremamente utili. Michael mi ha aiutato a vedere con maggiore chiarezza il
significato della regolamentazione delle opere derivate. E Richard ha corretto un numero di errori molto
imbarazzante. Anche se il mio lavoro si è in parte ispirato a quello di Stallman, lui non è d’accordo con
me su vari punti importanti del libro.
   Infine, e per sempre, sono grato a Bettina, che ha sempre insistito sul fatto che esiste una infinita
felicità lontano da queste battaglie, e che ha sempre avuto ragione. Questo signore, così lento a imparare,
le è, come sempre, riconoscente per la sua pazienza e il suo amore.



                                                    193
                                                L’autore




   Lawrence Lessig (http://www.lessig.org), professore di giurisprudenza e John A. Wilson Distinguished
Faculty Scholar presso la Stanford Law School, è il fondatore dello Stanford Center for Internet and
Society ed è presidente di Creative Commons (http://creativecommons.org). Autore di The Future of
Ideas (Random House, 2001) e Code: And Other Laws of Cyberspace (Basic Books, 1999), Lessig è
membro del direttivo della Public Library of Science, della Electronic Frontier Foundation e di Public
Knowledge. Ha ottenuto il Free Software Foundation for the Advancement of Free Software, è stato
incluso per due volte nell’elenco degli “e.biz 25” di BusinessWeek e ha fatto parte dei “50 visionari” di
Scientific American. Si è laureato alla University of Pennsylvania, alla Cambridge University e alla Yale
Law School, e ha lavorato come assistente del giudice Richard Posner della Corte d’appello della Settima
Circoscrizione.




                                                  194
                                                  Indice




Introduzione
Prefazione
Parte I - Pirateria
Capitolo 1 - Creatori
Capitolo 2 - Semplici imitatori
Capitolo 3 - Cataloghi
Capitolo 4 - Pirati
Capitolo 5 - Pirateria
Capitolo 6 - Fondatori
Parte II - Proprietà
Capitolo 7 - Autori che registrano pezzi altrui
Capitolo 8 - Autori che trasformano
Capitolo 9 - Collezionisti
Capitolo 10 - Proprietà
Parte III - Enigmi
Capitolo 11 - Chimera
Capitolo 12 - Danni
Capitolo 13 - Eldred
Parte IV - Equilibri
Capitolo 14 - Eldred II
Conclusione
Postfazione
Noi, ora
Loro, presto
Note
Ringraziamenti
L’autore




                                                   195